n° 08 – 25/02/2023. RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Sen. Francesca La Marca*: accordo di sicurezza sociale con il Messico. La marca (pd): «ho interrogato il governo, basta rinvii».
02 – Sen. La Marca (Pd) interviene in aula sulla grave situazione degli enti promotori di lingua e cultura italiana nel mondo
03 – Roberto Ciccarelli*: Pestaggio a Firenze, Valditara non condanna e censura la preside Savino
ORDINE E DISCIPLINA.
04 – Alessandra Algostino*:La voce delle armi e il silenzio dei popoli. IL LIMITE IGNOTO. Questo clima legittima regressioni nella garanzia dei diritti sociali e di libertà
05 – legge di bilancio e le attuazioni in ritardo. Governo e parlamento. L’approvazione della legge di bilancio ha comportato una nuova impennata di attuazioni da pubblicare. Parliamo di 470 atti che ancora mancano all’appello. Molti dei quali bloccano l’erogazione di risorse già stanziate
06 – Gabriella De Rosa*: sondaggio: maggioranza italiani tegno a kiev ma la maggioranza degli italiani è contro all’invio di armi. contro invio di armi all’ucraina. Ad un anno dall’invasione russa in ucraina il governo ribadisce il sos
07 – Stella Levantesi*: EMERGENZA CLIMATICA. CONTRO IL POTERE FOSSILE. La violenza contro gli attivisti svela la strategia delle lobby del gas
08 – Arthur C. Brooks*:IL LEGAME NASCOSTO TRA LAVORARE TROPPO E SALUTE MENTALE.
09 – Giuliano Battiston* : Storia del pacifismo italiano. Com’è cambiato il movimento pacifista in questi ultimi decenni, dalla marcia Perugia-Assisi del 1961 alle manifestazioni contro la guerra in Ucraina
10 – Laura Loguercio *: Sognando l’Australia. Un’altra terra, un’altra lingua, un’altra vita. Le ragioni per partire sono tante e sempre diverse, così come quelle che convincono tanti a rientrare in Italia, dopo mesi o anni passati all’estero.

 

 

01 – SEN. FRANCESCA LA MARCA*: ACCORDO DI SICUREZZA SOCIALE CON IL MESSICO. LA MARCA (PD): «HO INTERROGATO IL GOVERNO, BASTA RINVII».
Un’interrogazione per chiedere al Governo di inserire la stipula di una convenzione di sicurezza sociale con il Messico, tra i punti in discussione nella VI Commissione biMnazionale Italia – Stati Uniti Messicani che si celebrerà quest’anno a Città del Messico. È questa la richiesta al Governo giunta dalla Senatrice del Partito Democratico Francesca La Marca, eletta nella circoscrizione estero, ripartizione America Settentrionale e Centrale. Tra coloro che hanno sottoscritto l’interrogazione vi sono anche i senatori: Francesco Verducci, Susanna Camusso, Annamaria Furlan, Alberto Losacco, Graziano Del Rio, Andrea Martella, Ilenia Zambito, Carlo Cottarelli, Enza Rando, Francesco Giacobbe, Enrico Borghi, Antonio Nicita e Tatjana Rojc.

«Ho deciso di presentare questa interrogazione – sottolinea la Senatrice La Marca – perché il tempo dell’attesa è finito. Oltre 21mila cittadini italiani presenti in Messico (secondo dati A.I.R.E) ma che nella realtà sono molti di più, attendono da troppo tempo una risposta. Così come l’aspettano i quasi 6.000 cittadini messicani residenti attualmente in Italia».

La finalità degli accordi di sicurezza sociale è quella di: garantire la parità di trattamento di lavoratori e pensionati che si spostano, spesso permanentemente, dall’uno all’altro Paese contraente; la totalizzazione dei periodi contributivi; l’esportabilità e il mantenimento delle prestazioni previdenziali di cui sono o saranno eventualmente titolari.

«Già nel 2016, ben 7 anni fa, avevo presentato al Governo – prosegue la Senatrice La Marca – un’interrogazione sulla medesima questione. Il 30 marzo di quell’anno ricevetti una risposta, dal Sottosegretario Benedetto Della Vedova, che sottolineava come gli allora stringenti vincoli di bilancio impedissero l’avvio di trattative con il paese Nordamericano».

«Ci tengo a ricordare – sottolinea la Senatrice La Marca – che da un accordo di sicurezza sociale fra Italia e Messico trarrebbero giovamento anche numerose imprese italiane presenti nel paese. L’Italia è il 13° fornitore del Messico e il secondo socio commerciale europeo, dopo la Germania. Nel 2021 le esportazioni italiane in Messico sono state pari a 6,109 mld di dollari, con un incremento del 26,2% rispetto allo stesso periodo del 2020».

In materia di sicurezza sociale e di doppie imposizioni, sono in vigore fra il nostro paese e il Messico, un accordo del 1977 sulla trasferibilità delle pensioni. Ed è stata siglata l’8 luglio 1991 un’intesa per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e prevenire le evasioni fiscali, il cui Protocollo di modifica è entrato in vigore il 16 aprile 2015.

«Non è più il tempo dell’attesa – conclude la Senatrice La Marca – occorre dare una chiara risposta ai cittadini italiani residenti in Messico e ai messicani residenti in Italia. Cittadini che da anni contribuiscono all’arricchimento delle comunità di destinazione e che meritano di essere tutelati proprio come i loro connazionali in patria. Questa volta dal Governo mi aspetto risposte concrete».
*(Sen. Francesca La Marca, Ph.D. – SENATO DELLA REPUBBLICA -Ripartizione Nord e Centro America -Electoral College of North and Central America – Palazzo Madama – )00186 Roma, Italia – Email – francesca.lamarca@senato.it)

 

02 – Sen. La Marca (Pd) INTERVIENE IN AULA SULLA GRAVE SITUAZIONE DEGLI ENTI PROMOTORI DI LINGUA E CULTURA ITALIANA NEL MONDO
Un intervento di fine seduta per richiamare l’attenzione del governo sulla delicata e difficile situazione in cui versano gli Enti Promotori ed in generale il sistema di insegnamento dalla lingua e cultura italiana nel mondo. È quanto realizzato, al termine della seduta di ieri, dalla Senatrice del Partito Democratico Francesca La Marca, eletta nella circoscrizione estero, ripartizione America Settentrionale e Centrale.
«Ho deciso di rivolgermi al Governo – sottolinea la Senatrice La Marca – per portare all’attenzione dell’Esecutivo la drammatica situazione in cui versa il sistema di promozione della lingua e della cultura italiana nel mondo, in particolare per quanto concerne i corsi di lingua e cultura organizzati dagli Enti Promotori. In diversi paesi, come ad esempio quelli dell’America Settentrionale e Centrale, la rete dell’insegnamento della lingua e cultura italiana si sta impoverendo, non solo per la mancanza di fondi, ma soprattutto a causa di una regolamentazione troppo stringente e di un’eccessiva burocrazia».

«Parliamo – prosegue la Senatrice La Marca – di numeri importanti. Pensate che nel solo 2021 sono stati attivati nel mondo ben 10.979 corsi di lingua e cultura italiana. Secondo gli ultimi dati disponibili, nel solo anno accademico 2019/2020 erano presenti in Canada 35.590 studenti d’italiano: di questi ben 23.614 erano studenti degli Enti Promotori».

«Secondo i dati forniti su mia richiesta dalla Direzione Centrale per la promozione della cultura e della lingua italiana del Ministero degli Affari Esteri – sottolinea la Senatrice La Marca – attualmente sono riconosciuti 13 enti promotori negli USA, 10 in Canada e 1 in Messico. Per l’anno scolastico 2023/24 la Direzione Generale ha ricevuto richieste da 9 enti degli Stati Uniti, 2 canadesi e dall’ente messicano».

«Come ho ribadito nel mio intervento occorre dare risposte urgenti agli Enti Promotori se non si vuole perdere un sistema di conoscenze e competenze che per anni ha permesso la diffusione della lingua e della cultura italiana nel mondo. Altrimenti – aggiunge la Senatrice La Marca – rischiamo di perdere un’intera generazione di italiani o di italo-discendenti ai quali viene di fatto negata l’opportunità di conoscere la lingua e la cultura italiana, con possibili ripercussioni per l’intero sistema paese».

«Imparare la lingua italiana – ribadisce la Senatrice La Marca – è spesso il primo passo per avvicinarsi al nostro paese e si configura come un passaggio, a volte necessario, per spingere gli italo-discendenti, una comunità stimata in 80milioni di persone nel mondo, a venire a visitare i loro luoghi d’origine, il cosiddetto “turismo delle radici”».

«Per tutte queste ragioni – conclude la Senatrice La Marca – non possiamo perdere il patrimonio di conoscenze e competenze acquisite negli anni dagli Enti Promotori. Mi aspetto una risposta chiara dal Governo. Gli Enti Promotori e i loro studenti non possono più aspettare».
*(Sen. Francesca La Marca, Ph.D. – SENATO DELLA REPUBBLICA – Ripartizione Nord e Centro America – Electoral College of North and Central America)

 

03 – Roberto Ciccarelli*: PESTAGGIO A FIRENZE, VALDITARA NON CONDANNA E CENSURA LA PRESIDE SAVINO, ORDINE E DISCIPLINA. IL MINISTRO DELL’ISTRUZIONE ATTACCA LA NUOVA LETTERA DI UNA PROFESSORESSA DEMOCRATICA, ANTIFASCISTA E GRAMSCIANA: «IMPROPRIA E RIDICOLA. NON COMPETE A UNA DIRIGENTE SCOLASTICA LANCIARE QUESTI MESSAGGI. OGGI NON C’È UNA DERIVA VIOLENTA NÉ UN PERICOLO FASCISTA». LE OPPOSIZIONI: «SI SCUSI O SI DIMETTA».
Anpi: «Inaccettabile il suo rumoroso silenzio davanti all’aggressione, è di una parzialità sconcertante». Decine di migliaia di firme a sostegno della preside raccolte online da Priorità alla scuola
La violenza neofascista contro gli studenti davanti al liceo Michelangiolo a Firenze venerdì scorso ha creato un problema in casa al governo Meloni. Invece di condannare l’aggressione, ieri il ministro dell’Istruzione «e del merito» Giuseppe Valditara ha attaccato la stupenda lettera scritta da Annalisa Savino, preside del liceo Leonardo Da Vinci a Firenze, a sostegno di un’idea di scuola democratica, antifascista e gramsciana. E ha censurato la dirigente scolastica che ieri ha preferito restare in silenzio per «non alimentare» la «sovraesposizione mediatica» su «questioni che, seppur attinenti alla scuola e al suo ruolo nella società, tuttavia diventano facile oggetto di polemica e strumentalizzazione». Agli studenti è arrivato «un messaggio forte e chiaro. Non c’è niente da aggiungere».

«IL FASCISMO in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone. È nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a sé stessa da passanti indifferenti – ha scritto Savino citando il Gramsci di “Odio gli indifferenti” – Chi decanta il valore delle frontiere, chi onora il sangue degli avi in contrapposizione ai diversi, continuando ad alzare muri, va lasciato solo, chiamato con il suo nome, combattuto con le idee e con la cultura. Senza illudersi che questo disgustoso rigurgito passi da sé».

È LA NUOVA LETTERA di una professoressa. Netta, sentita e originale. Ha offerto ai fortunati studenti ai quali è stata indirizzato, e ormai non solo a loro, uno sguardo profondo su ciò che siamo oggi. Inoltre offre un’interpretazione storicamente adeguata al confusionismo storico sui «totalitarismi» e sugli «opposti estremismi». La sua politicità ha scatenato la reazione di Valditara che ha ravvisato nel testo, in fondo, una lettura dissonante a quanto lui stesso, prolifico scrittore di circolari, ha scritto sulla storia italiana tra ottobre e novembre 2022.

«È UNA LETTERA del tutto impropria – ha detto Valditara ieri mattina in una trasmissione televisiva – Mi è dispiaciuto leggerla, non compete ad una preside lanciare messaggi di questo tipo e il contenuto non ha nulla a che vedere con la realtà: in Italia non c’è alcuna deriva violenta e autoritaria, non c’è alcun pericolo fascista, difendere le frontiere non ha nulla a che vedere con il nazismo o con il fascismo». Poi ha alluso a possibili provvedimenti disciplinari: «Sono iniziative strumentali che esprimono una politicizzazione che auspico che non abbia più posto nelle scuole; se l’atteggiamento dovesse persistere vedremo se sarà necessario prendere misure» ha aggiunto. «Di queste lettere non so che farmene, sono lettere ridicole, pensare che ci sia un rischio fascista è ridicolo».

POI È ARRIVATO il consueto rovesciamento vittimistico per cui il diritto alla critica davanti a un episodio di violenza squadrista analizzata dal testo della circolare sarebbe diventato, con un salto logico e politico, la sponda a «un attacco alla libertà di opinione», «trasformando la polemica in una campagna di odio, delegittimazione e falsificazione talvolta della realtà. Vanno prese per quello che sono: propaganda. Chiedo ai partiti dell’opposizione maggiore responsabilità. E intanto mi aspetto solidarietà anche dalla preside che ha scritto la missiva» ha detto Valditara.

L’OPERAZIONE RETORICA non sembra essere riuscita, considerata la valanga di indignazione prodotta da queste parole. «La velata minaccia di future misure disciplinari – ha detto Gianfranco Pagliarulo (Anpi) – è la spia del clima di autoritaria intolleranza che questo governo sta promuovendo e diffondendo alzando il clima di tensione nel paese. Va riconosciuta senza dubbio al ministro solidarietà per le minacce ricevute. Ma il suo rumorosissimo silenzio davanti all’aggressione subita dagli studenti di Firenze è una prova di parzialità francamente sconcertante da parte di un ministro della repubblica antifascista».

IL «CLIMA DI AUTORITARIA intolleranza» è stato rilanciato dallo striscione, poi rimosso, davanti al liceo da Vinci da parte di esponenti di estrema destra. «Non ci fermerà una circolare, studenti liberi di lottare». In rete è girata la foto dove si brucia la lettera della preside. «Lo striscione minatorio, poco prima della censura del ministro Valditara è un fatto grave e pericoloso – ha detto il sindaco di Firenze Dario Nardella – Le parole di Valditara sono gravissime: si scusi o di dimetta». Ieri la Digos ha perquisito le case dei sei esponenti di estrema destra, tra i 16 e i 21 anni, indagati per violenza privata aggravata e lesioni per l’aggressione al Michelangiolo. In caso di processo il liceo si costituirà parte civile.

LE DESTRE di maggioranza hanno difeso Valditara, mantenendo la linea. Le opposizioni hanno condannato un ministro che è sembrato reticente sull’aggressione agli studenti ma ha stigmatizzato una preside che ha invitato «ad aprirsi al mondo nei momenti di incertezza». «Di improprio c’è solo lui» hanno detto dal Pd a +Europa, dall’Alleanza Verdi Sinistra a Azione-Italia Viva. A Valditara è stato chiesto di riferire in aula. Da molte parti sono giunte richieste di presentare mozioni di sfiducia, se ci fossero i voti. La linea è per ora: «Si scusi, o si dimetta».

Priorità alla scuola: decine di migliaia di firme a sostegno della preside in poche ore
«Sosteniamo la preside Annalisa Savino, minacciata dal ministro Valditara». Questo è il titolo dell’appello online lanciato ieri dal movimento «Priorità alla scuola». In poco meno di sei ore aveva già raccolto oltre 36 mila firme. «Abbiamo dato voce all’indignazione crescente rispetto all’aggressione fascista al liceo Michelangiolo. Lavoriamo insieme ad altre associazioni e gruppi democratici e antifascisti, realtà politiche e sindacali, che hanno risposto alle intimidazioni del ministro. Ci incontreremo nei prossimi giorni per lanciare una grande mobilitazione a Firenze».
*(Roberto Ciccarelli, filosofo, blogger e giornalista, scrive per il manifesto.)

 

04 – Alessandra Algostino*:LA VOCE DELLE ARMI E IL SILENZIO DEI POPOLI. IL LIMITE IGNOTO. QUESTO CLIMA LEGITTIMA REGRESSIONI NELLA GARANZIA DEI DIRITTI SOCIALI E DI LIBERTÀ
Un silenzio colpisce, dopo un anno di guerra in Ucraina: non si sente la voce di chi vive nelle città devastate, nei paesi distrutti, sotto le bombe, di chi è mandato a combattere, di chi vorrebbe riflettere e contestualizzare la guerra nella prospettiva della complessità (Morin, Di guerra in guerra, 2023), dello Statuto delle Nazioni Unite che condanna il «flagello della guerra», della Costituzione che «ripudia la guerra». I sondaggi raccontano di un’opinione pubblica contraria a proseguire l’escalation, ma passano sotto silenzio; di cosa pensano gli ucraini si conosce pochissimo, come della dissidenza russa; il movimento pacifista, al di là della bella manifestazione del 5 novembre, non riesce ad alzare abbastanza la voce.

Rimbombano, invece, in una informazione embedded, i toni eroici di Zelensky in visita dai “grandi” del mondo, si racconta del pellegrinaggio di capi di Stato e governo in Ucraina (ultimi Biden e Meloni), siamo inondati dai nomi di mezzi bellici: carri armati Abrams e Leopard 2, lancia razzi Himars, droni Bayraktar TB2 (per inciso, continuiamo però a restare all’oscuro circa le armi inviate dall’Italia).
All’inizio era la reazione all’aggressione, ora la vittoria, entrambe ammantate di difesa della libertà: a mancare è la ricerca della pace, mentre il mondo si arma sempre più e la democrazia si militarizza. Si sente sulla libertà di pensiero la chiusura della democrazia, anche in questo momento, quando, mentre scrivo, penso di dover inserire una condanna dell’aggressione e ribadire il carattere autoritario del regime di Putin: lo posso fare, ritengo sia così, ma questa è solo una parte del discorso.

La guerra (peraltro mai scomparsa dallo scenario globale) è normalizzata; discorriamo di carri armati e missili, di bombe tattiche e strategiche, come oggetti qualsiasi, non come strumenti di distruzione e violenza; assistiamo immobili al profilarsi dell’olocausto nucleare (e intanto la recente sospensione russa del trattato New Start sul disarmo nucleare sposta ancora in avanti le lancette dell’orologio dell’apocalisse degli scienziati atomici). I morti in guerra compaiono solo a tratti, per legittimare e sostenere la continuazione della guerra, ma il tempo che passa iberna il senso di empatia e favorisce un processo di disumanizzazione, come accade per i morti in mare o per le violenze ai confini.

La guerra come continuità e banalità del male nella sua corporea materialità tende a scomparire dietro un’astratta retorica eroica e, allo stesso tempo, si fa presenza quotidiana.
Ci abitua a ragionare in termini di amico-nemico, ad entrare in una logica bellica, alleata di un nazionalismo identitario ed escludente. La pace è vittoria, non si negozia. Non è difficile scorgere un parallelismo con una democrazia dove decide chi vince, senza mediazione politica; con un modello che nega il conflitto segnando la supremazia di una classe; con una società dove chi è povero è colpevole perché ha perso la sua corsa come imprenditore di se stesso.

La pace come vittoria in una semplificazione Bene e Male, incurante delle vite che macina, è una pace giusta? O è una pace che sa di strumentalizzazione, di volontà di dominio?
La Nato chiede di aumentare le spese militari al 2%, e poi ancora: è in gioco una ristrutturazione geopolitica ed economica. Non solo. Da un lato, è la competizione strutturale e fondante il neoliberismo che si fa più violenta ed aggressiva; dall’altro, si profila la deriva autoritaria di un mondo dove gli effetti devastanti del riscaldamento climatico e della diseguaglianza sociale (al neoliberismo imputabili) divengono viepiù esplosivi. Il nemico è Putin, ma è anche chi si ribella all’ingiustizia sociale e ambientale, con il suo esistere (il migrante, il povero), con le sue azioni (chi critica, dissente e disobbedisce).

I Leopard che si aggirano per le strade ucraine agitando la bandiera della libertà (in Ucraina, peraltro, da costruire) sperimentano la difesa dei confini dell’Occidente, come dei centri delle città, di una libertà ridotta a privilegio di pochi? Ci abituiamo a vivere senza diritti: terrorismo, crisi economica, guerra hanno legittimato regressioni nella garanzia dei diritti sociali e restrizioni nel godimento dei diritti di libertà, che si fanno permanenti in un tempo governato dall’emergenza e dal presente.
Eppure forse aleggia ancora qualcosa dell’«ispirazione comune», dell’«esigenza da tutti sentita di condannare la guerra» (Ruini, Assemblea costituente, 24 marzo 1947) cercando la pace: è un sentire disorientato, frammentato, sfibrato. Istruirsi, organizzarsi ed agitarsi è ancora la via, necessaria
*( Prof.ssa Alessandra Algostino. Professore/Professoressa ordinario/a. Dipartimento di Giurisprudenza; SSD: IUS/08 – diritto costituzionale).

 

05 – *: LEGGE DI BILANCIO E LE ATTUAZIONI IN RITARDO. GOVERNO E PARLAMENTO. L’APPROVAZIONE DELLA LEGGE DI BILANCIO HA COMPORTATO UNA NUOVA IMPENNATA DI ATTUAZIONI DA PUBBLICARE. PARLIAMO DI 470 ATTI CHE ANCORA MANCANO ALL’APPELLO. MOLTI DEI QUALI BLOCCANO L’EROGAZIONE DI RISORSE GIÀ STANZIATE.

• I decreti attuativi ancora da pubblicare sono 470 di cui 151 relativi a norme varate dal governo Meloni.
• L’ente più coinvolto è il ministero dell’economia ma quella più indietro è la struttura che fa capo al ministro Fitto.
• Sono 118 le attuazioni richieste dalla legge di bilancio. Queste sono indispensabili per sbloccare 3,5 miliardi.
• Per 6 attuazioni delle legge di bilancio è già scaduto il termine per la pubblicazione. Per altre 31 è attesa la pubblicazione entro fine marzo.
Una delle questioni che hanno catturato l’attenzione di politica e media sul finire del 2022 è stata l’approvazione della legge di bilancio. Una norma fondamentale per lo stato che contiene, tra l’altro, diverse misure per contrastare il caro energia in supporto a istituzioni, cittadini e imprese.
Un tema però che viene spesso dimenticato nel dibattito pubblico è quello dei decreti attuativi. Atti di secondo livello come regolamenti e decreti ministeriali che spesso servono a dare operatività alle norme, definendo i contenuti di dettaglio delle misure messe in campo.
Dopo il lavoro del parlamento, l’implementazione di una legge passa nelle mani di ministeri e agenzie pubbliche. Un secondo tempo spesso ignorato ma che lascia molte norme incomplete. Vai a “Che cosa sono i decreti attuativi”
Vista la grande quantità di temi che affronta, storicamente la legge di bilancio è una di quelle norme che richiedono una grande quantità di attuazioni.
E quella del 2023 non fa eccezione.

118 I DECRETI ATTUATIVI RICHIESTI DALLA LEGGE DI BILANCIO PER IL 2023.
In molti casi tali atti sono indispensabili per definire le modalità di erogazione dei fondi stanziati. Finché non verranno pubblicati quindi, le relative risorse resteranno congelate.

LO STATO DELLE ATTUAZIONI
Naturalmente per tutte le leggi può essere necessario il ricorso a decreti attuativi. In base alle informazioni messe a disposizione dall’ufficio per il programma di governo (Upg), alla data del 16 febbraio, sappiamo che le attuazioni richieste in totale per le norme varate dagli ultimi 4 governi sono 1.921.
DI QUESTE, 1.451 ERANO GIÀ STATE PUBBLICATE E SONO QUINDI ATTUALMENTE IN VIGORE MENTRE 470 (IL 24,5%) ANCORA MANCANO ALL’APPELLO.
Le legge di bilancio ha influito sull’aumento dei decreti attuativi richiesti e non ancora pubblicati.
Rispetto al nostro ultimo aggiornamento il numero di attuazioni mancanti è aumentato sia in termini assoluti (erano 384) che percentuali (erano il 21,6% rispetto al totale di quelle richieste). Questa nuova impennata è da attribuire in larga misura all’entrata in vigore della legge di bilancio che esamineremo nel dettaglio più avanti.
A livello generale, un primo elemento interessante da analizzare riguarda gli autori delle misure che richiedono decreti attuativi. Da questo punto di vista possiamo osservare che la maggioranza delle attuazioni è richiesta da norme varate dal governo Draghi. Parliamo di 783 provvedimenti richiesti di cui 239 ancora da pubblicare. Segue il governo Conte II con 703 attuazioni richieste di cui 69 mancanti.
Per quanto riguarda l’attuale esecutivo, il numero di decreti attuativi richiesti è ancora relativamente basso. Si tratta infatti di 151 atti in totale. Questo dato è evidentemente dovuto alle poche norme varate finora dall’inizio della legislatura e di cui abbiamo parlato in questo articolo. Possiamo dire quindi che tale numero è destinato a crescere. Un altro elemento rilevante riguarda il fatto che la maggioranza delle attuazioni richieste dalle norme del governo Meloni deve ancora essere pubblicata.

142 SU 151 LE ATTUAZIONI RICHIESTE DAI PROVVEDIMENTI DEL GOVERNO MELONI CHE ANCORA MANCANO ALL’APPELLO.
Comunque l’attuale squadra di governo ha ereditato il grosso del lavoro da fare in questo senso dai suoi predecessori. Considerate complessivamente tutte le attuazioni richieste per le misure degli ultimi 4 governi, possiamo osservare che l’ente maggiormente coinvolto è il dicastero dell’economia a cui è imputata l’emanazione di 285 decreti attuativi di cui 68 ancora da pubblicare. Seguono il ministero delle infrastrutture (209 attuazioni richieste, 53 da pubblicare) e quello dell’interno (153 attuazioni totali di cui 18 non pubblicate).

ANCORA DA PUBBLICARE 470 DECRETI ATTUATIVI
Il quadro dei decreti attuativi richiesti dalle norme varate dagli ultimi governi
A livello percentuale però l’istituzione più indietro risulta essere la struttura che fa capo al ministro Raffaele Fitto che ha le deleghe, tra le altre cose, al Pnrr e alla coesione territoriale. Il suo ufficio è responsabile di 4 decreti attuativi di cui nessuno ancora pubblicato. Al secondo posto troviamo invece il ministero dell’ambiente con oltre il 50% delle attuazioni ancora da emanare.
Occorre ricordare infine che una parte delle attuazioni risale addirittura alla XVII legislatura. Su questo però gli unici dati disponibili ci vengono forniti da una relazione pubblicata lo scorso gennaio. In base a questo documento sappiamo che sono 44 i provvedimenti ancora da adottare legati a norme varate tra il 2013 e il 2018.

UN QUADRO SULLA LEGGE DI BILANCIO
Come già anticipato, la legge di bilancio per il 2023 è la norma varata dal governo Meloni che finora richiede il maggior numero di decreti attuativi. Gli atti di secondo livello richiesti sono 118 in totale. Un valore sostanzialmente in linea con il dato medio delle leggi di bilancio dell’ultimo decennio (120) riportato nella già citata relazione dell’Upg.
Alcuni decreti attuativi legati alla legge di bilancio non sono stati pubblicati entro il termine previsto.
Attualmente soltanto 6 attuazioni sono già in vigore (appena il 5%). Un numero così basso è certamente dovuto al fatto che la legge di bilancio è uno dei provvedimenti più recenti tra quelli approvati finora. Tuttavia occorre sottolineare che tra i decreti attuativi mancanti ce ne sono alcuni che avrebbero già dovuto essere pubblicati.
In alcuni casi infatti le stesse leggi possono prevedere un termine ultimo entro cui i ministeri devono pubblicare i decreti attuativi richiesti. Nel caso in esame tale scadenza non è stata rispettata in 14 casi. Peraltro, come già anticipato, spesso i decreti attuativi contengono indicazioni operative indispensabili per l’erogazione dei fondi stanziati. Ad esempio l’indicazione dei criteri con cui selezionare i soggetti beneficiari o le modalità con cui i potenziali interessati devono inoltrare la domanda di finanziamento. Senza questi atti quindi le risorse stanziate restano sostanzialmente sulla carta.

OLTRE 3 MILIARDI STANZIATI DALLA LEGGE DI BILANCIO RICHIEDONO ATTUAZIONI
IL QUADRO DEI DECRETI ATTUATIVI RICHIESTI DALLA LEGGE DI BILANCIO PER IL 2023
Nel caso della legge di bilancio, 6 decreti attuativi per cui è già scaduto il termine di pubblicazione bloccano l’erogazione di risorse per circa 60 milioni di euro. L’atto mancante più significativo tra questi è un decreto richiesto al ministero del turismo che avrebbe dovuto definire termini e modalità per l’erogazione di un fondo da 30 milioni destinato all’ammodernamento e alla messa in sicurezza degli impianti sciistici. Un atto che avrebbe dovuto essere emanato entro il 31 gennaio.
3,56 miliardi € le risorse stanziate dalla legge di bilancio ma bloccate per la mancanza dei relativi decreti attuativi.
Tra i decreti che ancora mancano all’appello poi ce ne sono altri 31 il cui termine di scadenza è compreso tra il 28 febbraio e il 31 marzo. I ministeri quindi in teoria non avranno molto tempo per pubblicare tali atti. Tra questi, ce ne sono 2 che da soli potenzialmente potrebbero bloccare il processo di erogazione per quasi 1 miliardo di euro.
Si tratta di:
• termini e modalità per l’erogazione di un fondo da 500 milioni per l’acquisto di generi alimentari di prima necessità, di competenza del ministero dell’agricoltura;
• termini e modalità per la ripartizione tra enti territoriali di un fondo da 400 milioni per contrastare il caro energia, di competenza del ministero dell’interno.
Il primo di questi 2 decreti dovrebbe essere emanato entro il 2 marzo mentre il secondo entro la fine dello stesso mese.
L’importanza del monitoraggio
Il fatto che la situazione attuale non sia così critica come nel 2020, quando le attuazioni mancanti erano oltre il 70%, probabilmente ha contribuito al generale calo di attenzione su questo tema. È invece di fondamentale importanza continuare a monitorare questi aspetti.
La mancanza dei decreti attuativi blocca l’erogazione di risorse già disponibili.
Sebbene la legge di bilancio sia evidentemente il caso più eclatante, non è l’unico per cui la mancanza dei decreti attuativi blocca potenzialmente l’erogazione di risorse già stanziate. Secondo la già citata relazione dell’Upg infatti altri 2 miliardi circa stanziati dai decreti legge emanati dal governo Meloni sarebbero vincolati all’emanazione di decreti attuativi. Parliamo quindi in totale di circa 5 miliardi e mezzo di risorse potenzialmente già disponibili ma congelate in attesa delle relative indicazioni per l’attuazione.
Un massiccio sforzo in termini di smaltimento di attuazioni mancanti era stato profuso dal governo Draghi che aveva anche introdotto un nuovo metodo di lavoro. Questo prevedeva lo stralcio di decreti attuativi non più necessari a causa della modifica delle norme a cui erano legati e uno stretto coordinamento nell’attività svolta dai ministeri. Inoltre era stato individuato all’interno di ogni amministrazione un ufficio referente per le attuazioni ed erano stati introdotti degli obiettivi mensili ad hoc per ogni struttura coinvolta.
Purtroppo non è chiaro se con il nuovo esecutivo questa modalità di lavoro sarà mantenuta o meno. Nella relazione dell’Upg infatti non vi si trova nessun riferimento ma semplicemente un auspicio affinché gli enti coinvolti pubblichino tempestivamente i decreti attuativi di loro competenza.
Si auspica che i Ministeri riescano ad assicurare costantemente la tempestiva attuazione dei provvedimenti di loro competenza […] per assicurarne la tempestiva attuazione rispettando i termini di adozione previsti.
– Prima relazione del governo Meloni sul monitoraggio dei provvedimenti attuativi, 10 gennaio 2023
Le norme attualmente in vigore infatti non prevedono delle conseguenze negative per i ministeri inadempienti. Per questo motivo è di fondamentale importanza mantenere alta l’attenzione su questo fronte.
• I decreti attuativi ancora da pubblicare sono 384. Pari al 21,6% di quelli richiesti in totale.
• L’attuale esecutivo ha ereditato 371 attuazioni da pubblicare risalenti a norme varate nella XVIII legislatura.
• Il governo Draghi ha affermato di aver smaltito in totale 1.376 attuazioni. Molte delle quali ereditate dai procedenti esecutivi.
• Il ministero dell’ambiente deve ancora pubblicare il 48% delle attuazioni di sua competenza. Quello della salute il 44,7%.
• Circa mezzo miliardo di fondi stanziati dalla legge di bilancio del 2022 sono bloccati per la mancanza delle relative attuazioni.
In passato ci siamo occupati spesso del tema legato alla pubblicazione dei decreti attuativi. Quegli atti di secondo livello cioè (generalmente regolamenti e decreti ministeriali) che servono a definire gli elementi di dettaglio delle misure contenute nelle norme, in modo che queste possano essere applicabili.
Si tratta di un passaggio molto rilevante perché senza la pubblicazione di questi atti, ad esempio, le risorse stanziate dallo stato a favore di enti, imprese e cittadini non possono essere erogate. Questo perché è proprio attraverso i decreti attuativi che di solito si provvede alla definizione delle modalità operative per assegnare questi fondi.
Dopo il lavoro del parlamento, l’implementazione di una legge passa nelle mani di ministeri e agenzie pubbliche. Un secondo tempo spesso ignorato ma che lascia molte norme incomplete. Vai a “Che cosa sono i decreti attuativi”
In una relazione pubblicata alla fine di ottobre, il governo Draghi ha sottolineato il fatto di aver lasciato all’esecutivo subentrante una situazione tutto sommato non critica su questo fronte. Anzi, nel documento si evidenzia lo sforzo fatto per recuperare l’arretrato lasciato dai governi precedenti.
Tuttavia le attuazioni che ancora oggi mancano all’appello sono molte. E altre se ne aggiungeranno con ogni probabilità a seguito dell’approvazione della legge di bilancio. Provvedimento che, proprio per la vastità dei temi che affronta, richiede sempre una grande quantità di norme di secondo livello.

LO STATO ATTUALE DEI DECRETI ATTUATIVI
Grazie alle informazioni messe a disposizione dall’ufficio per il programma di governo (Upg) possiamo avere un quadro esatto della situazione per quanto riguarda il totale dei decreti attuativi richiesti e quelli che ancora mancano all’appello.
Alla data del 5 dicembre, le attuazioni richieste dalle norme varate durante la XVIII e XIX legislatura erano 1.781 in totale, di cui 384 (il 21,6%) ancora da pubblicare. Allo stato attuale sono solo 13 i decreti attuativi richiesti dalle misure varate dall’esecutivo in carica. Un dato tutto sommato piuttosto contenuto considerato che, dal suo insediamento, il nuovo governo ha già emanato ben 7 decreti legge. C’è da dire però che l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni è ancora in una fase di riorganizzazione e i vari dicasteri non sono ancora operativi a pieno regime. Infatti nessuna delle attuazioni richieste è ancora stata pubblicata.
Con la legge di bilancio le attuazioni da pubblicare aumenteranno.
A questo si deve aggiungere il fatto che entro la fine dell’anno dovrà essere approvata la legge di bilancio. Un atto che storicamente richiede una grande quantità di attuazioni. Quella dello scorso anno, ad esempio, ne aveva richiesti 150. Mentre nell’anno ancora precedente erano stati 134. Da ciò è lecito attendersi che, a breve, il numero di attuazioni mancanti subisca una brusca impennata.
L’attuale esecutivo inoltre ha ereditato 371 decreti attuativi da pubblicare attribuibili ai governi che hanno guidato il paese nel corso della XVIII legislatura. Nello specifico si tratta di 21 attuazioni risalenti al primo governo Conte, 70 per il Conte II e 280 per il governo Draghi.

MANCA ALL’APPELLO OLTRE IL 20% DEI DECRETI ATTUATIVI
Numero di decreti attuativi pubblicati e mancanti in base ai governi della XVIII e XIX legislatura
FONTE: elaborazione openpolis su dati ufficio per il programma di governo (ultimo aggiornamento: lunedì 5 Dicembre 2022)
Purtroppo l’Upg non fornisce indicazioni altrettanto dettagliate per quanto riguarda i lasciti risalenti alle legislature precedenti. Informazioni su questo aspetto sono contenute solo nella già citata relazione rilasciata dal governo Draghi. Da questo documento infatti si apprende che le attuazioni ancora richieste da norme pubblicate tra il 2013 e il 2018 erano 313 al momento dell’insediamento del governo. Nel tempo tali atti si sono poi ridotti a 46.
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COS’È L’UFFICIO PER IL PROGRAMMA DI GOVERNO.
Più in generale il governo uscente, anche avvalendosi di un nuovo metodo di lavoro, è riuscito a smaltire complessivamente 1.376 attuazioni. Ciò è avvenuto in parte a seguito della pubblicazione degli atti richiesti e in parte per lo stralcio di alcune norme. Operazione che ha reso superflua l’emanazione dei decreti attuativi a esse collegati.

86% LO SMALTIMENTO DELL’ARRETRATO DELLE ATTUAZIONI MANCANTI OPERATO DAL GOVERNO DRAGHI.
Nella relazione si legge anche che, se i ritmi di pubblicazione manterranno il livello tenuto durante il governo Draghi, il resto dell’arretrato sarà smaltito entro la fine dell’anno. Grazie a questo grande sforzo l’esecutivo di Giorgia Meloni si è ritrovato in eredità una situazione tutto sommato sotto controllo. Ma non per questo deve diminuire l’attenzione sul tema. Anzi, l’impegno deve rimanere costante per evitare di trovarsi di nuovo in una situazione critica, con ingenti quantità di attuazioni da recuperare. Da ricordare inoltre che sono molti gli atti di secondo livello che ancora mancano all’appello.

I MINISTERI PIÙ COINVOLTI
Sostanzialmente tutte le amministrazioni che fanno capo all’esecutivo sono coinvolte nella pubblicazione dei decreti attuativi. Logicamente però non a tutte è richiesto lo stesso livello di impegno da questo punto di vista.
Con il cambio di governo le competenze di alcuni ministeri sono state redistribuite. L’Upg ha già provveduto a riassegnare la responsabilità delle diverse attuazioni richieste che sono ancora da emanare. Un’operazione che si è rivelata abbastanza rapida anche perché, nella stragrande maggioranza dei casi, si è trattato di una semplice ridenominazione dei dicasteri. Di conseguenza il passaggio di consegne anche da questo punto di vista è stato piuttosto semplice.

LA DENOMINAZIONE DEI MINISTRI E LE LORO COMPETENZE.
In assoluto il ministero maggiormente coinvolto è quello dell’economia guidato attualmente dal leghista Giancarlo Giorgetti a cui in generale sono richieste ben 249 attuazioni di cui 40 ancora da pubblicare. Al secondo posto come ministero maggiormente coinvolto troviamo invece quello delle infrastrutture affidato a Matteo Salvini. In questo caso i decreti richiesti in totale sono 191 mentre sono 45 quelli ancora da emanare. Al terzo posto c’è poi il ministero dell’interno guidato dall’indipendente Matteo Piantedosi a cui competono 143 atti di secondo livello di cui soltanto 13 ancora mancano all’appello.

MANCA IL 48% DELLE ATTUAZIONI RICHIESTE AL MINISTERO DELL’AMBIENTE
Le performance dei 10 ministeri maggiormente coinvolti nella pubblicazione di decreti attuativi
FONTE: elaborazione openpolis su dati ufficio per il programma di governo
(ultimo aggiornamento: lunedì 5 Dicembre 2022)
Se però si analizza la percentuale di attuazioni ancora da emanare rispetto a quelle richieste, tra i 10 ministeri più coinvolti, notiamo che quello più in “difficoltà” è il ministero dell’ambiente (48% di attuazioni mancanti). Seguono il ministero della salute (44,7%) e quello delle infrastrutture (23,6%).

ATTUAZIONI MANCANTI E FONDI BLOCCATI
Ma perché la mancanza di questi atti è così rilevante? Come abbiamo già detto i decreti attuativi – quando necessari – vanno a delineare nel dettaglio la realizzazione delle misure. Senza queste informazioni dunque gli interventi previsti da governo e parlamento attraverso le leggi restano solo sulla carta perché inapplicabili.

LA MANCANZA DEI DECRETI ATTUATIVI BLOCCA ANCHE L’EROGAZIONE DI RISORSE GIÀ STANZIATE.
Ciò ha un impatto concreto anche per i cittadini dato che la mancanza di tali atti può bloccare l’assegnazione di risorse già state stanziate. Risorse che sarebbero disponibili quindi ma che non possono essere erogate perché, ad esempio, manca l’indicazione dei criteri per individuare chi ne ha diritto.
Per citare un caso concreto possiamo prendere in esame la legge di bilancio per il 2022. Tale norma richiede in totale 150 decreti attuativi. Al 5 dicembre, dopo quasi un anno dall’approvazione della norma, ancora ne mancano 28 all’appello (il 18,8%). Tra questi atti ce ne sono poi 11 che bloccano l’erogazione di una cospicua quantità di fondi. Tali risorse sarebbero dovute essere assegnate nel corso di quest’anno ma ciò non è avvenuto proprio per la mancanza dei decreti attuativi.

419,8 MILIONI € LE RISORSE STANZIATE DALLA LEGGE DI BILANCIO PER IL 2022 E NON ANCORA EROGATE.
Tra le misure più significative da questo punto di vista, possiamo citare la mancata erogazione di circa 150 milioni di euro a imprese operanti nel settore del turismo e dello spettacolo che hanno particolarmente subito le restrizioni causate dal Covid. Altri 150 milioni inoltre sarebbero dovuti servire come incentivo al prepensionamento dei dipendenti all’interno di piccole e medie imprese in crisi.
PER 133 ATTUAZIONI È GIÀ SCADUTO IL TERMINE PER LA PUBBLICAZIONE
Il dettaglio dei decreti attuativi che ancora mancano all’appello

Più in generale, come abbiamo già detto, le attuazioni che ancora mancano all’appello sono 371 in totale. Da notare che in molti casi è già stato superato il limite di tempo massimo previsto per la pubblicazione. L’atto di legge che ne dispone l’emanazione infatti può prevedere anche una data specifica entro la quale il decreto attuativo deve essere pubblicato. Sono 133 (il 34,6% circa) le attuazioni non pubblicate entro la data di scadenza prevista. Mentre altre 19 dovrebbero essere emanate entro la fine dell’anno.
Questi dati ci fanno capire l’importanza dei decreti attuativi e quanto sia fondamentale mantenere alta l’attenzione su questo fronte.
*( Chi: governo Conte, governo Conte II, governo Draghi, governo Meloni – Cosa: decreti attuativi, Governo e Parlamento – Quando: XIX legislatura, XVII legislatura, XVIII legislatura)

 

06 – Gabriella De Rosa*: SONDAGGIO: MAGGIORANZA ITALIANI CONTRO INVIO DI ARMI ALL’UCRAINA. AD UN ANNO DALL’INVASIONE RUSSA IN UCRAINA IL GOVERNO RIBADISCE IL SOSTEGNO A KIEV MA LA MAGGIORANZA DEGLI ITALIANI È CONTRO ALL’INVIO DI ARMI.
Oggi l’invasione russa in Ucraina compie esattamente un anno.
Sin da subito, l’Italia e gli altri paesi dell’Ue e Usa si è schierata al fianco di Kiev. La linea di Draghi è stata portata avanti dalla premier Giorgia Meloni che anche dall’opposizione si è sempre mostrata favorevole all’invio di aiuti all’Ucraina. Ad un anno esatto dalla guerra però le opinioni pubbliche dei paesi occidentali si sono divise, oltre ai dubbi sollevati da alcune posizioni ambigue da parte della classe politica. Ecco la posizione degli italiani.

Sul Corriere della Sera oggi un sondaggio Ipsos mostra i dati dell’opinione pubblica italiana riguardo la guerra e l’invio di armi. Sull’invio delle armi il 45% è contrario e il 34% è favorevole. Interessante che il 47% degli elettori di Fratelli d’Italia è contrario all’invio di armi contro il 39%. Nella coalizione di centrodestra gli elettori della Lega sono per il 55% contrari a dispetto del 32% favorevoli. Mentre quelli di Forza Italia sono favorevoli: 51% a 40%, in dissenso rispetto al loro leader.
IL TIMORE PER IL CONFLITTO
Per quanto riguarda il Pd il 52% degli elettori sono favorevoli contro il 36% di contrari. E tra quelli del Terzo Polo formato da Azione e Italia Viva: 55% a 33%. Invece nel Movimento 5 Stelle la linea è ostile all’invio: 54% contro 30% di favorevoli.

«Gli italiani confermano di essere preoccupati (tra molto e abbastanza sono il 79%) per il perdurare del conflitto – spiega Pagnoncelli dell’istituto Ipsos-. Lo sono soprattutto per le sue ricadute economiche (il 49%) più che per le conseguenze umanitarie (14%)». E sta crescendo anche il timore che la guerra possa «degenerare in un conflitto mondiale». Secondo il 30% degli intervistati la guerra durerà ancora per diversi anni.

La maggioranza è a favore di Kiev (47%) rispetto a Mosca (7%). Ma i consensi sono scesi di dieci punti in un anno. «In compenso – osserva Pagnoncelli – è cresciuta la quota (dal 38% al 46%) di quelli che non si schierano con nessuna delle due parti». Ma è anche scesa la percentuale degli italiani favorevoli alle sanzioni alla Russia. Erano il 55% nel marzo 2022. Sono il 46% oggi. Mentre i contrari sono passati dal 31% al 38%. Sull’invio di armi gli italiani erano contrari già un anno fa: 47% contro il 33%. sono 45 contro 34.
*(Gabriella De Rosa, Aspirante giornalista. Linguista specializzata nella comunicazione giuridica e politica.)

 

07 – Stella Levantesi*: EMERGENZA CLIMATICA. CONTRO IL POTERE FOSSILE. LA VIOLENZA CONTRO GLI ATTIVISTI SVELA LA STRATEGIA DELLE LOBBY DEL GAS.

Ieri gli hamburger, oggi i fornelli a gas. Sono le munizioni identitarie della guerra culturale dei repubblicani negli Stati Uniti, che provano a sollevare un polverone accusando ogni forma di regolamentazione di essere, in realtà, una minaccia alla libertà individuale, allo stile di vita, all’americanità.
“Dio. Armi. Fornelli a gas”, ha twittato il deputato repubblicano Jim Jordan a gennaio. Ma poteva essere anche “Dio. Armi. Hamburger”, oppure “Dio. Armi. Petrolio”.
Il tweet nasce da una polemica che si è scatenata quando Richard Trumka, presidente della commissione statunitense per la sicurezza dei prodotti di consumo (Cpsc), ha fatto intendere in un’intervista a Bloomberg che esisteva la possibilità di una regolamentazione dei fornelli a gas, a causa di rischi per la salute. Alcuni studi scientifici, infatti, hanno dimostrato che l’esposizione al gas dei fornelli può essere dannosa per gli esseri umani in quanto può contribuire a causare asma e problemi respiratori.

Come succede con tante polemiche politicamente strumentalizzate, il governo federale non aveva in realtà avviato alcun procedimento per vietare niente, tantomeno i fornelli a gas.

Il presidente della Cpsc ha comunque dovuto rilasciare una dichiarazione pubblica in cui afferma che le emissioni dei fornelli a gas possono essere “pericolose” e che l’agenzia intende trovare delle soluzioni per ridurre l’inquinamento dell’aria interna dovuto al gas, ma che non esiste alcun divieto. Diverse città e stati americani stanno regolamentando i nuovi allacciamenti al gas, e il District of Columbia ha proposto una politica per consentire alle famiglie a basso reddito di sostituire i fornelli inquinanti, ma nessuna autorità federale, statale o comunale vieta quelli già in uso.

La strategia delle lobby energetiche è indicare come responsabile solo l’individuo con le sue scelte quotidiane, non chi produce, chi inquina, chi emette

Il punto, tuttavia, non è questo. Il punto è che la più recente cartuccia della guerra culturale conservatrice americana, il fornello a gas, è l’ennesimo capitolo di una strategia industriale decennale per ingannare l’opinione pubblica.

Sappiamo già che le aziende di combustibili fossili hanno mentito per continuare a estrarre gas e petrolio. Uno studio pubblicato a gennaio dalla rivista Science, per esempio, dimostra che la ExxonMobil era consapevole dei danni per il clima legati alle emissioni di anidride carbonica dei suoi prodotti. Non solo, ma la Exxon sapeva molto più di quello che credevamo. Lo studio, infatti, rivela che fin dal 1977 la maggior parte delle proiezioni dell’azienda prevedevano con accuratezza il riscaldamento globale, in linea con l’aumento di temperatura successivamente osservato.

In maniera simile, l’industria fossile negli Stati Uniti ha lavorato a lungo per convincere l’opinione pubblica che i fornelli a gas non solo sono sicuri, ma che sono, in qualsiasi caso, la migliore opzione possibile. Un’inchiesta della giornalista Rebecca Leber su Mother Jones ha rivelato che, almeno dal 2018, alcune influencer sui social media sono state ingaggiate da associazioni industriali del gas per pubblicare post che esaltano i benefici dei fornelli con l’hashtag #cookingwithgas (#cucinareconilgas). Nel 2020, un altro gruppo commerciale, l’American public gas association, ha pianificato di spendere 300mila dollari per la campagna Natural gas genius, mirata ai millennial.

La campagna, in realtà, è cominciata almeno settant’anni prima della nascita di Instagram. Leber racconta che negli anni trenta del novecento gruppi come l’American gas association dovevano competere con i fornelli a legna ed elettrici e che un dirigente ideò uno slogan durato quasi un secolo: “Ora si cucina con il gas”. L’industria ha usato a lungo la cultura pop per diffondere il suo messaggio, spiega Leber: negli anni quaranta lo slogan faceva parte dello sketch di un famoso comico, negli anni cinquanta di uno spot pubblicitario di 13 minuti, negli anni ottanta era un brano rap dell’azienda di distribuzione del gas National fuel gas distributors.

Mentre si incoraggiava l’uso gas nelle case degli americani, ci sono documenti che dimostrano che l’industria ne conosceva bene i rischi per la salute. Uno studio del 1979 aveva già concluso che “la prevalenza di uno o più sintomi o malattie respiratorie era più alta nei bambini provenienti da case in cui si usava il gas per cucinare rispetto a quelli provenienti da case in cui si usava l’elettrico”.

La giornalista investigativa Amy Westervelt ha trovato e raccolto alcuni di questi documenti, che non riguardano solo gli Stati Uniti: anche Italgas, in un documento del 1991, parla del ruolo dell’industria nel guidare la ricerca sulla qualità dell’aria interna. Nel rapporto, fa notare Westervelt, è chiaro che, anche dopo l’introduzione di meccanismi per le riduzioni delle perdite di gas nelle cucine, i fornelli e gli altri apparecchi a gas hanno un forte impatto negativo sulla qualità dell’aria.

Nel corso degli anni l’industria del gas ha anche promosso l’idea che basti l’uso di dispositivi di ventilazione o di estrazione del gas dall’aria per risolvere i problemi. La responsabilità quindi non è di chi produce, ma di chi consuma. Il messaggio era questo. È il leitmotif al centro di una delle più efficaci strategie delle lobby di petrolio e gas: è responsabile solo l’individuo con le sue scelte quotidiane, non chi produce, chi inquina, chi emette, chi approva, facilita e investe in attività inquinanti e distruttive.

DISTRARRE L’OPINIONE PUBBLICA
E qui arriviamo a un secondo punto. Le strategie dell’industria fossile e di chi ne fa gli interessi – inclusi alcuni politici e alcune piattaforme mediatiche – hanno un duplice elemento in comune: fungono da velo e anche da diversivo, e rappresentano uno schema ricorrente e presente in molti paesi, inclusa l’Italia.

I recenti attacchi alle attiviste e agli attivisti di Ultima generazione, al movimento britannico Just stop oil, o alle proteste contro la miniera di carbone a Lützerath, in Germania, hanno una radice simile. Gli attivisti sono stati etichettati come “Eco anarchici”, “gruppetto di fanatici pseudo-ambientalisti”, “sociopatici”, “ecovandali”, “teppisti”. Sono stati giudicati, accusati, sottoposti a sgomberi, processi, violenza. La domanda non è se la disobbedienza civile sia una modalità di protesta legittima. La domanda è: cosa ci dicono la repressione e la violenza contro le proteste stesse?

Molte cose, certo, ma prima tra tutte che la violenza serve a mascherare. Polemizzare su quanto siano sbagliate le modalità di protesta, etichettare gli attivisti, condannarli, processarli permette da una parte di esercitare ordine e controllo, dall’altra di creare fumo e nascondere il problema reale, quello per cui i muri vengono imbrattati e il traffico bloccato. Permette di posporre e dilazionare l’azione sul clima. Permette di nascondere il fatto che, nonostante non ci sia mai stata così tanta urgenza nell’abbandonare le fonti fossili, molti governi, tra cui quello italiano, continuano a promuovere le trivellazioni, a sovvenzionare attività inquinanti con i soldi pubblici, a espandere le infrastrutture di gas e investire in nuovi progetti fossili nei paesi africani. Permette, appunto, di confondere la realtà e di deviare l’attenzione. Si sposta il bersaglio. Il contenuto delle proteste, le motivazioni, la vita non sono più importanti. Subentrano la disinformazione, la propaganda e la violenza. L’onere ricade su chi porta avanti la lotta, su chi dà voce alla scienza e ai diritti.

Quando ho fatto questa domanda – cosa ci dicono la repressione e la violenza contro le proteste? – all’autrice e attivista Rebecca Solnit, lei mi ha risposto: “Non si usa la violenza se non si è veramente preoccupati. Vuol dire che la propaganda e le bugie non sono state sufficienti”. E ha aggiunto: “La violenza è chiarificatrice.”

Più di tutto, dice Solnit, la violenza maschera la paura. La paura di sapere che la pressione per chiedere un’azione sul clima non è mai stata così elevata come oggi, che chi ha contribuito a creare la crisi climatica e a promuovere prodotti dannosi alla salute e alla vita sarà ritenuto responsabile, la paura che sia ribaltato lo status quo in un processo che toglie profitto, potere e privilegio a chi lo ha avuto finora.
Non guardate dove vi dicono di guardare, trovate quello che provano a nascondere.
*( Stella Levantesi, giornalista)

 

08 – Arthur C. Brooks*: IL LEGAME NASCOSTO TRA LAVORARE TROPPO E SALUTE MENTALE.

WINSTON CHURCHILL È STATO MOLTE COSE: STATISTA, SOLDATO, SCRITTORE. È stato uno dei primi leader mondiali a lanciare l’allarme contro la minaccia nazista negli anni trenta, ed è poi entrato nell’immaginario globale per la sua lotta in prima linea contro le potenze dell’asse nella seconda guerra mondiale. Mentre era primo ministro del Regno Unito durante la guerra, mantenne un’agenda d’impegni molto faticosa, spesso trascorrendo 18 ore al giorno a lavorare. Durante il suo mandato, inoltre, scrisse un libro dopo l’altro. Alla fine della sua vita ne aveva terminati 43, riempiendo 72 volumi.

Ma Churchill soffriva anche di una depressione paralizzante, che lui chiamava il suo “cane nero” e che lo affliggeva costantemente. Sembra quasi impensabile che potesse essere così produttivo in uno stato così cupo da fargli dire una volta, rivolto al suo medico: “Non mi piace stare sulla fiancata di una nave e guardare in basso verso nell’acqua. Un gesto di un secondo metterebbe fine a tutto”.

Alcuni sostengono che la depressione di Churchill fosse bipolare e che fossero le fasi di mania a permettergli di lavorare così tanto. Ma alcuni biografi spiegano le cose in modo diverso: lo stacanovismo di Churchill non era slegato dalle sue sofferenze, ma era causato da esse. Si distraeva con il lavoro. Se quest’interpretazione vi appare forzata, sappiate che oggi i ricercatori hanno scoperto che lo stacanovismo è una dipendenza comune, che nasce in risposta a un disagio. E, come molte dipendenze, peggiora la situazione che vorrebbe alleviare.

Un percorso comune
Negli Stati Uniti decine di milioni di persone – addirittura il 10 per cento del totale – soffrono di una dipendenza da sostanze a un certo punto della loro vita. Sappiamo bene come le dipendenze possano insinuarsi in noi. In molti casi l’uso di una sostanza, somministrata in maniera controllata per alleviare il dolore di una malattia, si trasforma in un disturbo da abuso. A volte l’uso comincia con la terapia indicata da un professionista, solo che quando il trattamento viene sospeso, il consumo della sostanza prosegue. Quest’ultimo è un percorso comune verso la dipendenza da oppioidi.

Ma tante persone si curano da sole fin dall’inizio. Nel 2018 i ricercatori hanno analizzato un decennio di dati e hanno scritto sulla rivista Depression and Anxiety che, in base alla loro analisi della letteratura scientifica esistente, il 24 per cento delle persone con un disturbo d’ansia e quasi il 22 per cento delle persone con un disturbo dell’umore (come la depressione grave o il disturbo bipolare) si “cura” da sola usando alcol o droghe. Chi ricorre a questa “automedicazione” ha molte più probabilità di sviluppare una dipendenza da sostanze. I dati epidemiologici, per esempio, hanno rivelato che le persone che si “autocuravano” contro l’ansia usando l’alcol avevano una possibilità più di sei volte maggiore di sviluppare una dipendenza persistente dall’alcol rispetto a coloro che non lo facevano.

Ci sono prove inconfutabili che alcune persone “curino” i loro problemi emotivi anche con il lavoro. Questo può portare a una sorta di dipendenza. Molti studi hanno dimostrato una forte relazione tra lo stacanovismo e i sintomi di disturbi psichiatrici, come ansia e depressione, ed è stato comunemente ipotizzato che il lavoro compulsivo porti a questi disturbi. Ma alcuni psicologi hanno recentemente sostenuto la tesi della causalità inversa, ovvero che le persone in realtà “curino” la depressione e l’ansia con un eccesso di lavoro. Come hanno scritto gli autori di uno studio pubblicato nel 2016 sulla rivista scientifica Plos One, “lo stacanovismo (in alcuni casi) si sviluppa come tentativo di ridurre i sentimenti di ansia e depressione”.

Le persone alle prese con lo stacanovismo possono facilmente negare che si tratti di un problema e quindi non vedere i problemi che stanno cercando di curare

Lo studio del 2016 ha ricevuto grande attenzione per la sua qualità e senza dubbio stimolerà altri test su questa ipotesi nei prossimi anni. Se i risultati saranno validi, e sospetto che lo saranno, la relazione causale potrebbe parzialmente spiegare perché così tante persone hanno aumentato le ore di lavoro durante la pandemia. Per molti mesi, durante i primi lockdown, le persone hanno dovuto affrontare noia, solitudine e ansia; alla fine del maggio 2020, i dati dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (Cdc) degli Stati Uniti hanno mostrato che quasi un quarto degli adulti americani aveva riferito sintomi di depressione (nel 2019 erano stati il 6,5 per cento). Forse una parte dei lavoratori si è “automedicata” raddoppiando la propria quantità di lavoro, per sentirsi impegnata e produttiva.

Le persone alle prese con lo stacanovismo possono facilmente negare che si tratti di un problema e quindi non vedere i problemi soggiacenti che stanno auto-medicando. Come può il lavoro essere negativo? Come mi ha detto Anna Lembke, una psichiatra di Stanford, autrice di L’era della dopamina. Come mantenere l’equilibrio nella società del “tutto e subito”, in una recente intervista per il podcast How to build a happy life “anche comportamenti che in passato erano sani e adattivi – comportamenti che noi generalmente, per cultura, considereremmo sani e vantaggiosi – oggi diventano una droga, il che li rende più potenti, più accessibili, più nuovi, più onnipresenti”. Se siete persone che si chiudono nel bagno di casa per controllare le email di lavoro sul telefono, sta parlando di voi.

Inoltre, quando parliamo di lavoro, le persone premiano i comportamenti che creano dipendenza. Nessuno dice: “Accipicchia, hai bevuto una bottiglia di gin in una notte? Sei proprio un bevitore straordinario”. Ma se lavorate 16 ore al giorno probabilmente otterrete una promozione.

Nonostante le decantate virtù di un lavoro svolto al massimo, i costi supereranno quasi certamente i benefici, come di solito accade nelle dipendenze da “automedicazione”. Il burnout (esaurimento), la depressione, lo stress lavorativo e il conflitto tra lavoro e vita privata peggioreranno, non miglioreranno. Inoltre, come mi ha detto Lembke, lo stacanovismo può portare a dipendenze secondarie, come quella da droghe, alcol o pornografia, che le persone usano per “automedicare” i problemi causati dalla dipendenza primaria, spesso con conseguenze personali catastrofiche.

Per trovare soluzioni alla dipendenza da lavoro, ho intervistato la mia collega di Harvard, Ashley Whillans, autrice di Time smart: how to reclaim your time and live a happier life (Tempo intelligente: come riprenderti il tuo tempo e vivere una vita più felice), per un altro episodio di How to build a happy life. Whillans mi ha detto che, tra le soluzioni individuali allo stacanovismo, ci sono una maggiore consapevolezza di come si usa il proprio tempo e un cambiamento di mentalità, che non dia maggiore valore al lavoro rispetto al tempo libero. Mi ha consigliato tre pratiche.

Fate una verifica di come avete usato utilizzato il tempo

Per qualche giorno, annotate con cura le vostre attività principali – lavoro, tempo libero, commissioni – oltre che il tempo trascorso in ognuna di esse e come vi siete sentiti. Annotate le attività che vi generano l’umore più positivo e che hanno per voi più significato. Questo vi darà due informazioni: quanto state lavorando (per rendervi impossibile negare la realtà) e cosa vi piace fare quando non lavorate (per rendere più allettante la guarigione).

PROGRAMMATE I VOSTRI TEMPI MORTI

Gli stacanovisti tendono a minimizzare il valore delle attività extralavorative, definendole come “piacevoli”, e annegandole quindi nel lavoro. È così che la quattordicesima ora di lavoro, che raramente è produttiva, sostituisce un’ora che avreste potuto trascorrere con i vostri figli. Ritagliate del tempo nella vostra giornata per le attività non lavorative, proprio come fate per le riunioni.

PROGRAMMATE IL VOSTRO TEMPO LIBERO
Non lasciate troppo liberi i tempi morti. Il tempo non strutturato è un invito a tornare al lavoro o a dedicarsi ad attività passive che non favoriscono il benessere, come passare in rassegna i vostri social network o guardare la televisione. Probabilmente avete una lista di cose da fare organizzata in ordine di priorità. Fate lo stesso con il vostro tempo libero, pianificando i passatempi attivi che più apprezzate. Se vi fa piacere telefonare a un amico, non lasciate che questo accada quando, casualmente, avete del tempo, ma programmatelo e rispettate il programma.

Queste indicazioni hanno cambiato la mia vita. Affronto le mie passeggiate, i momenti di preghiera e le sedute in palestra come se fossero incontri con il presidente. E quando non ho nulla in programma, il mio piano consiste letteralmente nel non fare nulla, senza cedere alle distrazioni.

Affrontare una dipendenza da lavoro può fare davvero la differenza nella nostra vita. Ci permette di dedicare del tempo alla famiglia e agli amici. Permette di dedicarci a passatempi non lavorativi che non sono utili, ma solo divertenti. Ci permette di prenderci più cura di noi stessi, per esempio facendo esercizio fisico. È stato dimostrato che tutte queste cose aumentano la felicità o riducono l’infelicità.

Ma affrontare il problema dello stacanovismo non permette comunque di risolvere il problema di fondo che il lavorare così intensamente avrebbe dovuto curare. Forse anche voi siete stati visitati dal cane nero di Churchill. O forse il vostro cane nero ha una diversa forma: un matrimonio problematico, un cronico senso d’inadeguatezza, forse perfino il disturbo da deficit d’attenzione/iperattività (adhd) o il disturbo ossessivo-compulsivo, tutti fenomeni che sono stati collegati al superlavoro. Smettere di usare il lavoro per distrarsi è un’opportunità per affrontare i propri problemi, magari con l’aiuto di qualcuno, e risolvere così il problema che ci ha spinti a lavorare troppo.
Affrontare il cane può sembrare più spaventoso che rivolgersi semplicemente ai vecchi accalappiacani: il vostro capo, i vostri colleghi, la vostra carriera. Ma alla fine potreste trovare il modo di liberarvi definitivamente di quel cane.
*( Arthur C. Brooks, The Atlantic, Stati Uniti. Traduzione di Federico Ferrone. Questo articolo è uscito sullo statunitense The Atlantic.)

 

09 – Giuliano Battiston* : Storia del pacifismo italiano. Com’è cambiato il movimento pacifista in questi ultimi decenni, dalla marcia Perugia-Assisi del 1961 alle manifestazioni contro la guerra in Ucraina

Questo articolo è uscito su Parole, un numero di Internazionale Extra che raccoglie reportage, foto e fumetti sull’Italia. Si può comprare sul sito di Internazionale o, in digitale, sull’app di Internazionale.
“La minaccia nucleare incombe sul mondo. È responsabilità e dovere degli stati e dei popoli fermare questa follia”. A Roma è un sabato di sole e vento freddo, piumini a mezze maniche e baveri alzati. Dal palco allestito in piazza San Giovanni in Laterano Francesca Giuliani, esponente della campagna Sbilanciamoci!, legge l’incipit dell’appello di Europe for peace.

Di fronte a lei, decine di migliaia di persone riempiono la piazza, mentre la coda del corteo continua a snodarsi tra le vie Merulana, Labicana e Manzoni. La piazza è composta e colorata: in prima fila le bandiere di Sant’Egidio, quelle arcobaleno e dell’Associazione nazionale partigiani, i simboli della comunità papa Giovanni XXIII. Un arcipelago di sigle, laiche e religiose. Un bambino regge un cartoncino con una scritta rossa: “No al nucleare”.

La manifestazione nazionale per la pace del 5 novembre 2022 si apre con un richiamo insieme rituale e attuale: la minaccia nucleare. Tra i più anziani, qualcuno ricorda un altro palco, un’altra platea. È il 25 settembre 1961 e il presidente degli Stati Uniti, John F. Kennedy, si rivolge all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, a New York. “Ogni uomo, donna e ragazzo vive sotto una spada di Damocle nucleare sospesa al più tenue dei fili che può essere reciso da un momento all’altro”. Kennedy invoca il disarmo nucleare. Il giorno precedente, a migliaia di chilometri di distanza, un’invocazione simile, collettiva, ha attraversato le vie di Perugia e poi di Assisi. È la prima marcia per la pace Perugia-Assisi.

“Il successo fu indiscutibile”, scrive Amoreno Martellini, docente all’università di Urbino, in Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento. Diecimila persone. Fianco a fianco sfilano “esponenti di tradizioni pacifiste lontane tra loro e, fino ad allora, inconciliabili”, uomini e donne, contadini e intellettuali. La matrice culturale è eterogenea: fratellanza pacifista, richieste politiche per l’ingresso della Cina nelle Nazioni Unite, invocazioni religiose contro la guerra, male dell’umanità.

Sessant’anni dopo, spiega Martellini, “le culture della pace che discendono dalle matrici del pacifismo di quelle prime stagioni dell’Italia repubblicana sono ancora tutte lì. O meglio, tutte quelle che sono sopravvissute” ai tornanti della storia.

Sopravvive ai tornanti della storia, ma paradossalmente non alla marcia di cui è ideatore, Aldo Capitini, il più importante filosofo e attivista della nonviolenza in Italia. La marcia, la più rilevante espressione della nonviolenza nel secondo dopoguerra, coincide infatti con la fine di una stagione. Nel 1962 nasce la Consulta della pace, che dovrebbe contenere le varie anime del movimento pacifista, sempre più contaminato dalla spinta antiautoritaria della cosiddetta nuova sinistra. Capitini deve cedere il timone. Pacifista integrale, utopista, rinunciatario: viene frainteso. Come Gandhi, di cui introduce il pensiero in Italia.

Eppure per entrambi “il valore politico dell’azione nonviolenta e per la pace non solo è riconosciuto, ma assolutamente rivendicato”, ricorda in Fare pace Giulio Marcon, già portavoce dell’Associazione per la pace e oggi della campagna Sbilanciamoci!. La loro è “una vera e propria politica della pace”, che poco ha a che fare con le culture politiche tradizionali. Dalle quali il pacifismo si smarca negli anni ottanta, nel contesto della guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica e della viva percezione del rischio nucleare. È allora che “diventa soggetto politico e sociale di massa”, emancipandosi da cattolicesimo e comunismo. “È un pacifismo che produce una sua cultura politica, sue autonome e originali forme organizzative e di coordinamento”.

Sul finire degli anni settanta, la crisi del processo di distensione tra le due grandi potenze alimenta la mobilitazione pacifista. Dopo la decisione della Nato (1979) di installare in Europa nuovi missili a testata nucleare, scattano le proteste (si veda Contro gli euromissili. Pacifisti a Comiso, 1981-1983, a cura di Vincenzo Schirripa). In Italia nascono i Comitati per la pace. I missili vengono installati, ma il patrimonio di militanza lo eredita poi l’Associazione per la pace.

TENDENZE VIRTUOSE

Da allora, spiega Giulio Marcon, “si sono rafforzate alcune tendenze virtuose: la capacità di analisi e lettura politica dei conflitti, dentro uno scenario mondiale; la competenza sui temi del disarmo; la concretezza delle azioni sul campo, sulla base dell’esperienza maturata nell’ex Jugoslavia: carovane, aiuti diretti, contatti con obiettori e oppositori della guerra”. Se con l’implosione dell’Unione Sovietica il pacifismo, orfano di guerra fredda e bipolarismo, si assopisce, con la guerra nella ex Jugoslavia – La guerra in casa di cui scrive Luca Rastello – è costretto a misurarsi con scelte difficili, come succede ai militanti del Consorzio italiano di solidarietà e ai Beati i costruttori di pace. Diventa meno dogmatico, declamatorio, astratto.

È il pacifismo concreto di Alex Langer, sessantottino, deputato dei Verdi, dirigente pacifista, di cui la casa editrice e/o ha ripubblicato La scelta della convivenza: “Con meno tifo e meno bandiere, meno slogan e meno manifestazioni, ma con un’infinita quantità di visite, scambi, aiuti, gemellaggi, carovane di pace e quant’altro”. Il lascito di quella stagione si dispiega nei decenni successivi. Fino a oggi. Nel settembre 2022, “con la carovana di #stopthewarnow, guidata da Un ponte per e dal Movimento nonviolento, abbiamo rafforzato i legami con la società civile ucraina, con obiettori e obiettrici di coscienza, con i sindacalisti e le sindacaliste e i giovani impegnati nei progetti di peacebuilding”, racconta Mohamed Ambrosini, dell’associazione Un ponte per.

La storia del pacifismo italiano è fatta di continuità, dunque, ma anche di cambiamenti. “Da Sarajevo sotto assedio a oggi, sono molto cambiate le pratiche”, dichiara Lisa Clark, costruttrice di pace dalla lunga esperienza. “La spontaneità e l’energia, la buona volontà e l’ottimismo hanno lasciato il posto a riflessioni più profonde, a interlocuzioni con le istituzioni, a elaborazioni pian piano riconosciute come norme nazionali e internazionali”.

Oggi i pacifisti accettano “pure progressi parziali, per un obiettivo che può sembrare minore: mettere al bando le mine antipersona, per dirne uno”. È il passaggio dal pacifismo integrale a quello definito istituzionale, secondo una celebre classificazione di Norberto Bobbio, amico di Capitini e autore del noto Il problema della guerra e le vie della pace. Bobbio riconosce, tra gli altri, un primo filone pacifista “strumentale, ovvero la pace attraverso il disarmo”, un secondo “istituzionale, ovvero la pace attraverso il diritto, il terzo etico e finalistico, ovvero la pace attraverso l’educazione morale”.

Il pacifismo istituzionale, o giuridico, si afferma dagli anni novanta. A promuovere in Italia la campagna internazionale per la messa al bando delle mine antipersona, che riceve il premio Nobel per la pace nel 1997, sono le associazioni Mani tese, Pax Christi e Missione oggi. Già protagoniste, insieme alle Acli, le Associazioni cristiane lavoratori italiani, anche della campagna “contro i mercanti di morte” che porta all’approvazione della legge 185/90 che regola le esportazioni militari.

“Dalla riforma della legge sull’obiezione di coscienza, ottenuta dopo mobilitazioni, scioperi della fame, disobbedienza civile, all’introduzione del servizio civile e dei corpi civili di pace, sono tante le norme ottenute dal movimento pacifista”, ricorda Marcon. Nell’elenco ci sono anche la convenzione sulle munizioni a grappolo del 2008, il trattato sul commercio delle armi del 2013, quello sulla proibizione delle armi nuclearidel 2017, frutto della Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari (Ican), premio Nobel per la pace nel 2017.

CONDIZIONI POCO RASSICURANTI

Sulla spinta di singoli obiettori e dei movimenti pacifisti, con il tempo cambia la stessa idea di sicurezza: anziché su quella strategica di uno stato, l’attenzione è “sulle persone e sull’ambiente, dando priorità alla loro protezione”, scrive la ricercatrice Federica Dall’Arche in Non-proliferazione, controllo degli armamenti e disarmo umanitario: una breve guida pratica ed essenziale, pubblicazione dell’Osservatorio sulle vittime civili dei conflitti, il centro di ricerca dell’Associazione nazionale vittime civili di guerra.

Il diritto, però, non basta. Le culture politiche dei partiti rimangono perlopiù impermeabili. “Alla fine degli anni ottanta padre Ernesto Balducci parlava della necessità di portare la pace nella politica e nelle istituzioni, che però non ne sono davvero permeate”, commenta Giulio Marcon. Dalla prima marcia Perugia-Assisi alla manifestazione del 5 novembre, lo schema si ripete. I politici provano a capitalizzare la forza di mobilitazione dei pacifisti. O, se contrari, li accusano di cecità ideologica.

“Per noi di Emergency il rifiuto della guerra nasce dall’averla conosciuta nei pronto soccorso e nelle sale operatorie dei nostri ospedali”, ci dice Rossella Miccio, presidente dell’associazione fondata da Teresa Sarti e Gino Strada. “Superare la guerra e costruire la pace è una scelta necessaria, indispensabile e urgente”, però occorre anche la politica. “La scelta di pace non può avere successo se non è fatta propria dalla politica che ha la responsabilità di decidere come impostare le relazioni tra stati ma anche come usare le risorse disponibili”.
Finché “le spese militari riceveranno 2.221 miliardi di dollari e solo 150 miliardi (dati 2021) andranno all’aiuto pubblico allo sviluppo”, continua Miccio, “sarà difficile creare le condizioni per prevenire le guerre e garantire i diritti e la giustizia”.

Le condizioni, oggi, sono poco rassicuranti. Grandi e piccole potenze rifiutano gli accordi più vincolanti sulla non proliferazione e sul disarmo, o non li rispettano. L’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (Sipri) certifica il costante aumento della spesa militare globale e prevede l’ampliamento degli arsenali nucleari. L’invasione dell’Ucraina sconquassa l’apparente ordine internazionale, violando la norma contro la conquista territoriale di stati sovrani. E approfondisce un passaggio storico aperto negli anni novanta.

TUTTO È CONNESSO
Proprio quando il pacifismo si fa “giuridico”, il diritto torna infatti a piegarsi alla legge del più forte. “La guerra è stata riabilitata come strumento per risolvere i conflitti”, sintetizza dal palco di Roma Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio. Il ricorso alla forza militare, escluso dalla costituzione italiana e dalla carta delle Nazioni Unite, dagli anni novanta è di nuovo legittimato, insieme alle guerre, non più legali e illegali, ma giuste e ingiuste. La tendenza riguarda anche l’Italia, dove la chiesa, dopo un cammino accidentato, rinuncia alla teoria della guerra giusta, difesa a lungo, insieme al servizio militare e all’esercito, contro le idee e le pratiche della nonviolenza e degli obiettori di coscienza come Giuseppe Gozzini, condannato nel 1962 a sei mesi di carcere per aver rifiutato la divisa militare.

“La chiesa di Gozzini, del primo obiettore di coscienza cattolico, era quella del concilio Vaticano II, di Giovanni XXIII, era la chiesa che si apriva alla complessità del mondo contemporaneo dopo le chiusure manichee di Pio XII. Ma i retaggi del suo pontificato pesavano ancora sulla cultura cattolica più conservatrice”, ci racconta Martellini. Oggi, il panorama è mutato. Matteo Zuppi, presidente della Cei, ha inviato una lettera ai pacifisti in occasione della manifestazione del 5 novembre: “Chi lotta per la pace è realista, anzi è il vero realista perché sa che non c’è futuro se non insieme. L’unica strada è quella di riscoprirci fratelli tutti”.

Il cardinale arcivescovo di Bologna si riferisce alla terza enciclica di Francesco, sulla fraternità e l’amicizia sociale. Tra i pacifisti di piazza San Giovanni risuona anche la prima, Laudato si’, del 2015, sull’ecologia integrale e sulla cura della casa comune. “L’ecologia integrale ci dice che è tutto connesso. Ragionare per compartimenti è l’errore principale”, commenta don Paolo Quatrini, 56 anni, sacerdote ed esponente del punto pace Pierluigi Quatrini di Pax Christi, nella diocesi di Civita Castellana. Mariangela Isaia, insegnante, Ruth Dinslage, artigiana, e Francesca Di Pietro, educatrice, fanno parte dei Parents for future. “È tutto collegato. Oggi lo si capisce meglio di un tempo”, sostengono. “Se non c’è giustizia sociale, non c’è giustizia ambientale. Senza queste, non c’è pace”. Issano uno striscione: “Disarmo totale e pace subito”.

“Conviene ‘disarmare’, finché siamo in tempo”, suggerisce nel 1989 Alex Langer sulla rivista Azione Nonviolenta, memoria storica del movimento, riconoscendo “una nuova e grande sensibilità”, legata alla consapevolezza “che il nostro modello di vita attuale – dai consumi agli armamenti, dalla competizione produttiva a quella intellettuale – impone un altissimo livello di conflitti e di violenza”.

Per Wolfgang Sachs, allievo di Ivan Illich e già direttore di ricerca al Wuppertal institut per il clima, l’ambiente e l’energia, disarmare vuol dire “passare dalla modernità espansiva a quella riduttiva”. Significa, spiega l’autore di Ambiente e giustizia sociale, passare da un’economia energivora, fondata sull’uso di combustibili fossili – che “richiedono una forma aziendale e imprenditoriale centralizzata e imperialista, consona ai governi autoritari” – a un’economia ecologica, votata a una nuova civiltà politica. Contro l’accumulo, l’espansione, l’accelerazione e il mito dello sviluppo, l’idea del limite, della sufficienza. Non solo l’uso di mezzi efficienti, ma anche l’interrogativo sui fini, sulle aspirazioni della società.

Sta qui, nell’idea del legame organico tra mezzi e fini, la maggiore eredità delle culture del pacifismo e della nonviolenza, come insegnava già Capitini, per il quale “tra mezzi e fini vi è la stessa relazione che esiste tra seme e albero”. Capitini era consapevole della sfida. Perché mentre si educa alla pace, rivolti al futuro, occorre guardarsi indietro, riscrivendo la storia, non solo quella del sangue versato, ma anche del sangue risparmiato.

Anna Bravo ha provato a ricostruirla in La conta dei salvati. Un libro sulla voracità delle guerre, sull’efficacia della lotta inerme, sulle guerre ritardate ed evitate, mosso dall’obiettivo di smontare quella “visione del mondo (spesso sofferta, detestata, ma potente) secondo cui solo la violenza può contrastare la violenza”.

*(Fonte Internazionale Etra, G. Battiston, Questo articolo è uscito su Parole, un numero di Internazionale Extra che raccoglie reportage, foto e fumetti sull’Italia.)

 

10 – Laura Loguercio*: SOGNANDO L’AUSTRALIA. UN’ALTRA TERRA, UN’ALTRA LINGUA, UN’ALTRA VITA. LE RAGIONI PER PARTIRE SONO TANTE E SEMPRE DIVERSE, COSÌ COME QUELLE CHE CONVINCONO TANTI A RIENTRARE IN ITALIA, DOPO MESI O ANNI PASSATI ALL’ESTERO.
“Negli ultimi due giorni c’erano 35 gradi, ma la scorsa settimana abbiamo superato i 40”. È il 20 dicembre. Mentre mi parla, per Alberto Bellini sono da poco passate le 22, mentre qui, nella Milano completamente immersa nel vortice del Natale, il pomeriggio è appena cominciato. Alberto si trova esattamente a 12.992 chilometri di distanza dal mio telefono: mi ha chiamata da Karratha, una cittadina di 23mila abitanti nello stato del Western Australia.
Alberto è uno delle migliaia di giovani italiani che ogni anno decidono di lasciare tutto e trasferirsi dall’altra parte del mondo, sfruttando il visto Working holiday che, grazie a una convenzione internazionale, permette di risiedere e lavorare in Australia per un massimo di tre anni.

Un’altra terra, un’altra lingua, un’altra vita. Le ragioni per partire sono tante e sempre diverse, così come quelle che convincono tanti a rientrare in Italia, dopo mesi o anni passati all’estero. In alcuni casi la voglia di andarsene è dettata dall’immobilismo del mercato del lavoro italiano, che dice di voler premiare il merito ma avvantaggia chi ha già tutto. Dall’altro lato, il desiderio di scoperta può nascere proprio da una vita monotona, con un contratto a tempo indeterminato e una routine sempre più stretta che rende le giornate indistinguibili.

TERRA DI EMIGRAZIONE

Nonostante le enormi distanze, l’Australia è da secoli una terra che attira l’emigrazione italiana. Come spiega la studiosa Cinzia Campolo in un articolo pubblicato sulla rivista Italiano LinguaDue, dell’università degli studi di Milano, i primi flussi furono registrati tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento e si intensificarono a partire dal 1928, anche in risposta alle politiche migratorie restrittive imposte in quel periodo dagli Stati Uniti che all’epoca erano una delle principali destinazioni dell’emigrazione italiana.

L’arrivo degli italiani in Australia raggiunse il picco negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, sia per allontanarsi da un’Italia distrutta da anni di guerra e dittatura sia per le politiche particolarmente favorevoli agli immigrati adottate dall’Australia, in cerca di manodopera e minacciata dallo spettro dello spopolamento. I flussi migratori rallentarono, pur senza fermarsi, negli anni settanta, dopo che il “miracolo italiano” aveva creato lavoro e ricchezza.

Secondo i dati dell’ufficio australiano di statistica nel 2021 risiedevano in Australia più di 163mila persone nate in Italia, e più di 640mila residenti australiani avevano almeno un genitore nato in Italia. Più di 226mila persone in Australia parlano italiano, a casa e nella vita quotidiana.

I flussi migratori che portano gli italiani in Australia sono cambiati ancora, e in modo sostanziale, dal 2004, quando è entrato in vigore il visto Working holiday (Wh), letteralmente “vacanza lavorativa”. Si tratta di una convenzione che permette alle persone di 19 paesi, tra cui l’Italia, con un’età fino ai 35 anni di vivere e lavorare in Australia per un massimo di tre anni. Per rinnovarlo è necessario svolgere tre mesi di lavoro (che diventano sei mesi nel caso di secondo rinnovo) in settori specifici come l’agricoltura, l’estrazione mineraria o l’edilizia. Dal gennaio 2020 sono state aggiunte le occupazioni in ambito sanitario, per far fronte alla pandemia di covid-19, mentre nel nord del paese o nei territori considerati “remoti” è concesso anche il lavoro nei settori del turismo e dell’ospitalità, la strada scelta da Alberto Bellini a Karratha.

Tra il giugno 2021 e il giugno 2022, più di cinquemila ragazzi e ragazze italiane hanno presentato domanda per ottenere un visto Working holiday, circa 3.700 erano relativi al primo anno, quindi all’inizio dell’esperienza. Quasi 5.800 domande sono state approvate, più del doppio rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, fortemente influenzato dalla pandemia di covid-19 e dalle conseguenti restrizioni sui viaggi nazionali e internazionali. I dati sono quindi in ripresa, ma i flussi attuali rimangono comunque ben al di sotto dei livelli registrati prima dell’emergenza sanitaria: nel periodo 2017-2018, per esempio, erano state approvate più di diecimila domande.

LA SPINTA CHE NON DIMINUISCE

“In Italia avevo un ottimo lavoro, un contratto a tempo indeterminato con ottime prospettive. Avevo una fidanzata, un’auto, tanti amici”, racconta Bellini, 27 anni, che a Sassuolo si occupava di gestione della produzione industriale. “Dovevo solo aspettare di andare dalle onoranze funebri a prendere la bara: la mia vita era sistemata”.

“Mi sentivo fortunato, ma c’era una fiammella che rimaneva sempre accesa, mi mancava qualcosa che mi facesse sentire vivo. Quando è arrivata la pandemia, stando a casa, ho cominciato a pensare”, osserva, ricordando la voglia di cambiamento ma anche la paura, inevitabile quando si accarezza l’idea di ribaltare la propria vita. “In Bulgaria ho incontrato un ragazzo che mi ha parlato del visto Working holiday. Da lì mi sono messo in testa l’Australia”.

La decisione è stata immediata. Il licenziamento, la rottura di una relazione apparentemente solida, e nel giro di pochi mesi Alberto si è trovato su un aereo per Perth, dove è atterrato il 29 settembre 2022. “Finora non ho mai avuto ripensamenti, anche se è vero che con uno stile di vita più nomade, ho più preoccupazioni”, dice. In futuro, dopo aver terminato il periodo di lavoro nell’ospitalità necessario per rinnovare il visto, Alberto ha intenzione di comprare un van – pratica comune tra i backpacker – per girare l’Australia.

IL MERCATO DEL LAVORO

Almeno dall’altra parte del mondo, trovare lavoro non è un problema, anzi. “Una delle motivazioni principali che spinge le persone ad andare in Australia è la facilità con cui si trova lavoro e con cui lo si cambia”, spiega Federica Corso, 26 anni, di Milano, che da otto mesi vive e lavora a Melbourne, nello stato di Victoria. “In Italia il percorso di studi diventa un fattore vincolante, anche quando con il tempo capiamo che la strada scelta non ci appartiene. In Australia molte persone decidono di cambiare carriera, si reinventano facilmente dal punto di vista personale, senza pregiudizi”, spiega.

Poco dopo il suo arrivo, Corso ha trovato un impiego part-time alla camera di commercio italiana, nel settore marketing e organizzazione eventi, e nel resto del tempo lavora all’assistenza clienti di un residence di lusso. “Ho trovato la mia dimensione a Melbourne, da quando sono arrivata non ce l’ho più fatta ad andarmene. È una città internazionale, e sotto alcuni punti di vista più europea. Ho creato molti rapporti che non sarà facile lasciare”, spiega, pensando al biglietto di ritorno per Milano previsto per fine gennaio.

Oltre alla vivacità dell’offerta lavorativa, anche gli stipendi sono particolarmente invitanti, “in media due o tre volte superiori all’Italia”, secondo Bellini. Per fare un esempio, il giorno di Natale è stato pagato 55 dollari australiani all’ora, circa 35 euro, e in passato lavorando per 46 ore ha guadagnato quasi mille dollari in una settimana. “Il costo della vita è più alto, ma comunque rimane molto più margine da spendere”.

Proprio le opportunità lavorative hanno convinto anche Silvia Sala a mettersi in viaggio verso un altro emisfero. Ventisei anni, una laurea triennale in design del prodotto all’accademia di Brera e una magistrale al Politecnico di Milano, tre stage mal pagati alle spalle e poi finalmente un lavoro, anche questo poco soddisfacente, con stipendio ridotto all’osso e contratto a termine. Il 1 gennaio è partita per Melbourne insieme al fidanzato, che da operaio guadagnava “cinque volte” il suo rimborso spese da stagista. Sala spera di trovare lavoro nel suo settore in un’azienda sulla costa est australiana: “Non sappiamo quanto vorremmo restare: se trovo una buona opportunità, anche a lungo”, ha raccontato pochi giorni prima della partenza.

CULTURE INCOMPATIBILI (O FORSE NO)

Non tutti gli italiani che partono per l’Australia restano per sempre. Tra il giugno 2021 e il giugno 2022, per esempio, sulle quasi 5.800 domande di visto Wh approvate, solo 377 erano relative al secondo anno di permanenza, e 473 al terzo anno. In molti casi, con il tempo le differenze culturali tra due emisferi cominciano a diventare più pesanti da gestire. “Non mi ci vedo qui a vita, mi manca il calore delle persone”, spiega per esempio Bellini. “Da immigrati, poi, entrare nella cerchia degli australiani è difficile, a meno che non si rimanga per anni”.

Dopo circa dieci mesi passati girando la costa est dell’Australia, a febbraio anche Greta Barsotti, 22 anni, tornerà a casa, a Pisa. Era partita ad aprile insieme a un’amica, Francesca, di 25 anni: “Da sole non so se avremmo fatto questa esperienza, sarebbe stata più dura emotivamente. Quando sei in compagnia, ci si sostiene a vicenda”, racconta.

Dopo aver deciso, nel giro di due settimane si sono licenziate, hanno disdetto affitti, venduto auto e comprato il biglietto aereo. Arrivate a Cairns, hanno girato tutta la parte est del paese in van, fino all’ultimo tappa di Melbourne. Nel frattempo, hanno completato i tre mesi di lavoro nell’agricoltura necessari per rinnovare, in seguito, il visto.

“Qui lo stile di vita è entusiasmante, ogni giorno puoi svegliarti in un posto diverso”, racconta Barsotti. Dopo mesi itineranti, però, “mancano un po’ la stabilità e la famiglia”. Una volta rientrata, ha intenzione di studiare per prendere il patentino da agente immobiliare e portare avanti la professione che ha svolto in Italia per tre anni. “Poi, si vedrà”.

Anche secondo Federica Corso, la ragazza milanese trapiantata a Melbourne da quasi un anno, la cultura italiana e quella australiana sono difficilmente compatibili: “Dal punto di vista culturale, mi manca l’Italia. Il paese è giovane rispetto all’Europa e chiuso su se stesso, culturalmente parlando non ho trovato molti stimoli”, racconta.

UNA NUOVA CASA

Non tutti la pensano così. Tra le migliaia di persone che partono ogni anno, una parte non irrilevante sceglie di rimanere, e trasferirsi in Australia a tempo indeterminato. Secondo i dati Istat, tra il 2002 e il 2020 gli italiani che hanno spostato la loro residenza in Australia sono aumentati del 750 per cento, passando da 262 persone all’anno a 2.228. I trasferimenti totali degli ultimi 18 anni sono stati quasi 24.500.

“Sono qui dall’ottobre 2019, poco più di tre anni. Sono arrivata a Sydney come tanti italiani. Inizialmente dovevo restare circa sei mesi, avevo già il biglietto di ritorno. Poi, a causa del covid, sono rimasta”, racconta Elena Caccia, 32 anni, che vorrebbe trasferirsi in Australia a lungo termine. Vivendo nell’outback, le vaste aree scarsamente popolate dell’entroterra, Caccia ha sostanzialmente sfuggito i lockdown e le varie restrizioni imposte in quasi tutto il mondo per ridurre i contagi. In Australia, in realtà, la pandemia ha avuto effetti meno disastrosi rispetto ad altri paesi. Al 26 dicembre, le morti confermate per covid-19 erano 16.940, dieci volte meno rispetto a quelle dell’Italia (183.936), che ha una popolazione più che doppia. In altre parole, in Australia sono morte 647 persone ogni milione di abitanti, in Italia 3.116.

“Viaggiavo e mi fermavo per lavorare solo quando non avevo più soldi in banca. Spendevo mille dollari al mese, facendo campeggio”, racconta Caccia, che è laureata in lingue e in Italia lavorava come assistente di direzione in un’azienda del settore energetico, a Bergamo. Da alcuni mesi ha deciso di fermarsi a Perth, nella parte ovest del paese, e lavora in una miniera di ferro. “Se penso di tornare in Italia mi viene male, soprattutto per quanto riguarda il lavoro. La qualità della vita è diversa: qui al primo posto c’è il vivere, poi viene il lavoro. In Italia, o almeno nella mia zona, valeva il contrario. Il mio orario di lavoro terminava alle 17, ma non finivo mai prima delle 18 o 18.30. Qui non succede mai”, afferma.

Dall’altro lato, il tasto dolente è rappresentato dalla mancanza di stabilità data da una vita nomade, e dalle difficoltà di creare rapporti veri e duraturi. “I rapporti umani sono un punto fragile. Io ho sempre cambiato posto, mi sono spostata, ed è difficile che qualcuno avesse i stessi miei programmi. Ho detto moltissimi addii”.
Nel 2023, altre migliaia di persone lasceranno l’Italia per un viaggio a breve o lungo termine, da soli o in compagnia, per dare sfogo all’insoddisfazione, alla curiosità, alla voglia di cambiamento. Direzione: down under.

*(Laura Loguercio. Giornalista freelance, da Milano mi sono spostata a Auckland, New York e Londra.)
*( FONTE: elaborazione openpolis su dati ufficio per il programma di governo)

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