11218 26. NOTIZIE dall’ITALIA e dal MONDO 28 giugno 2014

20140628 15:46:00 red-emi

ITALIA – ROMA. Allarme della Corte dei Conti, la corruzione è ovunque ‘OK CRESCITA MA URGENTE RIASSORBIRE DEBITO’. ‘SCANDALI EXPO PER TROPPE DEROGHE CONTROLLI’
ROMA / Perry Anderson: “Renzi? Come la Thatcher”. Gli italiani governati da un premier thatcheriano. Ieri sudditi degli Usa, oggi della Ue e del suo neoliberismo economico. Di cui Matteo Renzi, leader carismatico e assolutista, altro non sarebbe che il cavallo di Troia. L’analisi del guru della New Left.
ONU – Il dramma dei rifugiati, Amnesty punta il dito contro "gli spettacolari fallimenti" dell’Onu.
EUROPA – «L’Europa indebitata ripete i nostri errori» / EU – Il lavoro e la trappola della flessibilità . Nel 1930 scriveva Keynes che in quegli anni, alla nozione secondo cui «se si paga meglio una persona la si rende più efficiente», si andava sostituendo la massima più moderna «per cui se si paga meglio una persona si rende il suo datore di lavoro più efficiente, forzandolo a scartare metodi ed impianti obsoleti … elevando così lo standard generale»
AFRICA & MEDIO ORIENTE – ISRAELE / UN SEGNO DI DEBOLEZZA Il 24 giugno Israele ha ridimensionato le operazioni militari per la ricerca dei tre ragazzi israeliani scomparsi vicino a Hebron, in Cisgiordania, il 12 giugno.
ASIA & PACIFICO – CINA / Datagate, la Cina presenta dossier anti-Usa. Der Spiegel: "Accordo tra Germania e Usa per spiare"
AMERICA CENTROMERIDIONALE – Il neoliberismo contro l’America latina solidale.
AMERICA SETTENTRIONALE – STATIUNITI. OMICIDIO INGIUSTIFICABILE
Il 23 giugno il dipartimento di giustizia degli Stati Uniti ha reso pubblico, su richiesta di una corte federale, un documento riguardante l’operazione che ha causato la morte di Anwar al Awlaki, un cittadino statunitense ucciso nel 2011 in Yemen da un drone statunitense

ITALIA
ROMA
Allarme della Corte dei Conti, la corruzione è ovunque ‘OK CRESCITA MA URGENTE RIASSORBIRE DEBITO’. ‘SCANDALI EXPO PER TROPPE DEROGHE CONTROLLI’
IL presidente dell’Anticorruzione Cantone ha istituto l’Unità operativa speciale per Expo che "lo coadiuvi nei compiti di controllo e vigilanza sulla correttezza e trasparenza delle procedure connesse alla realizzazione delle opere" di Expo. Lo ha stabilito una delibera di Cantone, datata 25 giugno e pubblicata sul sito dell’Autorità.
La sede principale dell’unità operativa Expo sarà a Roma, presso l’Anac (l’Anticorruzione) e ci sarà un’ulteriore sede a Milano. La delibera prevede inoltre che "l’unità operativa sia costituita da un ufficio di staff e da un ufficio per la vigilanza ed il controllo; che il coordinamento amministrativo della struttura sia affidato al Segretario generale dell’Anac, dott.ssa Antonella Bianconi; che siano predisposte dal Segretario generale le variazioni di bilancio necessarie a far fronte alle spese per l’unità operativa nonché sia prevista un’apposita categoria denominata Unità operativa speciale EXPO 2015 e che sia istituita un’apposita sezione nel sito dell’Anac dedicata a tutte le attività svolte dall’Unità operativa in cui venga pubblicata per prima la presente delibera".
CORTE DEI CONTI: corruzione ovunque – "LA CORRUZIONE PUÒ ATTECCHIRE DOVUNQUE: nessun organismo e nessuna istituzione possono ritenersene indenni" e "nessuna istituzione che abbia competenze pubbliche può ritenersi scevra di responsabilità di fronte al suo dilagare". È l’allarme lanciato dal procuratore generale presso la Corte dei Conti, Salvatore Nottola.
SCANDALI EXPO per troppe deroghe controlli. ‘Ridisegnare confini P.a.’. ‘Ok crescita ma urgente riassorbire debito’. ‘Redistribuzione tasse decisiva per ripresa’
EXPO 2015 con i suoi recenti scandali è "un caso emblematico" di deroghe a norme e controlli, "smantellati in virtù dell’urgenza, che hanno di fatto favorito la corruzione. È la denuncia del procuratore generale presso la Corte dei Conti, secondo cui la Corte aveva già evidenziato i rischi insiti nella gestione dell’evento. Ridisegnare e ripensare i confini della P.a., comprese le modalità di prestazione dei servizi alla collettività, dalla salute all’istruzione. E’ la sollecitazione che arriva dalla Corte dei Conti secondo cui in materia di spending review "non si tratta solo di eliminare gli sprechi ma di affrontare il tema del ‘perimetro’ pubblico". Sostenere la crescita "orientando le leve di bilancio verso obiettivi che superino il solo rigore, ma restando entro profili compatibili con i vincoli Ue e soprattutto con l’urgenza di riassorbire l’eccesso di debito", che ci rende più "vulnerabili". E’ questa la via prioritaria che l’Italia deve perseguire secondo la Corte dei Conti. Nel 2013 la pressione fiscale è diminuita di due decimi di punto ma a questa "non si è accompagnata una redistribuzione del carico tributario a favore di redditi da lavoro e impresa", decisiva per la ripresa economica. Lo ha detto il presidente di coordinamento delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti, Enrica Laterza.
ROMA
PERRY ANDERSON: “RENZI? COME LA THATCHER”
Gli italiani governati da un premier thatcheriano. Ieri sudditi degli Usa, oggi della Ue e del suo neoliberismo economico. Di cui Matteo Renzi, leader carismatico e assolutista, altro non sarebbe che il cavallo di Troia. L’analisi del guru della New Left. Fonte: micromega | Autore: Leonardo Clausi

COLLOQUIO CON PERRY ANDERSON DI LEONARDO CLAUSI , DA L’ESPRESSO, 20 GIUGNO 2014
Perry Anderson non la manda a dire. L’ultimo saggio sulla "London Review of Books" dell’insigne storico inglese, nume tutelare della New Left, è una lucida scorreria nella storia italiana recente. S’intitola, senza troppi guizzi metaforici, " The Italian Disaster ", Ma anziché essere l’ennesima geremiade sulla presunta incapacità civile e culturale del Paese di assurgere a membro virtuoso del consesso europeo, il saggio di Anderson individua l’origine dei mali negli stessi principi inerenti alla governance dell’Unione europea, ai quali l’Italia è stata finora recalcitrante: soprattutto quel neoliberismo economico saldamente agganciato alla marginalizzazione della politica e della sua rappresentanza. Di questo neoliberismo Matteo Renzi, leader carismatico e assolutista di un partito alla cui tradizione politica è del tutto alieno, altro non sarebbe che il cavallo di Troia. Ne consegue l’analisi puntigliosa di varie tappe della storia italiana recente, dalla fine di Tangentopoli sino al crollo di Berlusconi, fortemente voluto da Bruxelles attraverso la presidenza di Napolitano, e all’abbraccio di Renzi come ultima spiaggia di fronte alla disorientante eterodossia del fenomeno Grillo. Ad Anderson abbiamo rivolto una serie di domande.

LEI HA SCRITTO DI UNA DERIVA DEGENERATIVA DELLA DEMOCRAZIA IN EUROPA E DI UNA CORRUZIONE PERVASIVA DELLA SUA CLASSE POLITICA. SONO SVILUPPI STRUTTURALI, O PIUTTOSTO UN DEFICIT MOMENTANEO DI VOLONTÀ E DI MORALITÀ?
«Non è facile giudicare quanto profondo sia diventato l’effettivo radicamento di simili tendenze. Quel che è chiaro finora è che le forze che avrebbero potuto contrastarle restano sparse e deboli. In Italia sono state, naturalmente e a lungo, personificate entrambe da Berlusconi, ma si estendono a un panorama istituzionale che va ben oltre. Quanto alla corruzione, la prossima Expo di Milano, un progetto tipico della vanagloria politica di quest’epoca, per tacere del megascandalo a Venezia nel quale Pd e Pdl sono immersi vicendevolmente fino al collo, ci ricorda quanto futile sia stato il Pool vent’anni fa: le mani degli appaltatori, di destra o di sinistra che siano, non sono certo più pulite di prima. Quanto alla democrazia, le performance della presidenza della Repubblica e della Corte costituzionale offrono ulteriori lampanti illustrazioni del degrado dello Stato di diritto in questi anni, aggravato ora dal Neo-porcellum imposto al Parlamento a tutti i costi. Si tratta di pressioni che non risparmiano nemmeno coloro che gli si erano rivoltati contro. Basti pensare all’autocrazia che governa lo stesso Movimento 5 Stelle nel suo ruolo di avversario più intransigente del sistema di governo».

LEI PROPRIO NON CREDE CHE MATTEO RENZI RAPPRESENTI UN CAMBIAMENTO IN MEGLIO. MA È GIUSTO LIQUIDARLO COME UNA VERSIONE RITARDATARIA E PROVINCIALE DI TONY BLAIR?
«L’ammirazione di Renzi per Blair, assai ampiamente condivisa da parte degli opinionisti in Italia, è provinciale giacché ignora che oggi, in Gran Bretagna, Blair è così screditato e ampiamente detestato da osare a malapena mostrarsi in pubblico, proprio come il Craxi della fine all’hotel Raphael. Guai però a sottovalutare Renzi come uomo politico: è chiaramente più capace e dotato del suo lontano modello. Blair non era un innovatore: ha semplicemente ereditato la ristrutturazione del panorama economico politico inglese da Thatcher, spingendosi un po’ oltre. Figura mediocre, la cui corruzione personale adesso disgusta anche i suoi ex ammiratori del "Financial Times", la sua unica iniziativa di rilievo fu affiancarsi a Bush nella guerra in Iraq. Renzi punta assai più in alto, a una trasformazione dell’Italia che si avvicini a quanto ottenuto in Gran Bretagna da Thatcher».

MA PUÒ L’ITALIA, UN PAESE CHE IN FONDO NON HA MAI GODUTO AUTENTICA SOVRANITÀ, SOTTOPOSTO COM’ERA AL PATRONATO AMERICANO DELLA DEMOCRAZIA CRISTIANA DURANTE LA GUERRA FREDDA E POI ALLA VIGILANZA DEI MERCATI FINANZIARI EUROPEI, ESSERE PARAGONATA COSÌ FACILMENTE ALLA GRAN BRETAGNA?
«Di certo, l’Italia del dopoguerra ha avuto una politica estera raramente degna di questo nome: forse il suo unico atto memorabile fu il colpo di Andreotti che intrappolò Thatcher al summit europeo di Roma nel 1990, e ne causò la caduta a Londra. Altrimenti è stata una storia per la maggior parte vacua. Ora Renzi promette di cambiare tutto questo, e di fare dell’Italia la stella polare dell’Unione europea, una millanteria che altrove farà alzare sopracciglia, se non sorridere. Peraltro, il grado di autonomia esterna goduto dalla Gran Bretagna del dopoguerra è stato anch’esso abbastanza limitato. I governi laburisti e quelli conservatori – invariabilmente gli uni, solitamente gli altri – hanno obbedito agli ordini americani. Dopo la caduta di Eden con Suez, nel 1956, l’unica reale eccezione furono Heath – che non andò mai a Washington – e Thatcher, che precedette Reagan e su di lui esercitava una sorta di potere».

IL PD HA APPENA CONSEGUITO UN TRIONFO ALLE ELEZIONI EUROPEE. LEI SCRISSE PRIMA DEL VOTO CHE RENZI CAVALCAVA L’ONDA DEL SUCCESSO. EPPURE COME SPIEGA LA NETTA DIFFERENZA TRA IL RISULTATO DELLE ELEZIONI IN ITALIA IN FRANCIA, GRAN BRETAGNA E SPAGNA?
«Il contrasto non è così misterioso e, anzi, abbastanza logico. Per un quarto di secolo Francia e Gran Bretagna hanno vissuto all’incirca le versioni alterne – di centro e di centro-destra – dello stesso regime neoliberista, più radicale in Inghilterra, più moderato in Francia. In entrambi i paesi, gli elettori sono profondamente insoddisfatti dai risultati, ma in ciascuno il sistema elettorale è concepito in modo tale da escludere qualunque altra scelta. Nessuna formazione a sinistra del Labour è mai stata capace di sopravvivere alla stretta della diarchia di Westminster, imposta da un sistema uninominale maggioritario che discende da epoche feudali. In Francia, il Partito comunista ancora resiste, ma sotto il doppio turno soltanto come parassita marginale del partito socialista, e senza alcuna reale indipendenza da esso».

PERÒ ALLE ELEZIONI EUROPEE NON SI VOTA CON LEGGI MAGGIORITARIE…
«Infatti, sono basate sulla proporzionalità democratica, e quei meccanismi di esclusione non funzionano. Così, una volta tanto che gli elettori hanno reale libertà di scelta, non sorprende che la maggioranza in ciascun paese opti per le uniche formazioni che paiono offrire una protesta senza compromessi contro l’ordine neoliberista, che adesso si situa alla destra dello spettro mainstream, piuttosto che alla sua sinistra. Dove il sistema elettorale non è così chiuso, e le formazioni a sinistra della diarchia al potere sono state in grado di sopravvivere indipendentemente da esso, lo stesso voto di protesta è andato nell’altra direzione: è accaduto ampiamente in Grecia e Irlanda, e in misura minore in Spagna. D’altronde in Italia, dove non c’è mai stato un regime neoliberista dello stesso stampo dualista, Renzi può promettere il suo Big Bang come qualcosa di davvero nuovo, qualcosa di cui gli italiani non hanno ancora avuto alcuna esperienza paragonabile e, forte di questo, guadagnarsi una grande vittoria elettorale».

PER LA PRIMA VOLTA L’AFFLUENZA ALLE ELEZIONI EUROPEE NON È CALATA, ANCHE SE SAREBBE ECCESSIVO DEFINIRLA IN AUMENTO. CERTI OSSERVATORI L’HANNO SALUTATO COME IL SEGNO POSITIVO DI UN RINNOVATO INTERESSE POLITICO E DI PARTECIPAZIONE NELL’UNIONE EUROPEA. LEI È D’ACCORDO?
«Questa lettura è tipica delle compiaciute illusioni di Bruxelles. La realtà è che l’affluenza dei votanti è calata in 17 su 28 degli Stati membri dell’Ue e l’affluenza totale è rimasta stabile soltanto perché aumentata in quattro paesi dove il voto di protesta contro l’Ue ha battuto nuovi record: il Regno Unito, la Francia, la Germania e la Grecia. Se sottraiamo l’incremento per l’Ukip, il Fn, Syriza e Alternative für Deutschland, i movimenti che Bruxelles teme di più, la partecipazione "responsabile", ovverosia il voto convenzionale che cerca, è calata ancora una volta drasticamente. Non meno in Italia, dove è scesa di un ulteriore 5,5 per cento. Immaginare che questo sia un risultato rassicurante per l’opinione dominante in Europa equivale a un autoinganno».

QUAL È LA SUA PREVISIONE PER RENZI DOPO IL SUCCESSO ELETTORALE?
«Come da intenzioni, il passaggio del neo-Porcellum ne consoliderà il dominio per un bel periodo. I regimi neoliberisti strombazzano le virtù della competizione economica come il motore della crescita dinamica, ma sono assolutamente avversi alla competizione politica. L’ultima cosa che vogliono nelle elezioni sono startup come quelle che esaltano nei mercati. È l’oligopolio che cercano, e il neo-Porcellum lo fornirà. Sotto il suo controllo la palude che adesso circonda da tutte le parti il Pd sarà probabilmente assorbita: è un processo ancora agli inizi, già visibile con Sel e Scelta Civica e che continuerà forse con Ncd, appena Alfano capirà che con il 4 per cento la sua unica chance di sopravvivenza sarebbe diventare un altro Dini. È quindi probabile che da un punto di vista politico il carrozzone di Renzi prenderà velocità».

E DA QUELLO ECONOMICO?
«Anche nel breve periodo ha davanti a sé il campo abbastanza sgombro: infatti alla prospettiva di un ampliamento della privatizzazione e della deregulation gli spiriti animali del business italiano si rianimano e danno vita a una ripresa degli investimenti, mentre Bruxelles e Francoforte si assicurano che abbia abbastanza denaro contante per installarsi stabilmente al potere. Alla fine, però, i limiti generali del neoliberismo – un regime di accumulazione incapace di mantenere ovunque in occidente i tassi di crescita e occupazione del dopoguerra – entreranno in azione. Allora comincerà la disillusione popolare cui si assiste altrove».

IL MOVIMENTO 5 STELLE OFFRE UN’ALTERNATIVA REALE, O BEPPE GRILLO È SOLTANTO UN’ALTRA ESPRESSIONE DELL’ITALIA COME LA PIÙ ALTA PERSONIFICAZIONE DELLA SOCIETÀ DELLO SPETTACOLO DIAGNOSTICATA DA GUY DEBORD? DOPOTUTTO, ABBIAMO INVENTATO L’OPERA…
«Dopo l’impresa elettorale del 2013, in cui era passato da un giorno all’altro dal nulla al 25 per cento dei voti, anche i media ora duramente ostili al M5S ne avevano riconosciuto il potenziale trasformativo come nuova forma democratica. Ma nei diciotto mesi da allora trascorsi, Grillo ha prima sterilizzato questo potenziale con un isolazionismo parlamentare che ha inflitto al Paese un’altra presidenza di Napolitano e installato Renzi a Palazzo Chigi, poi l’ha dilapidato con una campagna alle elezioni europee fatta di spacconate ed escandescenze. Gli italiani devono sperare, contro ogni probabilità, che lui e il suo movimento abbiano imparato la lezione della sconfitta. In caso contrario, il M5S si estinguerà come una "rivolta di Reggio" dell’epoca di Internet, con grande sollievo del salotto buono politico e intellettuale del paese».

ONU
Il dramma dei rifugiati, Amnesty punta il dito contro "gli spettacolari fallimenti" dell’Onu / Autore: fabrizio salvatori
IN OCCASIONE DELLA GIORNATA MONDIALE DEL RIFUGIATO, AMNESTY INTERNATIONAL PUNTA IL DITO CONTRO GLI “SPETTACOLARI FALLIMENTI” DEL CONSIGLIO DI SICUREZZA NEL MANTENERE LA PACE E LA SICUREZZA A LIVELLO INTERNAZIONALE.
L’organizzazione per i diritti umani ha sollecitato gli stati membri del Consiglio di sicurezza ad agire piu’ incisivamente per proteggere le popolazioni civili e prevenire la fuga di milioni di persone dalle loro case.
AMNESTY parla di "risposta inefficace o tardiva del Consiglio di sicurezza e, in alcuni casi, del Segretariato delle Nazioni Unite" ai conflitti in corso in Siria, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana e Iraq. Ritardi che hanno causato di fatto una spirale di violenza e la devastazione di innumerevoli comunita’ "prima che venisse assunta, neanche sempre, un’azione degna di nota". “Mentre i diplomatici discutono di mozioni d’ordine, le abitazioni vengono rase al suolo e famiglie intere sono costrette alla fuga. Prolungati ritardi e veti alle risoluzioni stanno fiaccando il presunto ‘braccio forte’ delle Nazioni Unite”.
“APATIA, alleanze e vantaggi politici devono cessare di prevalere sulle preoccupazioni per i diritti umani quando il Consiglio di sicurezza e’ chiamato a prendere decisioni” – ha dichiarato Sherif Elsayed-Ali, vicedirettore del programma Temi globali di Amnesty International.
Il ritardato dispiegamento dei peacekeeper delle Nazioni Unite nella Repubblica Centrafricana ha comportato la fuga di migliaia di persone prima dell’arrivo delle truppe.
Il ripetuto fallimento del Consiglio di sicurezza nel deferire la situazione della Siria alla Corte penale internazionale, con la conseguente mancata incriminazione dei responsabili di crimini di guerra e contro l’umanita’, ha contribuito alla piu’ grande crisi di rifugiati del mondo.
Amnesty denuncia anche che nel frattempo, i paesi che hanno impedito qualsiasi azione degna di nota sulla Siria sono quelli che stanno collaborando meno alla risoluzione della crisi globale dei rifugiati: Russia e Cina hanno non hanno reinsediato alcun rifugiato nel 2013. La loro donazione all’appello delle Nazioni Unite per la Siria – la piu’ grande raccolta di fondi nella storia dell’organizzazione – e’ egualmente vergognosa: la Cina non l’ha finanziata affatto, mentre la Russia ne ha finanziato lo 0,3 per cento nel 2013 e lo 0,1 per cento nel 2014.
Dall’altro lato, invece, onostante il loro svantaggio dal punto di vista economico, i paesi in via di sviluppo stanno sostenendo il maggiore onere della crisi: Giordania, Iran, Libano, Pakistan e Turchia sono i cinque paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati. Nel 2013, tre di questi paesi (Giordania, Libano e Turchia) hanno accolto complessivamente 1.524.979 rifugiati soltanto dalla Siria.
Per contrasto, nel 2013 gli Usa hanno consentito il reinsediamento di 36 siriani, sebbene reinsedino migliaia di persone provenienti da altri paesi. I 28 stati membri dell’Unione europea si sono impegnati a reinsediare 30.498 siriani, 25.000 dei quali nella sola Germania. Numeri che ben poco hanno a che vedere con la reale portata del dramma dei rifugiati. Nel 2013 hanno chiesto asilo politico nell’Unione europea almeno 435.000 persone ma solo 136.000 l’hanno ottenuto.
“Coloro che si proclamano leader mondiali arrancano profondamente rispetto ai paesi in via di sviluppo quando si tratta di sopportare l’onere della crisi globale dei rifugiati” – ha commentato Elsayed-Ali. “Considerati i vantaggi economici dei paesi ricchi rispetto a quelli poveri, e’ doppiamente sorprendente vedere che i primi vengono cosi’ clamorosamente meno alla loro responsabilita’ di proteggere i rifugiati. Tutto questo deve finire”.
Nonostante il basso numero di rifugiati che devono fronteggiare, i paesi del mondo sviluppato spesso sottopongono questi ultimi e i richiedenti asilo a violazioni dei diritti umani. La Grecia,in particolare, secondo Amnesty si distingue per la violenza e le intimidazioni nei confronti dei migranti e dei rifugiati che arrivano alla sua frontiera in cerca di protezione, salvezza e di un futuro migliore in Europa. Amnesty International ha documentato numerosi casi di persone denudate, rapinate dei loro beni personali e con le armi puntate contro prima di essere respinte oltreconfine verso la Turchia.
L’Australia, che ha una delle densita’ di popolazione piu’ basse al mondo, nasconde le gravi violazioni dei diritti umani che avvengono nei centri per richiedenti asilo allestiti oltremare, a Nauru e sull’isola di Manus, in Papua Nuova Guinea, dove le persone sono trattenute in luoghi sovraffollati e surriscaldati, senza riparo dal sole, ristoro, quantita’ d’acqua sufficiente e assistenza medica. Molte di loro hanno rischiato la vita nel tentativo di raggiungere l’Australia.
“Non c’e’ mai una giustificazione per i maltrattamenti, ma e’ particolarmente ripugnante vedere paesi che sottopongono rifugiati e richiedenti asilo a trattamenti che non sognerebbero mai di infliggere ai loro cittadini” – ha commentato Elsayed-Ali.
“E’ giunto il momento che i governi dei paesi sviluppati smettano di agire secondo la logica del ‘noi’ e ‘loro’. I rifugiati e i richiedenti asilo passano spesso attraverso sofferenze terribili. Meritano di essere protetti e trattati con umanità e dignità” – ha concluso Elsayed-Ali.

EUROPA
EU
Il lavoro e la trappola della flessibilità . Nel 1930 scriveva Keynes che in quegli anni, alla nozione secondo cui «se si paga meglio una persona la si rende più efficiente», si andava sostituendo la massima più moderna «per cui se si paga meglio una persona si rende il suo datore di lavoro più efficiente, forzandolo a scartare metodi ed impianti obsoleti … elevando così lo standard generale» ("The question of high wages", The Political Quarterly, 1930). / Fonte: sbilanciamoci | Autore: Giuseppe Travaglini
Viene da chiedersi: quanto è attuale questa riflessione? Se guardiamo alle trasformazioni in negativo della nostro sistema produttivo la risposta è: molto. Difatti, alla politica di moderazione salariale, all’introduzione del doppio livello di contrattazione e alla crescente flessibilità del lavoro la risposta delle imprese è stata il disimpegno negli investimenti reali e nella ricerca, con ricadute drammatica su produttività e salari. E dunque? Credo sia una opinione condivisa che il costo del lavoro non costituisce solo, se molto elevato, un fattore di perdita di competitività ma anche, se basso, un minore incentivo al dinamismo delle imprese. Così, credo che l’attuale deriva del sistema produttivo italiano offra una base statistica concreta a questo punto di vista. Insomma, per l’Italia emerge un quadro macroeconomico coerente con le considerazioni keynesiane secondo cui un basso costo del lavoro può avere l’effetto di disincentivare «le energie latenti dell’imprenditore grazie alle quali è possibile finanziare l’aumento salariale». Perciò, dobbiamo trovare il modo di fuoriuscire dalla trappola della flessibilità che sostituendo il lavoro di bassa qualità al capitale e alla tecnologia, ed erodendo la produttività, mantiene l’occupazione, e le imprese, in uno stato di sopravvivenza. Questa considerazione è rivolta anche alla più recente riforma del mercato del lavoro, attualmente in gestazione. Vanno creati nuovi posti di lavoro. Ma, non è deregolamentando ulteriormente il lavoro che si crea occupazione buona e stabile. C’è bisogno di un nuovo modello di sviluppo sostenibile fondato sulla centralità della conoscenza e della ricerca, che crei occupazione di qualità in un contesto di investimenti e salari crescenti. Non ci sono altre vie praticabili per una occupazione buona e stabile. La trappola della flessibilità, difatti, crea solo posti di lavoro transitori che erodono la produttività. Li consuma, e poi li espelle, seppellendo, insieme ai posti di lavoro, le stesse imprese sempre meno capaci di competere lungo la scala della competitività internazionale.

UCRAINA
LA SPERANZA DELLA PACE
Nonostante gli scontri e le tensioni sul terreno, in Ucraina è stato avviato un difficile e laborioso processo di pace. Come racconta il sito russo Politcom, tra il 22 e il 23 giugno a Donetsk l’ambasciatore russo a Kiev Mikhail Zurabov, l’ex presidente ucraino Leonid Kucma e Heidi Tagliavini, rappresentante dell’Osce, si sono incontrati per discutere di una tregua. All’incontro hanno preso parte anche i leader dei separatisti e l’oligarca ucraino filorusso Viktor Medvedcuk. Il premier dell’autoproclamata Repubblica di Donetsk, Aleksandr Borodaj, ha accettato l’apertura di negoziati e un cessate il fuoco temporaneo. Il 24 giugno anche il leader russo Vladimir Putin ha chiesto alla Duma di annullare il decreto votato a marzo che avrebbe consentito al presidente di lanciare operazioni militari in Ucraina senza consultare il parlamento. Lo stesso giorno, però, la tensione è salita di nuovo dopo che i separatisti hanno abbattuto un elicottero ucraino uccidendo nove soldati. I separatisti hanno affermato che Kiev non ha interrotto l’offensiva militare, mentre il presidente ucraino Petro Porosenko (nella foto) ha deciso di rispettare la tregua, dopo aver minacciato di volerla sospendere. Il sito russo Gazeta scrive che "entrambe le parti continuano ad accusarsi reciprocamente di alzare la tensione e di usare il cessate il fuoco per coprire nuove azioni militari".

KOSSOVO
SUL PONTE DELLA DISCORDIA
Il 22 maggio a Mitrovica, nel nord del Kosovo, centinaia di manifestanti albanesi si sono scontrati con la polizia nei pressi del ponte sull’Ibar, il fiume che divide la parte serba e quella albanese della città. I manifestanti protestavano contro alcuni alberi piantati sul versante serbo per impedire il transito sul ponte, riaperto dalle autorità kosovare dopo essere rimasto chiuso per anni. Come scrive Bota Sot, il sindaco di Mitrovica ha chiesto a Pristina e alle autorità internazionali di fare il possibile per togliere i blocchi. "Le proteste", commenta il quotidiano serbo Politika, "aumentano i timori dei serbi del Kosovo e indicano che è necessario tenere aperto il dialogo. Meglio trattare per mille giorni che fare la guerra per un giorno".

BRUXELLES
«L’Europa indebitata ripete i nostri errori» / IN UNA CONFERENZA TENUTA ALLA SORBONA, LO SCORSO 6 NOVEMBRE, IL PRESIDENTE ECUADORIANO RAFAEL CORREA SI È RIVOLTO AI SUOI OMOLOGHI EUROPEI A PROPOSITO DELLA LORO GESTIONE DELLA CRISI DEL DEBITO, CHE SEMBRA CARATTERIZZATA DA UN’OSSESSIONE CENTRALE: GARANTIRE GLI INTERESSI DELLA FINANZA. ECCO UNA SINTESI DELLA SUA RIFLESSIONE.
In materia di crisi noi latinoamericani siamo degli esperti. Non perché siamo più intelligenti degli altri, ma perché le abbiamo dovute subire tutte. Gestendole davvero malissimo, perché avevamo un’unica priorità: difendere gli interessi del capitale, a costo di far sprofondare la regione in una lunga crisi del debito. Oggi vediamo con preoccupazione che l’Europa sta percorrendo la stessa strada. Negli anni ’70, i paesi latinoamericani entrarono in una situazione di grave indebitamento estero. Secondo la storia ufficiale, la situazione era il risultato delle politiche attuate da governi «irresponsabili» e degli squilibri accumulati in ragione del modello di sviluppo adottato dal subcontinente nel dopoguerra: la creazione di un’industria suscettibile di produrre localmente i beni importati, ovvero l’«industrializzazione per la sostituzione delle importazioni». In realtà questo grave indebitamento è stato promosso – e anzi imposto – dagli organismi finanziari internazionali. La loro cosiddetta logica sosteneva che, grazie al finanziamento di progetti molto redditizi, i quali all’epoca abbondavano nei paesi del Terzo mondo, si sarebbe arrivati allo sviluppo, e il rendimento di questi investimenti avrebbe permesso di rimborsare i debiti contratti. Tutto questo è durato fino al 3 agosto 1982, quando il Messico dichiarò la propria incapacità di far fronte alle scadenze. Da quel momento, tutta l’America latina iniziò a subire la sospensione dei prestiti internazionali, parallelamente al brutale aumento dei tassi d’interesse sul debito. Prestiti che erano stati contratti al 4 o al 6%, ma con tassi variabili, arrivarono velocemente al 20%. Mark Twain diceva: «Un banchiere è uno che ti presta un ombrello quando c’è il solleone e se lo riprende quando comincia a piovere…» È cominciata così la nostra «crisi del debito». Nel decennio ’80, l’America latina opera verso i suoi creditori un trasferimento netto di risorse di 195 miliardi di dollari (quasi 554 miliardi di dollari al valore attuale). Eppure nello stesso periodo il debito estero della regione passa da 223 miliardi di dollari nel 1980 a… 443 miliardi nel 1991! E non per nuovi crediti ma per il rifinanziamento e l’accumulazione degli interessi. Di fatto per i cittadini del subcontinente il decennio ’80 termina con gli stessi livelli di reddito pro capite della metà degli anni ’70. Si parla per questo di «decennio perduto» per lo sviluppo. In realtà, era perduta tutta una generazione. Le responsabilità erano di tutti, ma i paesi egemoni, le burocrazie internazionali come Fondo monetario internazionale (Fmi), Banca mondiale e Banca interamericana di sviluppo (Bid), e ovviamente le banche private internazionali ricondussero l’intera questione a un problema di sovra-indebitamento degli Stati (overborrowing). Senza mai riconoscere il proprio ruolo nell’assegnazione i crediti in modo irresponsabile (overlending), l’altra faccia del problema. Le gravi crisi di bilancio e del debito estero provocate dal trasferimento netto di risorse dall’America latina verso i suoi creditori portarono un buon numero di paesi della regione a redigere «lettere d’intenti» dettate dal Fondo monetario. Questi accordi vincolanti servivano a ottenere prestiti da parte dell’organismo, e la sua garanzia nella rinegoziazione dei debiti bilaterali con i paesi creditori, riuniti nel Club di Parigi. Una mancanza di dirigenti e di idee Questi programmi di aggiustamento strutturale e di stabilizzazione hanno imposto le ricette di sempre: austerità di bilancio, aumento dei prezzi dei servizi pubblici, privatizzazioni, ecc. Misure destinate non a uscire al più presto dalla crisi, né a incoraggiare crescita e lavoro, ma a garantire il rimborso dei crediti alle banche private. Alla fine della fiera, i paesi interessati continuavano a essere indebitati, non più presso le banche private ma presso gli organismi finanziari internazionali, i quali proteggevano gli interessi delle banche. All’inizio degli anni ’80, comincia a imporsi in America latina e nel mondo un nuovo modello planetario: il neoliberismo. I principali ideatori e promotori di questo nuovo «consenso» sulla strategia di sviluppo, battezzato «consenso di Washington», sono gli organismi finanziari multilaterali con sede a Washington, come, ad esempio, il dipartimento del Tesoro degli Stati uniti. Secondo la logica dominante, la crisi in America latina è dovuta a un eccessivo intervento dello Stato nell’economia, all’assenza di un adeguato sistema di prezzi liberi e all’allontanamento dai mercati internazionali – caratteristiche, beninteso, legate al modello latinoamericano di industrializzazione trainata dalla sostituzione delle importazioni. A causa di una campagna di marketing ideologico senza precedenti mascherata da ricerca scientifica, e delle pressioni dirette esercitate dal Fmi e dalla Banca mondiale, la regione passa da un estremo all’altro: dalla diffidenza verso il mercato, con una fiducia eccessiva nello Stato, al libero scambio, alla deregulation e alle privatizzazioni. La crisi non è stata solo economica; è stata frutto di una mancanza di dirigenti e di idee. Abbiamo avuto paura di pensare con la nostra testa e abbiamo accettato, passivamente e assurdamente, i diktat esteri. Per molti europei, la descrizione della crisi che l’Ecuador ha attraversato (si legga «Ecuador 1998») ha senza dubbio aspetti familiari. L’Unione europea soffre di un indebitamento prodotto e aggravato dal fondamentalismo neoliberista. Rispettando la sovranità e l’indipendenza di ogni regione del mondo, siamo sorpresi di constatare come l’Europa, tanto illuminata, ripeta in toto gli errori compiuti in passato dall’America latina. Le banche europee hanno fatto prestiti alla Grecia facendo finta di non vedere che il deficit di bilancio era tre volte quello dichiarato dallo Stato. Si pone nuovamente il problema di un sovraindebitamento del quale si omette di evocare la contropartita: l’eccesso di credito. Come se il capitale finanziario non avesse la minima responsabilità. Fra il 2010 e il 2012, la disoccupazione in Europa ha raggiunto livelli allarmanti. Fra il 2009 e il 2012, Portogallo, Italia, Grecia, Irlanda e Spagna hanno ridotto le loro spese di bilancio in media del 6,4%, nuocendo gravemente ai servizi sanitari ed educativi. Questa politica viene giustificata con la mancanza di risorse; ma si impegnano somme enormi per rimpinguare il settore finanziario. In Portogallo, Grecia e Irlanda, l’ammontare di questo «salvataggio bancario» supera l’insieme dei salari annui. Mentre la crisi colpisce duramente i popoli europei, si continuano a imporre loro delle ricette che hanno fallito ovunque nel mondo. Prendiamo il caso di Cipro. Come sempre, il problema inizia con la deregolamentazione del settore finanziario. Nel 2012, la sua cattiva gestione non è più arginabile. Le banche cipriote, in particolare la Banca di Cipro e la Banca Laiki, avevano concesso alla Grecia prestiti privati per un ammontare superiore al prodotto interno lordo (Pil) cipriota. Nell’aprile 2013, la «troïka» – Fmi, Banca centrale europea (Bce) e Commissione europea – propone un «salvataggio» di 10 miliardi di euro, condizionandolo a un programma di aggiustamento che comprende il ridimensionamento del settore pubblico, la soppressione del sistema di pensioni su base contributiva per i nuovi funzionari, la privatizzazione delle imprese pubbliche strategiche, misure di aggiustamento di bilancio fino al 2018, la limitazione delle spese sociali, la creazione di un «fondo di salvataggio finanziario» il cui obiettivo è il sostegno alle banche e la soluzione dei loro problemi, e infine il congelamento dei depositi superiori a 100.000 euro. Non c’è dubbio sulla necessità di introdurre riforme e di correggere gravi errori, anche di fondo: l’Unione europea ha integrato paesi con differenziali di produttività molto importanti non rispecchiati nei salari nazionali. Purtuttavia, essenzialmente, le politiche attuate non mirano a uscire dalla crisi con il minor costo possibile per i cittadini europei, ma piuttosto a garantire il pagamento del debito alle banche private. Abbiamo evocato paesi indebitati. Che succede ai privati incapaci di rimborsare i propri debiti? Prendiamo il caso della Spagna. La mancanza di regolamentazione e l’accesso troppo facile al denaro delle banche spagnole hanno provocato un’immensa quantità di crediti ipotecari, i quali a loro volta hanno galvanizzato la speculazione immobiliare. Le banche stesse cercavano i clienti, stimavano il prezzo del loro appartamento e prestavano sempre di più, per l’acquisto di autoveicoli, mobili, elettrodomestici ecc. Quando scoppia la bolla immobiliare, chi ha contratto prestiti in buona fede non può più rimborsarli: ha perso il lavoro. Allora gli si prende l’appartamento, ma questo vale molto meno di quando l’ha acquistato. La famiglia si ritrova per strada, indebitata a vita. Nel 2012 si registravano oltre 200 sfratti al giorno, il che spiega una gran parte dei suicidi in Europa… Una domanda si impone: perché non si ricorre a soluzioni che sembrano ovvie, perché invece si ripete sempre il peggiore degli scenari? La risposta è che il problema non è tecnico ma politico. E’ determinato da un rapporto di forze. Chi dirige le nostre società? Gli esseri umani o il capitale? Il più grande torto fatto all’economia è di averla spogliata della sua natura originaria di economia politica. Ci hanno fatto credere che tutto era tecnico; l’ideologia è stata mascherata da scienza e, inducendoci a non tener conto dei rapporti di forza all’interno di una società, ci hanno messi tutti al servizio dei poteri dominanti; è quel che chiamo «impero del capitale». La strategia dell’indebitamento massiccio che ha provocato la crisi del debito in America latina non aveva lo scopo di aiutare lo sviluppo dei nostri paesi. Obbediva piuttosto all’urgenza di collocare i surplus di denaro che inondavano i mercati finanziari del «primo mondo», i petrodollari che i paesi arabi produttori di petrolio avevano investito nelle banche dei paesi sviluppati. Queste liquidità derivavano dall’aumento dei prezzi del petrolio dopo la guerra dell’ottobre 1973, prezzi che furono mantenuti a livelli elevati dall’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec). Fra il 1975 e il 1980, i depositi nelle banche internazionali erano passati da 82 miliardi di dollari a 440 miliardi (1.226 miliardi di dollari attuali). Davanti alla necessità di piazzare somme di denaro tanto ingenti, il «Terzo mondo» diventa un soggetto creditizio. A partire dal 1975, lo percorsero in lungo e in largo tanti banchieri internazionali desiderosi di piazzare ogni genere di credito – anche per finanziare le spese correnti e l’acquisto di armamenti da parte delle dittature militari che governavano in numerosi Stati. Quegli zelanti banchieri, che non erano mai venuti prima da noi nemmeno come turisti, portavano con sé anche grosse valigie di tangenti destinate ai dirigenti locali per far loro accettare nuovi prestiti, con svariati pretesti. Al tempo stesso, gli organismi finanziari internazionali e le agenzie di sviluppo continuavano a vendere l’idea secondo la quale la soluzione era indebitarsi. Un’ideologia travestita da scienza L’indipendenza delle banche centrali serve, nei fatti, a garantire la continuità del sistema indipendentemente dal verdetto delle urne; ma fu imposta come necessità «tecnica» agli inizi degli anni ’90, giustificata da cosiddetti studi empirici secondo i quali questo strumento generava migliori performance economiche. Secondo quelle «ricerche», banche centrali indipendenti potevano agire in modo «tecnico», lontano da perniciose pressioni politiche. Sulla base di un argomento così assurdo, bisognerebbe rendere autonomo anche il ministero delle finanze, poiché anche la politica di bilancio dovrebbe essere puramente «tecnica». Come ha suggerito Ronald Coase, che ha ricevuto il premio della Banca reale di Svezia in scienze economiche in memoria di Alfred Nobel, i risultati di questi studi si spiegavano così: i dati erano stati manipolati in modo tale da far loro dire quel che si voleva dicessero. Nel periodo che precedette la crisi, le banche centrali autonome si dedicarono esclusivamente a mantenere la stabilità monetaria, cioè a controllare l’inflazione, malgrado il fatto che alcune banche centrali avessero giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo di paesi come il Giappone e la Corea del Sud. Fino agli anni ’70, la Federal Reserve statunitense aveva avuto principalmente l’obiettivo di favorire la creazione di posti di lavoro e la crescita economica; solo con le pressioni inflazionistiche dell’inizio degli anni ’70 fu aggiunto l’obiettivo di promuovere la stabilità dei prezzi. Dare priorità alla stabilizzazione dei prezzi significa anche, in pratica, abbandonare le politiche mirate a mantenere il pieno impiego delle risorse nell’economia. Al punto che invece di attenuare gli episodi di recessione e disoccupazione, la politica di bilancio, comprimendo incessantemente le spese, li aggrava. Le banche centrali dette «indipendenti» che si preoccupano unicamente della stabilità monetaria sono parte del problema, anziché parte della soluzione. Sono uno dei fattori che impediscono all’Europa di uscire più rapidamente dalla crisi. Eppure le potenzialità europee sono intatte. Avete tutto: talenti umani, risorse produttive, tecnologia. Credo che se ne debbano trarre conclusioni forti: si tratta di un problema di coordinamento sociale, cioè di politica economica della domanda, o come la si vorrà chiamare. Invece, i rapporti di potere all’interno dei vostri paesi e a livello internazionale sono tutti favorevoli al capitale, soprattutto finanziario, ed è per questo che tali politiche non sono applicate, o lo sono in modo contrario a quanto sarebbe auspicabile da un punto di vista sociale. Colpiti dalla cosiddetta legge economica e dalle burocrazie internazionali, molti cittadini sono convinti che non ci siano alternative. Si sbagliano.
( di RAFAEL CORREA, Presidente della Repubblica dell’Ecuador, economista. Autore di De la République bananière à la non-République, Utopia, Parigi, 2013. Traduzione di M.C.)

REGNO UNITO
COULSON È COLPEVOLE
Andy Coulson, l’ex capo della comunicazione del primo ministro britannico David Cameron, è stato giudicato colpevole nel processo per le intercettazioni illegali del tabloid News of the World, che Coulson aveva diretto dal 2003 al 2007. Rebekah Brooks, che l’aveva preceduto alla guida del giornale e in seguito è stata tra le collaboratrici più strette dell’editore Rupert Murdoch, è invece stata assolta da tutte le accuse. Coulson ha sempre negato di aver ordinato le intercettazioni, spiegando di non essere mai stato al corrente di quanto il loro uso fosse diffuso tra i giornalisti. I giudici, pe-rò, lo hanno ritenuto responsabile di aver ordinato le registra-zioni. Il verdetto mette fine a uno scandalo, scoppiato nel 2011, che ha avuto pesanti conseguenze sul mondo della politica e dell’informazione britanniche. E soprattutto, scrive il Guardian, solleva diversi problemi per Cameron, che aveva assunto Coulson due settimane dopo le sue dimissioni dal News of the World. Il premier ha subito offerto le sue scuse, spiegando di aver preso "la decisione sbagliata". A questo punto, spiega il Guardian, "i laburisti sottolineeranno i suoi errori, ma dovranno fare attenzione a non calcare troppo la mano per non dare l’impressione di voler approfittare della situazione".

SPAGNA
IMMAGINI TERRIBILI – El País, Spagna
La settimana scorsa la notizia del sequestro e del pestaggio di un ragazzo rom alla periferia di Pari-gi ha sconvolto l’opinione pubblica francese. Il ragazzo, che viveva in un campo di baracche con la famiglia e aveva precedenti penali per furto, è stato sequestrato e picchiato da alcuni abitanti della zona decisi a farsi giustizia da soli. La brutalità dell’aggressione ha provocato un intenso di-battito sul razzismo, ma poi un quotidiano britannico ha pubblicato le foto che mostravano le terribili condizioni del ragazzo, ritrovato incosciente dentro un carrello della spesa. Lottava ancora tra la vita e la morte quando le sue foto hanno invaso i social network.
Negli stessi giorni è stato diffuso un video in cui si vedevano dei guerriglieri de! grappo jihadista Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil) che uccidevano in Iraq decine di soldati catturati mentre cercavano di fuggire vestiti da civili. La crudeltà di quelle immagini e insopportabile e, anche se sono importanti per capire cosa succede in Iraq, i mezzi d’informazione avrebbero potuto fare scelte diverse. Alcuni si sono autocensurati, ma altri hanno pubblicato le immagini più terribili, facendo forse il gioco degli assassini.
In Francia le foto non potevano essere pubblicate perché la legge lo vieta. Ma anche se chi ha pubblicato le foto del ragazzo lo avesse fatto solo per denunciare la brutalità dell’aggressione, que-sto non giustifica la violazione dei suoi diritti. Quando il quotidiano ha deciso di ritirare le foto era troppo tardi: circolavano già sui social net-work, come le foto dei jihadisti iracheni.
I due casi sono diversi tra loro, ma è opportuno chiedersi, in situazioni simili, quando un’immagine smette di essere utile come denuncia per sconfinare in altri campi. E poi, oltre al compro-messo tra l’obiettivo di informare e la necessità di evitare il crudo sensazionalismo, resta il diritto delle vittime al rispetto della loro dignità

MEDIO ORIENTE & AFRICA
ISRAELE
UN SEGNO DI DEBOLEZZA
Il 24 giugno Israele ha ridimensionato le operazioni militari per la ricerca dei tre ragazzi israeliani scomparsi vicino a Hebron, in Cisgiordania, il 12 giugno. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha accusato Hamas del rapimento dei giovani e in undici giorni i suoi soldati hanno arrestato 354 palestinesi, di cui solo una parte sono militanti dell’organizzazione islamica. Durante le operazioni ci sono stati episodi di violenza che hanno causato la morte di quattro palestinesi (nella foto, il funerale di una delle vittime, il 22 giugno 2014 a Ramallah). Gli israeliani hanno deciso di fermarsi prima che la repressione facesse scoppiare una rivolta contro il presidente palestinese, scrive il Daily Star. Su pressione di Netanyahu, Abu Mazen aveva condannato il rapimento e promesso di collaborare alla ricerca dei giovani, un gesto interpretato come un segno di debolezza.

SIRIA
L’ARSENALE DISTRUTTO
Il 21 giugno il governo siriano, i ribelli e le fazioni palestinesi del campo profughi di Yarmuk han-no raggiunto un accordo di cessate il fuoco. Il campo, alla periferia sud di Damasco, è rimasto per mesi sotto l’assedio delle forze governative, a parte una tregua umanitaria di due settimane a marzo. I ribelli si sono impegnati a lasciare Yarmuk.
Il 22 giugno sul Golan un ragazzo araboisraeliano è rimasto ucciso quando l’auto su cui viaggiava è stata colpita da un colpo di artiglieria. Israele ha risposto con un raid aereo in territorio siriano che, secondo Ha’aretz, ha causato dieci morti.
– L’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche ha annunciato il 23 giugno che le
I ultime armi dell’arsenale chimico siriano sono state caricate su una nave danese e sono state portate in mare per essere distrutte.
Ma, scrive Syria Deeply, rimane la minaccia del cloro, un gas ma sono i popoli a fare le rivoluzioni, non gli individui tossico usato più volte nei bombardamenti.
Simone voleva farmi conoscere la storia della diaspora ebraica in Marocco, che fortunatamente non si è conclusa con l’annientamento (ma forse anche perché la maggior parte degli ebrei ha lasciato il paese). Ho capito fino a che punto l’orientamento filoccidentale di Israele ha distrutto la cultura della comunità, antica di duemila anni. Leila voleva mostrarmi che la coesistenza tra arabi ed ebrei è possibile, e quanto può essere ricca.
Il primo giorno siamo andate al cimitero ebraico, dove sono sepolte dodicimila perso-ne. Alcune sono parenti di Si-mone. Li mi hanno convinta a fare qualcosa che non avrei mai immaginato. Ho acceso una candela davanti alla tomba di uno zaddiq (santo) ebreo-marocchino del seicento, Yehuda Ibn Attar. Leila ha spiegato il perché al custode: "Accendiamo una candela in me-moria dei familiari di Amira morti nell’Europa nazista, per-ché non conosciamo il luogo della loro sepoltura".

MAROCCO
UNA CANDELA PER NON DIMENTICARE / Da Fes Amira Hass
Sono stata a Fes, in Marocco, per un festival di musica sacra. Ero con due amiche: Simone Bitton, regista ebrea nata in Marocco e residente a Parigi, e Leila Shahid, ambasciatrice palestinese a Bruxelles. Il festival commemorava Nelson Mandela e il tema di uno dei dibattiti era: "Può esserci un Mandela in Medio Oriente?". Io e le mie compagne di viaggio l’abbiamo trovato discutibile. Come ha notato Leila, il titolo implicava che la colonizzazione fosse giustificata dall’assenza di un Mandela, ma sono i popoli a fare le rivoluzioni, non gli individui. Simone voleva farmi conoscere la storia della diaspora ebraica in Marocco, che fortunatamente non si è conclusa con l’annientamento (ma forse anche perché la maggior parte degli ebrei ha lasciato il paese). Ho capito fino a che punto l’orientamento filoccidentale di Israele ha distrutto la cultura della comunità, antica di duemila anni. Leila voleva mostrarmi che la coesistenza tra arabi ed ebrei è possibile, e quanto può essere ricca
Il primo giorno siamo an-date al cimitero ebraico, dove sono sepolte dodicimila perso-ne. Alcune sono parenti di Si-mone. Li mi hanno convinta a fare qualcosa che non avrei mai immaginato. Ho acceso una candela davanti alla tomba di uno zaddiq (santo) ebreo-marocchino del seicento, Yehuda Ibn Attar. Leila ha spiegato il perché al custode: "Accendiamo una candela in me-moria dei familiari di Amira morti nell’Europa nazista, per-ché non conosciamo il luogo della loro sepoltura".

LIBIA
IN CERC DI LEGITTIMITA’-
I libici sono stati chiamati alle urne il 25 giugno per eleggere la camera dei deputati nella seconda votazione dalla caduta del regime di Muammar Gheddafi. Alle legislative di due anni fa, 2,7 milioni di libici si erano iscritti alle liste elettorali, mentre quest’anno i votanti sono solo 1,5 milioni, scrive El Watan. Le elezioni sono state convocate alla fine di maggio dopo che il generale
1 Khalifa Haftar ha lanciato un’offensiva contro le brigate islamiche che controllano Bengasi, nell’est del paese, un’iniziativa che il governo aveva denunciato come un colpo di stato.

MAURITANIA
II capo di stato uscente Mohamed Ould Abdel Aziz ha vinto le elezioni presidenziali del 21 giugno con l’8i,89 per cento dei voti.

NIGERIA
Negli ultimi giorni circa sessanta ragazze sono state rapite dai terroristi di Boko haram nello stato di Borno.

REP. CENTIAFRICANA
Circa cinquanta persone sono morte il 23 giugno nelle violenze religiose nella regione di Bambari

ASIA & PACIFICO
AUSTRALIA
NON TOCCATE LA TASMANIA – Il 24 giugno l’Unesco ha respinto la richiesta del governo australiano di togliere dalla lista dei luoghi patrimonio dell’umanità 74mila ettari di foresta della Tasmania. Alla commissione riunita a Doha, in Qatar, sono bastati sette minuti per decidere che "accogliere la richiesta di Canberra avrebbe segnato un precedente inaccettabile", scrive il Sydney Morning Herald. Il premier australiano Tony Abbott, grande sostenitore dell’industria del legname, è deciso a continuare la battaglia.

GIAPPONE
IL SESSISMO IN PARLAMENTO
Un caso di sessismo ha sollevato polemiche sulla questione della parità di genere in Giappone. Il 18 giugno, durante una sessione dell’assemblea metropolitana di Tokyo (il parlamento locale dell’area della capitale), l’intervento di Ayaka Shiomura, rappresentante del partito d’opposizione Minna no tó, è stato interrotto dal commento di Akihiro Suzuki, 51 anni, del Partito liberaldemocratico. Mentre Shiomura, 35 anni, stava parlando della necessità di sostenere con misure adeguate le donne che vogliono avere figli, Suzuki, incalzato da commenti simili di altri consiglieri, ha apostrofato
la collega dicendo: "Sei tu che dovresti sposarti al più presto". L’episodio ha provocato l’indignazione dell’opinione pubblica, e le scuse di Suzuki arrivate con una settimana di ritardo, non sono bastate a placarla, scrive l’Asahi Shim-bun. Per Nobuo Kochu, costituzionalista, c’è una grave mancanza di rispetto dei diritti della persona tra i consiglieri.

LAOS
LE DIGHE SUL MEKONG
Il 24 giugno l’alta corte amministrativa tailandese ha accolto la causa presentata da 37 cittadini contro cinque enti del governo di Bangkok, tra cui l’autorità per la produzione di energia elettrica. All’origine della denuncia c’è l’impegno della Thailandia a comprare il 95 per cento dell’elettricità generata dalla diga Xayaburi, che il Laos sta costruendo su un affluente del fiume Mekong e che rischia di danneggiare l’ecosistema della regione. Il Mekong è la principale riserva ittica per 60 milioni di persone ed è minacciato dalle dighe costruite dai paesi che attraversa, in particolare la Cina. La sentenza della corte, scrive Radio Free Asia, non avrà un impatto diretto sulla costruzione della diga, ma almeno solleverà la questione della legittimi-tà dell’accordo.

HONG KONG
REFERENDUM LEGÌTTIMO / Mingpao, Hong Kong
Sono più di 700mila i cittadini di Hong Kong che dal 20 giugno hanno partecipato al referendum organizzato dal movimento Occupy Central per chiedere elezioni democratiche nell’ex colonia britannica. La consultazione, che durerà fino al 29 giugno, è stata definita illegale dai mezzi d’informazione cinesi e dai
rappresentanti di Pechino, che dal 1997 ha di nuovo la sovranità sulla città. Il movimento Occupy preme per arrivare al suffragio universale nel 2017, quando Hong Kong eleggerà il nuovo chief executive, oggi scelto da un comitato elettorale di 1.200 persone nominate o elette in 28 collegi all’interno di vari settori dell’economia e della società. "I cittadini di Hong Kong non accettano i giudizi che bollano la consultazione come illegale", scrive Mingpao, che ricorda il diritto a esprimere le proprie opinioni garantito dalla costituzione della città. "L’intervento della Cina rischia di far peggiorare la situazione", spiega il quotidiano. Recentemente il governo cinese è stato molto criticato per la pubblicazione di un rapporto in cui ribadisce la propria discrezionalità nel garantire autonomia a Hong Kong.

CINA
Tredici persone sono state uccise dalla polizia il 21 giugno durante un attacco a una sede delle forze di sicurezza a Kargi-lik, nello Xinjiang.
CINA
DATAGATE, LA CINA PRESENTA DOSSIER ANTI-USA. DER SPIEGEL: "ACCORDO TRA GERMANIA E USA PER SPIARE". Mentre la Cina denuncia in un libro bianco le ramificazioni mondiali del datagate Usa, il tedesco Spiegel avanza dei dubbi sul controllo della Germania da parte della americana Nsa: c’era l’accordo tra i vari servizi segreti in nome della lotta al terrorismo. Autore: fabio sebastiani
LA CINA DENUNCIA LA "GLOBAL SURVEILLANCE"
La Cina ha pubblicato un libro sulle attività di sorveglianza degli Stati Uniti, accusati di aver spiato diversi Paesi dopo le rivelazioni sui programmi segreti di spionaggio condotti dalla National Security Agency e rivelato al mondo l’anno scorso da Edward Snowden. Nel volume "How is the United States surveilling China?" ("Come gli Stati Unti stanno sorvegliando la Cina?") è inserito anche un rapporto dal titolo "The United States’ Global Surveillance Record" ("La raccolta della sorveglianza globale Usa") presentato a maggio insieme ad una serie di articoli di analisi e commenti di 18 esperti.
Gli Stati Uniti, si legge nel testo, hanno condotto attacchi informatici su larga scala contro la Cina, con obiettivi i leader cinesi e la società di telecomunicazioni Huawei, e sia gli attacchi che lo spionaggio informatico avrebbero violato le leggi internazionali, i diritti umani, oltre che minacciato la sicurezza informatica globale. Tutto il mondo, si sostiene nel libro di 146 pagine, deve respingere e condannare questo genere di attacchi.
Intanto, la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato una misura per limitare il potere della National Security Agency (Nsa) di ottenere informazioni sui cittadini americani.
Con un voto a sorpresa, la misura è stata approvata da una maggioranza, composta sia da repubblicani che democratici, di 293 voti contro 123 contrari. "Gli americani sono stanchi di essere spiati", ha dichiarato Thomas Massie, il primo firmatario della proposta di legge tesa a vietare alla Nsa di condurre ricerche, senza avere un mandato della magistratura, nei contenuti delle comunicazioni dei cittadini americani. Provvedimento del tutto parziale che, ovviamente, non dà alcuna garanzia per il resto del mondo, dove si è concentrata gran parte dell’attività di Nsa in questi ultimi anni.
ALLEANZA USA GERMANIA PER IL "GRANDE FRATELLO" MONDIALE
Proprio pochi giorni fa il settimanale Spiegel ha pubblicato una sorta di resoconto, con materiali ricavati dai file di Snowden. Gli oltre 50 file sono tutti disponibili online per il download, accompagnati da un pratico ‘glossario’ che spiega sigle e nomi in codice. Nei documenti si possono reperire, tra le altre cose, informazioni sui ‘centri d’ascolto’ dell’agenzia statunitense Nsa in Germania, sulla collaborazione tra l’intelligence Usa e quella tedesca e informazioni specifiche sui programmi e il modo di lavorare dell’Nsa. Sono almeno una dozzina i centri di ascolto, in gran parte stazionati nelle basi statunitensi in Germania. Nei decenni ne sono stati registrati oltre 150, la maggior parte oggi dismessi. Grazie alle informazioni raccolte nella Repubblica federale, o tramite la collaborazione dei servizi tedeschi, l’intelligence Usa ha potuto organizzare omicidi mirati di terroristi, si legge, in particolare dopo il 2001. Tra le carte, secondo quanto scritto dal settimanale in un lungo reportage pubblicato la scorsa settimana, ci sarebbero anche le prove che l’Nsa avrebbe raccolto oltre 300 dossier sulla cancelliera tedesca Angela Merkel. Alcune rivelazioni dello Spiegel sull’operativita’ dei servizi segreti americani sul suolo tedesco daranno piu’ di un problema, nei prossimi giorni, ad Angela Merkel. Secondo il settimanale tedesco ”la cooperazione dei servizi tedeschi con la Nsa ha raggiunto ormai dimensioni finora sconosciute”.
Dagli attentati alle Torri gemelle di New York del 2001, la Germania sarebbe il luogo centrale in Europa per la caccia ai terroristi. E c’e’ chi oggi si chiede addirittura se l’operato dei servizi tedeschi sia costituzionale: ”Non e’ trasparente ed e’ un su un terreno difficile la cooperazione decisa dalle istituzioni tedesche con l’NSA dal 2001 – scrive il settimanale -. Non e’ trasparente perche’ il Parlamento e l’opinione pubblica non possono verificare cosa viene consegnato agli Usa. E’ difficile perche’ ora ci si chiede se sia costituzionale”.
Dalla Grecia, infine, la testata Nea fa sapere che proprio grazie alla collaborazione tra i servizi segreti tedeschi e quelli americani sarebbero stati messi sotto sorveglianza le comunicazioni web di 195 Paesi, fra i quali la Grecia. Non e’ l’unico capitolo bollente in materia.

PAKISTAN
II 20 giugno le autori-1 tà locali hanno annunciato che circa 20omila persone sono in fuga dal Nord Waziristan, dov’è in corso un’offensiva dell’esercito contro i taliban.

MALESIA
II 23 giugno l’alta corte di giustizia ha respinto il ricorso di alcuni cristiani che chiedevano di poter usare la parola Allah. Il divieto era stato imposto dal governo

AMERICA CENTRO-MERIDIONALE
MESSICO
LE DIMISSIONI DI VALLEJO
Il 18 giugno il governatore dello stato occidentale di Michoacán, Fausto Vallejo (del Partito rivoluzionario istituzionale, al governo), ha annunciato su Twitter le sue dimissioni per motivi di salute. "Ma un documento dell’intelligence", scrive Proceso, "dimostra che è arrivato al potere con l’appoggio del narcotraffico e che il figlio, Rodrigo Vallejo Mora, faceva parte del cartello della droga dei Caballeros templarios, molto attivo nello stato". Su Emeequis la giornalista Lydia Cacho si augura che Vallejo ammetta pubblicamente quello che i suoi accusatori hanno già detto: "La sede del governo è anche quella dei Templarios: amministrano, stabiliscono le regole e condiziona-no l’economia del Michoacán alle esigenze del cartello.

PARAGUAY
Giornalisti sotto attacco
"Dall’inizio dell’anno in Paraguay sono stati uccisi due giornalisti, ma le autorità non hanno ancora identificato i responsabili", scrive Pàgina 12. L’ultimo omicidio è avvenuto il 19 giugno a Concepción: il giornalista radiofonico Edgar Fernàndez Fleitas è stato ucciso con sei col¬pi di arma da fuoco nel suo uffi¬cio. "Nel suo programma", spie¬ga La Nación, "Fleitas criticava politici e giudici locali".

BRASILE La presidente Dilma Rousseff ha annunciato il 21 giugno la sua candidatura a un secondo mandato nelle elezioni presidenziali del 5 ottobre.
BRASILE
La violenza non si ferma
"La notte del 22 giugno tre persone tra cui un poliziotto, sono morte in una sparatoria tra polizia e presunti trafficanti di droga nel quartiere Complexo do Alemào a Rio de Janeiro", scrive O Globo. Alla violenza in Brasile dedica la copertina il settimanale Carta Capital: "Negli ultimi anni le condizioni di vita sono migliorate, la disoccupazione è diminuita e il salario minimo è cresciuto. Al tempo stesso, sono aumentati gli investimenti nella sicurezza. La somma di questi fattori avrebbe dovuto tradursi in una diminuzione della violenza", sostiene il settimanale, "ma non è stato così. Secondo il rapporto Mapa da violència, pubblicato a maggio, nel 2012 il Brasile ha avuto il tasso di omicidi più alto del mondo

MESSICO
II 23 giugno alcuni militari hanno arrestato Fernando Sànchez Arellano (nella foto), 37 anni, capo del cartello della droga di Tijuana.
ARGENTINA
MATERNITA’ IN CARCERE.
Quasi la metà delle donne detenute 7 nelle carceri della provincia di Buenos Aires è accusata di delitti per droga: possesso, consumo e spaccio. Molte sono madri, straniere, povere e con pochi mezzi per accedere alla giustizia. Secondo la legge, i figli possono convivere con le madri in carcere fino al quarto anno di vita 0 senza limiti di età nel caso, molto raro, in cui alla detenuta siano concessi gli arresti domiciliari. Quando compiono quattro anni, i bambini che non hanno familiari fuori dalla prigione vengono mandati in un istituto. In alcuni casi sono affidati 0 dati in adozione alle famiglie che hanno stabilito con loro una relazione mentre erano in carcere. Las 12 ha avuto accesso al rapporto dell’Observatorio de violencia de género sulla maternità nelle carceri della provincia di Buenos Aires, che sarà pubblicato ad agosto, e ha visitato l’unità penale 33 Los Hornos. "La bronchiolite è una malattia molto diffusa e l’assistenza medica non è sufficiente. A febbraio è morto un bambino di 21 giorni e, secondo le detenute, non è stato né il primo né sarà l’ultimo. A volte mancano gli antibiotici e il pediatra non viene per giorni".

AMERICA SETTENTRIONALE
CANADA
L’EGITTO CONTRO I GIORNALISTI Toronto Star, Canada
Il regime egiziano ha dichiarato guerra alla libertà d’espressione e al giornalismo indipendente. Il 23 giugno la condanna a pesanti pene detentive di tre giornalisti televisivi è stata un chiaro avverti-mento: d’ora in poi, parlare liberamente degli avvenimenti politici sarà considerato sovversivo e punito di conseguenza.
Il canadese-egiziano Mohamed Fahmy e due colleghi del canale in lingua inglese di Al Jazeera – l’australiano Peter Greste e l’egiziano Baher Mohamed – sono stati processati in base ad accuse inventate: avrebbero complottato con i Fratelli musulmani, che il regime ha dichiarato fuorilegge, per trasmettere "notizie false" e destabilizzare l’Egitto. Ma anche dopo averli detenuti per sei mesi, i pubblici ministeri non sono stati in grado di produrre prove concrete e hanno dovuto pro-iettare in aula immagini inutili ai fini del caso, tra cui una conferenza stampa in Kenya e un documentario sul calcio. Nonostante questo, i tre giornalisti sono stati condannati a sette anni di carcere, e Baher Mohamed ha avuto altri tre anni di condanna per il possesso di un’unica cartuccia vuota raccolta durante gli attacchi del 2013 ai Fratelli musulmani. È chiaro che i giudici volevano mandare un messaggio forte: tutti devono rispettare la linea del governo, che considera la Fratellanza un’organizzazione terroristica da neutralizzare a tutti i costi.
Questa sentenza rientra in una più ampia campagna repressiva cominciata da quando il colpo di stato militare ha cacciato il presidente legittimo Mohamed Morsi. Da allora sono state arrestate circa tornila persone e ne sono state uccise 1.400. Il 21 giugno altre 183 sono state con-dannate a morte in un processo di massa. Con la sua spietata repressione, il regime egiziano sta gettando alle ortiche la democrazia e i diritti umani. Queste condanne mettono in imbarazzo anche i governi occidentali, che avevano accolto il ritorno dei militari come un modo per fermare l’islamismo in Egitto. Il giorno della sentenza il segretario di stato americano John Kerry aveva appena lasciato II Cairo, dopo aver promesso di ripristinare aiuti militari per 650 milioni di dollari e invitato il governo a rispettare "la libertà d’espressione, di riunione e di associazione". Lo stesso Kerry ha giudicato le sentenze "agghiaccianti e troppo dure". I ministri degli esteri britannico e australiano le hanno definite "spaventose". Il governo egiziano deve sapere che, se i suoi giudici non revocheranno quei verdetti, il prezzo che pagherà in termini di immagine nell’opinione pubblica mondiale sarà altissimo.

STATI UNITI
II 14 giugno un tribunale federale dell’Oregon ha stabilito che la nofly list, introdotta dal governo per motivi di sicurezza, ha impedito in modo illegittimo a 13 persone di viaggiare senza che potessero fare appello contro la decisione.
STATI UNITI
OMICIDIO INGIUSTIFICABILE
Il 23 giugno il dipartimento di giustizia degli Stati Uniti ha reso pubblico, su richiesta di una corte federale, un documento riguardante l’operazione che ha causato la morte di Anwar al Awlaki, un cittadino statunitense ucciso nel 2011 in Yemen da un drone statunitense. Il caso di Al Awlaki è considerato uno dei più controversi nell’ambito del programma degli omicidi mirati condotto dall’amministrazione Obama. Secondo gli attivisti per i diritti umani e molti analisti, in quanto cittadino statunitense Al Awlaki avrebbe avuto diritto a un processo. Il documento, del 2010, parla di "public authorities justification", un concetto giuridico secondo cui in situazioni d’emergenza il governo può adottare delle misure speciali che normalmente sarebbero illecite. Secondo il New York Times, il rapporto è un "miscuglio improvvisato di teorie giuridiche che è stato chiaramente tagliato su misura per giustificare l’operazione".

(articoli da: NYC Time, Time, Guardian, The Irish Times, Das Magazin, Der Spiegel, Folha de Sào Paulo, Clarin, Nuovo Paese, L’Unità, Internazionale, Il Manifesto, Liberazione, Ansa , AGVNoveColonne, ControLaCrisi e Le Monde)

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