19 01 05 NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL ESTERO ED ALTRE COMUNICAZION

BUON ANNO

0 – Dalla legge di stabilità al dl sicurezza e alla riforma costituzionale. Governo del cambiamento ? Se prosegue così in peggio.
1 – Schirò (PD): il reddito di cittadinanza e gli italiani all’estero. Il governo ancora una volta si sta dimenticando di loro?
2 – numeri alla mano in parlamento
3 – Mattarella debole e gli sfasciacarrozze della Costituzione. Governo. Le convulsioni del dopo 4 marzo accentuano la centralità degli organi di equilibrio e garanzia: Presidente della Repubblica, Corte costituzionale.
4 – Negli Usa qualcosa si muove, Elizabeth Warren correrà per la presidenza.
5 – I nostri 50 anni e la scure del governo
6 – Il poeta della politica. L’avanzata delle destre e del neoliberismo in America latina, la pace in Colombia, le difficoltà del Venezuela e l’eredità di Hugo Chàvez, il futuro dell’Uruguay. Qual è la visione di Pepe Mujica? Ne parliamo con Kintto Lueas, autore di un libro scritto con l’ex presidente contadino.
7 – Brevi dal mondo: Egitto, Israele, Emirati, Sudan. Il Cairo conferma la condanna per Amal Fathy. In Israele l’opposizione si spacca in diretta tv. La Ue chiede agli Emirati il rilascio dell’attivista Mansoor. Intanto il presidente Bashir prova a fermare le proteste con le promesse
8 – Nella fabbrica urbana del conflitto. Studi urbani. Ripubblicato dopo quarant’anni il classico «La produzione dello spazio» di Henri Lefebvre

0 – DALLA LEGGE DI STABILITÀ AL DL SICUREZZA E ALLA RIFORMA COSTITUZIONALE. GOVERNO DEL CAMBIAMENTO ? SE PROSEGUE COSÌ IN PEGGIO. Alfiero Grandi su www.jobsnews.it

Quanto è avvenuto in parlamento a fine anno è grave. Il merito delle misure della legge di stabilità è già discutibile ma molto peggio è il percorso scelto dal governo per la sua approvazione, che ha inferto un duro colpo al ruolo del parlamento, costretto ad approvare la legge senza conoscere il contenuto delle norme approvate.
E’ vero che in passato c’è stato un ricorso esagerato ai decreti legge e ai voti di fiducia, perfino in occasione dell’approvazione della legge elettorale voluta da Renzi e non sono mancate neppure forzature ai regolamenti parlamentari. Sono precedenti negativi, ma questo non giustifica le imitazioni, tanto più che questo governo si è autoproclamato del cambiamento ed è inaccettabile che abbia rapidamente fatto ricorso alle stesse forzature criticate in precedenza.
Finora il parlamento non era stato costretto ad approvare una legge senza conoscerla, come è avvenuto con l’approvazione della legge di stabilità. La legge è stata scritta dal governo (non tutto) e dai suoi tecnici, nei limiti finanziari concordati con la Commissione europea, che hanno costretto a cambiare le misure proposte fino a poco prima.
I tempi stretti per l’approvazione della legge di stabilità sono stati la conseguenza degli errori del governo che prima ha tentato un braccio di ferro con la Commissione, poi ha cambiato radicalmente posizione e di conseguenza è stato costretto a cambiare i contenuti della legge di stabilità. Legge che in precedenza la Camera aveva approvato con il voto di fiducia in un testo molto diverso e che un ulteriore voto di fiducia ha modificato radicalmente. Queste giravolte del governo sono state scaricate brutalmente sul ruolo del parlamento. Non una parola di autocritica per giustificare il voltafaccia.
Ai parlamentari è stato impossibile conoscere, esaminare e discutere le misure proposte a scatola chiusa dal governo. Così si spiega che la norma che ha aumentato l’Ires agli enti non profit sia stata dichiarata (solo dopo l’approvazione) un errore dal governo che l’aveva proposta, con un impegno a modificarla. Quanti altri punti dovranno essere modificati ? Questo accade quando il parlamento non è messo nelle condizioni di esaminare con attenzione le norme di legge.
Rendere impossibile ai parlamentari l’esame e la discussione della legge di stabilità è stato un salto negativo grave, che ha mortificato, in uno dei ruoli fondamentali, il parlamento, che è secondo Costituzione l’architrave del nostro sistema democratico rappresentativo.
Lo sciame sismico di questa scelta sbagliata ha portato i l M5S ad un primo gruppo di espulsioni dei parlamentari che avevano semplicemente chiesto il rispetto del ruolo del parlamento. E’ un segnale di difficoltà. Pessima la scelta di intaccare il ruolo del parlamento e ancor peggio è cacciare dalle proprie fila chi legittimamente, Costituzione alla mano, ha chiesto di poter esercitare il proprio ruolo di parlamentare.
Così non è più la rappresentanza del popolo che decide, per usare un termine caro a Di Maio, ma è l’imposizione di un comando dall’alto, ad ogni costo.
Eppure Fico, nel discorso di insediamento come Presidente della Camera, aveva preso un chiaro impegno a difendere il ruolo del parlamento, finora non c’è riuscito.
Dopo questa grave forzatura ora si discute dell’attuazione dell’articolo 116 della Costituzione. La Lega preme per arrivare ad un consistente regionalismo differenziato con cui dare risposta ad antichi sogni leghisti e questo avrebbe come risultato di rompere l’unitarietà dei diritti che lo Stato, attuando la Costituzione, dovrebbe garantire in tutto il paese, a tutti i cittadini: sanità, istruzione, ecc. Inoltre il M5S preme per abolire la norma costituzionale che prevede che i parlamentari non abbiano vincolo di mandato, cioè siano liberi di votare secondo coscienza. Quanto abbiamo appena visto la dice lunga sul fatto che i parlamentari diventerebbero definitivamente dei meri approvatori di decisioni sequestrate dal governo. Anche le norme sui referendum propositivi, già presentate, non vanno bene. Una minoranza attraverso la proposta di un referendum propositivo di fatto obbligherebbe le camere ad approvare la proposta, che altrimenti verrebbe sottoposta comunque a referendum, prevedendone addirittura due in concorrenza tra loro: uno sulla proposta dei referendari, l’altro sulla legge del parlamento e questo porterebbe alla cancellazione di fatto del ruolo del parlamento, contrapponendo il parlamento ai cittadini. Tutto questo senza prevedere un quorum di validità del referendum, quindi una minoranza finirebbe per imporre la sua volontà alla maggioranza dei cittadini. Infine sta arrivando la proposta di riduzione dei parlamentari, motivata solo con la riduzione della spesa, senza alcun ragionamento su quanti ne servano per rappresentare gli elettori. Eppure il parlamento è il fulcro della nostra democrazia costituzionale.
Forse Di Maio ancora sottovaluta che sullo sfondo di questo coacervo di modifiche, seppure presentate in modo separato, c’è il rischio concreto che arrivi la modifica più radicale, in senso presidenzialista, del nostro ordinamento, che certo non dispiacerebbe a Salvini.
Forse a palazzo Chigi c’è un virus che colpisce molti dei suoi inquilini, a cui non fanno eccezione Di Maio, Salvini e Conte, ed è la tentazione di cambiare la Costituzione.
Che senso ha oggi imbarcarsi in un altro percorso di modifiche della Costituzione, quando il vero ed irrisolto problema, come ha dimostrato la legge di stabilità, è la (in)capacità di governare e di evitare di mettersi in buca da soli con sbruffonate controproducenti ?
Se proprio il governo e la maggioranza vogliono affrontare problemi istituzionali urgenti portino in parlamento la proposta di una nuova legge elettorale che ridia ai cittadini la libertà di scegliere i loro parlamentari, senza più forzature e candidati calati dall’alto, con una rappresentanza sostanzialmente proporzionale. Non si era detto che questa è la tipica materia da inizio legislatura ? Siamo all’inizio, quindi parliamo di legge elettorale e lasciamo in pace la Costituzione.
Se questo tentativo di revisione costituzionale proseguirà sarà inevitabile per tutti affrontare gli appuntamenti con ben altro atteggiamento.
Di Maio dovrebbe ricordare che c’è stato un referendum il 4 dicembre 2016 e se decide di infilarsi di nuovo in questo percorso è libero di farlo ma le energie che hanno condotto la battaglia nell’ultimo referendum costituzionale contro Renzi sono pronte a riprendere l’iniziativa per difendere la Costituzione e la democrazia italiana contro nuovi tentativi. Lo hanno fatto in passato senza chiedersi se avrebbero vinto solo perchè era giusto farlo, possono farlo di nuovo perchè è doveroso bloccare gli attacchi alla Costituzione, da qualunque parte vengano.
Di Maio dovrebbe essere più cauto nel difendere il decreto sicurezza voluto da Salvini e che di cui M5S ha concesso l’approvazione, sbagliando. I profili di incostituzionalità del decreto Salvini sono evidenti come ha messo in luce un gruppo significativo di sindaci e la vita dei migranti è ora messa a rischio in mare, non solo per un pregiudizio ideologico ma più terra terra per tenere in piedi ad ogni costo un patto di potere per restare al governo, che è la sostanza di questa maggioranza.
Come ci ricordano, purtroppo, i migranti che da giorni sono in mare senza trovare un approdo sicuro per mettere fine alle loro sofferenze.
GOVERNO DEL CAMBIAMENTO ? SE PROSEGUE COSÌ, IN PEGGIO.
Alfiero Grandi

1 – SCHIRÒ (PD): IL REDDITO DI CITTADINANZA E GLI ITALIANI ALL’ESTERO. IL GOVERNO ANCORA UNA VOLTA SI STA DIMENTICANDO DI LORO?
Nella legge di bilancio, approvata con le forzature procedurali e le contorsioni costituzionali che abbiamo denunciato dentro e fuori dalle aule parlamentari, compaiono i resti del reddito di cittadinanza, sopravvissuti all’aggiustamento delle cifre concordato con l’Europa dopo la grottesca balconata di qualche settimana prima.
ROMA, 4 GENNAIO 2019Si passa ora dalla poesia alla prosa, vale a dire alla fase applicativa.
Le notizie che giungono dagli ambienti del ministero del lavoro, imprecise e contraddittorie, confermano l’impressione di dilettantismo e pressapochismo che avvolge l’esperienza di governo dei 5Stelle e, comunque, sono tali da moltiplicare inquietudine e allarme, soprattutto sul versante degli italiani all’estero.
Già al primo accenno di una soglia di sbarramento riguardante il requisito del periodo di residenza in Italia richiesto agli stranieri per poterne usufruire, avevo posto con chiarezza un quesito: che ne sarà degli italiani all’estero? Quesito rimasto, naturalmente, senza risposta da parte di chi non ancora riesce a trovare il bandolo della matassa per gli stessi italiani residenti in Italia, figuriamoci per gli altri.
I giornali dicono che per escludere lo straniero, che è la strategia più visibile che questa maggioranza e questo governo perseguono, s’intende portare il periodo di residenza legale dai due anni del “reddito di inclusione” a dieci anni.

E allora torno a chiedere:

1) la misura della residenza continuativa è richiesta solo per gli stranieri in senso stretto o anche per gli italiani residenti all’estero che per ragioni volontarie o di necessità intendano tornare in Italia?
2) di fronte alla diversità di trattamento di cittadini di Stati che concedono un analogo beneficio assistenziale agli stranieri (in Germania, ad esempio, bastano solo 5 anni), qualcuno ha valutato le conseguenze che potrebbero venirne agli italiani, molti dei quali di recente immigrazione, che risiedono in tali Paesi?
3) poiché esponenti di questo governo, compreso il Sottosegretario Merlo che ha la delega per gli italiani nel mondo, già vanno dicendo che per gli italiani in fuga da zone di crisi, come il Venezuela, è pronto il reddito di cittadinanza, qualcuno si è posto il problema se anche per loro sia eventualmente richiesto il requisito della residenza decennale continuativa e se le strettissime condizioni reddituali previste ne consentano l’applicabilità alla maggior parte degli interessati?
Parafrasando un film comico di alcuni anni fa, sarebbe da chiedersi se i nostri eroi riusciranno a venire a capo dei problemi che loro stessi stanno creando o complicando. Trattandosi di apprendisti stregoni è lecito dubitarne. In ogni caso, gli italiani all’estero forse qualche risposta chiara la meriterebbero.
On. Angela Schirò
Camera dei Deputati

2 – NUMERI ALLA MANO in PARLAMENTO
75 – GIORNI DI DIBATTITO SULLA LEGGE DI BILANCIO. Presentata lo scorso 15 ottobre in consiglio dei ministri, ha finalmente completato il suo iter parlamentare la legge di bilancio. Dopo 3 approvazioni parlamentari, una navetta e un maxi-emendamento, il governo è riuscito ad ottenere il definitivo via libera entro la fine dell’anno, come richiesto da legge. Ma tra disegni di legge collegati e decreti attuativi, la partita è appena iniziata. Scopri il perché

3 – VOTI DI FIDUCIA PER L’APPROVAZIONE. È la prima volta nella XVIII legislatura che un testo viene approvato con 3 voti di fiducia, prova di quanto sia stato un dibattito acceso per il governo Conte. Si tratta del secondo provvedimento che ha richiesto 2 o più voti di fiducia per completare il proprio iter. Nei mesi scorso infatti, anche il decreto sicurezza aveva seguito un percorso simile, con un voto di fiducia per ramo. Vedi perché questo rappresenta un problema

0% – DEI DISEGNI DI LEGGE DI INIZIATIVA POPOLARE HANNO COMPLETATO IL PROPRIO ITER. Anche in questa legislatura le proposte normative dei cittadini vengono messe in secondo piano. Su 23 testi arrivati in parlamento nessuno è diventato legge. Solo una delle proposte è stata approvata in un ramo, ma all’interno di un testo unificato in materia di legittima difesa. Vedi l’elenco completo

6 – MESI SENZA TRASPARENZA SUI DECRETI ATTUATIVI. Continua il silenzio del governo sull’attuazione del programma. Il sito di Palazzo Chigi per il monitoraggio dei decreti attuativi non è aggiornato dal 9 luglio scorso. Un atto grave e preoccupante considerando che è l’unico modo per avere dati ufficiali sull’implementazione delle leggi approvate dal parlamento. Scopri che cosa sono i decreti attuativi

12°- DECRETO LEGGE PRESENTATO DAL GOVERNO. Il 23 dicembre il consiglio dei ministri ha deliberato un nuovo decreto legge, già al centro di polemiche. Parliamo del decreto Ncc, presentato dal ministro Toninelli in seguito all’approvazione del maxi emendamento del governo sulla legge di bilancio. Leggi il comunicato del governo

3 – MATTARELLA DEBOLE E GLI SFASCIACARROZZE DELLA COSTITUZIONE. GOVERNO/PARLAMENTO. LE CONVULSIONI DEL DOPO 4 MARZO ACCENTUANO LA CENTRALITÀ DEGLI ORGANI DI EQUILIBRIO E GARANZIA: PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, CORTE COSTITUZIONALE.
Per questo il discorso di fine anno di Mattarella è condivisibile, ma non del tutto soddisfacente. Ha un senso di ordinaria amministrazione, in un contesto per nulla ordinario. È minimale il richiamo alle forze politiche a ridiscutere a cose fatte sulla legge di stabilità, anche se capiamo la pressione per promulgare comunque. È un equilibrismo il richiamo alla sicurezza e agli immigrati, ma non all’accusa di violare i diritti umani che molti hanno rivolto all’Italia
( di Massimo Villone da “ Il Manifesto”
È risuonata alta la protesta contro l’incostituzionale bavaglio applicato al parlamento con l’approvazione della legge di stabilità. Come scrive Azzariti su queste pagine, nell’esperienza passata molto era già accaduto.
E il voto imposto senza uno straccio di discussione è stato solo l’ultimo e più evidente strappo. Ma bisogna essere consapevoli che il più ampio rispetto del galateo parlamentare non avrebbe, con ogni probabilità, prodotto una legge significativamente diversa. La domanda è: come si può fare utilmente argine?

La forza di un’assemblea elettiva è data dalla forza dei soggetti politici collettivi che in essa entrano con i propri rappresentanti. La debolezza del parlamento oggi viene dalla debolezza complessiva del sistema dei partiti. Salvo uno: la Lega. E questo ne spiega la capacità di assumere una posizione dominante nella compagine di governo e il trend dei sondaggi. Non c’è competizione tra un partito vero con un progetto politico, e un non-partito che va a palazzo Chigi con un non-programma, ma con un paniere di proteste variamente raccolte.

Le convulsioni del dopo 4 marzo accentuano la centralità degli organi di equilibrio e garanzia: Presidente della Repubblica, Corte costituzionale. Per questo il discorso di fine anno di Mattarella è condivisibile, ma non del tutto soddisfacente. Ha un senso di ordinaria amministrazione, in un contesto per nulla ordinario. È minimale il richiamo alle forze politiche a ridiscutere a cose fatte sulla legge di stabilità, anche se capiamo la pressione per promulgare comunque. È un equilibrismo il richiamo alla sicurezza e agli immigrati, ma non all’accusa di violare i diritti umani che molti hanno rivolto all’Italia.

Terreno anche giuridicamente minato, come dimostra lo scontro in atto tra il sindaco Orlando e il ministro Salvini. Non si menziona l’attacco alla stampa e all’informazione. Si allude in modo del tutto criptico – richiamando l’unità della Repubblica come comune destino – alla secessione leghista strisciante attraverso l’art. 116. Eppure, l’attacco all’unità è ormai pubblicamente discusso e viene rafforzato da minacce di crisi di governo. Mentre la Costituzione chiama il Capo dello Stato a rappresentare l’unità nazionale (art. 87). Persino Conte si è auto-nominato garante.

Si può opporre che il Capo dello Stato si è anche già espresso altrove. Ma nel discorso di fine anno parla direttamente a tutti gli italiani. È un messaggio non mediato, di efficacia comunicativa non comparabile con l’esternazione in sedi più ristrette, come gli incontri con la stampa parlamentare o benemerite associazioni.

È possibile che il ruolo del Capo dello Stato, già difficile, lo diventi ancor più. Analoga considerazione vale per la Corte costituzionale. Il 9 gennaio deciderà preliminarmente sulla ammissibilità del ricorso Pd per la legge di stabilità, e potrebbe negarla. Ma è indiscutibile la indebita compressione della funzione dei parlamentari – non rileva se considerati individualmente o come gruppo – nelle ore convulse che hanno preceduto il voto sulla fiducia e l’approvazione. Quanto alla successiva decisione sul merito, però, un rigetto del ricorso – anche guardando ai precedenti – è più probabile, soprattutto per l’argomento che esistono garanzie e rimedi nell’ordinamento interno dell’assemblea. Nel confronto politico proprio di un’assemblea elettiva violazioni molteplici sono in ogni momento possibili, e una linea giurisprudenziale di apertura senza filtri rischierebbe di rendere la Corte sede di appello per contrasti e dissensi, individuali e di gruppo. Nel caso specifico, poi, potrebbe provocare uno tsunami politico, istituzionale e finanziario. Volendo scommettere, sì per l’ammissibilità, no nel merito del ricorso.

Bisogna rimanere in campo, ma sapendo che non ci sono scorciatoie o demiurghi. Il paese si rinsalda con soggetti politici stabilmente e solidamente strutturati, assemblee ampiamente rappresentative, parlamentari liberamente eletti e non vincolati al mandato di chicchessia.

Un percorso né facile né breve. Scalfari su Repubblica legge nel discorso di Mattarella la nazione perfetta. Più modestamente, noi vorremmo porre al riparo da strappi il tessuto artigianale complesso e raffinato della Costituzione, tornando ai fondamentali e fermando gli sfasciacarrozze.

4 – NEGLI USA QUALCOSA SI MUOVE, ELIZABETH WARREN CORRERÀ PER LA PRESIDENZA.

Stati uniti. La senatrice liberal ha annunciato la nascita del suo «comitato esplorativo». Elizabeth Warren durante la campagna di midterm . Il primo gennaio 2019 ha segnato il nono giorno dello shutdown parziale, lo stallo delle attività governative che ha colpito 800.000 lavoratori federali e ha portato alla chiusura di nove dipartimenti a livello di gabinetto. Durante questi nove giorni Trump ha ribadito che non si rimangerà la promessa della costruzione di un muro di confine con il Messico.

Quello che il presidente non ha fatto, invece, è stato cercare un compromesso con l’opposizione democratica che – dal canto suo – non ha alcuna intenzione, né ha alcun interesse, a cedere e stanziare un finanziamento plurimiliardario per costruire quello che è il simbolo della visione xenofoba e razzista della politica di Trump.

THE DONALD HA PREFERITO usare Twitter per attaccare duramente i democratici, sottolineando di avere cancellato la vacanza nel suo club privato in Florida, mentre tutti gli altri politici avevano lasciato Washington per passare le feste con le famiglie, e lamentando la negatività dei media – a suo parere schierati tutti contro di lui, visto che continuano a riproporre le sue affermazioni fatte solo pochi giorni fa davanti ai giornalisti presenti nello Studio Ovale, quando aveva dichiarato che non avrebbe addossato ai democratici la responsabilità dello shutdown.

L’opposizione democratica intanto si sta preparando ad approvare un progetto di legge per finanziare le parti del bilancio del governo che non fanno parte del Dipartimento per la sicurezza interna e che quindi non dipendono dalla costruzione del muro; si prevede che già giovedì la Camera voterà un pacchetto comprendente sei progetti di legge.

LE MOSSE DEMOCRATICHE prevedibilmente non troveranno ostacoli dopo che il nuovo Congresso si riunirà e i democratici avranno il controllo della Camera riconquistato con le elezioni di midterm che si sono svolte a inizio novembre; ciò che si configura è un braccio di ferro tra la nuova Camera e la Casa bianca che – pare – verrà alimentato dalla presenza del nuovo direttore dell’Ufficio per la gestione e il bilancio, Mick Mulvaney che non è contrario allo shutdown, presentato anzi come l’opzione preferibile, visto che i democratici già si prepareranno per i le primarie presidenziali del 2020 e si profila un clima pre elettorale.

A 673 DALL’ELECTION DAY la senatrice liberal del Massachusetts, Elizabeth Warren, tramite un video diffuso il 31 dicembre, ha annunciato di avere istituito un comitato esplorativo per prendere in considerazione una sua candidatura presidenziale per il 2020.

La competizione per la nomination democratica si preannuncia come la più aperta dal 1992: il partito si sta allontanando da 25 anni di prevalenza Clinton/Obama, e lo sta facendo senza un unico leader favorito e senza un’ideologia unificatrice, diviso tra i moderati di Washington e la nuova onda di sinistra alzata da Bernie Sanders.

Dopo un midterm in cui hanno vinto molte donne, socialisti, liberal, minoranze e giovani, le elezioni presidenziali rischiano di essere combattute non solo su quale potrebbe essere la combinazione politica vincente come candidato e vice, ma soprattutto su quale mix identitario puntare in queste elezioni.
Se già si parla di un ticket Elizabeth Warre/Beto O’Rourke, quello della senatrice non è il primo comitato esplorativo a essere stato formato; anche Julián Castro, l’ex segretario per gli alloggi federali e sindaco di San Antonio, a dicembre ha messo insieme delle commissioni esplorative e come lui lo ha fatto anche John Delaney, membro della Camera dei Rappresentanti per lo stato del Maryland.

5 – I NOSTRI 50 ANNI E LA SCURE DEL GOVERNO. Un giornale più forte, utile all’opposizione sociale verso un governo rappresentato da un ministro degli Interni in divisa, un ministro di polizia campione di incassi elettorali.
Questa fine d’anno ci proietta in un 2019 che appare come campo occupato da bande violente che si sentono ben rappresentate dal potere politico.
Un campo lastricato da errori e sconfitte perché, come scriveva Luigi Pintor, all’epoca del governo Berlusconi-Bossi-Fini, «abbiamo al governo la peggiore destra perché prima abbiamo avuto al governo la peggiore sinistra».
Quell’amara constatazione resta una valida diagnosi, utile per l’oggi. Una diagnosi che serve a capire come ricostruire un punto di vista critico sul capitalismo nel bicentenario di Marx; come rafforzare i punti di resistenza che in Italia, in Europa e nelle Americhe si ricostruiscono sotto i colpi del populismo delle élite e del capitalismo finanziario.
Vogliamo continuare a raccontare tutto questo. Come abbiamo sempre fatto.
Nelle nostre pagine c’è un mondo vasto e diverso da quello che di solito primeggia sugli altri giornali.
L’ANNO PROSSIMO SARANNO I CINQUANT’ANNI DALLA NASCITA DEL GRUPPO DEL Manifesto con la sua rivista, e Rossana Rossanda è tornata a scrivere sulle nostre pagine. Nell’anniversario delle nostre origini c’è il senso del futuro di questa iniziativa politica, culturale e giornalistica.
Oggi il manifesto c’è. Tutto è possibile. Questo slogan sessantottino, usato per la nostra piccola campagna pubblicitaria, non contemplava la ghigliottina al fondo per il pluralismo infilata di forza nella manovra da Salvini e Di Maio. E’ questa la nube più pesante sul nostro orizzonte.
Se sarà confermato, si tratta di un taglio di oltre 6 milioni di euro in tre anni. Una mazzata micidiale, con la forza di un colpo mortale.
Come sanno i nostri lettori, la pubblicità scarseggia sulle nostre pagine e le vendite in edicola soffrono, anche se meno degli altri quotidiani. Difficoltà presenti vuoi per la rivoluzione digitale, vuoi per la crisi del settore, vuoi per le debolezze di una sinistra dispersa e afona.
La nostra cooperativa finora è vissuta in salute. Abbiamo appena ripubblicato on line tutto l’archivio storico salvato dalla liquidazione (non è accaduto lo stesso, purtroppo, per altre testate della sinistra come l’Unità o Liberazione).
Abbiamo investito nel giornale e nei suoi prodotti: l’appuntamento mensile sull’Asia, il settimanale ecologista l’ExtraTerrestre, Alias Comics, supplementi e speciali sugli eventi più importanti dell’anno, l’avventuroso ritorno nelle tipografie e nelle edicole di Sicilia e Sardegna (un bell’esperimento ma molto oneroso), lo sviluppo di nuove funzioni del sito con una homepage più elastica e funzionale alle notizie di giornata, la ristampa degli storici fascicoli sul Sessantotto, l’aumento della foliazione del quotidiano.
Continuiamo a pubblicare sito e app che proteggono al massimo livello i vostri dati personali e la vostra privacy dai giganti del web.
Non è tempo di divisioni. Lo diciamo a noi stessi e al mondo della sinistra e non solo, che ci legge e ci segue.
Non è più possibile né accettabile osservare i frammenti del naufragio senza rimboccarsi le maniche e procedere a una sintesi politica più ampia delle forze in campo. Disperse, ma non svanite.
A gennaio, dopo l’approvazione della manovra, saremo costretti a misurarci con gli effetti drammatici del taglio al fondo per il pluralismo.
Ancora non sappiamo come potremo superare questo ennesimo scoglio sulla nostra rotta pirata.
Già sappiamo che da gennaio aumenterà il costo della carta, che la raccolta pubblicitaria dovrà insistere nel coinvolgere vecchi e nuovi inserzionisti. E dovremo trovare i fondi per tenere in sicurezza la testata.
Il manifesto ha sette vite ma alcune, senza dubbio, le abbiamo già giocate negli ultimi avventurosi cinquant’anni di vita in edicola.
Abbiamo bisogno di voi. Ci comprate sporadicamente, una volta ogni tanto. E non va bene. Nel corso dei decenni tutto è cambiato. Andare in edicola o abbonarsi al manifesto non significa solo sostenere la libertà di una stampa alternativa. Significa compiere un gesto di militanza politica. Come del resto lo è sempre acquistare e leggere un giornale.
Ogni volta che siamo caduti siamo stati in grado di rialzarci, raccogliere i cocci e ripartire.
Il desiderio del 2019 è veder crescere vendite e abbonamenti, una condizione necessaria che richiama ciascuno a fare la sua parte.
Finché il manifesto c’è, tutto è possibile.

6 – IL POETA DELLA POLITICA. L’avanzata delle destre e del neoliberismo in America latina, la pace in Colombia, le difficoltà del Venezuela e l’eredità di Hugo Chàvez, il futuro dell’Uruguay.

Qual è la visione di Pepe Mujica?

Ne parliamo con Kintto Lueas, autore di un libro scritto con l’ex presidente contadino.
Con Bolsonaro si apre un pericoloso processo di fascistizzazione della società latinoamericana

Kintto Lucas è un analista politico, scrittore e giornalista uruguaiano/ecuadoriano.
E stato ambasciatore dell’Uruguay e vice primo ministro dell’Ecuador. Ha scritto diversi libri d’inchiesta ma anche saggi politici e si è cimentato con la narrativa e la poesia.
Negli anni Settanta a nove anni entrò nell’organizzazione guerrigliera Tupamaros di cui José Mujica era uno dei leader. Il lungo rapporto tra i due si è oggi materializzato nelle pagine di un libro da poco uscito in Italia
per Castelvecchi: José “Pepe” Mujica:
I labirinti della vita. Dialogo con Kintto Lucas.
A lui abbiamo rivolto alcune domande.

PARLACI DI MUJICA, TU E “PEPE” VI CONOSCETE DA TANTO TEMPO. IN EUROPA LO CONSIDERANO QUASI ALLA STREGUA DI UN ESSERE MITOLOGICO, COSA NE PENSI?
Ci sono due punti di vista. Uno è quello latinoamericano e l’altro è quello europeo. In America latina è un punto di riferimento, ma non come in Europa. Io credo che l’attuale situazione europea, a sinistra, porti a cercare nuovi referenti politici. Mujica è diventato una figura con cui identificarsi perché parla di temi chiave anche per gli europei – come l’integrazione, l’ecologia, il neoliberismo – con una grande capacità di comunicazione che non ha nessun politico europeo ma nemmeno latinoamericano. In America latina non è però idealizzato o addirittura mitizzato come accade dall’altra parte dell’Atlantico. Lui è qui in carne e ossa, noi latinoamericani sappiamo chi è, conosciamo la sua storia politica, sappiamo come è stato il suo governo. Di recente in Spagna gli hanno consegnato un premio per la sua capacità di fare poesia facendo politica. In America latina una cosa del genere non può accadere ma lui resta comunque una grande figura di riferimento.

TRA I DIVERSI TEMI DI CUI PARLATE NEL LIBRO C’È IL PROCESSO DI PACE IN COLOMBIA IN CUI MUJICA HA GIOCATO UN RUOLO FONDAMENTALE.
Abbiamo toccato diverse questioni importanti che riguardano l’America latina, molte delle quali irrisolte da tempo. Una di queste è il processo di pace in Colombia. Che non riguarda solo il Paese in sé ma va inquadrato nel contesto latinoamericano perché può avere ripercussioni in tutta la regione a partire dai Paesi più vicini alla Colombia, come il Venezuela. Mujica ha dato un contributo decisivo anche grazie al fatto che lui stesso in prima persona ha vissuto la fase di uscita da una dittatura verso la democrazia. E stato detenuto oltre 12 anni e la sua organizzazione guerrigliera, i Tupamaros, sono stati sconfitti.
Eppure una volta finita la dittatura a metà anni Ottanta sia lui che i suoi compagni sono rientrati nella legalità fino ad arrivare nel suo caso alla presidenza della Repubblica. La situazione colombiana è ovviamente diversa ma Mujica ha messo sul tavolo la sua esperienza per contribuire alla cessazione di un conflitto durato 50 anni. Con la convinzione che ci potesse essere una via d’uscita, forse non la migliore, ma che comunque andasse cercata. E così è stato.

DA ANALISTA POLITICO COME VEDI L’ELEZIONE DI BOLSONARO IN BRASILE E LE CRISI DEI GOVERNI PROGRESSISTI IN TUTTA L’AMERICA LATINA?
Per tanti anni i governi progressisti dell’America latina – alcuni più radicali, altri meno, alcuni più a sinistra rispetto d’altri – hanno fatto una sorta di fronte comune contro la visione conservatrice e neoliberista della società. Ma ora a destra si comincia a consolidare un altro progetto che va oltre l’economia e che non punta a distruggere solo ciò che si è ottenuto con i governi progressisti. La vittoria di Bolsonaro apre un processo di fascistizzazione della società
latinoamericana perché oltre alla visione liberista c’è dietro un’ideologia che attacca frontalmente i diritti umani e civili. Il Brasile è il Paese più importante e influente dell’America latina quindi la situazione è preoccupante e pericolosa. Specie se allargando lo sguardo pensiamo anche all’avanzata delle destre nazionaliste in Europa e al fatto che negli Stati Uniti ci sia Trump. Le conseguenze dell’elezione di Bolsonaro possono andare molto
oltre le previsioni, in peggio. E qui si evidenzia un grande problema della sinistra nel mondo: l’incapacità di avere una visione globale e sul lungo periodo, ripiegata com’è di volta in volta su quella del singolo contesto della singola elezione.
NEL 2019 CI SARANNO LE ELEZIONI IN URUGUAY…
Il Brasile ha molta influenza sull’Uruguay e io ho il timore che la sinistra, il Frente Amplio, possa perde-
re le elezioni. Bisognerebbe fare un’analisi profonda della situazione. Oggi la sinistra è condizionata
dall’avanzata dei conservatori e tende a imitarli per tentare di resistere. Ma è molto rischioso perché c’è molta gente di sinistra stanca di alcune politiche meno “progressiste”. E in un Paese come l’Uruguay la maggioranza parlamentare si può perdere per dei voti che vanno a settori considerati di sinistra più radicale o per le schede bianche. Non bisogna sottovalutare l’elettorato. Inoltre, sempre se guardiamo
al Brasile mi sento di condividere un’analisi di Frei Betto sulla vittoria di Bolsonaro. Di sicuro hanno influito i mass media e il lavoro di intelligence degli Usa ma non si può negare che ci siano stati anche errori della sinistra. Altrimenti non si spiega perché il 20% di astenuti che prima votavano il Partito del lavoratori e perché molti voti che avrebbe preso Lula se fosse stato candidabile sono finiti a Bolsonaro. Questo dimostra che non si è fatto un lavoro responsabile ma si è guardato solo “in superficie”, alle elezioni. Lula indubbiamente è una grande perdita ma in Uruguay ci troviamo in una situazione simile. Abbiamo Mujica ma lui non sarà candidato. Anche in Ecuador succede lo stesso con Correa. Per questo a destra in America latina cercano di eliminare politicamente personalità del genere. E naturale che esista un leader, ma la sinistra non può puntare solo su questo.

NEL LIBRO ANALIZZATE ANCHE LA DIFFICILE SITUAZIONE VENEZUELANA.
Mujica nel libro elabora un’analisi sul Venezuela, anche del suo ruolo internazionale, e ribadisce la sua idea su Plugo Chàvez. Ha sempre detto e lo afferma
ancora che non ha mai conosciuto un presidente così legato all’America latina come è stato Chàvez.
E io sono d’accordo con lui perché so cosa è stato Chàvez.
Mujica ne sottolinea anche il peso fondamentale che ha avuto nell’unità dell’America latina in ottica bolivariana. Ma proprio mentre parlavamo di queste cose con Mujica, questa unità ha cominciato a vacillare a causa dell’avanzata dei conservatori.

E RIGUARDO MADURO COSA POSSIAMO DIRE?
Mujica esprime delle critiche nei confronti del governo di Maduro. Critiche costruttive. Al tempo stesso sottolinea con convinzione assoluta il suo no a qualsiasi ingerenza. Nessuno deve entrare nei problemi interni del Venezuela. Non solo per una questione di principio, ma anche analizzando in profondità quali conseguenze può determinare un’intromissione di carattere internazionale. In estrema sintesi non migliora nulla, anzi semmai può contribuire peggiorare una situazione già estrema- mente delicata.

7 – Brevi dal mondo: Egitto, Israele, Emirati, Sudan. Il Cairo conferma la condanna per Amal Fathy. In Israele l’opposizione si spacca in diretta tv. La Ue chiede agli Emirati il rilascio dell’attivista Mansoor. Intanto il presidente Bashir prova a fermare le proteste con le promesse

L’EGITTO INSISTE: CARCERE PER AMAL
A pochi giorni dal suo rilascio in libertà condizionata, una corte d’appello del Cairo ha confermato la condanna a due anni di prigione per Amal Fathy, attivista egiziana e moglie del fondatore dell’ong Ecrf e consulente della famiglia Regeni, Mohammed Lofty. I reati di cui è accusata vanno dalla diffusione di notizie false all’incitamento al rovesciamento del regime.

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ISRAELE, I LABURISTI MOLLANO LIVNI IN TV
A quattro mesi dal voto anticipato, la principale coalizione di opposizione in Israele, la Zionist Union, si è spaccata in diretta tv: il leader del partito laburista, Avi Gabay, ha annunciato la rottura a un’ignara Tzipi Livni (partito Hatnua) accanto a lui in conferenza stampa. I laburisti contano oggi 19 seggi, Hatnua 4. Ma i sondaggi li danno in caduta libera: tra i 7 e i 10 seggi.

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LA UE AGLI EMIRATI: RILASCIATE MANSOOR
Lunedì la Corte suprema federale degli Emirati arabi ha confermato la condanna a 10 anni di prigione e il pagamento di una multa di 270mila dollari per l’attivista per i diritti umani e poeta Ahmed Mansoor, accusato di diffusione di notizie false via web. Ieri è arrivata la reazione della Ue che ha chiesto alle autorità emiratine di riconsiderare la sentenza e rilasciarlo.

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BASHIR promette inchieste e soldi
Le proteste in Sudan non si spengono e il presidente Omar al-Bashir tenta con le promesse: ieri ha ordinato la creazione di una commissione di inchiesta sull’uccisione di manifestanti (almeno 19 in due settimane secondo il governo, 37 secondo Amnesty). E domenica scorsa, nel discorso di fine anno commemorativo dei 63 anni di indipendenza del Sudan, ha promesso che il bilancio del 2019 appena approvato dal parlamento condurrà verso un nuovo sviluppo economico. Allevierà, ha detto, «la sofferenza della popolazione mantenendo i sussidi su certi beni e aumentando i salari», anche grazie ad accordi bilaterali con Cina, Russia e paesi del Golfo. Intanto, però, fuori dal palazzo presidenziale a Khartoum in migliaia hanno marciato per chiedere le sue dimissioni, una folla dispersa dalla polizia con lacrimogeni e proiettili.

8 – NELLA FABBRICA URBANA DEL CONFLITTO. STUDI URBANI. RIPUBBLICATO DOPO QUARANT’ANNI IL CLASSICO «LA PRODUZIONE DELLO SPAZIO» DI HENRI LEFEBVRE.

Nelle apparenti aporie dell’indagine del filosofo, indicazioni preziose per leggere le metropoli di oggi. Un testo da cui muove il lavoro successivo di David Harvey, Neil Brenner, Manuel Castells e molti altri. Dire che la metropoli è un rapporto sociale prima di essere un luogo o un mezzo della produzione significa porsi all’altezza delle attuali catene della valorizzazione capitalistica. Il filosofo marxista Henri Lefebvre.
( di Felice Mometti da Il Manifesto 03 01 2019)

Più che un libro è un grande affresco che mostra un percorso, piuttosto complesso, per mettere in forma una teoria dello spazio. La ripubblicazione, dopo più di 40 anni, di La produzione dello spazio di Henri Lefebvre (Pgreco Edizioni, 2018, 25 euro) non ci riporta solo ai dibattiti di allora, ma ci permette di ricostruire la genealogia di una parte significativa dell’analisi urbana dei decenni successivi. David Harvey, Neil Brenner, Manuel Castells fino agli anni ’80, per citarne solo alcuni, hanno avuto in modo più o meno esplicito questo testo come costante punto di riferimento. Dopo Il diritto alla città e La Rivoluzione urbana, pubblicati a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, in cui si portava alla luce, in un periodo di grandi sommovimenti sociali, la relazione tra lotte sociali e spazio urbano, Lefebvre ha voluto andare alla radice della questione. E lo ha fatto dando vita, per 400 pagine, a una sorta di corpo a corpo teorico innanzitutto con Marx e, in seconda battuta, con Hegel e Nietzsche. Non più e non solo la città e la metropoli, ma lo spazio come luogo, strumento e rapporto costitutivo del modo di produzione capitalistico.

FATTI VELOCEMENTE I CONTI con la concezione dello spazio di Kant, Lefebvre individua due premesse fondamentali e un metodo di quella che indica come una possibile nuova «scienza dello spazio». Lo spazio implica, contiene e dissimula dei rapporti sociali, non è una cosa ma un insieme di relazioni. È anche, esso stesso, un rapporto sociale intrinseco ai rapporti di proprietà e legato alle forze produttive in quanto prodotto e mezzo di produzione. Seconda premessa: il tempo è inscritto nello spazio e la lotta di classe si legge soprattutto nello spazio. Anzi è l’unico ostacolo che impedisce allo «spazio astratto» di estendersi in ogni dove cancellando le differenze.

A questo punto Lefebvre procede per analogie: lo spazio come forza produttiva che entra in contraddizione con i rapporti di produzione e lo spazio astratto contrastato dalla lotta di classe come il lavoro sans phrase di Marx. Ma per passare dalle analogie alla teoria è quantomeno richiesto un metodo. Lefebvre si rende conto che l’operazione è più complessa del previsto. Cercando nella propria cassetta degli attrezzi la scelta cade sull’aggiornamento, tenendo però presente l’Introduzione di Marx ai Grundrisse, del vecchio testo Logique formelle, logique dialectique.

Il metodo è definito come «regressivo-progressivo» in cui la produzione dello spazio elevata a «concetto e linguaggio, reagisce sul passato e vi scopre aspetti e momenti sconosciuti» e di conseguenza si presenta in maniera diversa anche il processo che va da questo passato al momento attuale. Ciò nonostante questo metodo non è esente dal rischio, secondo Lefebvre presente anche in Marx, che la parte «regressiva» oscuri la parte «progressiva». Per evitare che ciò accada, la produzione dello spazio deve operare come «concetto teorico e realtà pratica indissolubilmente legati», in modo da esplicitarsi come una verità «in sé e per sé» compiuta e tuttavia relativa. In sostanza Lefebvre estrapola e generalizza, dell’Introduzione di Marx, il passaggio in cui si sostiene che l’anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scimmia, letto con un sottofondo hegeliano nonché con qualche eco che rinvia alla seconda Considerazione Inattuale di Nietzsche. Tenere insieme le premesse con questo metodo diventa per Lefebvre un’impresa ardua, tanto è vero che gli scarti, gli scostamenti, le digressioni diventano la parte più innovativa del libro che, ancora oggi, sono in grado di suscitare riflessioni e suggestioni.

UNA DI QUESTE RIGUARDA lo spazio sociale che si produce e riproduce in connessione, e non dentro la contraddizione, con le forze produttive e i rapporti di produzione. Non è riducibile agli oggetti e ai soggetti che contiene né alla loro eventuale somma perché è un sistema di relazioni. E la forma dello spazio sociale è data dalla simultaneità dell’incontro di tutto ciò che è prodotto dalla natura e dalla società sia nella loro cooperazione sia nel loro conflitto. Uno spazio sociale e urbano non è l’inventario delle cose che contiene, un discorso e nemmeno una rappresentazione. Lo spazio è un rapporto sociale perché i rapporti sociali di produzione vi si inscrivono e allo stesso tempo lo producono.

Ma, una volta raggiunta questa definizione, Lefebvre opera un ulteriore scarto ritornando al metodo prima illustrato. È lo spazio che regola il tempo perché il movimento delle merci, del denaro presuppongono luoghi di produzione e vie di trasporto. Lo spazio, nella fattispecie lo spazio urbano, ridiventa un mero supporto dei rapporti sociali, i quali diventano reali solo nello spazio. Lo spazio è essenzialmente di nuovo un contenitore. In questo caso, nel tentativo di mantenere una certa coerenza nella sua esposizione, Lefebvre si arrampica su una supposta connessione tra «supporto-rapporto» che richiede sia analisi specifiche sia implicazioni che investono uno «spazio-analisi» e una «ritmanalisi», cioè la ricerca dei ritmi della trasformazione dello spazio. Detto in altri termini, diventa una sorta di meta-filosofia dello spazio.

Ancora una volta il metodo ingabbia e neutralizza le sue stesse premesse. Sembra quasi che lungo il testo agisca un potente Super-io che riporta l’autore all’ordine quando la riflessione imbocca strade non preventivate e a tale proposito gli esempi possono essere molti. Ma invece sono proprio le riflessioni e le intuizioni di Lefebvre che seguono in modo imprevisto le sue premesse che, accantonando il metodo, appaiono ancora oggi in grado di fornire indicazioni utili per l’analisi della metropoli contemporanea. Dire che lo spazio urbano è innanzitutto un rapporto sociale prima di essere un luogo o un mezzo della produzione sociale significa porsi all’altezza delle attuali catene della valorizzazione capitalistica. La produzione dello spazio diventa così un processo che articola «una pratica spaziale», per usare le definizioni di Lefebvre, che ingloba produzione e riproduzione sociale, una «rappresentazione dello spazio» legata ai rapporti di produzione e al loro continuo rivoluzionamento e degli «spazi di rappresentazione» visti come la dimensione simbolica che produce immaginari e comportamenti nello spazio urbano. Dove la conoscenza dello spazio urbano si dà come critica dello spazio urbano.

IL LIBRO DI LEFEBVRE è continuamente attraversato da oscillazioni, da definizioni provvisorie che vengono in gran parte stravolte con lo sviluppo delle argomentazioni. Se l’invocazione di una rivoluzione dello spazio, che necessariamente deve comprendere una rivoluzione urbana, sembra più dettata dal contesto storico in cui è stato scritto, la possibilità dar vita a dei processi di soggettivazione con l’attivazione di «contro-spazi» è più che una suggestione. In fondo, la metropoli contemporanea non è riducibile, se mai lo è stata, al solo assetto urbano fatto di edifici, vie di trasporto e flussi di informazioni, è un processo spazio-temporale che riproduce incessantemente le condizioni di dominio e sfruttamento della produzione sociale.

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