18 03 17 – Tre analisi del voto del 4 marzo

1 – La sinistra se n’è andata da sé. «L’animo nostro informe». Un’Italia irriconoscibile. La sinistra del 2018 non è stata messa sotto da nessuno. Gli elettori si sono limitati a sfilarle accanto per andare altrove. Come si lascia una casa in rovina di Marco Revelli.
2 – Le crisi del Pd e della sinistra chiedono di ricostruire una prospettiva politica Crisi della sinistra. I risultati elettorali dicono che l’assenza di ogni pensiero apre la strada al successo, la massa non aspetta che sentirsi dire questo poiché in questa assenza è stata formata . Alberto Asor Rosa
3 – Abbiamo cercato in ogni modo di contrastare la legge elettorale con cui abbiamo votato il 4 marzo. Una legge approvata con 3 voti di fiducia alla Camera e 5 al Senato, in altre parole attraverso un accordo raggiunto tra Partito Democratico, Forza Italia, Lega e il supporto di schegge politiche di scarsa consistenza, di A. Grandi.

1 – La sinistra se n’è andata da sé. «L’animo nostro informe». Un’Italia irriconoscibile. La sinistra del 2018 non è stata messa sotto da nessuno. Gli elettori si sono limitati a sfilarle accanto per andare altrove. Come si lascia una casa in rovina di Marco Revelli.
L’Italia del day after non ce la dicono i numeri, le tabelle dei voti. Ce la dicono le mappe, ce la dicono i colori. Ed è un’Italia irriconoscibile, quasi tutta blu nel centro nord, tutta gialla nel centro sud. Verrebbe da dire: l’Italia di Visegrad e l’Italia di Masaniello.
L’Italia di sopra allineata con l’Europa del margine orientale, l’Europa avara che contesta l’eccesso di accoglienza e coltiva il timore di tornare indietro difendendo col coltello tra i denti le proprie piccole cose di pessimo gusto: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, passando per il corridoio austriaco…
L’Italia di sotto piegata nel suo malessere da abbandono mediterraneo, nella consapevolezza disperante del fallimento di tutte le proprie classi dirigenti, e in tumultuoso movimento processionale nella speranza di un intervento provvidenziale (un novum, qualcuno che al potere non c’è finora stato mai) che la salvi dall’inferno.

L’UNA ATTIRATA DAL FLAUTO MAGICO DELLA FLAT TAX, L’ALTRA DA QUELLO DEL REDDITO DI CITTADINANZA.
In mezzo il nulla, o quasi: una sottile fascia, slabbrata, colorata di rosso nei territori in cui era radicato il nucleo forte dell’insediamento elettorale della sinistra, e che ora appare in progressiva disgregazione, con i margini che già cambiano.
Bisognerà ben dircelo una buona volta fuori dai denti, se non altro per mantenere il rispetto intellettuale di noi stessi: in questa nuova Italia bicolore la sinistra non c’è più. Non ha più spazio come presenza popolare, come corpo sociale culturalmente connotato, neppure come linguaggio e modo di sentire comune e collettivo. Persino come parola. La sua identità politica, un tempo tendenzialmente egemonica, non ha più corso legale. L’acqua in cui eravamo abituati a nuotare da sempre è defluita lontano – molto lontano – e noi ce ne stiamo qui, abbandonati sulla sabbia come ossi di seppia. Disseccati e spogli.

NON È UNA «SCONFITTA storica», come quella del ’48 quando il Fronte popolare fu messo sotto dalla Dc atlantista e degasperiana, ma non uscì di scena. È piuttosto un «esodo». Allora il giorno dopo, come dice Luciana Castellina, si poté ritornare al lavoro e alla lotta, perché quell’esercito era stato battuto in battaglia ma c’era, aveva un corpo, messo in minoranza ma consistente, e nelle fabbriche gli operai comunisti ritornavano a tessere la propria tela come pesci nell’acqua, appunto.

Oggi no: la sinistra del 2018 (se ha ancora un senso chiamarla così) non è stata messa sotto da nessuno. Non è stata selezionata come avversario da battere da nessuno degli altri contendenti. Se n’è andata da sé. O quantomeno si è messa di lato. Gli elettori si sono limitati a sfilarle accanto per andare altrove. Come si lascia una casa in rovina. Ha ragione Roberto Saviano quando dice che i blu e i gialli hanno potuto occupare tutto lo spazio perché dall’altra parte non c’era più nulla. Da questo punto di vista questo esito elettorale almeno un merito ce l’ha: ci mette di fronte a un dato di verità. E a un paio di constatazioni scomode: che l’«onda nera» non era affatto illusoria, è stata veicolata al nord da Salvini, ed è stata neutralizzata al sud dai 5Stelle (come fece a suo tempo la Dc).
D’ALTRA PARTE un tratto di verità ci viene consegnato anche dalla catastrofica esperienza del quadriennio renziano. L’opera devastante di «Mister Catastrofe», come felicemente lo chiama Asor Rosa, costituisce un ottimo experimentum crucis. Utilissimo – a volerlo utilizzare per quello che è: una sorta di vivisezione senza anestesia – per indagare che cosa sia diventato il Pd a dieci anni dalla sua nascita, ma anche cosa rimanga delle sue identità pregresse, delle culture politiche che plasmarono il suo background novecentesco, dell’antropologia dei suoi quadri e dei suoi membri, del suo radicamento sociale, del grado di tenuta o viceversa di evaporazione dei riferimenti nel set di tradizioni che definiscono ogni comunità. Matteo Renzi, nella sua breve ma tumultuosa (quasi isterica) esperienza da leader nazionale ha stressato il proprio partito in ogni sua fibra, ne ha rovesciato (e irriso) tutti i valori, ha umiliato persone e idee che di quella tradizione avessero anche una minima traccia, ha rovesciato di 180 gradi l’asse dei riferimenti sociali (gli operai di Mirafiori sostituiti da Marchionne), ha provocato a colpi di fiducia l’approvazione di leggi impopolari e antipopolari, ha rieducato alla retorica e alla menzogna una comunità che aveva fatto del rigore intellettuale un mito se non una pratica effettiva, ha cancellato ogni traccia di «diversità berlingueriana» dando voce al desiderio smodato di «essere come tutti», di coltivare affari e cerchi magici, erigendo a modelli antropologici i De Luca delle fritture di pesce e i padri etruschi dei crediti facili agli amici… Ora, con tutto questo, ci si sarebbe potuto aspettare che, se di quella tradizione fosse rimasto qualcosa, se un qualche corpo collettivo di «sinistra storica» fosse rimasto dentro quelle mura, si sarebbe fatto sentire (“se non ora, quando”, appunto). Tanto più dopo il compimento del gran passo – del rito sacrificale – della scissione. Un esodo di massa, al seguito del quadro dirigente che avevano seguito fino al 2013.
INVECE NIENTE: fuori da quelle mura è uscito un fiume di disgustati, ma è filtrato appena un esile rivolo, una minuscola «base» al seguito di un pletorico gruppo dirigente. Il 3 e rotti percento di Liberi ed Eguali misura le dimensioni di uno spazio residuale. Non annuncia – e lo dico con rammarico e rispetto per chi ci ha creduto – nessun nuovo inizio, ma piuttosto un’estenuazione e tendenzialmente una fine. Dice che non c’è resilienza, in quello che fu nel passato il veicolo delle speranze popolari. Né l’esperienza pur generosa (per lo meno nella sua componente giovanile) di Potere al popolo – purtroppo sfregiata dal pessimo spettacolo in diretta la sera dei risultati con i festeggiamenti mentre si compiva una tragedia politica nazionale -, può tracciare un possibile percorso alternativo: il suo risultato frazionale, sotto la soglia minima di visibilità, ci dice che neppure l’uso di un linguaggio mimetico con quello «populista» aiuta a superare l’abissale deficit di credibilità di tutto ciò che appare riesumare miti, riti, bandiere travolte, a torto o a ragione, dal maelstrom che ci trascina.
SI DISCUTERÀ A LUNGO degli errori compiuti, che pure ci sono stati: delle candidature sbagliate (come si fa a scegliere come frontman il presidente del Senato in un’Italia che odia tutto ciò che è istituzionale e puzza di ceto politico?). Delle modalità di costruzione della proposta politica, assemblata in modo meccanico. Della compromissione di molti con un ciclo politico segnato da scelte impopolari. Tutto vero. Ma non basta. La caduta della sinistra italiana tutta intera s’inquadra in un ciclo generale che vedo la tendenziale e apparentemente irreversibile dissoluzione delle famiglie del socialismo europeo, e con esse l’uscita di scena della categoria stessa di “centro-sinistra”, inutilizzabile per anacronismo.
PER QUESTO NON BASTA fare. Occorre pensare e ripensare. Guardare le cose per come sono e non per come vorremmo che fossero. Misurare i nostri fallimenti. Costruire strumenti di analisi più adeguati. Perché questo mondo che non riconosciamo, non ci riconosce più… Come il Montale del 1925 (millenovecento venticinque!) mi sentirei di dire: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato | l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco | lo dichiari e risplenda come un croco | perduto in mezzo a un polveroso prato», per concludere, appunto, con il poeta, che questo solo sappiamo «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».

2 – LE CRISI DEL PD E DELLA SINISTRA CHIEDONO DI RICOSTRUIRE UNA PROSPETTIVA POLITICA CRISI DELLA SINISTRA. I risultati elettorali dicono che l’assenza di ogni pensiero apre la strada al successo, la massa non aspetta che sentirsi dire questo poiché in questa assenza è stata formata, di Alberto Asor Rosa

Siccome quando Matteo Renzi fu eletto segretario del Pd a furor di “popolo” (primarie del….), io mi azzardai, a dire che il candidato eletto appariva chiaramente inadeguato al compito che aveva tenacemente richiesto e conquistato, e nell’occasione azzardai anche qualche dubbio sull’opportunità dell’utilizzo dello strumento delle primarie anche per le specifiche questioni riguardanti la struttura di un partito (anticipo di “populismo” anche quello?); e siccome nel corso della sua opera di presidente del consiglio e di segretario di partito mi è accaduto di nominarlo su queste colonne come «Mister Catastrofe»; credo di essere autorizzato a dire oggi che quanto è accaduto con questo risultato elettorale è la conseguenza logica e inevitabile della logica e della natura dell’intero percorso. Anche in politica, e anche oggi (stagione d’imprevediblità), quel che accade continua a essere la conseguenza naturale di quel che è accaduto; e se ce lo dimentichiamo sono guai.
SE MAI, SI PUÒ esprimere perplessità sul fatto che il gruppo dirigente del Pd non abbia trovato la forza d’interrompere prima questo percorso catastrofico. Anche la scissione di LiberieUguali, peraltro inevitabile e ragionevole, ne rappresenta una testimonianza: chi non accettava se n’è andato, non ha avuto la forza, non ha trovato il modo di cambiare.
Oggi le dimissioni di Renzi vanno considerate immediatamente valide: non c’è tempo né modo di rimandarne gli eventuali, anche se problematici, esiti positivi. Non manca nell’attuale gruppo dirigente del Pd un gruppo di nomi in grado di costituire un direttorio, allo scopo di promuovere un’auspicabile, anche se, ripeto, problematica, transizione. I primi che verrebbero in mente a chiunque sono quelli di Del Rio, Franceschini, Gentiloni, Martina, Orlando; ora, a quanto sembra, Calenda; ma certamente, io penso, soprattutto nelle periferie del partito ce ne sono altri, e altre.
PER FARE COSA? Certamente non per andare al governo, in qualsiasi forma questo oggi si possa contemplare. Al governo è giusto e corretto che vadano i vincitori, se ne sono capaci. Gli sconfitti vanno senza ombra di dubbio all’opposizione, e da lì, se ne sono capaci, riprendono la strada. Così in articulo mortis (in senso figurato, s’intende), anche «Mister Catastrofe» ha detto una cosa giusta, anche se lui l’ha detta per prolungare l’agonia, per rimandare l’uscita di scena: motivo di più per toglierlo di mezzo subito.
PER RIPARTIRE, – perché di questo si tratta, – bisogna però chiarire subito e definitivamente una faccenda: e cioè se il Movimento 5Stelle possa esser considerato un interlocutore attendibile di un possibile, autentico partito o movimento di centro-sinistra. Il Movimento 5Stelle rappresenta, – che strano, lo abbiamo detto tutti fino a poco tempo fa, ora per la banale conquista di un 30% elettorale molti si sentono autorizzati a cambiare opinione?, – l’essenza più pura e rappresentativa, – proprio da qui, appunto, l’attuale successo elettorale, – della sconfitta della “politica” a livello nazionale italiano. Il fatto che il più grande successo sia stato conseguito al Sud, dove le strutture della rappresentanza e del potere, e dunque della “politica”, sono sempre state più fragili che altrove, ne rappresenta un ulteriore testimonianza, non un segnale positivo, ma un’aggravante.
IL SUCCESSO glielo abbiamo consegnato noi, – vedi il renzismo, – non è nato consapevolmente e originalmente da solo. Se si ignora questo, e ci si allea con i 5Stelle, tempo due anni, e il Pd si scioglie in quello, cioè nella preclara Ditta Grillo-Casaleggio-Di Maio. Leggo che Grillo ha dichiarato in questi giorni: «Noi siamo dentro democristiani, un po’ di sinistra e un po’ di centro. Possiamo adattarci a qualsiasi cosa, quindi vinceremo sempre noi, sul clima, sull’ambiente, sulla terra». Cioè: l’assenza di ogni pensiero apre la strada al successo. E’ vero: la massa non aspetta che sentirsi dire questo, poiché l’assenza di ogni pensiero (per responsabilità anche nostra, certo) l’ha formata così.
E ALLORA, che fa il Pd all’opposizione? Ricostruisce quello che è venuto meno in questi anni, e ha consentito il risultato elettorale da cui siamo partiti per questo ragionamento.
COS’È MANCATO? E’ mancato nel quadro politico italiano, – e questo mi pare indubitabile, quale che sia il giudizio positivo o negativo da formulare sul fenomeno, – una chiara, persuasiva, convincente, nutrita di argomenti e di fatti, prospettiva di centro-sinistra. Può sopravvivere e avanzare un paese dell’Europa sviluppata e moderna, nelle attuali, condizioni critiche globali, senza una prospettiva di centro-sinistra?
LA STORIA ORMAI parla chiaro: dove non c’è dilaga quello che più o meno propriamente viene definito “populismo”. Questa prospettiva c’è stata in Italia? No, per niente, perché la politica del Pd, ammiccante a destra e come sospesa sul limbo di una sorta d’infantile autonomia politico-ideologica, non se n’è curata, anzi, l’ha impedita.
PERCHÉ DICO CENTRO-SINISTRA e non puramente e semplicemente sinistra, come forse ci si aspetterebbe? Perché la sinistra può avere un ruolo importante, anzi, per certi versi decisivo, se accetta di partecipare a questo gioco. Naturalmente, se accettasse di giocarlo; se non accettasse sarebbe un altro disastro. Se accettasse di giocarlo, sarebbe estremamente importante, in presenza delle attuali difficoltà interne al Pd, che dichiarasse apertamente subito, o almeno i1 prima possibile, di volerlo giocare.
MA BISOGNA in ogni caso accettare e riconoscere che questo gioco, – un gioco fortemente riparatore e risarcitorio, non puramente difensivo, – si svolge nel quadro strategico, – strategico, ripeto, – di un centro-sinistra italiano ed europeo.
Ora, è ovvio che in Italia senza Pd non si può ricostruire una prospettiva di centro-sinistra. Da qui l’importanza che assumeranno le scelte, nei prossimi giorni e settimane, da parte del gruppo|dirigente di quel partito. Sto parlando intenzionalmente di “tempi politici”, attuali, anzi attualissimi. Se decidessimo di ragionare su “tempi storici”, forse la meditazione e la proposta potrebbero essere diverse. Ma chi con noi avrebbe voglia di farlo?
Un’ultima cosa: e se, oltre a tutto il resto, si aprisse un dibattito politico-intellettuale comune su forme, contenuti, strumenti, dislocazioni e proiezioni sociali, di un’eventuale prospettiva di centro-sinistra, riportata qui in Italia, certo, ma con uno sguardo all’Europa? Non era tradizione della sinistra (più o meno, in gradazioni diverse, qualsiasi sinistra), coniugare il dibattito politico con quello culturale? Da quanti anni questo non accade più.

3 – ABBIAMO CERCATO IN OGNI MODO DI CONTRASTARE LA LEGGE ELETTORALE CON CUI ABBIAMO VOTATO IL 4 MARZO. UNA LEGGE APPROVATA CON 3 VOTI DI FIDUCIA ALLA CAMERA E 5 AL SENATO, IN ALTRE PAROLE ATTRAVERSO UN ACCORDO RAGGIUNTO TRA PARTITO DEMOCRATICO, FORZA ITALIA, LEGA E IL SUPPORTO DI SCHEGGE POLITICHE DI SCARSA CONSISTENZA. di A Grandi.

Senza trascurare che Gentiloni al momento del suo insediamento aveva detto che il governo non avrebbe imposto una sua legge elettorale, ma nell’autunno scorso il governo ha cambiato idea sotto la pressione del Pd e ha posto la fiducia impedendo qualsiasi tipo di discussione sul testo della proposta di legge elettorale. La responsabilità politica di questa legge è evidente, basta pensare che viene chiamata Rosatellum dal nome del capogruppo Pd della Camera.
Nel corso della campagna elettorale è emerso in modo sempre più chiaro che questa legge elettorale non risolve alcun problema perché non consente agli elettori di scegliere i parlamentari, perché stabilisce una continuità nella nomina dall’alto dei parlamentari come avveniva con il porcellum. Al momento del voto gli elettori si sono resi conto, almeno in parte, che il loro voto avrebbe avuto effetti imprevedibili. Tanto più che in due regioni fondamentali il voto era disgiunto (tra Presidente e liste) e gli elettori potevano esprimere fino a due preferenze di genere diverso, mentre per Camera e Senato il voto è stato veicolato entro una camicia di forza dai risultati largamente imprevedibili. Ancora adesso non abbiamo la lista definitiva degli eletti.
Per questo il Coordinamento democrazia costituzionale ha presentato una proposta di legge di iniziativa popolare. La raccolta delle 50.000 firme necessarie terminerà a fine giugno, con l’obiettivo di presentare il testo al Senato, il cui nuovo regolamento prevede che le leggi di iniziativa popolare vengano esaminate con una corsia preferenziale entro tre mesi.
Abbiamo scelto di scrivere una proposta di legge elettorale tale da rivoltare come un guanto quella in vigore.
I collegi uninominali rimangono gli stessi per la Camera e il Senato. La scelta degli eletti nei collegi uninominali, con la nostra proposta, avverrà su base proporzionale – nell’ambito della circoscrizione – come avveniva con la vecchia legge del Senato o se si preferisce con il meccanismo elettorale delle Province.
La nostra proposta introduce due voti distinti per uninominale e per la lista proporzionale, nella quale viene prevista la doppia preferenza di genere da esprimere su un numero di candidati pari a quelli da eleggere in modo da evitare la migrazione dei seggi in altre aree territoriali. Vengono introdotte altre modifiche come l’eliminazione delle liste civetta che oggi tra l’1 e il 3 % portano voti al partito maggiore senza eleggere parlamentari.
La nostra proposta ha l’obiettivo di riaprire la discussione sulla legge elettorale. Con il Rosatellum si è tentato di creare un fatto compiuto. Il risultato è pessimo. Dobbiamo impegnarci a cambiare questa legge subito, tanto più in presenza di un rischio evidente di tornare a votare tra qualche mese. Non si può votare di nuovo con questa legge sbagliata, probabilmente incostituzionale, ad esempio sul voto non disgiunto.
E’ necessario che l’Italia si doti di una nuova legge elettorale coerente con la Costituzione, tale da consentire ai cittadini di scegliere i loro rappresentanti in parlamento.
Oggi la questione più grave da risolvere nella nostra democrazia è la crisi di credibilità del parlamento, i cui componenti non vengono riconosciuti come loro rappresentanti dagli elettori. Il Parlamento è l’asse portante della democrazia delineata dalla nostra Costituzione. La caduta di credibilità del parlamento è un serio pericolo per la nostra democrazia. Sappiamo che ci sono forze che punteranno a qualche forma di presidenzialismo, a un governare fondato sul ricorso alla fiducia e ai decreti, relegando il parlamento ad un ruolo di ratifica. Ci sono gravi responsabilità per la fase politica che si è chiusa il 4 marzo, con comportamenti subalterni a idee sostanzialmente di destra. Il cui apice è stato il tentativo di manomettere la Costituzione, per fortuna bocciato dalla vittoria del No nel referendum del 4 dicembre 2016. Chi avrebbe dovuto non ha cercato di raccogliere il messaggio degli elettori. Ancora alla vigilia del 4 marzo e perfino nell’incontro con la stampa dopo la sconfitta Renzi ha insistito sul tasto che i problemi di oggi deriverebbero dalla bocciatura del 4 dicembre 2016. E’ inevitabile che gli elettori si sentano offesi dalla riproposizione delle stesse posizioni come se nulla fosse accaduto conferma che il risultato elettorale non poteva che essere questo.
Non si è riflettuto abbastanza che poco prima del voto tre Presidenti di Regione (Emilia, Lombardia, Veneto) hanno firmato un protocollo con Gentiloni per avviare il conferimento di altri poteri sulla base della Costituzione. Eppure tra i protagonisti di questa scelta c’è il Pd che ha tentato di togliere poteri alle Regioni, in evidente in contraddizione con sé stesso.
Costituzione e legge elettorale sono strettamente connesse.
Avere salvato la Costituzione da un grave attacco oggi pone a tutti il problema di costruire un sistema elettorale costituzionale, in grado di riavvicinare i cittadini alla loro rappresentanza parlamentare e ad avere fiducia nella capacità di fare scelte giuste nell’interesse della collettività.
Alfiero Grandi, vice presidente Coordinamento per la democrazia costituzionale.

. 4 – Gianni Cuperlo12 marzo alle ore 17:25 ·
La riunione della Direzione nazionale del PD è ancora in corso. Io sono intervenuto e ho detto queste cose.
“Ho apprezzato il tono e l’onestà politica della relazione di Maurizio. A partire dal giudizio sul voto.
La sconfitta non ha precedenti.
Per la sinistra nel suo complesso è il dato peggiore nella storia repubblicana.
Molte ragioni del risultato sono incise nell’ultima stagione.
Dirlo è giusto, ma non basta perché oltre alle ragioni, legate alla cronaca, la sconfitta ha radici che affondano più lontano.
Almeno negli ultimi dieci anni – l’intero arco di vita del Pd – e anche da prima.
Cavarsi dai guai rovesciando tutto il peso sul segretario che si è dimesso – e al quale va la mia solidarietà sul piano umano – è una soluzione senza onestà.
Questo risultato interroga e incalza l’intera classe dirigente del centrosinistra.
Partito.
Governo.
Padri nobili e minoranze.
Chi ha scelto di piantare la tenda altrove e ha raccolto pochissimo.
Sono responsabilità diverse, certo.
Perché c’era chi ha comandato e chi no.
Chi ha sempre applaudito. E chi no.
Chi ha chiesto di cambiare per tempo. E chi no.
Ma poiché la sinistra rischia di dileguarsi questo, per tutti, non può che essere un tempo di verità e di svolta.
Abbagli, limiti, del progetto del Pd hanno accentuato nella stagione più recente una regressione evidente.
Noi però non perdiamo per una singola riforma venuta male.
Perdiamo per molte vie.
Una è il declino rovinoso delle soluzioni che la sinistra ha offerto alle democrazie dell’Occidente nell’ultimo quarto di secolo.
Perdiamo per la incapacità di restituire a valori proclamati – uguaglianza e dignità in primo piano – un legame saldo con i bisogni della parte più fragile dentro la società.
Ancora.
Noi perdiamo per un vuoto decennale di identità.
Di senso.
Pensare che l’aridità degli statuti potesse colmare il venir meno di una appartenenza fondata su simboli e culture è stata una illusione drammatica.
Si è buttata a mare la sola cosa che andava rifondata: un pensiero attrezzato sulla società, l’economia, gli interessi.
Mentre si è innalzato a modello un primato della guida associando il concetto di “comando” a quello di modernità.
Veltroni, Bersani, Renzi: con profili diversi, lo schema che si è imposto è rimasto lo stesso.
Con una differenza nella collegialità, aspetto che pure conta.
Anche questo schema va rovesciato adesso se vogliamo tornare in superficie.
Ed è per questo che dinanzi alla valanga del 4 marzo ripartire dai nomi non aiuta.
Non è quello che i tempi ci chiedono.
Non è ciò che serve per rialzarsi dalla sconfitta peggiore della nostra vita.
L’agenda ci mette davanti a due questioni.
La prima – ha ragione Maurizio – oggi possiamo solo abbozzarla nel titolo.
Riguarda le cause del risultato e le scelte che saremo chiamati a compiere.
Credo che l’ultima settimana non sia stata la prima del nuovo corso ma la coda della campagna elettorale.
Dire che la nostra collocazione è di minoranza – e dunque di opposizione – mi pare un dato di realtà. Ma ricostruire chiederà tempo e fatica.
All’indomani del referendum del 4 dicembre, in questa stessa sala, avevo ascoltato compagni e amici spiegare che noi “non avevamo paura del voto”.
Mi ero permesso di aggiungere che non lo temevo neppure io: il voto.
Io temevo il risultato.
Ho letto nei giorni scorsi dichiarazioni eguali fatte dopo domenica scorsa: “non temiamo il voto”.
Questa volta la prendo per una espressione dadaista.
Il punto è che questo Paese un governo dovrà averlo.
Non sarà facile arrivarci.
Noi non dovremo fare la stampella di nessuno.
Ed è giusto che la parola passi a chi si dichiara vincitore: e almeno nelle percentuali lo è.
Ma non credo si debba escludere la terza forza del Parlamento dal compito che le deriva dalle urne: fare politica.
Usare il consenso raccolto per cercare lo sbocco possibile evitando una paralisi deleteria per l’Italia.
Anche eventualmente con un governo di scopo che si rivolga al complesso delle forze e degli schieramenti.
Con un programma limitato e poi un ritorno governato alle urne.
Ma su questo il tempo dirà.
La seconda questione della nostra agenda è persino più preziosa.
Almeno se vogliamo rifondare assieme:
• una presenza lì dove da tempo non siamo e non ci votano;
• il pensiero in grado, quella presenza, di sorreggerla;
• e uno spirito di comunità che in troppi luoghi non esiste più.
Vuol dire ripensare molto.
Introdurre categorie in grado di spezzare tanto l’ortodossia del vecchio laburismo socialista che i miti dell’innovazione depurati da classi, diseguaglianze e nuove miserie.
Su questo dovremo discutere nei prossimi mesi.
E scegliere.
La verità è che in questi anni quello che è stato chiamato il “renzismo” (la combinazione della personalità e della politica di Matteo Renzi e del suo gruppo dirigente) è stato un disegno forte.
Lo dico io che spesso ho detto le mie ragioni di distanza da quella impostazione.
Ma non vi è dubbio che quello fosse un disegno politico.
Una strategia che puntava a governare una nuova fase dello sviluppo del Paese.
Quel disegno è prevalso: prima qui dentro, poi per un tratto anche fuori da qui.
E ha prevalso anche perché – lo dico con onestà – a quel disegno non abbiamo saputo contrapporre alcuna vera alternativa.
Né qui dentro, né fuori da qui.
Ma il 4 marzo ha detto una cosa netta e diversa.
Che quel disegno è stato sconfitto. E sta qui il limite fondamentale dell’intervista, stamane, di Renzi.
Nel rimuovere ancora una volta la realtà per come si è manifestata ed espressa.
Quel disegno non ha convinto una parte larghissima del Paese e dell’elettorato stesso della sinistra.

E allora il ricambio necessario di una leadership e una classe dirigente non sono solo il frutto di una percentuale bassa e deludente nelle urne.
Sono la risposta dovuta a quel giudizio politico.
Toccherà costruirla un’alternativa.
Presto.
E toccherà farlo perché dalle grandi crisi – il ‘900 lo ha dimostrato – non si esce col mondo di prima.
Servono analisi e ricette in larga misura sconosciute.
Lo stesso vale per le grandi sconfitte.
Non basterà correggere qualcosa o cambiare la disposizione degli arredi.
Bisognerà rifondare: una teoria e una pratica.
Programmi, alleanze sociali, i riferimenti nel mondo.
Insomma se non vogliamo restare esclusi dalla storia adesso bisogna pensare a un edificio profondamente diverso.
Conteranno le nostre decisioni, a partire da qui e dalla fiducia a Maurizio perché sia garante di questa svolta.
Il che equivale ad azzerare la segreteria e costituire subito una collegialità che coinvolga la ricchezza del nostro pluralismo. Colmando anche la ferita prodotta in quell’ultima notte sulla composizione delle liste.
Dopo conterà molto altro.
La discussione che faremo. Le cose che diremo.
Chi sarà chiamato a interpretare la riscossa necessaria.
Abbiamo perso, ma questa è la cronaca.
Tocca a noi dimostrare che può non essere un destino”.

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