N°46 – 19/11/2022. RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Pino Ippolito Armino*: Sulle Dolomiti, Leopardi e Gramsci a confronto intorno alla rivoluzione, Elio Germano interpreta Giacomo Leopardi in “Il giovane favoloso”, diretto nel 2014 da Mario Martone
02 – Luciana Cimino*: Piene le piazze studentesche contro il merito e la destra. PROTESTA. In 80 città giovani sfilano medi e universitari: siamo l’avanguardia della lotta
03 – Roberto Maggioni*: In Lombardia il centro sinistra si ravvede e sceglie Majorino. LOMBARDIA. Il parlamentare europeo Pd appoggiato anche da Sinistra italiana, Verdi e più Europa
04 – Jérôme Gautheret*: Come andarono davvero le bonifiche fasciste
05 – Arthur C. Brooks*: Come amare le persone complottiste. In questi tempi di polarizzazione, una delle lamentele che sento spesso da lettori e amici è che le persone a loro vicine sono cadute preda di teorie del complotto
06 – Francesca Luci*:«le strategie del regime: reprimere e svuotare le rivendicazioni politiche» Iran. Intervista a Farhad M, dirigente d’azienda ed ex politico.

 

01 – Pino Ippolito Armino*: SULLE DOLOMITI, LEOPARDI E GRAMSCI A CONFRONTO INTORNO ALLA RIVOLUZIONE, ELIO GERMANO INTERPRETA GIACOMO LEOPARDI IN “IL GIOVANE FAVOLOSO”, DIRETTO NEL 2014 DA MARIO MARTONE.
DISSONANZE E INCROCI. «Dialoghi d’altura» di Piero Bevilacqua, pubblicato da Castelvecchi. Un dialogo immaginario tra il poeta filosofo dell’Ottocento e l’uomo politico novecentesco, morti a un secolo di distanza l’uno dall’altro, ma entrambi perseguitati e rimasti vittime della cieca repressione di regimi reazionari, Leopardi e Gramsci, un dialogo impossibile quello tra il poeta filosofo dell’Ottocento e l’uomo politico novecentesco, morti a un secolo di distanza l’uno dall’altro. Impossibile nella realtà, non nella finzione letteraria come mostra l’ultima suggestiva opera di Piero Bevilacqua (Dialoghi d’altura. Leopardi e Gramsci in una baita di montagna, Castelvecchi, pp. 76, euro 11) dove i due, fra i massimi pensatori italiani di tutti i tempi, si confrontano all’interno di una baita nella spettacolare cornice delle Dolomiti.

Cosa li accumuna? Perché metterli insieme? Entrambi hanno vissuto l’acuta sofferenza della malattia e conosciuto la tubercolosi. Sono morti prematuramente, Leopardi poco prima di compiere 39 anni, Gramsci quando non ne aveva che 46.

ENTRAMBI SONO STATI perseguitati e sono rimasti vittime della cieca repressione di regimi reazionari. Le Operette morali furono censurate dall’autorità pontificia e messe all’indice dallo stato borbonico dove il marchigiano pur si rifugiò negli ultimi anni della sua infelice esistenza mentre il sardo venne arrestato e imprigionato dallo stato fascista in quanto fondatore e segretario del Partito comunista d’Italia. Nondimeno la loro riflessione non potrebbe maggiormente divergere, il senso della storia che da questa promana non più radicalmente contrastare. «È il fondo immodificabile della natura, che dà la forma alla storia, come accade alla superficie del mare che torna piatta, dopo le tempeste» illustra risolutamente Leopardi a Gramsci che appare, probabilmente anche al di là delle stesse intenzioni dell’autore, sulla difensiva e che obietta: «Ma come fai a sottovalutare il peso che possono avere, che di fatto hanno avuto i comandanti nel determinare il benessere o l’infelicità degli individui?».

UN CONTRASTO insuperabile, una dissonanza irrimediabile che Bevilacqua vive con l’intensità di chi porta questo dissidio dentro di sé. Una questione dell’essere che si rifà alle origini del pensiero – già nel VI a.C. Parmenide di Elea ammoniva che, contrariamente a quanto appare, ogni cambiamento è in realtà illusorio mentre Eraclito di Efeso leggeva nell’unità dei contrari la legge dialettica del divenire – e che ha influenzato il dibattito filosofico sino ai nostri giorni con Nietzsche, Heidegger, Severino. Una questione, dunque, ancora moderna e che l’autore riporta all’attualità politica, contrapponendo la forza di chi vuol cambiare il corso delle cose alla rassegnazione di chi ha ceduto alle lusinghe della fine della storia.

Il dialogo impossibile si fa così, per mano dell’autore, via via più attuale e intenso. A Gramsci che oppone: «Ma ammetterai che una nuova guida, non ispirata dagli egoismi, dallo spirito di rapina dei pochi, ma che esprima gli interessi universali del genere umano, possa fare un diverso uso della potenza tecnologica, e anzi indirizzare la creazione di nuove forme di dominio sulla natura a vantaggio generale, per fini di pace. Non è la tecnica in sé a decidere, ma gli interessi materiali dei gruppi dominanti, resi possibili, anzi alimentati dalle disuguaglianze, dalla società divisa in classi» replica, a noi pare con più forza e convinzione, il marchigiano: «Tu credi che la natura si adatti alla storia e muti sotto la sua azione. È convinzione universale, ma è priva di prove e di fondamento. E invece è la storia che si adatta alla natura anche se alla osservazione generale appare il contrario, che sia l’apparecchio della storia ad abbattere e spianare i monumenti della natura».

È, PERTANTO, PROFETICA fede quella che consente a Bevilacqua, pur nella forma di estrema obiezione, di assegnare l’ultima parola al pensatore sardo: «Ma fino a quando durerà tanto dominio e tanta ubbidienza? Non può durare indefinitamente. E poi, caro Giacomo, il tuo quadro desolato non rappresenta tutti. Tu non tieni conto dei gruppi intellettuali rivoluzionari. Sono sempre queste, col loro incitamento e il loro indirizzo, le forze in grado di rovesciare il corso dominante. È accaduto sempre così e accadrà così anche in futuro».
*(Fonte Il Manifesto: Pino Ippolito Armino, ingegnere e giornalista. Dirige la rivista “Sud Contemporaneo” ed è membro del comitato direttivo dell’Istituto “Ugo Arcuri” per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea. Tra le sue pubblicazioni: Azionismo e sindacato.)

 

02 – Luciana Cimino*: PIENE LE PIAZZE STUDENTESCHE CONTRO IL MERITO E LA DESTRA. PROTESTA. IN 80 CITTÀ GIOVANI SFILANO MEDI E UNIVERSITARI: SIAMO L’AVANGUARDIA DELLA LOTTA.
LA PRIMA MOBILITAZIONE STRUTTURATA CONTRO IL GOVERNO MELONI PARTE DAGLI STUDENTI E DAI RICERCATORI. IERI IN 150 MILA HANNO MANIFESTATO IN 80 PIAZZE ITALIANE PER PRESENTARE LA PROPRIA PROPOSTA POLITICA SULLA SCUOLA BASATA SU 5 PILASTRI E, DI FATTO, HANNO COSTRUITO IL PRIMO TENTATIVO DI RETE DI OPPOSIZIONE AL GOVERNO DI DESTRA.

ALLA GIORNATA di mobilitazione indetta da Rete degli Studenti Medi, Unione degli Universitari e Link hanno aderito, tra gli altri, Cgil, Libera, Fiom, Legambiente, Non una di Meno, partendo dal riconoscimento del ruolo centrale dell’istruzione nella riduzione delle disuguaglianze. «Ci sentiamo avanguardia nella lotta in questo momento perché sono anni che scendiamo in piazza per scongiurare lo smantellamento della scuola pubblica. Nessun partito ci ha ascoltato», spiega Bianca Chiesa, coordinatrice Nazionale dell’Unione degli studenti. «Ora l’ideologia camuffata si è esplicitata anche nel nome: è il ministero del merito. Siamo riusciti a creare una rete proprio perché diverse realtà hanno capito che si deve partire dall’istruzione per costruire un ragionamento complessivo sulla società».

LA QUESTIONE DEL DIRITTO allo studio è centrale nei 5 pilastri programmatici ed è legata a doppio filo al precariato, in particolare della ricerca. «È ormai evidente che gli studi universitari siano un privilegio che sempre meno giovani possono permettersi», dice Virginia Mancarella, coordinatrice di Link, «vogliamo investimenti strutturali per il diritto allo studio e per tutto il comparto universitario, forme di reddito studentesco che permettano emancipazione e possibilità di scegliere indipendentemente dalla propria condizione economica di partenza e politiche per l’abitare». E poi c’è la questione dei ricercatori: se la riforma del reclutamento prevista all’interno del Pnrr rimanesse invariata, il 2023 potrebbe cominciare lasciando senza lavoro 5 mila assegnisti su 15 mila. «Il governo ha iniziato in modo arrogante il suo operato. Questa storia del merito è una provocazione che noi ricercatori precari sentiamo forte, è il paradigma per svilire e privatizzare ulteriormente il lavoro», spiega Davide Filippi di ReStrike, coordinamento di ricercatori precari che oggi a Roma si è distaccato dal corteo principale per occupare simbolicamente il ministero dell’Università.

TUTTO SI È SVOLTO pacificamente. Stavolta l’approccio del Viminale è stato diverso e non si segnalano incidenti in nessuna città. Non a Milano, dove il corteo era aperto dallo striscione “Nessun merito a questo governo”, non a Genova, Palermo e Verona, Varese, Vicenza, Cosenza. A Napoli gli studenti e le studentesse hanno ricordato il recentissimo episodio di cronaca con un dipendente dell’ateneo arrestato con l’accusa di violenza sessuale nei confronti di sei ragazze.

A Firenze con gli universitari hanno sfilato i lavoratori della ex Gkn di Campi Bisenzio. «Quando sentiamo parlare di studenti e lavoratori come fossero due entità distinte quasi ci stupiamo – scrivono in un documento- tanto ci appaiono chiare le degenerazioni di questo sistema e tanto ci appare naturale l’unione tra chi lavora per vivere e chi lavora per studiare. La convergenza tra studenti e lavoratori è una necessità».
Mentre a Cagliari in 200 hanno chiesto sicurezza negli edifici dopo il crollo di Sa Duchessa, nel polo umanistico dell’Università.

«Le forze che compongono il Governo sono anti studentesche, Valditara è responsabile della riforma Gelmini che ha contribuito a distruggere scuola e università», ricordano gli studenti. «Vogliamo investimenti sul diritto allo studio, non riflessioni su un merito che non può esistere in una scuola che non dà a tutti gli stessi strumenti e le stesse possibilità».

L’INCONTRO ATTESO con il ministro però non c’è stato. Nonostante Valditara si fosse detto in mattinata disponibile all’ascolto, la delegazione dei manifestanti è stata accolta a viale Trastevere dal vice capo di gabinetto. «È inaccettabile che ci venga proposta una figura tecnica quando noi scendiamo in piazza con una proposta politica chiara e strutturata: legge nazionale sul diritto allo studio, abolizione dei Pcto (alternanza scuola-lavoro), rappresentanza, salute e sicurezza garantite e riforma dello statuto – ha commentato Chiesa – ora il ministro ci deve ascoltare, ora decidiamo noi».
Intanto si decidono i prossimi appuntamenti: «Saremo presenti in tutte le piazze di questi mesi, a partire da quella contro la violenza sulle donne il 25 novembre e a febbraio faremo un’assemblea nazionale aperta alle realtà del sociale e ai territori».
*( Luciana Cimino, giornalista, vive a Roma. Ha lavorato per lunghi anni all’Unità e scritto per diversi giornali. Oggi si occupa di comunicazione e di qualità dell’informazione nella più importante agenzia italiana)

 

03 – Roberto Maggioni*: IN LOMBARDIA IL CENTRO SINISTRA SI RAVVEDE E SCEGLIE MAJORINO. LOMBARDIA. IL PARLAMENTARE EUROPEO PD APPOGGIATO ANCHE DA SINISTRA ITALIANA, VERDI E PIÙ EUROPA
«Credo che la sfida sia oggettivamente fra me e Fontana visto che la corsa è per arrivare primi». Nella sua prima uscita pubblica da candidato del centrosinistra in Lombardia Pierfrancesco Majorino toglie dal radar della competizione la candidata del Terzo Polo Letizia Moratti. Un anticipazione di quello che probabilmente sarà il senso della campagna elettorale dell’eurodeputato del Pd: direttamente contro il presidente uscente Attilio Fontana e la destra che governa questa regione da 25 anni.

NON ERA DIFFICILE CAPIRE che in Lombardia l’alternativa alla destra non poteva essere la destra-centro, ma da Roma Carlo Calenda, Matteo Renzi e alcuni editori e opinionisti hanno provato a complicare la vita al Pd cercando di convincerlo che allearsi con Letizia Moratti sarebbe stata cosa buona, giusta, vincente e pure gradita ai disgraziati elettori lombardi di centro sinistra.
Su una cosa però il Pd lombardo è riuscito a non sbandare troppo, dire no all’alleanza con l’ex sindaca di Milano, ex ministra di Berlusconi ed ex vicepresidente di Fontana: Letizia Moratti.

Su tutto il resto invece nel Pd è stata guerra fratricida, o fra correnti. Con i due Pierfrancesco milanesi, Majorino e Maran, a guardarsi dalle sponde opposte dello stesso fiume. Il primo indicato dai partiti della coalizione di centro sinistra, il secondo autocandidato alle primarie che non c’erano. Alla fine è andata come si era capito da qualche giorno: il candidato alle regionali di febbraio sarà Piefrancesco Majorino scelto con un accordo di coalizione tra Sinistra Italiana, Europa Verde, Civici, Più Europa e con il via libera del segretario nazionale uscente del Pd Enrico Letta.

NIENTE PRIMARIE quindi, cosa che ha fatto infuriare oltre che Pierfrancesco Maran, anche i Dem lombardi che lo avevano sostenuto, come Lia Quartapelle: «Abbiamo perso una battaglia ma l’impresa per un Pd coerente con il proprio nome non si ferma qui». A queste critiche Majorino ha risposto che «avevamo bisogno di lanciare subito la campagna elettorale per battere la destra. Credo che tutti ci troveremo su questo obiettivo».

MARAN NON FARÀ MANCARE il suo sostegno, “sosterrò con impegno il candidato nominato”, ma non risparmia critiche al partito nel quale continuerà la sua battaglia, magari al congresso nazionale. «Quando vietano di giocare la partita, vincere è impossibile» ha scritto su Facebook Maran. «È senza alcun dubbio un errore grave non averle convocate (le primarie, ndr)».

IL SEGRETARIO DEM Enrico Letta ha twittato «forza Majorino!». Appoggio convinto è arrivato anche dal segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni «e vorremmo convintamente anche i 5 Stelle». È la missione impossibile affidata a Majorino.

«Io verso il M5s non ho mai sbattuto porte, non ho mai demonizzato nessuno, ma non sono neanche per inseguirli. Il centrosinistra c’è e ha un patto molto forte», ha detto ieri Majorino. Qualche giorno fa ad allontanare la possibile alleanza era stato Giuseppe Conte: «dialogo solo su un profilo civico». E Majorino è tante cose tranne che un profilo civico. Da sempre in politica, dal 2004 in consiglio comunale a Milano prima con i Ds, poi con il Pd. Scegliendo Majorino il Pd ha fatto una scelta identitaria e spostata a sinistra, anche se probabilmente non così tanto da finire nel «fronte anticapitalista» come twittato da Carlo Calenda.

Majorino è un politico attento ai diritti sociali e civili e da assessore al Welfare del comune di Milano lanciò la manifestazione “Insieme senza muri” a favore dell’accoglienza dei migranti che il 20 maggio 2017 portò in piazza 100 mila persone. Majorino è molto conosciuto a Milano anche fuori dall’elettorato classico di centro sinistra, ma dovrà farsi conoscere nel resto della Lombardia. In dote porta i 93 mila voti con i quali è stato eletto nel 2019 all’Europarlamento nella circoscrizione Italia nord occidentale.

«SEMBRA UNA MISSIONE durissima, invece io sono convinto che nelle prossime settimane si capirà sempre di più che la partita è apertissima» ha detto ancora ieri Majorino. La pensa come lui il sindaco di Firenze Dario Nardella: «Credo che la partita sia aperta, perché le elezioni in Lombardia si basano su un turno secco. Con tre candidati tutto è possibile si può vincere anche con il 35%».
I numeri di partenza guardando alle ultime politiche dicono 50% destra, 27% centro sinistra, 10% Terzo Polo, 7% 5 Stelle. Con quel 10% di partenza del Terzo Polo Letizia Moratti teme di arrivare terza, per questo ha cercato di convincere in tutti i modi il Pd ad allearsi.
I sondaggi dicono che Moratti, come era logico aspettarsi, porterà via più voti a destra che a sinistra. Come arrivare a quella metà di lombardi scontenti della destra? «Con una campagna fondata sulle idee per il futuro della Lombardia, sapendo che chi è stato per 28 anni al governo della regione è bene che si faccia da parte», ha detto Majorino.
*( Roberto Maggioni, Autore presso Radio Popolare)

 

04 – Jérôme Gautheret*: COME ANDARONO DAVVERO LE BONIFICHE FASCISTE. IL RECUPERO DELL’AGRO PONTINO VOLUTO DA BENITO MUSSOLINI FU UN’OPERAZIONE DI PROPAGANDA. SOLO UNA MINIMA PARTE DEL PROGETTO INIZIALE FU COMPLETATA.

Perso in mezzo al nulla, sessanta chilometri a sud di Roma, il posto ha qualcosa d’irreale. Siamo nell’agro pontino – le antiche paludi pontine – che si estende a perdita d’occhio in tutte le direzioni, quando compaiono le prime indicazioni del museo storico Piana delle orme, dedicato alla storia locale della prima metà del novecento, dagli inizi dell’era fascista alla fine della seconda guerra mondiale. A metà strada tra il museo e il parco a tema, il luogo stupisce per le dimensioni: sedici padiglioni di 1.500 metri quadrati e uno spazio all’aperto in cui sono esposti dei vecchi modelli di aerei.

UN’OTTIMA VETRINA
Questa struttura privata, immaginata dall’imprenditore siciliano Mariano De Pasquale (1938-2006), era il progetto di una vita e avrebbe potuto essere il semplice capriccio di un collezionista pazzo. Invece è un tesoro, sia per la ricchezza dei pezzi esposti sia per il modo in cui rappresenta la storia di quest’area, in particolare il capitolo affascinante della bonifica delle paludi, tra il 1928 e il 1932.

Qui cent’anni fa non c’era nulla a parte una terra spoglia e delle paludi insalubri, abbandonate fin dall’antichità a causa della malaria e attraversate dalla via Appia. In questa zona, mille chilometri quadrati tra il mar Tirreno e le montagne, dal sud di Roma fino a Terracina, le condizioni di vita dei pochi lavoratori stagionali erano terribili.

I tentativi di bonifica fatti dai papi e dai piemontesi dopo l’unità d’Italia non erano serviti. Per risolvere il problema, che riguardava anche altre aree, in particolare nella pianura del Po e in Veneto, i progetti e la tecnologia esistevano ma mancavano la forza lavoro e la volontà politica.

Per il regime fascista era il posto perfetto per dimostrare le sue capacità e allo stesso tempo l’incompetenza dei governi liberali che l’avevano preceduto. Le paludi pontine erano quindi un’opportunità per una prova di forza inedita. Quarantenne, dinamico, appassionato di velocità, Mussolini incarnava fisicamente la strada della modernità. Mentre la democrazia parlamentare, sfinita dalle lotte dietro le quinte e dalle promesse non mantenute, sprofondava nel discredito, il fascismo avrebbe dimostrato sul campo la sua efficacia. Le condizioni erano sfavorevoli? L’Italia del duce avrebbe ingaggiato una battaglia contro di loro, fino alla vittoria.

I LOTTI ERANO DEFINITI IN BASE ALLA QUALITÀ DELLA TERRA: PIÙ ERA BUONA PIÙ ERANO PICCOLI

I padiglioni giganti di Piana delle orme si sviluppano su due rette parallele. Da un lato i resti dell’avventura della bonifica dell’agro pontino: fotografie, strumenti, trattori. Dall’altro quelli del conflitto mondiale: armi, equipaggiamenti e carri armati. Il tutto illustrato con manifesti di propaganda bellica. Come dimostrare meglio che la bonifica delle paludi è stata raccontata fin dall’inizio come una guerra? Le paludi pontine furono il teatro della “battaglia del grano”, proclamata nel 1925, che quattro anni dopo sarebbe diventata la “battaglia della terra”. Nel frattempo il governo lanciò altre offensive dello stesso tipo, in particolare la “battaglia della lira” e quella delle nascite.

LA FORZA LAVORO
In questa campagna Mussolini si schierò in prima linea, non esitando a mettersi in mostra. Si fece vedere a torso nudo mentre trebbiava il grano a Sabaudia nel 1935 o l’anno successivo alla guida di un trattore mentre scavava il solco che avrebbe tracciato i confini del comune di Aprilia, ripetendo il gesto leggendario di Romolo che segnò con l’aratro quelli sacri di Roma.

Una cartolina del 1933 sintetizzava bene il significato dell’operazione: sullo sfondo di una mappa stilizzata che definisce degli appezzamenti di terreno una spiga di grano si stagliava come una lancia. Il tutto sottolineato da uno slogan: “La guerra che noi preferiamo”. Gli eroi erano i contadini, chiamati a partecipare allo sforzo collettivo e il cui impegno fu paragonato a quello dei coloni romani dell’antichità. Ovviamente l’unico esito possibile era la vittoria.

Lo sforzo cominciò fin dai primi tempi dell’esperienza di governo fascista. Il 30 settembre 1923 fu promulgata una legge quadro per il risanamento delle paludi. Anche se non conteneva grandi novità, la legge si scontrava con l’opposizione dei proprietari locali, che erano riluttanti a investire e rifiutavano per principio gli espropri, anche se generosamente indennizzati. Ben presto questi proprietari riuscirono a ottenere la sospensione delle misure più ambiziose.

Benito Mussolini traccia il solco di Aprilia. Agro pontino, Lazio, 1936 – De Agostini picture library/GettyBenito Mussolini traccia il solco di Aprilia. Agro pontino, Lazio, 1936 (De Agostini picture library/Getty)
Mancando fondi privati e forza lavoro la bonifica delle paludi si bloccò. Nel 1926 il governo chiese all’Opera nazionale dei combattenti (Onc), un’organizzazione che aiutava i veterani della prima guerra mondiale e che funzionava un po’ come un ufficio di collocamento, di avere come priorità la valorizzazione delle zone paludose. L’Onc aveva molte persone da impiegare e i suoi componenti erano i primi sostenitori del regime fascista. In seguito l’Onc sarebbe diventato il braccio armato dell’intera opera di bonifica, ma in un primo tempo l’operazione tardava a mettersi in moto. Si dovette aspettare la fine del 1928 per il vero inizio della campagna di bonifica e l’adozione di una legge, presto chiamata legge Mussolini, che concedeva un gran numero di sovvenzioni statali per la bonifica.

Daniele Visentin vive ancora vicino all’ex canale Mussolini, oggi chiamato canale delle acque alte, nella frazione di Borgo Podgora, dove suo nonno è arrivato nel 1933 con la moglie e otto figli. All’epoca si trattava di lavorare a mezzadria un podere strappato alle paludi. “L’Onc gli aveva affidato il podere 562, costituito da sedici ettari di terra”, dice Visentin. “I lotti erano definiti in base alla qualità della terra: più era buona più erano piccoli. Quando la terra era nera, molto fertile, gli appezzamenti erano di dieci ettari. Quando invece ci si avvicinava al mare, e la terra diventava più argillosa, alcuni poderi potevano arrivare fino a venti ettari. Per ottenere un podere ci volevano quattro adulti in grado di lavorare”.

I Visentin sono originari della provincia di Treviso, in Veneto. “A casa quando ero piccolo tutti parlavano in dialetto veneto e questa è ancora la lingua che uso con mia sorella. Si dice addirittura che il dialetto che parliamo qui sia più puro di quello parlato in Veneto perché ha subìto meno influenze”, dice Visentin sorridendo. La maggioranza dei coloni dell’agro pontino arrivava dalle regioni più povere del nordest del paese: dai dintorni di Ferrara, in Emilia-Romagna, dal Friuli e dal Veneto. A Borgo Podgora, come altrove, la vita era dura e il controllo delle autorità severo. “Le famiglie dovevano lavorare sul posto”, continua Visentin. “Il fattore, stipendiato dall’Onc, entrava spesso in casa per controllare che nessuno barasse”. Legati alla terra come servi del medioevo, i coloni non avevano altra scelta che obbedire, altrimenti c’era il rischio di perdere tutto.

Deciso a valorizzare la vita in campagna, considerata più pura e sana, Mussolini aveva rifiutato in un primo tempo di costruire delle città nella zona. Poi, però, aveva finito per ammettere che alcuni servizi erano essenziali e che quindi bisognava edificare dei centri urbani. Così nacquero Littoria (l’attuale Latina), Aprilia, Sabaudia e Pomezia, che sarebbero diventate delle perfette vetrine per la propaganda. Queste città dall’architettura caratteristica, che in seguito hanno conosciuto uno sviluppo considerevole (con 120mila abitanti Latina è oggi il secondo centro urbano del Lazio), conservano ancora i segni delle loro origini. E qui il ricordo del periodo fascista è rimasto decisamente positivo. “C’è un attaccamento, è vero, ma penso che questo sia più affettivo che ideologico”, dice Visentin. “Dopotutto è Mussolini che ha offerto una terra ai coloni. E finita la guerra quello che era stato fatto si è dissolto con la Democrazia cristiana”.

A distanza di tempo la bonifica delle paludi è considerata dalla maggior parte degli italiani come uno dei risultati migliori del regime. Tuttavia, il bilancio dell’operazione spinge a riconsiderare quest’idea, al punto di chiedersi se quello che rimane a quasi un secolo di distanza non sia soprattutto il frutto di una magistrale operazione di propaganda.

CHININO E BUGIE
Torniamo alle cifre. Il progetto iniziale prevedeva di bonificare otto milioni di ettari di terra in tutta Italia. Nel 1933 il governo affermava di aver raggiunto i suoi obiettivi, annunciando di aver restituito all’agricoltura quattro milioni di ettari. Non era precisato che metà di questa superficie era stata bonificata solo in parte o che si era ancora allo stadio di progetto. Infine, per quanto riguarda le zone effettivamente bonificate, una buona parte lo era già stata prima del 1922. Lo storico del fascismo Renzo De Felice (1929-1996) ha definito i risultati della campagna contro le paludi “inferiori non solo alle previsioni del piano iniziale, ma anche alle speranze suscitate”.

Per un altro storico italiano, Francesco Filippi, autore di un saggio di cui si è parlato molto (Mussolini ha fatto anche cose buone, Bollati Boringhieri 2019), “più che bonificare e risanare le paludi, ci si preoccupò soprattutto di popolarle” con persone che sarebbero diventate riconoscenti. Per il resto secondo lui la battaglia della terra si rivelò soprattutto una “grande operazione pubblicitaria”, condotta con finanziamenti a fondo perduto, esenzioni fiscali, distribuzione di chinino contro la malaria e vantaggi di ogni sorta.

I combattimenti dopo lo sbarco statunitense ad Anzio, nel gennaio 1944, avrebbero compromesso gli scarsi risultati della battaglia della terra, causando danni dagli effetti catastrofici per l’ambiente: i soldati tedeschi durante la loro ritirata invertirono il flusso di alcune pompe di scarico e aprirono diverse dighe, provocando un nuovo afflusso di acqua salata e il ritorno della malaria. Nel 1945 era tutto da rifare.

In fin dei conti gli abitanti dell’agro pontino devono molto più alla Democrazia cristiana (Dc) e ai finanziamenti statunitensi che a Benito Mussolini. La Dc ha messo fine alla mezzadria negli anni cinquanta e ha consentito agli abitanti del posto di diventare finalmente proprietari. I soldi degli Stati Uniti hanno permesso di completare la bonifica delle paludi. La malaria è stata definitivamente sconfitta nel 1970, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, grazie a un altro regalo statunitense, il ddt. Ma nell’Italia del 2022 nessuno o quasi vuole parlare di queste eredità.

*( Jérôme Gautheret, Le Monde, Francia. Questo articolo è uscito sul numero 1485 di Internazionale, a pagina 41. )

 

05 – Arthur C. Brooks*: COME AMARE LE PERSONE COMPLOTTISTE. IN QUESTI TEMPI DI POLARIZZAZIONE, UNA DELLE LAMENTELE CHE SENTO SPESSO DA LETTORI E AMICI È CHE LE PERSONE A LORO VICINE SONO CADUTE PREDA DI TEORIE DEL COMPLOTTO. SI TRATTA DI UN FENOMENO SORPRENDENTEMENTE DIFFUSO; ALCUNI STUDIOSI STIMANO INFATTI CHE, NEGLI ULTIMI ANNI, LA METÀ DEGLI STATUNITENSI ABBIA ADERITO AD ALMENO UNA DI QUESTE TEORIE.

Forse state rabbrividendo in vista del giorno del Ringraziamento, quando una persona cara vi spiegherà la “verità” sulle elezioni di metà mandato o le “reali” origini del covid-19. Può essere davvero sconvolgente sentire un amico o un familiare dire cose che vi sembrano ovvie, strumentalizzabili sciocchezze: può sembrare quasi che siano entrati in una setta.

Forse in passato avete cercato di rispondere a queste loro convinzioni ricorrendo alle prove e alla ragione. Forse avete perso la pazienza e avete scelto la strada della derisione e dello scherno. Molto probabilmente non avete fatto progressi e avete solo messo a dura prova le vostre relazioni personali. È improbabile che litigare sui fatti concreti possa convincere qualcuno. La verità è che, spesso, la sostanza delle teorie cospirative – ciò che queste effettivamente sostengono – non è il motivo per cui le persone vi si aggrappano con tanto vigore. In certi casi queste convinzioni possono rendere le persone più felici. Ai loro sostenitori possono dare un senso di appartenenza, di controllo e perfino di divertimento. Capire questo aspetto può aiutarvi ad affrontare le loro opinioni in modo più compassionevole e persuasivo.

UN ERRORE DI SOPRAVVIVENZA
Una teoria del complotto è la convinzione che persone potenti abbiano complottato per ottenere una particolare circostanza o evento, e che lo abbiano fatto di nascosto. Chi crede a queste teorie ha spesso quella che la psicologia chiama “mentalità cospirativa”, ovvero una tendenza generale a sospettare che i potenti agiscano con segretezza.

Un grosso errore che commettiamo nel rapportarci alle teorie del complotto è quello di supporre che esse causino solo danni a coloro che le sostengono. In realtà la tendenza a sostenere queste convinzioni potrebbe essere radicata in noi stessi, perché esse potrebbero essere state utili, in determinate circostanze, alla nostra sopravvivenza. Alcuni studiosi hanno teorizzato, per esempio, che complotti realmente organizzati da forze ostili in passato – prima dell’affermarsi d’istituzioni moderne come i diritti civili e la protezione della polizia – potevano essere a tal punto mortali che per salvarsi era meglio aderire a un’idea paranoica, che poteva benissimo essere falsa.

QUESTE OPINIONI IMPOPOLARI POSSONO CREARE UN SENSO DI COMUNITÀ TRA LE PERSONE CHE LE SOSTENGONO
Le convinzioni complottistiche possono anche apportare benefici tangibili al benessere delle persone. Possono, per esempio, fornire la sensazione di avere il controllo della situazione in un mondo caotico. Le ricerche hanno dimostrato che le persone che sentono di avere poco controllo sulla propria vita sono più propense a nutrire superstizioni (come essere convinte che il numero 13 porti sfortuna), a vedere correlazioni inesistenti (per esempio nel mercato azionario) e a credere nelle cospirazioni. Allo stesso modo le persone che hanno bisogno di sentirsi uniche e speciali possono aderire a credenze insolite, come i complotti, sostenute da una minoranza di persone.

Queste convinzioni possono anche fornire un senso di comunità, come ha scritto Kelly Weill all’inizio di quest’anno su The Atlantic, in un articolo su chi crede che la Terra sia piatta. Anche se le teorie del complotto possono creare divisioni tra coloro che vi credono e i loro amici e familiari che non vi credono, allo stesso tempo queste opinioni impopolari possono creare un senso di comunità tra le persone che le sostengono, un po’ come accade per i gusti impopolari o le conoscenze esoteriche. Per più di un secolo alcuni scienziati sociali hanno definito questo fenomeno “sociologia delle società segrete” (a pensarci bene, con il nostro linguaggio specialistico e i nostri strumenti tecnici, anche noi che ci occupiamo di scienze sociali potremmo essere considerati un esempio di una società del genere. Anche se non di tipo cospirativo, si spera).

ATTUALITÀ E INTRATTENIMENTO
Inoltre le teorie del complotto possono essere – ebbene sì – divertenti. Pensate a tutti i film che vi sono piaciuti in cui l’eroe deve andare a fondo di un qualcosa che personaggi potenti e malvagi stanno facendo in segreto. Le persone trovano le cospirazioni divertenti anche nella vita reale. In un articolo pubblicato quest’anno sul British Journal of Psychology, i ricercatori hanno descritto esperimenti in cui alle persone sono state offerte posizioni complottistiche e non complottistiche per spiegare grandi eventi, come l’incendio di Notre-Dame. Le prime sono state giudicate più divertenti e hanno suscitato emozioni più forti delle seconde. Le teorie del complotto sono un punto di incontro tra attualità e intrattenimento; è facile capire perché siano un ottimo affare per la televisione e i social network.

Comprendere i vantaggi che le credenze cospirative offrono ai loro aderenti non significa ignorare o minimizzare il pericolo che talvolta queste possono comportare in termini di radicalizzazione, pregiudizio o perfino violenza. Se qualcuno che conoscete e amate aderisce a teorie cospirative, è ragionevole preoccuparsi di queste minacce. O forse appare semplicemente mortificante vedere qualcuno che amate cadere preda di idee che vi sembrano non solo errate ma assurde. Ma comprendere perché certe persone maturino queste convinzioni può rendere più empatici e quindi più efficaci nel trattare con esse.

Tenendo conto dei vantaggi apportati dalle teorie del complotto, ecco un piano in due fasi – prima i comportamenti ai quali resistere, e poi le cose da fare al loro posto – per aiutare una persona a cambiare rotta (o perlomeno contribuire a un cambio d’argomento e alla protezione della vostra relazione personale).

1. RESISTETE ALL’IMPULSO DI CONFUTARE LA TEORIA IN QUESTIONE (****DEBUNKING)
Ricordo di aver discusso anni fa, con un collega, su quella che consideravo una cospirazione palesemente assurda, mentre eravamo al lavoro. La sensazione era che tutti i miei tentativi di dimostrare che la sua teoria fosse ridicola non facessero che rafforzare la sua convinzione. Alla fine mi disse: “Più dici che ho torto, più credo di avere ragione”. Ho pensato che avesse solo una mentalità chiusa, ma poi mi sono imbattuto negli studi dello psicologo Rob Brotherton, autore di Menti sospettose. Perché siamo tutti complottisti. Brotherton scrive del cosiddetto effetto boomerang, per cui una persona che crede a idee cospiratorie le sostiene con più forza se messa di fronte a spiegazioni alternative o a prove che le confutano. Il debunking, lo sfatare miti, è spesso un’impresa destinata a fallire.

2. CONCENTRATEVI SU CIÒ CHE AVETE IN COMUNE
Forse ricorderete la sensazione provata nell’essere andati a vivere per la prima volta lontani da casa, sentendovi soli e insicuri. Immaginate che in questo stato di vulnerabilità abbiate incontrato un gruppo di persone che vi abbia fatto sentire meglio e meno soli. Avevano punti di vista molto diversi da quelli della vostra famiglia e dei vostri vecchi amici, una differenza che avete compreso chiaramente quando siete tornati a casa. Se la vostra famiglia avesse attaccato il vostro nuovo modo di pensare, avrebbe in effetti attaccato l’unica cosa che vi aveva reso la vita tollerabile durante un periodo di solitudine. Il ritorno a casa sarebbe stato molto più dolce se vi avessero semplicemente dato il benvenuto, e si fossero concentrati sulle cose che avevate ancora in comune. O no?

Fate lo stesso con i vostri cari che hanno convinzioni strane o sbagliate. Parlate dei vostri amori comuni e dei ricordi più cari, non delle cose su cui non siete d’accordo. Fate insieme le cose che vi piacevano e tornate alle vecchie e insulse battute che solo voi capite. Come minimo, questo renderà più facile il momento che passerete insieme, e potrebbe aprire, per la persona amata, uno spiraglio per un ritorno alla realtà, se e quando sarà pronta.

Un ultimo punto che vale la pena di considerare è quello dei costi e dei benefici, per voi, nel concentrarvi sulle credenze cospirative di una persona cara. Una cosa che mi stupisce degli esseri umani è la nostra capacità di rovinare le cose che amiamo concentrandoci esclusivamente su ciò che odiamo. Da una prospettiva evolutiva posso capirlo: la sopravvivenza spesso richiede di prestare attenzione all’unico puntino di minaccia esistente in un ampio spazio di benessere. Lo capisco anche da una prospettiva pratica: è terribile vedere qualcuno che si ama diventare preda di un qualcosa che si considera folle o addirittura pericoloso.

Ma questa tendenza è tristemente destinata a rovinare le nostre cene del giorno del Ringraziamento, se ci ostiniamo a indagare sulle strane opinioni della zia Marge sul fluoruro, invece di concentrarci sull’affetto e sulla bellezza dello stare insieme in famiglia. Talvolta il problema delle teorie cospirative non è che siano gli altri a sostenerle, ma che siamo noi a concentrarci solo su di esse, rendendo le cose inutilmente spiacevoli. A pensarci bene, potremmo concludere che avere ragione sia meno importante che goderci un po’ di amore nella nostra vita.

*(Arthur C. Brooks, The Atlantic, Stati Uniti – Traduzione di Federico Ferrone – Questo articolo è uscito sul mensile statunitense The Atlantic.)

 

06 – Francesca Luci*:«LE STRATEGIE DEL REGIME: REPRIMERE E SVUOTARE LE RIVENDICAZIONI POLITICHE» IRAN. INTERVISTA A FARHAD M, DIRIGENTE D’AZIENDA ED EX POLITICO: «ALCUNI POLITICI CERCANO DI FARE PRESSIONE SUL GOVERNO PER OTTENERE ALCUNE CONCESSIONI, TOGLIENDO ALLA RIVOLTA IL CONTENUTO POLITICO ED ENFATIZZANDO QUELLO ECONOMICO E SOCIALE. MA TEHERAN NON HA GARANZIA DI VINCERE: L’AUMENTO DELLE VITTIME PUÒ SVEGLIARE LA COSCIENZA DEI RELIGIOSI MODERATI, DEI CETI SOCIALI NON COINVOLTI CON IL REGIME E DELLE FORZE DI SICUREZZA»
Sono passati due mesi dal 16 settembre, quando le proteste sono divampate in Iran in seguito alla morte della giovane iraniana Mahsa Amini, mentre era in custodia della polizia morale, fermata per aver infranto le rigide regole sull’indossare il copricapo islamico per le donne.

Durante le manifestazioni sono state uccise almeno 342 persone, di cui 42 bambini e 26 donne, secondo Iran Human Rights. Migliaia di feriti e almeno 14mila persone arrestate. Malgrado la repressione degli apparati di sicurezza iraniani, le proteste continuano in molte città.

Dottor Farhad M., lei dirige un’azienda importante e ha avuto anche responsabilità politiche in passato. Ci può aiutare a capire perché l’establishment ignora le rivendicazioni dei manifestanti?

Un passo indietro da parte del governo costituirebbe una sconfitta politica che minerebbe l’esistenza della stessa Repubblica islamica. Il governo non riconosce l’autenticità popolare delle proteste e attribuisce tutto all’opera dei suoi nemici all’estero. Alcuni personaggi politici, nei ranghi inferiori, cercano di fare pressione sul governo per ottenere alcune concessioni e abbassare la tensione. Tentano di svuotare le rivendicazioni del loro contenuto politico ed enfatizzano la parte economica e sociale: carovita, inflazione ecc. Ma il governo non ha né la possibilità né la capacità di attuare riforme immediate. Basta guardare all’andamento del cambio di valuta estera. La nostra moneta ha perso circa l’8% del suo valore rispetto al dollaro in una settimana. Questi sbalzi sconvolgono il mercato, da giorni sono spariti medicinali dagli scaffali delle farmacie.

Qual è la linea che il governo intende seguire?

All’inizio il regime ha applicato una repressione «moderata» sperando in un esaurimento delle proteste, ma sono continuate. Poi ha colpito chiunque possa avere una certa influenza «negativa» sul pubblico: giornalisti, insegnanti, medici, artisti, sportivi. Nel frattempo utilizza la sua potente macchina di propaganda contro il movimento. I religiosi presenti capillarmente sul territorio nazionale hanno intonato sermoni contro i rivoltosi. Sono state organizzate manifestazioni pro-governative e i tribunali hanno cominciato a processare gli arrestati. Il parlamento ha chiesto la pena di morte per i rivoltosi.

Se tutto ciò non riesce a sedare le manifestazioni, la repressione potrebbe aumentare e colpire la piazza duramente. Ali Jahormi, portavoce del governo, ha detto a una platea di studenti che le forze di sicurezza potevano usare i proiettili già dal primo giorno delle manifestazioni ma non lo hanno fatto. In realtà sta dicendo: se non smettete rischiate i proiettili mortali. I comandanti militari annunciano che possono schiacciare il movimento come le mosche. Questa è la via che il potere sembra aver scelto ma non c’è nessuna garanzia di mettere un punto finale anche se la piazza verrà repressa duramente. L’aumento delle vittime può svegliare la coscienza dei religiosi moderati, dei ceti sociali non pienamente coinvolti con il regime e delle forze di sicurezza. Cosa farà un poliziotto se si troverà a reprimere la protesta del suo stesso figlio in piazza?

Abdul Hamid, imam di Zahedan, ha chiesto un referendum. Può essere una soluzione?

Hamid chiede un referendum con osservatori internazionali! Indipendentemente dal fatto che la proposta viene dal clero sunnita e che agli occhi di intransigenti sciiti è un affronto, l’accettazione della proposta per l’establishment equivale a una resa. Poi chi potrebbe garantire la correttezza dello svolgimento del referendum e chi assicura l’accettazione del risultato?

I riformisti, molto attivi negli anni passati, possono svolgere un ruolo di mediazione?

La gente ha posto la sua speranza di cambiamento sui riformisti nel passato. Pensate alla elezione di Khatami e Rouhani. Ma cosa è successo? Che cosa hanno cambiato? La libertà di stampa o la limitazione della polizia morale propagandata è stata velocemente spazzata via. Le proteste di tre anni fa durante il governo Rouhani sono state represse con centinaia di morti. L’opposizione riformista viene vista come semplice complice del potere. La piazza chiede cambiamenti sostanziali. I riformisti non possono esserne gli artefici.

Se la maggioranza del paese è scontento, allora chi difende il sistema?

Per prima cosa, la maggioranza non è una massa monolitica che agisce insieme, infatti non si è riversata uniformemente in piazza. Ognuno ha le sue paure, timori, speranze, e agisce in forma diversa. C’è bisogno di tempo per arrivare a un punto convergente nell’azione. Poi c’è chi difende lo Stato, ovviamente coloro che detengono le chiavi del potere e una larga platea sottostante sommata a chi crede nel sistema come unica porta del paradiso.

Ci sono, però, pensatori, accademici, religiosi, persone assolutamente per bene, che malgrado non condividano le brutali azioni del sistema non vedono il suo rovesciamento come una soluzione. Hanno paura dell’intrusione degli stranieri. Non hanno nessuna fiducia nel mondo occidentale e non ne riconoscono il vigore morale con i suoi palesi «due pesi e due misure». Hanno dubbi quando la Germania difende i diritti umani in Iran o quando il presidente francese riceve ufficialmente una figura dell’opposizione iraniana all’estero. È palese che ci sono sotto altre questioni, accordo sul nucleare, rifornimento delle armi alla Russia e così via. Hanno paura della disgregazione del paese, il piano che sauditi e israeliani portano avanti. Può sembrare retorica noiosa ma Iraq e Afghanistan sono due esempi da non ignorare. Credono che un eventuale vuoto di potere aprirà ondate di dollari che possono portare il paese ovunque. Non vogliono avere un regime fantoccio comandato da Washington, Pechino o Mosca.

Qual è secondo lei la soluzione?

Una serie di riforme strutturali: dimissione del governo e del parlamento; elezioni libere senza censura della commissione dei Guardiani che in passato ha escluso molti candidati; rilascio di prigionieri politici; una serie di riforme legislative inclusa la libertà per la costituzione dei partiti e il non obbligo del velo. Dubito che il potere accetti tale soluzione anche se è sicuramente un’opzione su cui si sta discutendo. Ogni giorno che passa aumentano le vittime e diventa poco probabile che anche la piazza accetti tale soluzione. Inoltre la carenza di fiducia tra popolazione e potere, sommata alla mancanza di figure rappresentative e credibili, rende questa soluzione di difficile attuazione.
*(Fonte Il Manifesto. Francesca Luci, giornalista)

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