10534 “…nessuno negava mai un po’ di pane e formaggio e da bere…”.

20130217 14:37:00 guglielmoz

[b]di Francesco LoPiccolo[/b]
Facendo ordine nella mia libreria mi sono ritrovato tra le mani il primo volume di Quando io ero piccolo. Storie da condividere, lavoro di gruppo frutto di una iniziativa partita nel 2009 con Facebook e poi proseguita con la stampa e la vendita del libro il cui ricavato, tramite uno dei tanti progetti di "Annulliamo la distanza", è andato a sostegno dei bambini eritrei.

Anni fa anch’io, grazie al mio amico Augusto Montaruli, ho contribuito al libro con un mio testo e ora, dopo aver riletto il mio racconto, sfogliando le pagine mi è capitato sotto gli occhi "Uova a occhio di bue, Sardegna 1960", di Valentina Vargiu, racconto che comincia così: "Quando io ero piccola capitava spesso che dalla colonia penale di Mamone scappasse qualcuno dei detenuti. Attraversavano l’altopiano di Bitti e Lodè tra i boschi e giungevano a Concas stremati dalla stanchezza e dalla fame. Nessuno negava mai un po’ di pane e formaggio e da bere…".

Inevitabilmente mi è venuto da pensare all’aiuto o al sollievo che i volontari danno ai detenuti, ai detenuti che non scappano ovviamente (comunque cosa praticamente impossibile oggi). Ma soprattutto mi è venuto da pensare al fatto che c’è qualcosa che accomuna gli abitanti di Concas degli anni 60 e i volontari di oggi: entrambi danno qualcosa indipendentemente dal ricevere. Entrambi lo fanno senza alcuna contropartita. Evitando così di cadere nell’errore di vedere il mondo diviso nelle due classiche categorie buoni-cattivi, vittime-carnefici. Evitando così di giudicare. Cose difficilissime in questi tempi, tempi nei quali sono scomparsi i mezzi toni e dove la verità è sempre da una parte. Tempi nei quali sono scomparsi i dubbi.

Mentre io i dubbi li ho in continuazione. Dubbi sulla necessità del carcere, di questo carcere che ha preso il posto e viene sempre più invocato come la forca nella pubblica piazza. E i dubbi si rafforzano conoscendo i detenuti (mi riferisco a quella parte più debole che è la maggioranza e che è composta da sbandati, tossicomani, spacciatori, stranieri) e parlando con loro, soprattutto sentendo le loro storie. La storia di quello che mi racconta che dorme con i topi, di quell’altro che è stato due settimane in cella d’isolamento, nella cosiddetta "cella liscia" perché gli è arrivato un nuovo mandato di cattura, di quello che non ce la fa e ha paura.

Oppure me ne accorgo leggendo le storie che arrivano dalle carceri di tutta Italia: da Catania dove al minorile ci sarebbero dei casi di scabbia, da Bari dove un detenuto straniero se ne sta in cella con altri 11 e indossa solo una T-Shirt, e la temperatura non supera i 10 gradi, e un altro non ha le scarpe, e un altro ancora calza solo sandali di plastica. E me ne accorgo ancora se penso alla storia di Foggia dove è stato messo in cella un neonato di poche settimane con la sua mamma perché la donna ha commesso non so quale grave reato da non poter stare ai domiciliari o in una casa famiglia…. mentre oggi a fine febbraio sono già sei le persone che hanno deciso di farla finita e 23 i morti dietro le sbarre italiane.

Qualche giorno fa, grazie a Radioradicale mi sono riascoltato alcuni interventi dei relatori presenti al Congresso di Magistratura democratica. Successivamente dal sito di Md, ho scaricato e stampato le relazioni del professor Luigi Ferrajoli e del magistrato Francesco Maisto.

Dice Maisto, scuotendo coscienze e pensieri:
"E’ diventato di moda parlare di carcere e il rischio del tanto e del troppo è il niente…. Certo, ci sono carceri fiore all’occhiello, ma per il resto sono campi di concentramento che, se aumentano suicidi e atti di autolesionismo, rischiano di diventare campi di sterminio".
Ma anche e soprattutto Ferrajoli ha colpito nel vivo, perché nel suo intervento ha parlato del dubbio, del carattere relativo e incerto della realtà processuale, della necessità dei limiti che deve avere l’azione del giudice nel fare giustizia. E ancora mi ha colpito perché ha ricordato ai giudici (riferendosi anche ai giudici scesi in politica) che non sono dei padreterni e infallibili e dunque devono saper ascoltare le opposte ragioni…e che non sono nemici del reo, che si è puniti per quello che si è fatto e non per quello che si è, che l’operarto del magistrato, quidi la sentenza, deve risultare equo tale da suscitare fiducia nello stesso imputato. Soprattutto nell’imputato.
Tutte cose che, assieme a legalità e diritti, sono spesso al centro di discussioni e dibattiti tra i detenuti.

Ieri è andato in distribuzione il nuovo numero di Voci di dentro, il magazine scritto dai detenuti che partecipano ai laboratori di scrittura che la nostra Onlus tiene nelle carceri di Chieti, Vasto, Pescara e Lanciano e che esce grazie ai contributi di soci dell’associazione Voci di dentro, Comune di Chieti, Fondazione Carichieti, Enti e privati. Consiglio di leggerlo perché anche questo numero, come tutti gli altri, è utile per capire. Utile per chi lo legge che così conosce un po’ meglio i detenuti, che al di là dello stereotipo che li vuole pregiudicati a vita, sono prima di tutto padri, madri, figli. Utile per chi scrive. Perché la scrittura, se è scrittura vera, se parte da dentro, è scrittura che mette a nudo. E perciò scrittura capace di compie una specie di miracolo (anche per chi non crede ai miracoli) perché porta alla luce e mostra in tutta evidenza persone fragili, persone indifese …. persone che possono-vogliono-provano a cambiare. Persone non sempre o per sempre carnefici, ma spesso, anche se non tutti, vittime. Vittime di un vuoto enorme, vittime di se stessi, della droga, di brutti esempi, di mancanza di cultura, di degrado, di periferie abbandonate, della mafia.

Fin da piccoli condannati a una vita "sospesa", come scrive Domenico Silvagni, detenuto a Vasto, che aggiunge: "vite sospese…vite rimandate come quelle degli scarcerati in gran parte destinati a rientrare in carcere perché privi di riferimenti affettivi e lavorativi… o vite finite come quelle dei suicidi spesso generate da sussulti di dignità…".

Carnefici…vittime…giustizialisti…garantisti… A me piace la parola diritti e dunque diritti delle persone. Persone alle quali dare una mano… Come a Concas negli anni 60, dove "…nessuno negava mai un po’ di pane e formaggio e da bere…".
Post scriptum. Ho appena terminato di scrivere, mi viene alla mente Giustizia e La panne di Friedrich Durrenmatt… cerco i libri. Ci vuole un po’ di musica…ecco: Una storia sbagliata (1980) Fabrizio De Andrè, Absolutely sweet Mary (1966) e Hurricane (1975) entrambe di Bob Dylan. (di Francesco LoPiccolo)

 

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