4877 INTERVISTA ALL’EX CONSOLE DI BASILEA SILVIO MIGNANO OGGI AMBASCIATORE A LA PAZ (Bolivia)

20080428 23:04:00 redazione-IT

IL GIORNALE.CH (SVIZZERA): INTERVISTA ALL’EX CONSOLE DI BASILEA SILVIO MIGNANO– DI MARCO MINOLETTI

BASILEA – Silvio Mignano è nato a Fondi nel 1965. Diplomatico e scrittore, appassionato d’arte e pittore, attualmente ricopre la carica di Ambasciatore d’Italia a La Paz, in Bolivia. Ha pubblicato i romanzi Una lezione sull’amore (Fazi,1999) e Le porte dell’inferno (Fazi, 2001), la raccolta di Poesie Taccuino nero per il viaggio (Caramanica, 2003) e il libro di favole da lui stesso illustrato, Il regalo del rinoceronte (Manni, 2004). Nel 2006 ha dato alle stampe il monologo teatrale Bésame mucho, omaggio a Tina Modotti, andato in scena a Città del Messico. Ha curato con Danilo Manera l’antologia Un’isola che canta, raccolta di testi di giovani poeti cubani.

Suoi racconti e recensioni sono stati pubblicati su varie riviste in Italia e all’estero. Ha scritto anche alcune sceneggiature cinematografiche e in particolare – con lo pseudonimo di Mario Cabrera Lima – quella del film Haiti Chérie di Claudio Del Punta (2007), che ha vinto premi prestigiosi nei festival di Locarno, dov’era l’unica pellicola italiana in concorso, e di Mons, in Belgio. Marco Minoletti ha intervistato oggi per "IlGiornale.Ch", quotidiano on line edito in Svizzera per la comunità italiana, l’ex console di Basilea Silvio Mignano.
D. "Scrittore per passione diplomatico di professione, quante volte hai sentito quel che sentiva il Machiavelli?: "Venuta la sera, mi ritorno in casa ed entro nel mio scrittoio, ed in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana".
R. C’è una scena che ho descritto molte volte: il momento in cui un personaggio si scopre a guardare dall’esterno la finestra illuminata di una casa, ad esempio passeggiando in un quartiere sconosciuto, meglio ancora se anonimo e privo di fascino, oppure addirittura osservando le luci della città mentre atterra in aereo. In questa scena ripetuta c’è l’illusione che lì dentro, in quelle case a noi estranee, oltre le pareti e lo schermo delle finestre, possa forse trovarsi la felicità che cerchiamo continuamente e che risiede altrove, nelle vite degli altri. Ma se poi per avventura veniamo a trovarci dall’altra parte, dentro quelle case, scopriamo che non è così. In altre parole, ho sempre avvertito con forza il desiderio impossibile di vivere diverse vite parallele o alternative, e forse il duplice ruolo di diplomatico e scrittore è anche un tentativo di riuscirci.
D. Nel tuo rapporto con la scrittura senza dubbio lo scrittore Mignano padre ha giocato un ruolo. Quale?
R. Un ruolo fondamentale, perché sono nato e cresciuto in una casa letteralmente tappezzata di libri e scaffali, e fin da piccolo, prima ancora di imparare a leggere, il gesto di sedersi con un libro aperto in grembo è stato per me la norma, un’immagine consueta e quotidiana. Mio padre mi ha trasmesso un amore trascendentale, quasi ossessivo, per la lettura, la scrittura, la letteratura, l’oggetto libro. Perciò è stato inevitabile pensare fin da bambino che sarei dovuto diventare uno scrittore, a tutti i costi.
D. Leggendoti si nota una passione quasi ossessiva per il perfezionismo linguistico. Si ha quasi la sensazione che tu intarsi le parole e ne faccia un uso in senso evocativo, per evocare altre parole, nuove ed inaspettate trame linguistico-narrative. È esatto?
R. È esatto ed è uno degli assi portanti della mia poetica. Credo nel ruolo della parola, strumento di ragione, di comunicazione, di espressione e di libertà. È un oggetto prezioso, allo stesso tempo fragile e potente, che merita rispetto e che dobbiamo coltivare, sia preservandolo sia innovando e sperimentando. Ecco perché, con un paradosso solo apparente, da un lato amo le espressioni ricercate, comprese quelle che rischiano l’estinzione, e dall’altro mi diverto a inventare parole nuove, a giocare con in neologismi anziché rifiutarli discriminatamente.
D. A proposito della raccolta di poesie Taccuino nero per il viaggio, Rodolfo di Biasio scrive che il tuo modo personalissimo di operare e strutturare il verso "predilige il dettato ampio, quasi fluviale". Trovi l’osservazione pertinente?
R. Sì. Parto sempre dalla convinzione che si scriva per gli altri (si mente quando si dice che si scrive per se stessi e che non si sente il bisogno di un pubblico di lettori, anche minuscolo) e per raccontare qualcosa, siano storie o emozioni e sensazioni. Perciò ho costruito man mano un mio verso personale, lungo, narrativo e tendenzialmente poco musicale. Più di recente sto in parte riscoprendo la dimensione musicale del verso e in qualche caso sono perfino approdato all’endecasillabo, comunque sciolto. Ma non ho mai abbandonato il dettato ampio e quasi fluviale commentato da Di Biasio, né penso di farlo.
D. Quali sono gli autori che hanno maggiormente segnato il tuo percorso umano e letterario?
Molti, forse troppi. Gianni Rodari da bambino, anche se l’ho riscoperto in continuazione negli anni successivi e da allora ha ripreso ad accompagnarmi: da Rodari ho imparato l’amore per il gioco di parole, il desiderio di edificare costruzioni anche illogiche e troppo ardite utilizzando le parole come mattoni, o a volte come picconi di fantasia per distruggere e buttar giù una parete che era venuta male o che era troppo scontata e noiosa. Nell’adolescenza autori solidi come Tolstoj, Faulkner e Thomas Mann, in seguito raffinati creatori, i grandi innamorati della scrittura, ad esempio Gadda, Landolfi, Nabokov, Savinio, Robbe-Grillet, ma anche Flaubert, Poe, Stevenson, Lewis Carroll. Negli ultimi anni alcuni scrittori americani, De Lillo, Pynchon, Updike e su tutti Philip Roth. Proust poi è una presenza costante, una sorta di involontario angelo custode che non mi abbandona mai. Tra i poeti questo ruolo lo ha Leopardi, ma aggiungerei due nomi distanti tra loro sia nel tempo che nello spazio, Lucrezio e Charles Simic, e in mezzo Goethe, Keats, Baudelaire, Gottfried Benn, Antonio Machado, Montale.
D. Il senso delle avanguardie letterarie storiche, penso al Dadaismo e al Surrealismo prima e al Lettrismo e al Situazionismo poi, è stato anche quello di rompere con un certo modo di pensare e praticare la scrittura nel tentativo di incidere sulla realtà storica. Oggigiorno le riviste letterarie, anche le più raffinate, paiono più simili a delle palestre dotate di attrezzature sofisticatissime in cui si esercita l’arte dello scrivere per lo scrivere. Il risultato è una babele di linguaggi. Che ne pensi in proposito?
R. Non sono molto convinto della letteratura dichiaratamente impegnata. Non mi piacerebbe scrivere un romanzo che avesse un esplicito contenuto – o un messaggio, termine che non amo – politico o sociale, lo troverei perfino noioso e controproducente. Credo invece che ogni opera narrativa o poetica abbia indirettamente un ruolo politico e sociale: se racconto una storia d’amore o un’avventura apparentemente solo poliziesca, sto inserendo i personaggi, le loro storie e i loro sentimenti in un contesto specifico, nel quale si muovono, e che inevitabilmente contiene riferimenti storici. Preferisco che la realtà del nostro mondo emerga in questo modo e che siano i lettori a trarne le conclusioni. Del resto la vita vera – se l’espressione ha un senso – funziona così: non è che tu ti fermi in mezzo alla strada, ti prenda il mento tra le mani e dichiari: «Signori, ci troviamo in questa contingenza storico-politica ed è tempo di agire nei modi e nei termini che ora vi esporrò». Ti prenderebbero per pazzo, a meno che tu non stessi tenendo un comizio. Quello che invece accade è che tu vai a lavorare, prendi un caffè in piazza, vivi una storia d’amore o sei testimone di amori altrui, entri in un negozio, passeggi con degli amici e parli con loro, e mentre fai queste cose assorbi la situazione sociale e politica in cui vivi ed eventualmente la elabori o addirittura vi partecipi attivamente.
D. Hai delle opere in cantiere? Quali?
R. Tre romanzi praticamente conclusi, uno dei quali ambientato nella regione di Basilea e che spero davvero di poter pubblicare al più presto. E tanti altri progetti che cerco di portare a compimento tra i mille impegni che ho.
D. Walter Benjamin, oltre ad aspirare – senza dirlo – ad affermarsi come il maggior critico letterario tedesco del suo tempo, aspirava, dicendolo, a voler scrivere un’opera di sole citazioni. Quali sono le tue aspirazioni dicibili e "indicibili" in campo letterario?
R. Mi piacerebbe approfondire ed esasperare la sperimentazione linguistica, scrivere qualcosa in un idioma inventato. Vorrei però che fosse allo stesso tempo comprensibile per i lettori, ed è questo l’ostacolo che non ho ancora risolto. È invece più realistico un altro desiderio: scrivere un testo teatrale. Ho già delle esperienze positive nel campo della sceneggiatura, vorrei ora cimentarmi con il palcoscenico.
D. L’Italia non vanta, a differenza di altre nazioni, una grandissima tradizione di diplomatici-scrittori (penso a Claudel, Stendhal, Morand, ad Andri?, ecc.) Quali sono, secondo la tua opinione, le ragioni di ciò?
R. È vero solo in parte. Ci sono diplomatici italiani scrittori, forse non ancora famosi come quelli che hai giustamente citato. È possibile che giochino comunque nel nostro caso due fattori: il primo è che in Italia i diplomatici sono esclusivamente di carriera, dunque professionisti, e perciò in gran parte interessati agli aspetti specifici del settore. Molti, quindi, preferiscono scrivere di relazioni internazionali, di economia internazionale, di politica estera. Il secondo è una certa tradizionale tendenza al riserbo, a tenere un profilo volutamente basso. Credo che ci sia in ogni caso un’evoluzione nelle ultime generazioni.
D. Prima di recarti a La Paz hai trascorso due anni a Basilea, cosa rimpiangi di questa città oltre ad Art Basel?
R. Molte cose. O tutto. Ho un rapporto visivo con i luoghi che amo, non mi rendo conto di provare nostalgia finché non mi scopro involontariamente a immaginarmi all’interno del paesaggio, non mi vedo camminare per una certa strada o in una piazza, e allora mi sembra di avere alla mia sinistra il corso del Reno o davanti a me la salita della Rheinsprung che porta alla Münsterplatz. Credo poi di aver bisogno della distanza – geografica e temporale – per maturare un vero e proprio sentimento di rimpianto. Ho scritto le mie cose più belle su Roma stando all’estero, e allo stesso modo ho sentito la necessità in questi mesi di ambientare un romanzo nella regione di Basilea, mentre non ne avvertivo l’urgenza quando abitavo a Bottmingen e percorrevo tutti i giorni quella decina di chilometri per raggiungere la Wettsteinplatz e lo Schaffhauserrheinweg. Forse più di ogni altra cosa, però, mi mancano gli italiani della regione, con il passar del tempo mi accorgo di nutrire un vero e proprio affetto verso di loro e il libro è anche un atto di amore nei loro confronti". (aise/Eminotizie)

 

 

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EmiNews 2008

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