4858 Il voto e il Pd: c'è un vuoto da riempire

20080423 12:51:00 redazione-IT

Alfredo Reichlin

Con il voto del 13 aprile si è chiuso un ciclo politico. La semplificazione del quadro politico c’è stata, e questo è positivo. È un bene aver prosciugato quella fungaia di 20-30 partitini che avevano ridotto la decisione democratica a un patteggiamento infinito. Ed è fondamentale che questo terremoto, che ha travolto anche una vecchia sinistra che continua a dividersi, non ha invece colpito il cuore vero della sinistra italiana, quel patrimonio politico e morale che è stato e resta il più forte baluardo di una democrazia difficile e quella cultura che ha coniugato sempre il cammino delle classi lavoratrici con l’interesse nazionale.

Anzi. Da questa – che certamente non è stata una bella giornata per la democrazia – il Pd emerge come il partito che con tutti i suoi limiti e le difficoltà della situazione rappresenta quella forza unitaria, riformista e di governo che l’Italia finora non ha avuto.

Adesso questa forza c’è. Ha raccolto un terzo dei voti, si è insediata supratutto nelle città, ha mobilitato e organizzato forze, ha suscitato passioni. Si può dire quello che si vuole ma il fatto è che il Pd non è un fatto mediatico, ha ritrovato un popolo.

Adesso l’attenzione dovrebbe concentrare sulla lettura del Paese quale esso si è rivelato attraverso il voto. La realtà delle cose supera gli schemi dei politologi. Comincerei quindi con l’osservare che quando un personaggio come Berlusconi, sceso in campo nel lontano 1994, torna per la terza volta a Palazzo Chigi, vuol dire che questo non può essere considerato un episodio anomalo. È il segno di un’epoca che come tale va ormai giudicata (per memoria, ricordo che quella che gli storici chiamano “l’età giolittiana” durò meno di 10 anni, e ancora meno il “degasperismo”). È la spia di una condizione del Paese.

Ma stiamo attenti ai luoghi comuni. Berlusconi non ha vinto al Nord. La verità è che nel Nord (senza calcolare l’Emilia) la distanza tra PdL (Forza Italia più An) e il Pd si è ridotta a 32,1 contro il 29,3. Siamo quasi pari. Mentre è nel Sud che il “signore di Milano” trionfa (45.0 contro 31.5). La grande novità del Nord è la Lega che raddoppia i suoi voti. Ma a chi li prende? Quasi tutti (oltre un milione) al partito di Berlusconi. Il fatto vero che fa molto riflettere, al di là dei numeri, è il sentimento della gente (compresi gli operai), è il senso di sfiducia nella sinistra e nei sindacati che si percepisce. E la ragione di ciò, io credo, non sta solo nei nostri errori ma nel fatto che una parte crescente della società non si sente aiutata dal modo attuale di essere dello Stato democratico italiano che non li assiste a reggere alle sfide e ai costi dell’internazionalizzazione. È, quindi, il grande problema della democrazia moderna che ci investe e che in Italia è aggravato dalla particolare inefficienza del nostro Stato. È evidente, quindi, che dobbiamo radicarci nel territorio ma un grande partito deve sapere che la risposta alla sfida del mondo nuovo sta altrove. Non credo, quindi, che la situazione si sia stabilizzata. Il fatto che la Lega i voti li sta prendendo non a noi ma a Berlusconi sta aprendo un serio conflitto nel Veneto, dove le forze del Pdl, della Lega e le nostre quasi si pareggiano. Ma a tutto questo bisogna aggiungere la situazione del Mezzogiorno che è grave perché il sistema clientelare e il malaffare si sono rafforzati. Guardo i nuovi eletti e mi chiedo chi sarà capace di non chiedere solo favori, e di riproporre la questione meridionale non come un problema territoriale ma come la più grande questione irrisolta della nazione. Tutti parlano di competitività. Ma io continuo a chiedermi come gli italiani (anche del Nord) pensano di reggere alle sfide del mondo nuovo e della finanza globale se non hanno uno Stato diverso ma unitario alle spalle.

A me sembra questo il grande tema che emerge dal voto. La crisi della nazione. Se lo è, se il dilemma – intendiamoci bene – non è se l’Italia va nel mondo (accidenti se ci va: le nostre esportazioni aumentano) ma come ci va. Se ci va riorganizzando lei l’immenso patrimonio civile e culturale della nazione, il ruolo dello Stato moderno, le nuove reti della conoscenza, dei servizi e del capitale sociale da Siracusa a Bolzano, oppure se verrà spinta dalle logiche dei “poteri forti” verso una secessione silenziosa; se, insomma, questa è la situazione perché il voto dovrebbe creare smarrimento? I problemi sono ardui ma essi rendono ancora più chiara la ragione storico-politica del Pd. E, quindi, anche la sua capacità espansiva potenziale oltre i confini della somma DS-Margherita. Perché come si fanno le alleanze se non sulle grandi questioni? Noi non andiamo da nessuna parte se non sappiamo in che mondo grande e terribile si recita ormai la politica italiana. Fanno ridere certe polemiche sul moderatismo. Io credo sia molto importante il fatto che c’è sulla scena italiana un partito della nazione. Questa non è una vecchia canzone. Io chiamo partito nazionale una forza che non si chiude nella provincia italiana e non si difende dal mondo ma, al contrario, si considera parte integrante della costruzione della potenza politica sovranazionale europea. E lo è in quanto è in grado di valorizzare l’intera grande penisola che si proietta nel Mediterraneo e verso l’Oriente. Solo su questa base si può riproporre un patto unitario a Milano e a Palermo.

Ben vengano, quindi, le nuove analisi sulla “questione settentrionale”. Si diano al partito strutture federali. Però alla fin fine, solo un forte pensiero storico-politico è in grado di spiegare perché il tessuto identitario della nazione si sta sfilacciando in questo modo e quella che era una società di cittadini, certo divisa tra ricchi e poveri ma tenuta insieme da leggi e diritti uguali e da istituzioni repubblicane rispettate si sta sfarinando. Questo non è un problema economico o territoriale. È da anni che ne discutiamo. È ovvio che la crisi italiana è anche economica ma io continuo a pensare che essa è essenzialmente la crisi di una nazione. La quale perde identità per una ragione molto seria, perché non è riuscita a superare una sfida che riguardava la sua storia. Questa sfida ha una data. È l’ingresso nella moneta unica e nell’economia globalizzata. Il Paese varcava una soglia che metteva in discussione tutto il suo impianto a economia mista e a statualità debole. Attenzione, non solo i deficit della finanza pubblica ma tutta la sua costituzione materiale, tutto ciò che c’è prima e che c’è dopo la produzione delle merci: dai sevizi alla amministrazione pubblica, alla scuola, al tipo di compromesso tra Nord e Sud, tra chi è esposto al mercato e chi è protetto dallo Stato, fino alla politica estera. È lì che abbiamo perso una battuta fondamentale nella lotta per l’egemonia. Bisognava fare riforme grosse, produrre idee originali e non solo varianti del “pensiero unico” imposto dal salotto buono. Parlo di idee come quelle elaborate da personaggi niente affatto sovversivi come Beneduce, Mattei, Di Vittorio, Vanoni, Saraceno. Certo, altri erano i tempi in cui questi uomini operarono. Ma essi non hanno mai creduto che per fare l’Italia del “miracolo” bastasse affidarsi al mercato. Non hanno mai confuso i banchieri con degli statisti.

La verità è che si è creato un vuoto ed è questo che ha aperto la strada sia al leghismo che al voto siciliano. Ma il voto non ha creato una nuova egemonia. Il problema strategico del riformismo italiano è come ridefinire il profilo e la statualità con cui il paese va nel mondo. Questo problema resta aperto. Quindi, è inutile piangerci addosso. Finalmente abbiamo un soggetto politico post-novecentesco in grado di prendere questo problema nelle sue mani. Veltroni ha questa ambizione? Credo, spero, di sì. Altrimenti assisteremo al paradosso che sarà Tremonti e non la sinistra a spiegare alla gente impaurita che il modello liberista del capitalismo globalizzato ha fatto il suo tempo.

 

 

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EmiNews 2008

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