18 luglio 2020 NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ ESTERO ED ALTRE COMUNICAZIONI

01 – Schirò (Pd): le borse di studio estere sono di norma tassabili in Italia (se il contribuente risiede fiscalmente in Italia).
02 – La Marca (Pd): il rientro delle eccellenze al centro del mio intervento durante l’audizione sulla bicamerale.
03 – La Marca (Pd): per chi arriva dal Canada sostituire la quarantena con altre modalità di controllo.
04 – NAZIONALISMO – La storia dimostra che il nazionalismo porta solo ad aggravare le disuguaglianze e a peggiorare le tensioni sul clima, e che la fede cieca nel libero scambio non ha futuro
05 – Alfiero Grandi. Ue, la presidenza tedesca, il ruolo propulsivo di Merkel per la solidarietà e il futuro dell’Europa . Il 17/18 luglio ci sarà un vertice europeo con molte attese, ma non è affatto certo che si raggiungerà l’intesa sul Recovery Fund e sugli altri provvedimenti. La trattativa continua e le resistenze sono forti.
06 – UNA RIVOLUZIONE DISPOTICA. Il lavoro a distanza rischia di favorire un mondo in cui le persone hanno meno diritti e sono più sorvegliate.
07 – L’allarme dell’Italia ignorato mentre il virus si diffondeva in Europa.
08 – Stati Uniti – I negazionisti usano la pandemia per costruire un mondo più disuguale , di Francesca Coin, sociologa.

 

01 – SCHIRÒ (PD): LE BORSE DI STUDIO ESTERE SONO DI NORMA TASSABILI IN ITALIA (SE IL CONTRIBUENTE RISIEDE FISCALMENTE IN ITALIA) 4 LUGLIO 2020
DIRITTI – Le borse di studio erogate all’estero devono essere dichiarate e sono oggetto di tassazione in Italia se i percettori sono fiscalmente residenti in Italia. Lo ha chiarito l’Agenzia delle Entrate rispondendo a due interpelli (risposte n. 171 e n. 173) presentati da altrettanti contribuenti i quali avevano percepito due borse di studio in Svizzera e negli USA (in questa nota sintetizzo per ragioni di spazio ma ovviamente chi è interessato può leggere le risposte sul sito dell’Agenzia delle Entrate).
NEL PRIMO CASO una contribuente nel mese di ottobre 2019 aveva trasferito la residenza dalla Svizzera in Italia per svolgere qui attività di ricerca grazie ad una borsa di studio svizzera, assegnata dal Fondo nazionale svizzero, dalla durata di 18 mesi.
NEL SECONDO CASO il contribuente è una persona fisica già fiscalmente residente in Italia vincitore di una borsa di studio presso una Università degli Stati Uniti d’America della durata di due anni. Questa borsa di studio è stata finanziata da un’organizzazione intergovernativa che si occupa di potenziare la cooperazione e la mobilità internazionale dei ricercatori che operano nel campo della biologia molecolare. Il contribuente non è comunque legato da alcun rapporto di lavoro con il soggetto che eroga la borsa di studio.
L’Agenzia delle Entrate, nelle sue risposte, ha dapprima ricordato che, in generale, le borse di studio percepite da soggetti fiscalmente residenti in Italia sono imponibili.

 

L’AGENZIA DELLE ENTRATE HA RICHIAMATO IL FATTO CHE È IMPORTANTE TENERE PRESENTE CHE NELL’ORDINAMENTO ITALIANO VIGE IL PRINCIPIO GENERALE DI TASSAZIONE DEI RESIDENTI PER TUTTI I REDDITI POSSEDUTI, OVUNQUE PRODOTTI. SI TRATTA DEL COSIDDETTO “WORLDWIDE PRINCIPLE”.

MA QUALE SPECIFICO REGIME FISCALE È PREVISTO PER LE BORSE DI STUDIO?
Ai fini delle imposte sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), le borse di studio percepite da soggetti fiscalmente residenti in Italia sono imponibili in base all’articolo 50, comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), secondo cui, sono assimilate ai redditi di lavoro dipendente, “le somme da chiunque corrisposte a titolo di borsa di studio o di assegno, premio o sussidio per fini di studio o di addestramento professionale, se il beneficiario non è legato da rapporti di lavoro dipendente nei confronti del soggetto erogante”.

Tuttavia ci sono alcune eccezioni: ad esempio a fare eccezione sono alcune ipotesi specifiche, espressamente previste da norme di legge, in cui le borse di studio sono riconosciute come esenti dall’Irpef. Si tratta, ad esempio, delle borse di studio corrisposte da Università ed Istituti di istruzione universitaria per la frequenza dei corsi di perfezionamento e delle scuole di specializzazione e per i corsi di dottorato di ricerca e per attività di ricerca post-dottorato e per i corsi di perfezionamento all’estero.
Tra le ipotesi di esenzione dall’Irpef vi sono anche le borse di studio erogate nell’ambito del programma “Erasmus Plus”, per la mobilità internazionale, in favore degli studenti delle Università e delle istituzioni di alta formazione artistica, musicale e coreutica.
In generale però, come appunto confermato dall’Agenzia delle Entrate nelle risposte agli interpelli, le borse di studio sono da considerarsi reddito assimilato al reddito di lavoro dipendente e sono soggette regolarmente a tassazione. Il reddito dovrà quindi essere dichiarato, ai fini dell’imposizione, in Italia.
Angela Schirò – Deputata PD – Rip. Europa – – Camera dei Deputati

 

02 – LA MARCA (PD): IL RIENTRO DELLE ECCELLENZE AL CENTRO DEL MIO INTERVENTO DURANTE L’AUDIZIONE SULLA BICAMERALE. In Commissione Esteri sono intervenuta nel corso dell’audizione di Franco Frattini, già Ministro degli Affari Esteri, svoltasi nel quadro della consultazione che la stessa Commissione sta sviluppando sull’istituzione di una Commissione parlamentare per le questioni degli italiani all’estero. 4 LUGLIO 2020
Il Ministro Frattini, nel suo intervento, ha sottolineato tra le diverse esigenze, quella di avere una Commissione bicamerale non eccessivamente pletorica per assicurare una sua maggiore incisività e quella di sviluppare un impegno per la proiezione dell’Italia nel mondo sempre più legato all’interrelazione tra i diversi soggetti che agiscono sul piano culturale e scientifico, della promozione commerciale e dell’offerta dei servizi ai connazionali e alle imprese.
In questo contesto, Frattini si è soffermato sia sul ruolo delle eccellenze italiane nelle realtà locali che sul contributo dato dalla presenza più diffusa dei nostri connazionali, soprattutto alla luce delle nuove mobilità.
Ho ritenuto di raccogliere queste sollecitazioni per sottolineare come la comunità italiana in Canada sia effettivamente molto integrata in termini professionali e interculturali e come quella negli Stati Uniti sia notoriamente molto ricca di figure di punta e di eccellenze che potrebbero dare un notevole contributo di collaborazione e di specializzazione alla ripresa dell’Italia, soprattutto del Mezzogiorno. Per questo, ho richiamato le misure di incentivazione che l’attuale governo sta sviluppando per il rientro delle eccellenze e ho chiesto all’esperto interlocutore quali, secondo lui, possano essere le modalità per fare avanzare questi processi.
Dopo l’intervento dell’on. Fassino che ha ricordato che la composizione della commissione deve comunque assicurare la rappresentatività di tutte le forze parlamentari e anche una maggiore risonanza della situazione degli italiani all’estero nell’opinione pubblica, Franco Frattini, in risposta alle mie sollecitazioni, ha sottolineato come lo strumento del partenariato congiunto tra le università italiane e straniere possa favorire, anche per tempi delimitati, il ritorno di qualificate competenze e di esperienze che possono essere un fattore molto utile di ripresa e di rinnovamento del sistema Italia.
On./Hon. Francesca La Marca, Ph.D.

 

03 – LA MARCA (PD): PER CHI ARRIVA DAL CANADA SOSTITUIRE LA QUARANTENA CON ALTRE MODALITÀ DI CONTROLLO.
“Le disposizioni adottate sul piano della mobilità internazionale per prevenire e frenare i rischi di contagio hanno determinato situazioni di grave disagio per i nostri connazionali residenti all’estero, che perdurano nonostante la positiva evoluzione della pandemia e l’attenuazione delle iniziali regole di distanziamento sociale. 15 luglio 2020

Mentre in Italia le relazioni affettive e familiari sono state ricondotte ad una progressiva e cauta normalità, la stessa cosa, purtroppo, non è avvenuta per gli italiani che vivono all’estero, che non sono meno cittadini italiani degli altri.

In più, in queste ultime settimane si sta giustamente insistendo sull’esigenza di riattivare le attività turistiche per il peso che esse hanno sull’economia nazionale, una cui quota consistente è rappresentata dal “turismo di ritorno”, animato dai connazionali all’estero e dagli italodiscendenti.

Passi in avanti, sul piano della mobilità internazionale, sono stati fatti con l’adozione della “lista verde” dei Paesi dai quali si può arrivare, sottoponendosi all’arrivo a quarantena, una lista che include il Canada, ma esclude realtà per noi molto importanti come gli Stati Uniti.
Poiché l’evoluzione della situazione sanitaria in Canada non si discosta molto da quella che si registra in Italia e, tuttavia, l’obbligo di quarantena spesso vanifica il tempo utilizzabile dai connazionali per le visite in famiglia o per brevi vacanze, ho chiesto ai Ministri della salute Speranza e degli esteri Di Maio di adoperarsi per prevedere forme di verifica e di prevenzione sanitaria meno rigide della quarantena. Magari prevendo una attestazione di non positività all’atto dell’arrivo e un controllo allo sbarco tramite tampone o esame sierologico o altra modalità suggerita dagli esperti.
La salute è un bene primario che va salvaguardato con la responsabilità e il contributo di tutti, ma essa ha tanto più valore quanto più se si lega alla possibilità di coltivare le relazioni affettive e familiari e soddisfare gli interessi di propria pertinenza. Mi auguro che si possa compiere un altro passo avanti in questo senso e che la normalità non resti un orizzonte ancora lontano per gli italiani iscritti all’AIRE”.
On./Hon. Francesca La Marca, Ph.D. Circoscrizione Estero, Ripartizione Nord e Centro America – Electoral College of North and Central America

 

04 – NAZIONALISMO LA STORIA DIMOSTRA CHE IL NAZIONALISMO PORTA SOLO AD AGGRAVARE LE DISUGUAGLIANZE E A PEGGIORARE LE TENSIONI SUL CLIMA, E CHE LA FEDE CIECA NEL LIBERO SCAMBIO NON HA FUTURO.

di THOMAS PIKETTY

Possiamo dare un significato positivo all’internazionalismo? Sì, ma a condizione di voltare le spalle alla fede cieca nel libero scambio che finora ha guidato la globalizzazione per adottare un nuovo modello di sviluppo, basato sulla giustizia economica e climatica. Questo modello dovrà essere internazionalista negli obiettivi finali, ma sovranista nelle sue applicazioni pratiche: ogni paese, ogni comunità politica, dovrebbe poter stabilire le condizioni di scambio con il resto del mondo senza attendere l’accordo unanime dei suoi partner. Il compito non sarà semplice, e questo sovranismo universalista non sarà facile da distinguere dal sovranismo nazionalista. Per questo è importante chiarire le differenze. Supponiamo che un paese, o una maggioranza politica, pensi che sia giusto introdurre un’imposta progressiva sui redditi e i patrimoni più alti per ridistribuire la ricchezza a favore dei più poveri, e allo stesso tempo voglia finanziare un programma d’investimenti in campo sociale, scolastico e climatico. Mettiamo che, per raggiungere gli obiettivi, il governo voglia introdurre una ritenuta alla fonte sugli utili societari e un sistema di catasto finanziario che permetta d’identificare i titolari di azioni e dividendi e quindi di applicare le aliquote stabilite a livello individuale. Il tutto sarebbe integrato da un lato da una carta individuale sulle emissioni di CO2 per incoraggiare i comportamenti più responsabili, dall’altro da una tassazione che penalizzi le emissioni più alte e i beneficiari dei profitti delle aziende più inquinanti; anche in questo caso, sarebbe necessario conoscere l’identità dei titolari.

Purtroppo, questo tipo di catasto finanziario non è previsto dai trattati sulla libera circolazione dei capitali degli anni ottanta e novanta, in particolare dall’Atto unico del 1986 e dal trattato europeo di Maastricht del 1992, testi che hanno influenzato quelli adottati nel resto del mondo. Questa architettura giuridica, in vigore ancora oggi, ha stabilito il diritto di arricchirsi usando l’infrastruttura di un paese e poi di fare clic su un tasto e trasferire i propri beni in un’altra giurisdizione, senza che siano rintracciabili. È vero: dopo la crisi del 2008, quando gli eccessi della deregolamentazione finanziaria sono diventati evidenti, l’Ocse ha introdotto gli accordi sullo scambio automatico delle informazioni bancarie. Ma queste misure, che sono su base puramente volontaria, non prevedono sanzioni per chi non le rispetta.

Supponiamo che un paese voglia accelerare il passo e decida d’introdurre una tassazione ridistributiva e un catasto finanziario. Mettiamo che uno dei paesi vicini non condivida questo sistema e applichi un’aliquota bassa sui redditi e sulle emissioni di CO2 delle aziende con sede nel suo territorio, rifiutando allo stesso tempo di trasmettere informazioni sui loro proprietari. In queste condizioni il primo paese dovrebbe imporre al secondo delle sanzioni commerciali a seconda dei danni fiscali e climatici causati.

Studi recenti hanno dimostrato che queste sanzioni produrrebbero un gettito considerevole e incoraggerebbero altri paesi a cooperare. Naturalmente queste sanzioni si applicherebbero solo in caso di concorrenza sleale e di mancato rispetto degli accordi sul clima. Ma questi ultimi sono vaghi, mentre i trattati sulla libera circolazione delle merci e dei capitali sono così restrittivi (soprattutto a livello europeo) che un paese che intraprendesse questa strada avrebbe buone probabilità di essere condannato dagli organismi internazionali. In quel caso l’unica soluzione sarebbe uscire unilateralmente da quei trattati, proponendone di nuovi.

Qual è la differenza tra il sovranismo sociale ed ecologico e il sovranismo nazionalista (trumpiano, cinese, indiano) basato sulla difesa dell’identità nazionale e di interessi considerati omogenei al suo interno?
Ce ne sono due. Innanzitutto, prima di adottare possibili misure unilaterali, è fondamentale proporre ad altri paesi un modello di sviluppo cooperativo, basato su valori universali: giustizia sociale, uguaglianza, ecologia. Secondo, è necessario definire quali sarebbero le assemblee transnazionali (come l’Assemblea parlamentare franco-tedesca istituita nel 2019) che dovrebbero essere responsabili dei beni pubblici globali e delle politiche comuni. Anche se queste misure social-federaliste non dovessero essere prese in considerazione subito, l’approccio unilaterale dovrà comunque essere sempre considerato un incentivo e in ogni caso reversibile. Lo scopo delle sanzioni è incoraggiare altri paesi a uscire dalla concorrenza sleale e climatica, non istituire un protezionismo permanente.
Questo percorso non è affatto facile ed è tutto da inventare. La storia, tuttavia, dimostra che il nazionalismo porta solo ad aggravare le disuguaglianze e a peggiorare le tensioni sul clima, e che la fede cieca nel libero scambio non ha futuro. Una ragione in più per riflettere su un nuovo internazionalismo.

(THOMAS PIKETTY è un economista francese. È professore all ’Ecole des hautes études en sciences sociales e all’École d’économie de Paris. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Capitale e ideologia (La nave di Teseo 2020). Questo articolo è uscito sul quotidiano francese Le Monde.

 

05 – ALFIERO GRANDI. UE, LA PRESIDENZA TEDESCA, IL RUOLO PROPULSIVO DI MERKEL PER LA SOLIDARETÀ E IL FUTURO DELL’EUROPA. IL 17/18 LUGLIO CI SARÀ UN VERTICE EUROPEO CON MOLTE ATTESE, MA NON È AFFATTO CERTO CHE SI RAGGIUNGERÀ L’INTESA SUL RECOVERY FUND E SUGLI ALTRI PROVVEDIMENTI. LA TRATTATIVA CONTINUA E LE RESISTENZE SONO FORTI.

Presi da una discussione concentrata nell’ambito nazionale sull’utilizzo o il non utilizzo dei fondi del Mes, facendoli diventare l’alfa e l’omega di tutto, si è finito per perdere di vista il problema di fondo e cioè il futuro dell’Europa e in questo quadro quello dell’Italia. Ad esempio perdendo di vista il ruolo che può svolgere il semestre europeo a Presidenza tedesca e perfino le domande da porre al governo tedesco. Oppure affrontando con impaccio non pochi ritardi e confusione un altro argomento di fondo e cioè cosa deve fare l’Italia. Perché è evidente che l’Italia deve fare scelte importanti, deve cambiare e in particolare diminuire drasticamente le disuguaglianze interne.
La Presidenza di turno tedesca è iniziata il primo luglio. La cancelliera Merkel si è presentata al parlamento europeo con un discorso programmatico sul significato che la Germania cercherà di dare a questa importante novità. La Presidenza di turno ha il compito di coordinare il lavoro dei governi europei ed è molto importante che in questa fase sia proprio la Germania ad assumersi la responsabilità del semestre appena iniziato perché ci sono decisioni importanti da prendere. Nei prossimi sei mesi si dovrà decidere se il regno Unito, dopo il divorzio con l’Unione Europea, lascerà con un accordo o senza di esso, con il conseguente caos normativo e relative ripicche.

Nei prossimi sei mesi si deciderà il futuro dell’Europa perché siamo ad un bivio: o l’Europa riesce a trovare politiche e condizioni per affrontare le conseguenze della crisi da Covid-19, in particolare dei paesi più colpiti, e il contraccolpo che ne è seguito su occupazione ed economia (la crisi più grave dal 1929) con un’impostazione solidale, che faccia fare un passo sostanziale in avanti nella condivisione, oppure l’Europa rischia di brutto e le posizioni di alcuni paesi, a torto definiti frugali ma in realtà semplicemente aggrappati alle loro convenienze, sono forti e potrebbero inceppare il meccanismo decisionale o almeno ridimensionarlo. Il migliore regalo ai sovranisti e ai populisti di vario colore sarebbe un’Europa incapace di dimostrare solidarietà e visione unitaria, capace di proiettare sul futuro il proprio ruolo. Il pericolo non è affatto rimosso, resta forte, altrimenti non ci sarebbero gli altolà che si susseguono a non cambiare le carte in tavola (i miliardi di aiuto promessi) e non sembra esserci sufficiente consapevolezza che è in gioco il futuro dell’Europa.

Inoltre la situazione europea non è ancora percepibile in tutta la sua gravità, ma quando nei prossimi mesi la disoccupazione crescerà ancora e altri milioni di persone saranno condannate all’emarginazione, all’impossibilità di sopravvivere, si apriranno scenari sociali e politici preoccupanti. Se poi dovesse ripresentarsi un secondo tempo della pandemia, come purtroppo è possibile, le condizioni sociali potrebbero diventare veramente allarmanti e anche su questo l’Europa deve prendere decisioni.

Merkel nel discorso al parlamento europeo ha dato l’impressione di essere consapevole dei rischi e ha parlato di un’Europa solidale che deve uscire dalla crisi tutta insieme o non ha prospettive. Il concetto è chiaro e forte e così la polemica contro il populismo e il sovranismo che lascerebbero l’Europa del tutto disarmata di fronte alla crisi, quindi incapace di svolgere il ruolo mondiale in materia di diritti e valori che Merkel le attribuisce.

Gli obiettivi sono quelli noti: anzitutto decidere sul Recovery Fund, sul rafforzamento del bilancio dell’Unione e sulla qualità delle politiche europee che guardano al futuro. Questo risultato può essere reso possibile solo con uno spirito europeo che superi i rimbrotti e le divisioni per fare fronte comune di fronte alle emergenze, con l’obiettivo di svolgere un ruolo autonomo sulla scena mondiale, in grado di affermare diritti e valori che sono caratteristici della società europea. Il Parlamento europeo si è candidato a svolgere un ruolo di punta nella svolta europea, auspicata ma ancora non definita. Anche questo è importante.

L’Italia avrebbe dovuto presentarsi più preparata e consapevole all’avvio del semestre tedesco con una posizione politica chiara sul rapporto tra regole europee da cambiare, fine del periodo di sospensione delle attuali regole europee e i singoli strumenti di finanziamento (Recovery, Mes, Bei, fondo per la perdita del lavoro, ecc.). La vera questione non è nelle condizioni che verranno poste per l’uso dei singoli strumenti, tanto è vero che mentre il Mes è stato fortemente decondizionato, il Recovery Fund ha visto crescere le condizioni, per ora sostanzialmente accettabili, ma la trattativa con i paesi contrari ancora non è finita e potrebbe riservare sorprese sia sulla quantità che sulla qualità delle condizioni. Una posizione italiana sarebbe più forte se come è avvenuto con la lettera di alcune settimane fa ci fosse il consenso di altri paesi, con l’impegno tutti insieme a riscrivere le regole europee.

In altre parole il vero problema è che le attuali regole europee sono sospese e già si sentono arrivare proposte di farle rientrare in vigore e questo per l’Italia sarebbe un serio problema perché sia la quantità del debito pubblico che il deficit sono schizzati verso l’alto e immaginare un rientro sarebbe impossibile senza misure drastiche. Queste regole non debbono ritornare in vigore fino a quando un sistema di nuove regole non sia stato definito. In sostanza la sospensione delle regole dovrebbe cessare solo quando altre regole siano già state definite e la loro ridefinizione deve essere la condizione per il ritorno ad un regime di regole, superando la sospensione attuale.

Il vero problema non è quindi l’uso dei singoli strumenti che va definito sulla base delle condizioni del paese e delle condizionalità ma il quadro in cui si inseriscono, altrimenti ciascuno strumento potrebbe diventare volente o nolente la trappola che consente di riproporre un’austerità d’antan, con l’applicazione del fiscal compact e dei suoi derivati. Per questo il periodo della presidenza tedesca dovrebbe essere un’occasione da non perdere per porre il problema della riscrittura delle regole europee in modo da disinnescare trappole e tenere sotto controllo gli egoismi di singoli stati tutt’altro che domati.

Senza trascurare che oltre alle regole sul debito e sul deficit ci sono regole intraeuropee che debbono essere cambiate con determinazione. C’è chi ha interpretato, forse a ragione, la presidenza di turno dell’area euro attribuita ad un irlandese come un segnale rivolto alle major del web, per garantire che il fisco europeo su questa grande area di evasione non cambierà, quindi mancherebbe parte dei fondi europei necessari al Recovery, e verso le multinazionali per continuare a garantire trattamenti fiscali di favore. Del resto lo stesso problema hanno altri paesi come Olanda, Lussemburgo, ecc. che agiscono come veri e propri paradisi fiscali a danno degli altri paesi europei, Italia compresa.

La discussione nel nostro paese è in ritardo, non solo per il rinvio di troppe decisioni e per le modalità farraginose di attuazione, ma anche per sviluppare in Europa, a partire dalla presidenza tedesca, una discussione produttiva per cambiare le linee di fondo delle politiche occupazionali, sociali ed economiche.
Alfiero Grandi

 

06 – UNA RIVOLUZIONE DISPOTICA. IL LAVORO A DISTANZA RISCHIA DI FAVORIRE UN MONDO IN CUI LE PERSONE HANNO MENO DIRITTI E SONO PIÙ SORVEGLIATE. IN UN ARTICOLO USCITO SUL WALL STREET JOURNAL, DANA MATTIOLI E KONRAD PUTZIER HANNO IPOTIZZATO CHE IL LAVORO in ufficio come lo conosciamo oggi potrebbe presto sparire. Hanno citato il piano di Twitter, che vorrebbe consentire a circa cinquemila dipendenti di lavorare da casa a tempo pieno. “Molti dirigenti”, hanno spiegato, “sottolineano il successo di un esperimento di lavoro a distanza senza precedenti. La produttività non sembra aver risentito del fatto che milioni di lavoratori sono stati costretti a lavorare da remoto per mesi”. Eppure, se vogliamo capire perché secondo uno studio il 74 per cento delle grandi aziende oggi vuole impiegare in questo modo almeno una parte del personale, dovremmo ammettere che il lavoro da casa non è “senza precedenti” e neanche “un esperimento”, ma un metodo di organizzazione del lavoro cruciale per lo sviluppo dell’economia moderna. Quando il capitalismo prese piede nel Regno Unito, gli industriali si affidavano al sistema del lavoro a domicilio: i subappaltatori distribuivano le materie prime a persone che lavoravano a cottimo nelle loro abitazioni.
Questo tipo di organizzazione andò avanti per secoli, restando prevalente nella manifattura di tessuti, ceramica, guanti, merletti, maglieria e altri articoli fino all’ottocento.
Oggi, dopo essere rimasti a casa per settimane, molti di noi affrontano la prospettiva di tornare in ufficio con un misto di incertezza e timore. È un sentimento che gli uomini e le donne del settecento avrebbero riconosciuto. A quei tempi la maggioranza delle persone preferiva lavorare a casa, la fabbrica era solo l’ultima risorsa. Il sistema del lavoro a domicilio probabilmente significava faticare tanto per un salario minimo, ma permetteva ai lavoratori di esercitare un qualche controllo su quello che facevano e quando. Potevano continuare a seguire i figli, accudire gli animali e coltivare l’orto senza smettere di celebrare le festività religiose e popolari, che avevano un ruolo centrale nella prima società moderna. Al contrario, come dice lo storico N.S.B. Gras, le fabbriche si affermarono “esclusivamente a scopi disciplinari, in modo che gli operai potessero essere efficacemente controllati sotto la supervisione dei capomastri”.
Un altro studioso, Sidney Pollard, osserva che “erano poche le zone del paese in cui le industrie moderne, se concentrate in grandi edifici, non fossero associate alle prigioni, ai ricoveri per i poveri e agli orfanotrofi”.

IL CAMINETTO ACCESO
Dal momento che i primi colletti bianchi di solito svolgevano mansioni amministrative, i primi “uffici” spesso erano un’appendice privilegiata della fabbrica.
Negli anni cinquanta dell’ottocento, per esempio, un impiegato di alto livello lavorava in un ambiente che “ricordava molto la sua casa per l’arredamento, il caminetto acceso, le tende e, verso la fine del secolo, l’illuminazione a gas”. Ma con la diffusione del lavoro impiegatizio, l’ufficio fu assoggettato alle stesse tecniche di sorveglianza con cui Frederick Winslow Taylor suddivise il lavoro industriale in componenti semplici e accuratamente cronometrate. I testi di gestione aziendale dei primi decenni del novecento rivelano il tentativo ossessivo di controllare i compiti più banali, come “l’atto apparentemente innocuo di asciugare l’inchiostro con la carta assorbente, accusato di sprecare 35 secondi, mentre la minuscola differenza di tempo tra riunire dei documenti con una graffetta o un laccio fermacarte era oggetto di grandi discussioni”. Oggi quasi nessuno è valutato sulla base della velocità con cui fa ruotare la sedia girevole (secondo una guida del 1960 dovrebbe essere di 0,009 minuti). E questo perché, facendo uscire i lavoratori da casa, l’ufficio (proprio come la fabbrica) gli dette un potere sociale collettivo. Nonostante gli sforzi degli “esperti di efficienza”, gli impiegati cominciarono a organizzarsi, conquistando un qualche controllo sulla loro vita lavorativa.
Di conseguenza, per ogni vostro conoscente che vuole restare a casa, potete probabilmente trovarne un altro a cui manca la socialità di un posto di lavoro condiviso: un luogo dove chiacchierare, stringere amicizie e, a volte, ribellarsi.
La contraddizione si manifesta nell’entusiasmo delle grandi aziende per l’abolizione dell’ufficio. Naomi Klein sostiene che la pandemia ha fornito una copertura a quanti vorrebbero attuare pratiche sociali oppressive associate alla tecnologia. Sicuramente nel posto di lavoro il covid-19 ha reso molti di noi quasi totalmente dipendenti dal software, in modi che potenzialmente danno un potere spaventoso ai datori di lavoro. Le precedenti versioni di Zoom, per esempio, contenevano l’opzione “tracciamento dell’attenzione” che, in determinate circostanze, notificava agli amministratori se gli utenti si scollegavano per più di mezzo minuto. Questa funzione è stata eliminata, ma è facile capire come lavorare a casa potrebbe rendere perfettamente normale il tracciamento dei dipendenti. “Il mio capo sa ogni maledetta cosa che faccio”, ha spiegato a Vox una lavoratrice. “Ho la sensazione di dover essere perennemente davanti al computer e lavorare, perché altrimenti il software mi disconnette per inattività o il mio capo mi manda un’email di controllo”. Nell’ottocento i capitalisti volevano che i dipendenti fossero concentrati in un posto per controllarli, e questo significava pagare fabbriche costose in cui potevano organizzarsi fastidiosi sindacati. Ma oggi sorvegliare un lavoro atomizzato e a distanza è più facile di quando era concentrato in un unico edificio. Tenendo a casa il personale, i superiori possono disarticolare la collettività e allo stesso tempo risparmiare sull’affitto. Resta da vedere quante aziende daranno seguito alla nuova retorica anti-ufficio. Ma in questi strani tempi, l’entusiastica adozione di un sistema di lavoro “a domicilio” high tech potrebbe essere imminente, con il capitalismo che torna al suo futuro usando sistemi sempre più distopici.
Jeff Sparrow, The Guardian, Regno Unito

 

07 – L’ALLARME DELL’ITALIA IGNORATO MENTRE IL VIRUS SI DIFFONDEVA IN EUROPA, di Daniel Boffey, Céline Schoen, Ben Stockton, Laura Margottini, The Guardian, Regno Unito
È STATO UN MOMENTO DI SPAVENTOSA CHIAREZZA. IL 26 FEBBRAIO, CON IL NUMERO DI ITALIANI CONTAGIATI DAL SARS-COV-2 CHE TRIPLICAVA OGNI 48 ORE, IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO ITALIANO GIUSEPPE CONTE HA CHIESTO AIUTO AGLI ALTRI PAESI DELL’UNIONE EUROPEA. 15 luglio 2020

GLI OSPEDALI ITALIANI ERANO AL COLLASSO. I medici e gli infermieri avevano finito la mascherine, i guanti e i camici di cui avevano bisogno per proteggersi. A causa dell’estrema carenza di respiratori, erano costretti a decidere chi doveva vivere e chi sarebbe morto.

In quel momento da Roma è partito un messaggio urgente diretto al palazzo Berlaymont, sede della Commissione europea, a Bruxelles. I dettagli sulle necessità dell’Italia sono stati inseriti nel Sistema comune di comunicazione e informazione per le emergenze dell’Unione europea (Cecis). Quello che è successo dopo è stato sconvolgente. Al grido d’allarme dell’Italia è seguito il silenzio.

“NESSUN GOVERNO HA RISPOSTO ALLA RICHIESTA DELL’ITALIA E ALL’INVITO DELLA COMMISSIONE”, racconta Janez Lenarčič, commissario europeo per la gestione delle crisi. “Questo significava non soltanto che l’Italia era impreparata, ma che nessuno era preparato. Il silenzio non era causato dalla mancanza di solidarietà, ma dalla mancanza di mezzi”.
Da quando il covid-19 si è introdotto in Europa nel corpo di un misterioso paziente zero, 180mila persone hanno perso la vita nello spazio economico europeo e nel Regno Unito. I contagiati sono stati 1,6 milioni. Il numero reale dei decessi è quasi certamente superiore rispetto ai dati ufficiali, e ora il recente aumento dei casi in Serbia e nei Balcani sta suscitando grande preoccupazione.

LE ISTITUZIONI EUROPEE NON HANNO SAPUTO CONVINCERE I GOVERNI A COLLABORARE TRA LORO

Come se non bastasse, il vecchio continente ha intrapreso una strada senza ritorno verso la peggiore recessione economica dai tempi della grande depressione degli anni trenta, soprattutto a causa dei blocchi imposti per proteggere i molti sistemi sanitari europei che non avevano le risorse per affrontare l’emergenza.
I leader si sono ritrovati a dover rispondere agli interrogativi sulla validità di un progetto europeo in cui gli stati si dimostrano incapaci di aiutarsi a vicenda nei momenti più difficili. Il prossimo fine settimana i 27 capi di stato e di governo dell’Unione si ritroveranno a Bruxelles per tracciare la rotta per il futuro. Sarà il primo incontro faccia a faccia degli ultimi cinque mesi.

Oggi, attraverso l’analisi dei documenti interni e le interviste con decine di funzionari ed esperti che lavorano a Bruxelles e nelle capitali europee, il Guardian e il Bureau of Investigative Journalism sono in grado di raccontare dettagliatamente la storia di come l’Europa è diventata l’epicentro di una pandemia globale (come l’ha definita l’Oms) e quali lezioni possiamo imparare per il futuro.

È la storia dei funzionari zelanti che da Bruxelles hanno lanciato l’allarme annunciando un disastro imminente nel corso di conferenze stampa deserte. È la storia dei ministri della sanità sempre più disperati, incapaci di convincere i capi di governo e i ministri delle finanze della portata di ciò che stava per arrivare e della necessità di agire immediatamente. È la storia dei governi che non hanno saputo riconoscere in tempo la rapidità con cui il virus si stava diffondendo, per poi lanciarsi in confuse manovre protezioniste in preda a un malcelato panico. È la storia delle istituzioni europee, in cui le figure più importanti hanno mostrato una palese carenza di esperienza o potere e non hanno saputo convincere i governi a collaborare tra loro davanti a un disastro che non rispetta né i confini né il ritmo lento della burocrazia di Bruxelles. È la storia dell’Europa impreparata e istituzionalmente incapace di organizzare una risposta adeguata a una crisi che l’ha immediatamente paralizzata.

L’ALLARME DI CAPODANNO
A fine dicembre, mentre milioni di persone si preparavano a festeggiare il nuovo anno, a Stoccolma, negli uffici del Centro europeo per il controllo e la prevenzione delle malattie (Ecdc), arrivò la notizia di un focolaio di casi di polmonite in Cina, la cui origine era sconosciuta.
Creato nel 2005, due anni dopo l’epidemia di Sars, l’Ecdc ha il compito di fornire una consulenza scientifica, ma non può fare niente di più. La responsabilità per la sanità pubblica ricade interamente sui governi nazionali, non sull’Unione o le sue agenzie. Nonostante questi limiti, l’Ecdc deve considerare l’intero orizzonte europeo e se necessario lanciare un allarme, a prescindere da quanto le capitali ne tengano conto.
L’agenzia ha pubblicato la prima valutazione del rischio il 9 gennaio, ricorda il direttore dell’Ecdc, la dottoressa Andrea Ammon. “In quel momento sapevamo che la maggior parte dei casi era legata a un mercato di animali vivi nella città cinese di Wuhan”, ha dichiarato Ammon al Guardian. “Circa due settimane dopo abbiamo ricevuto la notizia della trasmissione da persona a persona, un elemento che naturalmente cambiava le misure da adottare”.

CHE FARE CON I VOLI DIRETTI IN ARRIVO DA WUHAN A LONDRA, PARIGI E ROMA?
All’inizio la preoccupazione principale era quella di tenere la malattia lontana dai confini dell’Unione. Il 17 gennaio un’altra istituzione comunitaria, creata dopo una crisi sanitaria, ha organizzato la prima videoconferenza sul covid-19. Anche in quel caso l’istituzione non aveva i poteri dei governi nazionali.
Il comitato per la sicurezza sanitaria della Commissione europea comprende i rappresentanti dei ministeri della sanità di tutti gli stati membri e coordina la risposta sanitaria trans-frontaliera in Europa dallo scoppio dell’epidemia di H1N1 del 2009. Ma il 17 gennaio soltanto dodici dei ventisette stati (più il Regno Unito) hanno partecipato alla videoconferenza. A presiedere l’incontro era Wolfgang Philipp, a capo di una piccola squadra all’interno del dipartimento sanitario della Commissione, in Lussemburgo. Philipp riferì ai partecipanti che alcune decine di persone erano state contagiate a Wuhan da un nuovo coronavirus.
A gennaio era previsto l’arrivo in Europa di 300mila persone provenienti dalla Cina, di cui molte avrebbero festeggiato il capodanno cinese il 25 gennaio.
CHE FARE CON I VOLI DIRETTI IN ARRIVO DA WUHAN A LONDRA, PARIGI E ROMA?
Un funzionario dell’Ecdc fece presente al comitato che l’idea di controllare la presenza di sintomi e la temperatura di tutti i passeggeri in arrivo era considerata largamente inefficace per arginare un virus. L’istituzione consigliava invece di concentrare i test sui passeggeri arrivati a bordo dei dodici voli settimanali diretti da Wuhan all’Europa. Regno Unito e Francia hanno condiviso le informazioni sulle misure adottate dagli aeroporti. Il governo italiano, tra gli assenti alla videoconferenza, non ha fatto lo stesso. A quanto pare il rappresentante italiano non aveva letto l’email di invito alla riunione.

NERVOSISMO
Il comitato avrebbe voluto pubblicare una serie di raccomandazioni sulle misure precauzionali alle frontiere, ma i paesi partecipanti non hanno trovato un accordo. È stato un preludio delle difficoltà che la Commissione avrebbe incontrato nelle settimane successive, quando i governi hanno preso ripetutamente provvedimenti unilaterali nonostante fossero tenuti a informare il comitato per la sicurezza sanitaria. La forma e la breve durata degli incontri – di solito appena un’ora con circa cento partecipanti – è stato un altro fattore che ha ridotto la comunicazione e la cooperazione, riferiscono diverse fonti.
Tra i partecipanti serpeggiavano un certo nervosismo e la sensazione che alcuni paesi non stavano dando al comitato “il peso che meritava”. La capacità di coordinare efficacemente lo sforzo è stata messa in discussione. “Non c’era tempo di reagire agli eventi tra una settimana e l’altra: la situazione cambiava molto rapidamente”, riferisce una fonte.
Tra l’altro a capo della Commissione c’era Ursula von der Leyen, che aveva assunto l’incarico da poche settimane.

DISTRATTI DALLA BREXIT
In teoria Von der Leyen era la leader ideale per gestire una pandemia, perché ha lavorato come medico prima di intraprendere la carriera politica che l’avrebbe portata al ministero della difesa tedesco e successivamente, dal dicembre del 2019, all’organo esecutivo dell’Unione.
Le persone che hanno lavorato con Von der Leyen durante la crisi la descrivono come una donna estremamente intelligente. Tuttavia, alcuni ritengono che nelle prime settimane avrebbe potuto fare di più e sottolineano che i suoi primi passi sono stati incerti, come se fosse poco in confidenza con gli strumenti di cui disponeva.

“LA COMMISSIONE AVREBBE DOVUTO PRENDERE POSIZIONE PRIMA”, SOTTOLINEA UN FUNZIONARIO EUROPEO. “VON DER LEYEN È INTELLIGENTE, MA È NUOVA A BRUXELLES E SI AFFIDA A UN PAIO DI PERSONE DI BERLINO CHE NON HANNO UNA GRANDE ESPERIENZA SU COME FUNZIONI LA COMMISSIONE. NON SI DEVE CHIEDERE AGLI STATI DELL’UNIONE SE HANNO BISOGNO DI UN COORDINAMENTO, BISOGNA COORDINARE E BASTA. LA SANITÀ È DI COMPETENZA DEI GOVERNI NAZIONALI, MA È POSSIBILE FORZARE LA SITUAZIONE”.

Le bare di alcune vittime di covid-19 a Bergamo, prima di essere trasportate a Firenze per la cremazione, 7 aprile 2020. – Marco Di Lauro, Getty Images Le bare di alcune vittime di covid-19 a Bergamo, prima di essere trasportate a Firenze per la cremazione, 7 aprile 2020. (Marco Di Lauro, Getty Images)
Se la risposta iniziale di Von der Leyen è stata discutibile, è innegabile che alcuni all’interno della Commissione avessero capito la gravità di cosa stava accadendo in Cina. “Abbiamo fissato il primo incontro del comitato di coordinamento della crisi il 28 gennaio”, ricorda Lenarčič. “La Commissione ha preso la minaccia con grande serietà. Non abbiamo mai abbandonato il nostro approccio estremamente serio, anche quando si moltiplicavano le voci secondo cui ‘sarebbe finito tutto da sé’. Non abbiamo cambiato orientamento nemmeno quando altri hanno cominciato a trastullarsi con il concetto di immunità di gregge”.
La Commissione ha tempestivamente vietato ai suoi dipendenti di intraprendere viaggi non necessari in Cina. Il 29 gennaio è stata organizzata una conferenza stampa per trasmettere un messaggio chiaro: preparatevi. Ma i mezzi d’informazione non hanno prestato grande attenzione agli allarmi che risuonavano a Berlaymont, perché quello era il momento in cui il Regno Unito stava per abbandonare l’Unione europea dopo 47 anni.

“SIAMO ANDATI ALLA CONFERENZA STAMPA E ABBIAMO TROVATO LA SALA DESERTA”, ricorda Lenarčič. “ABBIAMO INVITATO TUTTI A PREPARARSI, A PRENDERE SUL SERIO LA MINACCIA. C’ERA MOLTA ECO, PERCHÉ LA SALA ERA VUOTA. MA ABBIAMO COMUNQUE SPERATO CHE I MEZZI D’INFORMAZIONE AVREBBERO TRASMESSO IL NOSTRO MESSAGGIO. NON È STATO COSÌ, PERCHÉ TUTTA L’ATTENZIONE MEDIATICA A BRUXELLES ERA CONCENTRATA SULL’ULTIMA SEDUTA PLENARIA DEL PARLAMENTO CON LA PARTECIPAZIONE DEI BRITANNICI”.
“Ho visto molte immagini di persone che si tenevano per mano e cantavano durante la seduta”, racconta Lenarčič. “Capisco che fosse un momento storico, triste ed emotivo. Ma tutto questo non cancella il fatto che nella stessa giornata noi avevamo qualcosa da dire, qualcosa di importante. Lo abbiamo detto, ma in pochi erano interessati”. Non sono stati soltanto i giornali e le tv a ignorare il canto delle sirene delle agenzie europee.

MINACCIA IGNORATA
Nella stessa settimana l’Ecdc ha consigliato ai governi di rafforzare le strutture ospedaliere, a cominciare dai reparti di terapia intensiva. Ma le capitali non hanno percepito l’urgenza dell’avvertimento. “Penso che abbiano sottovalutato la necessità di agire rapidamente”, sottolinea Ammon, ex capo del dipartimento di malattie infettive dell’Istituto Robert Koch di Berlino e direttrice dell’Ecdc dal 2017. “Se devi aumentare i posti letto, il tempo a disposizione fa molta differenza. Due giorni sono molto diversi da due settimane”.
Nel frattempo il virus continuava silenziosamente a diffondersi. Il 30 gennaio due turisti cinesi in visita a Roma sono risultati positivi al covid-19. Il governo italiano ha immediatamente bloccato tutti i voli da e per la Cina, chiedendo un incontro ai ministri della sanità europei per proporre misure di controllo più severe in tutta Europa.
Il problema è che per organizzare quell’incontro ci sono volute tre settimane. Il governo croato, incaricato dell’organizzazione in quanto presidente di turno dell’Unione, era alle prese con uno scandalo finanziario che aveva costretto il primo ministro Andrej Plenković a licenziare il ministro delle finanze Milan Kujundžić. Quando i ministri della sanità si sono finalmente riuniti, il 13 febbraio, i focolai si stavano già moltiplicando.
In quell’occasione il ministro della sanità croato, che presiedeva la riunione, dichiarò che la risposta alla minaccia del coronavirus era stata “tempestiva ed efficace”. Tuttavia un rapporto interno dell’Ecdc, che riporta in calce la data successiva a quella dell’incontro, dipinge un quadro molto diverso, elencando una serie di elementi ancora sconosciuti e i conseguenti rischi per l’Europa. Nel documento si legge che “lo stato di preparazione nei diversi stati” era “incerto”.

SCORTE ESAURITE
La cruda verità è che nei mesi e negli anni precedenti all’avvento del covid-19 le scorte di dispositivi di protezione individuali (Dpi) si erano sensibilmente ridotte. Le mascherine protettive conservate nelle strutture sanitarie erano scadute e di conseguenza erano state distrutte, senza mai essere rimpiazzate. I piani di emergenza in vista di una pandemia erano obsoleti. “Molti paesi europei avevano scorte di mascherine scadute, e quasi tutte erano state distrutte”, conferma un consulente scientifico.
Nel 2011 la Francia aveva in stock 1,7 miliardi di mascherine, ma nel momento dell’esplosione della crisi ne aveva appena 117 milioni. Tra gennaio e marzo Parigi aveva incenerito 1,5 milioni di mascherine. Nel 2017 il governo del Belgio ha ordinato la distruzione di 38 milioni di mascherine che non sono mai state rimpiazzate.

NEL GIRO DI POCHE ORE GLI EUROPEI HANNO ASSISTITO A UNO DEI FALLIMENTI PIÙ CLAMOROSI DI TUTTA L’EMERGENZA

A quanto pare nessuno aveva un’idea chiara di cosa stesse accadendo. Fino al 23 febbraio i voli contenenti Dpi hanno continuato a decollare dall’Europa diretti in Cina, nella speranza di contenere il virus all’interno dei confini cinesi. Ma l’Europa era già stata raggiunta dal covid-19.

“LA MIA COLLEGA E COMMISSARIA ALLA SANITÀ STELLA KYRIAKIDES HA CONTINUATO A CHIEDERE INFORMAZIONI”, racconta Lenarčič, ex ambasciatore sloveno presso l’Unione. “Hanno cominciato subito, ma per quanto ne so non hanno mai ricevuto i dati completi che avrebbero permesso alla Commissione di avere un’idea chiara sulle scorte di equipaggiamenti e sul numero di posti letto nelle terapie intensive. In molti casi è emerso che nemmeno i governi nazionali sapevano con precisione quali fossero i numeri”.

DALL’ORGOGLIO ALLA RABBIA
Nel fine settimana tra il 29 febbraio e il primo marzo più di duemila persone sono risultate infette in tutta Europa. Soltanto in Italia sono morte 35 persone. A quel punto Von der Leyen ha deciso di agire in prima persona. La presidente della Commissione ha informato Lenarčič che la portata della crisi richiedeva la creazione di una squadra di commissari che avrebbe affrontato la crisi occupandosi di ogni suo aspetto, dall’economia al controllo delle frontiere.
La nuova squadra è stata presentata al pubblico il lunedì successivo da Von der Leyen, con evidente orgoglio e tra gli scatti dei fotografi. Ma nel giro di poche ore gli europei hanno assistito a uno dei fallimenti più clamorosi di tutta l’emergenza. I paesi, in modalità di crisi, hanno agito individualmente e hanno imposto una serie di restrizioni alla circolazione di forniture mediche essenziali.
IL 3 MARZO il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato che avrebbe requisito “tutte le scorte e la produzione di mascherine protettive”. Il giorno successivo il governo tedesco ha vietato l’esportazione di Dpi.

I RESPIRATORI SONO ARRIVATI SOLTANTO QUANDO LA FASE PIÙ ACUTA ERA ORMAI SUPERATA
Durante la pandemia quindici stati hanno imposto restrizioni alla circolazione di equipaggiamenti e farmaci all’interno dell’Unione europea. I camion che trasportavano mascherine, guanti e camici sono stati fermati alle frontiere. Nel frattempo i leader nazionali hanno cominciato ad accusarsi a vicenda di ignorare la solidarietà europea e il mercato unico.
I carichi di Dpi destinati ai paesi europei arrivati nei porti di Germania e Francia sono stati “semplicemente rubati”, riferisce una fonte. I governi di Belgio e Paesi Bassi hanno acquistato in grandi quantità i componenti necessari per produrre farmaci indispensabili, consegnandoli agli ospedali e avviando una produzione in loco.
Considerando la carenza di questi componenti in Europa, la mossa degli olandesi e dei belgi ha compromesso gli sforzi dell’industria farmaceutica per incrementare la produzione di farmaci essenziali per curare i casi più gravi di covid-19.
Quando i ministri della sanità europei hanno partecipato a una seconda riunione del consiglio, il 6 marzo, la commissaria Stella Kyriakides, affiancata da Lenarčič e dal commissario per il mercato interno Thierry Breton, ha sottolineato l’importanza dell’unità europea. “Oggi chiedo a tutti voi di impegnarvi a lavorare insieme apertamente, in modo trasparente e con solidarietà per garantire una risposta politica coerente”.
Tuttavia pochi giorni dopo la Germania ha chiuso unilateralmente i suoi confini, paralizzando il continente. Le immagini delle code al confine con la Polonia, lunghe fino a cinquanta chilometri, hanno dominato i notiziari, ed è sembrato che fossero tornate le antiche divisioni della vecchia Europa.
“Il problema non è chiudere i confini. Ma bisogna parlare con gli stati vicini, e molti governi non lo hanno fatto”, sottolinea Lenarčič. “È stato un errore che ha creato grandi difficoltà. Prima di tutto perché ha ostacolato il flusso di beni, un fatto molto pericoloso non soltanto per il funzionamento del mercato unico ma anche per la risposta al covid-19, perché alcuni dei prodotti bloccati erano forniture mediche essenziali, per non parlare del cibo”.
Nella sede della Commissione molte persone erano furenti.
“LA COMMISSIONE HA AGITO CON DECISIONE E IMMEDIATAMENTE PER CONVINCERE GLI STATI MEMBRI CHE SI STAVANO COMPORTANDO IN MODO EGOISTA”, ricorda Lenarčič. Per placare le voci secondo cui in Europa c’erano persone che andavano in giro “con borse piene di soldi per comprare qualsiasi cosa a qualsiasi prezzo”, la Commissione ha introdotto un meccanismo di autorizzazione per le esportazioni in modo da controllare quali prodotti uscissero dal continente. Ma il momento era sconfortante per chi credeva ancora nell’Unione. “Le cose non sono state fatte nel modo giusto”.

NESSUNA PROTEZIONE
È emerso uno scenario del tutto inimmaginabile appena poche settimane prima. Uno dopo l’altro, tutti i paesi europei hanno fermato le proprie economie, cominciando dall’Italia il 9 marzo e concludendo con il Regno Unito il 23 marzo. Soltanto la Svezia è andata per la sua strada.

Per qualcuno era ormai troppo tardi. “Se l’Italia lo avesse fatto dieci o quattordici giorni prima sarebbe stato meglio. Il ministero della sanità voleva fermare tutto, ma è servito molto tempo per convincere il governo”, racconta il professor Walter Ricciardi, consulente del ministero della sanità italiano. “Gli altri stati, quantomeno, potevano beneficiare dell’esperienza dell’Italia, ma non lo hanno fatto. Per i ministri della sanità era molto difficile convincere i capi del governo e i ministri delle finanze che la situazione fosse così grave”.
IL 12 MARZO gli esperti hanno comunicato a Von der Leyen che l’epidemia in Europa non poteva più essere fermata. Il giorno successivo il capo dell’Oms ha dichiarato che l’Europa era diventata “l’epicentro” della pandemia globale.

Per la Commissione europea l’imperativo principale era quello di procurarsi gli equipaggiamenti protettivi. Ricciardi ricorda la sua profonda delusione per ciò che è accaduto in seguito. “All’epoca cercavamo disperatamente di procurarci Dpi e respiratori, ed era quasi impossibile trovarli sul mercato. Quindi abbiamo chiesto la distribuzione di ciò che era presente in Europa e uno sforzo collettivo per incrementare le scorte. Il problema è che ci sono voluti due mesi per riuscirci, non per mancanza di volontà da parte della Commissione ma perché il processo è stato estremamente lento e burocratico. I respiratori sono arrivati soltanto quando la fase più acuta era ormai superata”. La Commissione aveva proposto l’idea di un approvvigionamento collettivo di Dpi già a metà gennaio, con la possibilità di trasformarsi in un “unico grande acquirente”, ma si era scontrata con il disinteresse dei governi nazionali. Soltanto il 5 febbraio è stato deciso di lanciare una valutazione formale delle necessità di Dpi da parte degli stati.
Da quel momento sono passate altre due settimane (con una serie di scadenze mancate) prima che i governi comunicassero le informazioni richieste. A quel punto le scorte globali si erano pesantemente ridotte. Inoltre gli stati europei, ormai consapevoli della gravità della situazione, hanno contattato individualmente i produttori cinesi, alimentando la concorrenza sui mercati.

GIOVEDÌ 12 MARZO il programma messo a punto dalla Commissione non aveva ancora portato all’individuazione di un fornitore. Nel database dei contratti europei è stato registrato il fallimento dell’iniziativa. Sono state necessarie altre due settimane per trovare un fornitore, e la prima consegna è avvenuta l’8 giugno.
La Commissione è stata costretta a prendere l’iniziativa quando è apparso evidente che il programma collettivo non stava funzionando. E così sono state approvate alcune norme in emergenza per permettere la creazione di una scorta centralizzata attraverso un meccanismo chiamato resceu.

QUANDO L’ITALIA HA CHIESTO AIUTO
Secondo questo schema gli stati devono occuparsi di ottenere le forniture, ma è la Commissione a gestirne la distribuzione e a coprirne i costi. Finora sono state distribuite centinaia di migliaia di mascherine attraverso i centri di gestione della pandemia. Secondo Lenarčič questo modello verrà adottato anche in futuro. Il 17 luglio i leader europei si incontreranno a Bruxelles per discutere il budget dei prossimi sette anni e la possibilità di istituire un fondo per la ripresa.

“NELL’ULTIMA PROPOSTA DI BUDGET DELLA COMMISSIONE I FONDI PER LA SANITÀ PASSANO DA QUATTROCENTO MILIONI A NOVE MILIARDI DI EURO”, spiega Lenarčič. “La logica è quella di dare alla Commissione i mezzi per sostenere meglio gli stati, perché quando l’Italia ha chiesto aiuto nessuno era in grado di darglielo. Anche noi non abbiamo potuto aiutare l’Italia”. La Commissione vuole acquistare equipaggiamenti per creare una scorta anziché affidarsi alla generosità dei singoli governi. Inoltre Bruxelles intende ampliare il raggio d’azione e includere equipaggiamenti necessari in caso di crisi chimiche, biologiche o nucleari. “Mi pare che ci sia una lezione chiara da imparare”, sottolinea Lenarčič. “La stragrande maggioranza degli europei vuole che in questo ambito l’Europa sia più presente”.
Ricciardi concorda con Lenarčič e crede che l’Ecdc dovrebbe essere un’istituzione con potere decisionale, e non soltanto di consulenza, mentre la Commissione dovrebbe assumere il comando nei momenti in cui il coordinamento è essenziale. “Gli stati devono imparare che c’è bisogno di prepararsi per questa nuova normalità. La pandemia di covid-19 è soltanto il primo di una serie di eventi. Emergenze simili si ripresenteranno in futuro. I meccanismi del commercio e del turismo stanno cambiando il mondo, e se non ne terremo contro rischiamo di pagarne le conseguenze”.
(Traduzione di Andrea Sparacino). Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian.

 

08 – STATI UNITI – I NEGAZIONISTI USANO LA PANDEMIA PER COSTRUIRE UN MONDO PIÙ DISUGUALE, di Francesca Coin, sociologa.

Il sociologo Keith Kahn-Harris ha scritto uno dei testi più affascinanti sul negazionismo.
In Denial: the unspeakable truth (uscito nel Regno Unito nel 2018) distingue tra negazione e negazionismo. La negazione è un processo individuale che rimanda al rifiuto psicologico di accettare come vero un fatto assodato. È una specie di processo di rimozione che ricorda il tentativo di ignorare una verità scomoda il più a lungo possibile. Il negazionismo, invece, non si limita a rimuovere la realtà ma ne costruisce una alternativa. In questo senso è un processo più complicato, che chiama in causa le diseguaglianze e le strutture di potere della nostra società. 15 luglio 2020
Esistono molti esempi di negazionismo: da quello che minimizza, o respinge, i rischi del riscaldamento globale, a quello che mette in discussione l’olocausto, fino al negazionismo dell’hiv, che ha portato un ex presidente del Sudafrica come Thabo Mbeki a bloccare la fornitura di farmaci antiretrovirali causando la morte di circa 330mila persone, secondo uno studio di Harvard. Il negazionismo rivela la volontà di confutare fatti empiricamente accertati per costruire una società alternativa, a partire spesso da un desiderio inconfessabile.
Negli ultimi mesi il concetto di negazionismo è stato evocato in tutti i paesi colpiti dall’epidemia di covid-19. Per riprendere le categorie di Keith Kahn-Harris, anche in questo caso possiamo distinguere tra negazione e negazionismo. Raccontando l’aumento dei contagi in Africa, per esempio, la Bbc ha parlato di negazione per descrivere la reazione della popolazione di alcuni paesi. In Nigeria, dove il lockdown è stato introdotto ancora prima che il virus si diffondesse per evitare il collasso del sistema sanitario, queste misure sono state accolte con diffidenza dall’opinione pubblica. Molti hanno una sorta di rifiuto psicologico nell’accettare la pandemia come un problema reale.

Christian Drosten, esperto del governo tedesco sull’epidemia di Sars-cov-2 e direttore dell’Istituto di virologia dell’ospedale Charité di Berlino, lo ha definito il “paradosso della prevenzione”. Nel momento in cui le misure di contenimento riescono a portare il virus sotto controllo, le persone vivono il lockdown come un’imposizione forzata. Una reazione, ha detto Drosten, che gli impediva di dormire la notte. Per certi versi si tratta di un paradosso che abbiamo osservato anche in Italia, dove la tempestiva decisione del governo di chiudere buona parte delle attività produttive è stata vissuta come un trauma dagli abitanti delle zone meno colpite. La negazione è stata una reazione psicologica diffusa, che rimanda al tentativo di allontanare da sé una realtà disturbante e difficile da accettare.

LA RETE
Ma il negazionismo non è la difficoltà psicologica di accettare una minaccia. È la decisione politica di ignorarla. Pochi politici esemplificano questo atteggiamento meglio del presidente statunitense Donald Trump. Per molti versi tutta la sua gestione dell’epidemia è stata uno straordinario esempio di negazionismo, incentrata su due priorità: la necessità di minimizzare la gravità del virus e la volontà di mettere fine al lockdown il prima possibile. L’Atlantic ha compilato una lista delle affermazioni mistificanti del presidente, per rivelare come buona parte di queste fosse falsa. Alcune frasi – il virus “è solo un’influenza”, “un giorno, come per miracolo, scomparirà”, i contagi stanno “scendendo dovunque”, gli Stati Uniti hanno condotto “più test di tutti gli altri paesi messi insieme” – riassumono bene la politica di Trump degli ultimi mesi: da un lato sdrammatizzare il problema, dall’altro promuovere storie clamorose e spettacolari sul virus, in modo da ignorarlo.

Per capire cosa sia il negazionismo, tuttavia, non è sufficiente riconoscere la falsità di queste storie. Non basta un debunking per rivelare la finalità del negazionismo, perché lo scopo del negazionismo, per tornare alla definizione di Kahn-Harris, non è dissimulare la realtà ma crearla.

Per molti mesi le parole di Trump non sono cadute nel vuoto. Una ricerca condotta dai ricercatori della Queensland university of technology in Australia ha rivelato che le teorie del presidente si sono diffuse rapidamente grazie a una rete informativa che spaziava dai social network a Fox News, passando per i sostenitori di teorie del complotto come QAnon e siti come Infowar, per l’alt-right statunitense e i gruppi vicini a Trump. Chi ha studiato queste narrazioni – l’idea che il virus fosse una “bufala” o che la pandemia fosse un complotto creato del mondo liberale per confondere la popolazione – ha evidenziato la continuità tra il negazionismo sulla pandemia e quello climatico, osservando che dietro c’erano le stesse fonti: quei think tank, individui e organizzazioni che Sheldon Whitehouse, senatore democratico del Rhode Island, ha definito “web of denial”, la rete dei negazionisti.

I COLLABORATORI DI TRUMP SAPEVANO CHE LA RIAPERTURA AVREBBE COLPITO LE PERSONE APPARTENENTI ALLE MINORANZE

Queste idee non si sono diffuse solo su internet. Stephen Moore, uno dei principali consiglieri economici del presidente Trump e cofondatore del Club of Growth, un’organizzazione conservatrice che promuove il libero mercato, ha sostenuto la campagna Save our country, promossa da una coalizione di aziende e gruppi di destra per convincere la Casa Bianca a riaprire le attività economiche e per sostenere le iniziative contro il lockdown.
Negli ultimi mesi in tutti gli Stati Uniti ci sono state manifestazioni contro il distanziamento sociale, con i dimostranti che scandivano slogan come “Gesù è il mio vaccino” e “libertà o covid”. Un consigliere comunale repubblicano che rivendicava il diritto di non indossare la mascherina è arrivato a usare la frase “I can’t breathe”, pronunciata da George Floyd prima di essere ucciso dalla polizia di Minneapolis.

Per Stephen Moore i manifestanti armati e senza mascherina che sventolavano bandiere confederate e avevano la svastica tatuata sul braccio sono “le Rosa Parks dei nostri tempi”: persone che lottano contro l’ingiustizia e la perdita delle libertà personali nel nome del diritto di fregarsene della pandemia e di riaprire i luoghi di lavoro.

Di fatto quelle manifestazioni avevano due finalità politiche. Come ha scritto Quinn Slobodian sul Guardian, i consiglieri di Trump da un lato vedevano nella pandemia un’opportunità per imporre negli Stati Uniti una sorta di “federalismo competitivo”, un sistema dove gli stati sono legati l’uno all’altro da un mero rapporto di concorrenza. Lo stesso sistema a cui pensava Trump quando, all’inizio dell’epidemia, li aveva messi in competizione nell’accesso ai ventilatori e ai dispositivi di protezione individuale. Dall’altro lato, sapevano che la decisione di riaprire il paese e le fabbriche avrebbe colpito le persone appartenenti alle minoranze molto più dei bianchi.
E infatti è all’elettorato bianco che i collaboratori di Trump puntavano per uscire vincitori dalla crisi sanitaria e ottenere la rielezione del presidente. Un po’ come avevano fatto nel 2016, la loro idea era trasformare Trump nell’eroe della classe lavoratrice bianca: sia puntando sulla frustrazione causata dall’aumento della disoccupazione e dalla crisi economica, sia usando a proprio vantaggio il razzismo strutturale della società statunitense.

La pandemia sta mettendo a dura prova questa strategia. Sul Financial Times il giornalista Simon Kuper ha cercato di capire perché i politici di destra come Trump, il presidente brasiliano Jair Bolsonaro e il premier britannico Boris Johnson stiano gestendo così male la pandemia. Secondo lui, per capirlo bisogna tornare all’economia dell’attenzione. Negli ultimi anni i social network e le fake news hanno premiato i leader di destra, quei politici narcisisti che non possiamo definire bugiardi perché non hanno mai avuto nessun interesse per la verità. A Trump non è mai importata la verità, perché sa benissimo che non serve ai fini del consenso elettorale. La verità ha tempi più lunghi della politica, e un’affermazione clamorosa su Twitter sarà in grado di attrarre l’attenzione a prescindere dal fatto che sia vera o falsa. La pandemia ha cambiato tutto questo, perché ha accelerato il ciclo di vita della verità, consentendole di tenere il passo con il presente. In questo senso, ha permesso di vedere in modo eclatante che dietro il negazionismo di Trump, dietro alle affermazioni più clamorose e spettacolari, non c’era la verità ma la decisione politica di mettere in pericolo le persone più fragili e le minoranze.

PERSONE SACRIFICABILI
Oggi i risultati delle politiche di Trump sono sotto gli occhi di tutti. In Arizona, in Florida, in Louisiana, in Texas, in South Carolina, in North Carolina e in Georgia il numero dei contagi è in aumento. Sono gli stati che secondo Stephen Moore sarebbero dovuti uscire vincenti dalla pandemia perché hanno saputo mettere un freno ai sindacati, tagliare le tutele per i lavoratori e abbassare le tasse per i grandi capitali.
In alcune contee dell’Arizona gli obitori sono pieni e gli ospedali sono vicini al collasso, al punto che lo stato ha introdotto una procedura in base alla quale le cure saranno razionate in base alla priorità. Il dibattito si è acceso quando Michael Hickson, un afroamericano di 46 anni con quadriplegia che aveva contratto il covid-19, è morto in Texas dopo che i medici hanno interrotto i suoi trattamenti. L’ospedale ha scelto di dare la priorità a chi ha più speranza di vita, una decisione che trasforma i più vulnerabili – gli anziani, i disabili, i poveri e i malati – in persone sacrificabili.

Il concetto di sacrificabilità è centrale in questa storia. Sul New York Times Jamelle Bouie ha scritto:
La maggioranza dei contestatori – come la maggioranza di quelli che vogliono riaprire il prima possibile – è bianca. Questo dato è in contrasto con il numero delle vittime del covid-19 (che sono in modo sproporzionato neri e ispanici), di quelli che hanno perso il lavoro a causa della pandemia (che sono in modo sproporzionato neri e ispanici) e di quelli che sono stati o saranno costretti a lavorare a causa della riapertura (cioè i lavoratori nel settore dei servizi, che sono, anche loro, soprattutto neri e ispanici). È vero che non tutte le disparità etniche sono la prova di qualche dinamica legata al razzismo. Ma questa lo è sicuramente. Non si può separare la violenza dei manifestanti contro il lockdown dal loro essere bianchi. La loro richiesta di “riaprire” l’economia è evidentemente legata alla consapevolezza che molte delle persone più colpite appartengono ad altri gruppi etnici
La tesi di Bouie è sostenuta dai fatti. Mentre le richieste di aprire gli stati vengono da gruppi di destra bianchi, i dati del governo federale rivelano chiaramente che i neri e le persone di origine latinoamericana sono stati colpiti in modo sproporzionato dal virus in tutto il paese. In Golden gulag (University of California Press 2007) la studiosa afroamericana Ruth Wilson Gilmore – docente alla City University di New York – sostiene che la disuguaglianza nella vulnerabilità alla morte è la dimostrazione più profonda del razzismo. Se guardiamo al modo in cui la vulnerabilità alla morte è stata evidenziata dalla pandemia, capiamo che il problema non è solo il razzismo ma anche il modo in cui le persone vengono discriminate in base all’età, alle loro capacità fisiche, alla loro classe e al loro orientamento sessuale.
Per certi versi possiamo dire che la pandemia ha mostrato che nelle società democratiche occidentali non tutte le vite contano allo stesso modo. Ci sono organizzazioni che da molti anni denunciano il fatto che le vite dei disabili sono considerate “sacrificabili”. Nel Regno Unito le donne disabili con meno di 65 anni hanno undici volte più probabilità di morire rispetto alle donne non disabili. Inoltre, il Public health England, un’agenzia che fa parte del ministero della salute britannico, ha rivelato che il tasso di mortalità delle persone che appartengono alle minoranze è tre volte più alto rispetto alla popolazione bianca. A questo si aggiunge la strage avvenuta nelle residenze per anziani in tutta Europa.
Su Al Jazeera Vito Laterza e Louis Philippe Romer hanno scritto: “È difficile non vedere le implicazioni eugenetiche in tutto questo”. È difficile, in altre parole, non vedere che dietro al negazionismo c’è una specie di darwinismo sociale che consente ai più forti di sopravvivere mentre i più deboli vengono sacrificati. L’Italia non è immune a questa dinamica. Come è successo in Germania, nel Regno Unito e in Francia, anche qui i più fragili sono stati i più colpiti dal virus: gli anziani nelle Rsa, i migranti che lavorano nei magazzini della logistica della società Bartolini di Bologna e quelli che lavorano nel distretto delle carni di Modena, i braccianti che lavorano nel settore agricolo. In Italia l’incidenza del contagio aumenta tra i lavoratori più ricattabili, quei settori in cui la povertà si mescola alla vulnerabilità giuridica, alla mancanza di assistenza sanitaria, all’impossibilità di rispettare le misure d’isolamento, ai mezzi pubblici sovraffollati, ai turni massacranti nelle fabbriche dove non si rispetta il distanziamento sociale.
Per molti versi la pandemia ci sta offrendo una radiografia della nostra società: ci sta dicendo chi è spendibile e chi no, e quanto vale la vita di ognuno. Tutto questo aiuta a capire cosa sia il negazionismo. Secondo Keith Kahn-Harris, non è sufficiente riconoscere le narrazioni false che dominano la scena. Non è sufficiente dire che la pandemia non è un influenza: bisogna comprendere quale desiderio oscuro si nasconda nella scelta politica di ignorarla.
In questo contesto il caso statunitense offre alcune risposte chiare. Il negazionismo di Trump ha messo a nudo l’inconfessabile nostalgia suprematista che anima la decisione politica di ignorare le necessità di cura dei più fragili. Forse dovremmo cominciare a discutere dei negazionismi europei, prima che sia troppo tardi.

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