10524 Notizie 16 Feb

20130215 14:54:00 guglielmoz

0 – MONDO, ONE BILLION RISING e «NO BLOOD FOR OIL».
1 – AFRICA & MEDIO ORIENTE. 2 – ASIA OCEANIA ANTARTIDE (Pacifico). 3 – AMERICA MERIDIONALE. 4 – AMERICA SETTENTRIONALE. 5 – EUROPA

MONDO 1 – ONE BILLION RISING – Il mondo contro la violenza Rivoluzione è un miliardo di donne che ballano di Luisa Betti «UN MILIARDO DI DONNE VIOLATE È UN’ATROCITÀ, UN MILIARDO DI DONNE CHE BALLANO È UNA RIVOLUZIONE. BALLARE SIGNIFICA LIBERTÀ DEL CORPO, DELLA MENTE E DELL’ANIMA. È UN ATTO CELEBRATIVO DI RIBELLIONE, IN ANTITESI CON LE FORME OPPRESSIVE DELLE COSTRIZIONI PATRIARCALI».

Queste sono le parole con cui Eve Ensler, autrice de I monologhi della vagina e fondatrice del V-Day, ha lanciato la campagna «One Billion Rising» che oggi, in un evento planetario contro la violenza sulle donne, ha come scopo quello di raggiungere un miliardo di persone: un obiettivo che potrebbe essere anche superato in una giornata in cui invece di festeggiare san Valentino donne e uomini si alzeranno in piedi scegliendo di danzare in 189 paesi del mondo.
Le organizzazioni internazionali che hanno aderito vanno da Amnesty International a Equality Now, con testimonial del calibro di Robert Redford, Yoko Ono,Naomi Klein, Jane Fonda, ma anche il Dalai Lama, Anne Hathaway, Michelle Bachelet, Vandana Shiva e Berenice King, figlia di Martin Luther King.
«Che la violenza sia un tema cruciale su cui si discute a livello mondiale è un dato di fatto – dice Bianca Pomeranzi, membro del Comitato per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne delle Nazioni Unite (Cedaw) – lo dimostra il fatto che, per esempio, si è proposta l’ipotesi di una nuova Convenzione delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, per cui si pensa di fare una cosa specifica sulla violenza o di avviare un protocollo addizionale come aggiunta vincolante per i Paesi che hanno ratificato la Cedaw». La prossima «Commission on the Status of Women» (57a CWS), presieduta da Bachelet, sarà dal 4 al 15 marzo al Palazzo di vetro di New York e si concentrerà specificatamente sulla violenza contro le donne, e «credo – aggiunge Pomeranzi – che l’India e la parte asiatica insisterà per avere questa Convenzione sulla violenza anche se a fronte di un grande interesse sul problema, il clima politico globale comprende forte pressione di gruppi meno inclini alla laicità, per esempio di alcuni stati arabi ma anche cattolici e protestanti, che introducono elementi di difficoltà nella discussione alle Nazioni Unite».
A questo proposito è bene ricordare che diversi mesi fa al vertice di Rio + 20 sullo sviluppo sostenibile alcuni paesi – tra cui Siria, Egitto, Polonia e Cile, sotto l’azione coordinatrice del Vaticano – sono riusciti a "epurare" il paragrafo 244 dal testo della Conferenza sui diritti riproduttivi delle donne e sulla pianificazione familiare, dimostrando una alleanza interreligiosa che nel mondo rema unita contro i diritti delle donne. ««A livello internazionale – conclude Pomeranzi – alcuni stati con forte impronta religiosa tendono a mantenere un assetto patriarcale che è diventato un problema notevole anche all’interno dell’Onu, che non è più sotto la spinta della società civile e dei movimenti delle donne come poteva essere un tempo. Per questo credo che quando bisognerà discutere di femminicidio e discriminazioni fisiche delle donne non sarà così facile perché, ad esempio, fenomeni come i matrimoni in età precoce non vengono da tutti percepiti come violenza ma come inseriti in culture diverse. Un clima non del tutto favorevole, che però dovrà fare i conti con donne che in tutto il mondo vogliono un’azione forte e decisa dell’Onu contro femminicidio e discriminazione».
In Italia la situazione è in bilico, perché il prossimo luglio ci sarà la verifica delle raccomandazioni Cedaw del 2011 e oltre alle dimissioni in bianco e la firma della Convenzione di Istanbul (con ddl di ratifica), poco si è fatto per le donne e il tempo che rimane, con le elezioni, è davvero poco. Per questo l’adesione a «One Billion Rising», al quale partecipano 70 città italiane e associazioni tra cui Emergency, Action Aid, No More!, l’Udi, DiRe, Giulia e Snoq, è un importante segnale per il prossimo Parlamento.
A Roma sono previsti flash mob tra cui Piazza del Popolo, Ponte Mazzini, Colosseo, Piazza di Spagna, mentre la festa sarà alla Casa Internazionale delle donne (via della Lungara 9) dalle 18.30 in poi.
MONDO 2 – 10 ANNI FA LA «SECONDA POTENZA MONDIALE» IN PIAZZA Pacifisti, oggi più che mai
«NO BLOOD FOR OIL». Declinato in decine di lingue diverse, questo slogan è risuonato dieci anni fa, il 15 febbraio 2003, nelle piazze di tutto il mondo nella più grande manifestazione globale della storia. 110 milioni di persone, tre milioni solo in Italia, manifestavano contro la guerra all’Iraq evidenziando l’esistenza di un’altra visione del mondo, pacifista ed antiliberista, che sfidava l’ordine di cose esistenti. L’opposizione alla guerra era infatti solo una delle componenti della protesta globale nella quale erano confluiti migliaia di movimenti sociali, sindacali, politici che negli anni precedenti avevano cominciato a costruire un altro punto di vista di fronte alla narrativa della "fine della storia".
Come sono andate le cose è davanti a noi: la guerra in Iraq c’è stata, e per gli iracheni e le irachene non è ancora finita. Ciò, nonostante che l’ultimo Hammer statunitense abbia attraversato la frontiera il 31 dicembre 2011, lasciando un paese in macerie, sociali, politiche e culturali, prima ancora che fisiche. Non è di molta consolazione ricordare che lo avevamo previsto. La contesa per il petrolio è ancora in corso ed è, ancora oggi, elemento centrale della instabilità del paese e pesa come un macigno sulla possibilità di ritorno alla normalità che è ancora lontana.
Bene fa quindi «Un ponte per…», che dedicherà il 2013 ad una riflessione sul decennale della guerra, a cominciare proprio dalla vicenda del petrolio, con un incontro il 15 febbraio alla Facoltà di Studi Orientali di Roma (vedi su unponteper.it).
Non solo la guerra in Iraq c’è stata, ma le successive avventure militari, in Libia prima e in Mali poi, sempre più chiaramente parte di un confronto globale tra, e dentro, un occidente in declino e un oriente in crescita tumultuosa, hanno trovato una sempre più esile opposizione. Anche qui in Italia. Quasi che l’opposizione alla guerra e la difesa del’articolo 11 della Costituzione fosse stata estromessa dalla crisi economica dall’agenda politica della sinistra.
Ma in questo decennio di transizione è successo anche altro: il risveglio sudamericano, troppo sottaciuto perché troppo scomodo, nella provincia europea; la primavera araba, frettolosamente archiviata come conclusa perché sostanzialmente sconosciuta; il movimento #OccupyWallStreet e l’affacciarsi in molti paesi europei di una nuova sinistra antiliberista. Processi – tutti -nei quali si ritrova parte sia della costituency materiale, che dei paradigmi politici, che dieci anni fa avevano animato la protesta mondiale contro la guerra. Dieci anni sono un tempo strano: buono per un compleanno, ma troppo breve per una valutazione storica. La storia ha i tempi lunghi e, forse, quella che il New York Times aveva definito «la seconda potenza globale» non ha ancora perso la partita.
* Un ponte per… Fabio Alberti *

1 AFRICA & MEDIO ORIENTE
1 – AFRICA – PACIFISMO/ELEZIONI / Africa e non solo… Che fine ha fatto, a sinistra, la guerra? Ancora una volta la guerra è tornata nella storia. Dietro il cavallo di troia dei diritti umani, l’Italia si lancia in ripetute guerre "umanitarie", ultimo travestimento delle conquiste imperialiste. Una politica estera di pace, invece, dovrebbe avere, come primo caposaldo, il rifiuto di ogni ingerenza armata in paesi terzi, comunque motivata, anche da presunte o vere violenze contro i diritti umani. La violenza non si combatte con la violenza bensì, ha insegnato Mandela, con i mezzi pacifici. La nostra piattaforma di pace si articola in quattro punti. Ognuno rappresenta una svolta decisiva. 1. Svolta rispetto ai conflitti armati in cui l’Italia è (o è stata) coinvolta. Bisogna: – Mali: condannare l’attacco della Francia (nemmeno "autorizzato" dall’Onu!) invece di sostenerlo; – Afghanistan: ritirarsi ora, risarcire il paese, invece di continuare a uccidere per un anno o più; – Siria: premere per un cessate il fuoco e il negoziato tra tutte le forze, anziché fornire aiuti militari ai gruppi armati e un appoggio politico-economico al loro braccio politico (il CNS, poi la "Coalizione"); – Libia: riconoscere i crimini nostri e della Nato, commessi in spregio al mandato Onu; risarcire le vittime; considerare rifugiati gli esuli; svelare gli interessi dietro le falsità raccontate in coro dai media. INFINE: ripudiare la "guerra permanente" americana, rifiutando ogni collaborazione. Ad es., chiudendo le basi Usa come quelle "Africom" a Vicenza e a Napoli, create per le future guerre Usa in Africa. 2. Svolta nell’impiego delle risorse economiche per la difesa dell’Italia Bisogna: – perseguire una politica di disarmo con la riconversione delle industrie belliche italiane; – cancellare o rivedere i progetti più onerosi: caccia F-35 e JSF, elicotteri NH-90, navi Fremm, ecc.; – revocare la L.244/12 che consente di riordinare le forze armate da forze di difesa in forze offensive. 3. Svolta nella tutela del territorio nazionale italiano Bisogna: – usare i risparmi (punto 2) per bonificare i territori nazionali contaminati (Sardegna, Taranto, ecc.); – negare a paesi terzi l’uso dei poligoni di tiro e ogni altra attività che contamini il territorio italiano; – vietare sul territorio nazionale lo stoccaggio di armi nucleari o la costruzione dei nocivi radar MUOS. 4. Svolta nella conduzione della politica estera italiana Bisogna: – passare da "membro" a "partner" della Nato per non essere trascinati in guerre decise da altri; – richiedere l’estradizione dei 23 agenti Cia condannati dai tribunali italiani e latitanti negli Usa; – recuperare il ruolo di "protagonista della pace" che l’Italia svolse durante parte del Rinascimento, quando inventò la diplomazia internazionale e riuscì ad appianare tante controversie nel mondo. Basta giocare di rimessa! Basta sudditanza! Basta guerre! Per una politica estera attiva di pace! (promotori Rete No War e PeaceLink, Per una politica estera alternativa, di pace .

TURCHIA – Esplosione mini-bus, matrice terroristica / L’esplosione di un minibus a un posto di frontiera tra la Turchia e la Siria è dovuta a «un atto terroristico». Aveva come obiettivo il Consiglio nazionale siriano (Cns), che fa parte dell’opposizione al governo siriano di Bashar al Assad. Lo ha affermato in una conferenza stampa il ministro degli Interni turco, Muammer Guler: «Lavoriamo su diverse piste – ha detto – ma probabilmente l’attentato è stato opera di un siriano». Il minibus è esploso lunedì al posto di frontiera di Cilvegozu, uno dei principali punti di accesso per i rifugiati siriani in Turchia, vicino alla città di Reyhanli. Si contano 14 morti e una trentina di feriti. In un comunicato, il Cns ha sostenuto che l’attacco si è prodotto mentre passava una delle sue delegazioni, di ritorno dalla città di Aleppo. La Turchia sostiene apertamente gli oppositori al presidente siriano, ospita e rifornisce rifugiati e ribelli sul suo territorio.

LIBANO – Matrimoni civili / "Dobbiamo lavorare a una legge sul matrimonio civile. È un passo fondamentale per sradicare le divisioni settarie e rafforzare l’unità nazionale". Il tweet del presidente libanese Michel Suleiman ha contribuito ad alimentare il dibattito sul matrimonio civile in Libano (nella foto, una manifestazione a Beirut il 4 febbraio 2013), che contrappone il capo dello stato al primo ministro e alle autorità religiose. Sfruttando una lacuna nella legge, il 10 novembre Kholoud Suc-cariyeh e Nidal Darwish si sono sposati con rito civile dopo aver fatto cancellare l’appartenenza religiosa dai loro documenti, spiega il Daily Star. Nonostante lo scalpore che hanno creato, le nozze di Succariyeh e Darwish non sono state riconosciute dal ministero dell’interno

RAMALLAH – PUNIZIONE DIVINA di Amira Hass / Il gruppo di israeliani che ho conosciuto quasi per caso nel nord del paese continua a offrirmi spunti di riflessione. Tra le figure dominanti del gruppo c’era un quarantenne magro ed energico che indossava una kippa grande e colorata. L’uomo, un ebreo ortodosso con la barba folta, è nato in un kibbutz ed è cresciuto in un ambiente laico. Alcuni anni fa ha "visto la luce" e si è avviato lungo la strada della contrizione. Il termine ebraico per questo percorso significa "ritomo in pentimento".
L’uomo mi ha raccontato di un recente viaggio con la famiglia in una splendida regione della Cisgiordania a sudest di Betlemme, e della visita all’insediamento di Bat Ayin.
I coloni di Bat Ayin sono quasi tutti "tornati in pentimento" come lui. Tre di loro sono stati riconosciuti colpevoli di aver fondato un gruppo terrorista che ha cercato di uccidere ragazzine palestinesi, mentre alcuni minori sono stati accusati di aver lanciato una bomba molotov contro un’auto palestinese, ferendo gravemente sei persone. Gli abitanti danno anche il tormento a due agricoltori palestinesi la cui famiglia coltiva da cinquantanni un piccolo terreno (pestaggi, incendi, alberi sradicati, acque contaminate).
Quando l’uomo ha visitato Bat Ayin pioveva a dirotto, e lui e i familiari sono dovuti restare al chiuso. "Forse l’onnipotente voleva che lavorassimo per rafforzare la nostra unione", mi ha spiegato. "Non credo", ho risposto. "L’onnipotente vi ha punito per essere andati a Bat Ayin".

IRAQ – L’8 febbraio 33 persone sono morte in una serie di attentati contro la comunità sciita in varie zone del paese. Due giorni dopo cinque persone sono morte in un attacco a colpi di mortaio contro un campo di rifugiati iraniani vicino a Baghdad.

SUD SUDAN . II 10 febbraio un gruppo di ladri di bestiame ha attaccato gli allevatori di Wal-gak, nello stato di Jonglei. Più di cento persone, tra cui molti bambini, sono state uccise.

BAHREIN – Al via il dialogo nazionale / A due anni dalle prime rivolte della maggioranza sciita contro il re Hamad bin Isa al Khalifa, il 10 febbraio i partiti dell’opposizione hanno incontrato i rappresentanti del governo per risolvere una crisi politica in corso da diciotto mesi. Da entrambe le parti, però, le speranze di riuscirci sono deboli, scrive Al Watan. L’opposizione chiede una monarchia costituzionale e l’elezione del primo ministro.
BAHRAIN – DUE ANNI DOPO LA LOTTA SI FA DURA / IL 14 FEBBRAIO 2011 LA RIVOLTA CONTRO LA MONARCHIA ASSOLUTA DI HAMAD AL KHALIFA TOCCAVA IL SUO PUNTO PIÙ ALTO. E domani le opposizioni puntano a riempire le strade di Manama, unità speciali permettendo Repressione feroce, complicità dei paesi del Golfo e silenzio degli Usa hanno radicalizzato le posizioni dei più giovani. Che ora si calano il passamontagna e gridano: «Fino alla vittoria» di Michele Giorgio / Cosa accadrà domani. Se lo chiedono in tanti in Bahrain alla vigilia del secondo anniversario della protesta simboleggiata dell’accampamento sorto, sull’onda delle rivolte arabe, in Piazza della Perla a Manama. Il 14 febbraio 2011 segnò il momento più alto della lotta contro la monarchia assoluta di gran parte della popolazione di questo minuscolo ma strategico arcipelago del Golfo. Le opposizioni puntano a tenere una manifestazione di massa nelle strade della capitale. Il governo, espressione della dinastia sunnita al Khalifa, non rimarrà a guardare ed è pronto a far intervenire le unità speciali delle forze di sicurezza.
Pronti a correre in aiuto di re Hamad al Khalifa ci sono anche i soldati dello «Scudo della Penisola», la forza congiunta delle sei petromonarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg). Due anni fa i soldati sauditi e i poliziotti degli Emirati furono determinanti per schiacciare la protesta di Piazza della Perla. Per la monarchia la popolazione, formata in maggioranza da sciiti (70% dei 600mila abitanti), in realtà non reclama sul serio diritti uguali per tutti e un parlamento degno di questo nome, ma scenderebbe in strada solo perchè «sobillata» dal «nemico iraniano». Una teoria respinta con sdegno dall’opposizione ma che ha garantito sinora a re Hamad il sostegno del Ccg e il silenzio colpevole degli Stati Uniti che in Bahrain hanno la base della lV Flotta.
Due anni dopo la feroce repressione della protesta di Piazza della Perla, seguita dalle pesanti condanne al carcere per diversi esponenti dei partiti di opposizione e di attivisti dei diritti umani, in Bahrain soffia un vento diverso dal 2011. Gli scontri tra manifestanti e polizia sono diventati continui, quasi quotidiani, anche se in strada scendono meno persone. Dopo decine di morti (una ottantina per l’opposizione, circa 40 per le autorità), gli omicidi mirati compiuti da squadre della morte del regime, i giovani sono diventati più estremisti, meno disposti al compromesso politico. Durante gli scontri si coprono il volto con il passamontagna, scandiscono «Fino alla vittoria», ossia fino alla caduta del re, e sempre più spesso lanciano bottiglie incendiarie contro le auto della polizia.
Una radicalizzazione che porta tanti a seguire con indifferenza i colloqui appena cominciati tra l’opposizione e il governo. I leader storici della protesta fanno fatica a contenere coloro che chiedono l’avvio di una battaglia più dura contro la monarchia. «No alla resa, no al dialogo» scandiscono i più giovani che usano i vicoli del mercato di Manama per sfuggire all’arresto durante le manifestazioni. I social network servono a organizzare i raduni ma anche a contestare chi è troppo soft con la monarchia. Si moltiplicano gli appelli agli sciiti a resistere anche con la forza ai raid delle squadracce sunnite. Cresce il settarismo nonostante l’opposizione insista sempre sull’unità nazionale. Tra chi ha meno di 25 anni ben pochi danno ascolto al negoziatore dell’opposizione Abdulnabi Salman, che ha riferito di un «clima costruttivo» ai negoziati in corso con il regime. D’altronde Salman non può garantire che re Hamad stavolta non farà come in passato, un passo in avanti e due indietro, negando ancora una volta le aspirazioni di chi reclama uguaglianza e diritti. «Chi descrive come «inutile» il dialogo con la monarchia ha sempre più peso nelle strade – ha detto all’agenzia Ap Toby Jones, un esperto di Bahrain alla Rutgers University – è un clima che ricorda quello che si respirava durante le lotte degli anni Cinquanta e Sessanta… e questi gruppi (più radicali, ndr) non si faranno da parte facilmente, troppe cose sono accadute in questi due anni».
Un’atmosfera diversa che è conseguenza diretta della repressione del regime. In Bahrain il bilancio di sangue non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello della guerra civile in Siria. Ma è insopportabile la pressione delle forze di sicurezza su attivisti e simpatizzanti delle proteste contro il re. Più gli Usa tacciono e le altre petro monarchie del Golfo lo sostengono e più Hamad al Khalifa si sente abbastanza forte da rifiutare una richiesta elementare come un governo che goda della fiducia del Parlamento. Anzi gli altri sovrani e principi del Ccg lo incitano a «resistere al complotto iraniano», lo convincono che opporsi alla democrazia e al diritto in Bahrain è parte della lotta alla «Mezzaluna sciita» che minaccia il loro potere regionale. In Bahrain si è accorciato il percorso che porta a una lotta popolare più dura, anche violenta. Re Hamad però non vede e non sente.

OMAN – DIRITTI NEGATI SCIOPERO DELLA FAME AD OLTRANZA / Contro la loro condanna a 18 mesi di reclusione. Sono stati tutti accusati di aver usato i social network in internet per criticare il governo e di aver preso parte a manifestazioni vietate contro il sultano Qaboos. A dare il via alla protesta è stato Said al-Hashemi, subito messo in stato di isolamento dalle autorità carcerarie e di cui non si è più saputo nulla. «Attueremo uno sciopero della fame a tempo indeterminato fino a quando la nostra oppressione non finirà, fino a quando non sarà riconosciuta la giustizia e l’imparzialità della Corte Suprema e fino a quando la palese interferenza nel potere giudiziario non sarà fermata», hanno scritto i detenuti in un comunicato fatto arrivare alla stampa. L’Oman è criticato dai centri per la protezione dei diritti umani per la dura repressione di ogni forma di critica interna. Amnesty International accusa Muscat di uso della forza contro i manifestanti e della promulgazione di leggi che puniscono severamente chiunque critichi il regime. Anche l’Oman era sceso in piazza dopo le rivolte in Tunisia ed Egitto due anni fa per chiedere l’aumento dei salari, riforme politiche e libertà di espressione, senza però ottenere alcuna risposta dal sultano Qaboos. Qualche giorno fa però il Parlamento ha approvato un aumento del salario minimo che salirà a 325 rial al mese (844 dollari), un aumento di oltre il 60% rispetto al passato e che interesserà circa 122mila lavoratori.

KENYA – CANDIDATI A CONFRONT / LEADERS FACE OFF IN DEBATC . The Daily Nation, Kenya / In vista del voto del 4 marzo, gli otto candidati alla presidenza del Kenya si sono affrontati in un dibattito televisivo, il primo nella storia del paese. Il dibattito è stato seguito da milioni di keniani, che si sono dati appuntamento nei locali pubblici o hanno ascoltato le discussioni alla radio, scrive il Daily Nation. I candidati favoriti sono il primo ministro Raila Odinga e il vicepremier Uhuru Kenyatta, accusato di crimini contro l’umanità dalla Corte penale internazionale in relazione alle violenze interetniche scoppiate dopo le elezioni del 2007. Secondo un rapporto di Human rights watch, il rischio di scontri in occasione della prossima tornata elettorale è "pericolosamente alto" perché non sono stati affrontati i problemi alla base dell’ultima crisi. Dall’inizio del 2012 le violenze tra comunità diverse hanno causato 477 morti e n8mila sfollati. Secondo Al Jazeera, negli ultimi due mesi migliaia di somali hanno abbandonato la capitale Nairobi per tornare nel loro paese perché si sentono perseguitati dalla polizia e accusati ingiustamente per l’ondata di attacchi terroristici che hanno sconvolto il Kenya negli ultimi mesi.

MALI – Gli attentati del Mujao / "Gao ha paura", scrive Jeune Afrique. La seconda città del Mali è stata presa di mira dal Movimento per l’unicità e il jihad in Africa occidentale (Mujao), il gruppo estremista islamico che dall’8 febbraio ha compiuto almeno due attentati. "È l’inizio della controffensiva dei ribelli", scrive il settimanale. Nel frattempo sono arrivati in Mali i primi soldati africani della missione internazionale Misma

MADAGASCAR – Scontri e morti per gli zebù / Nel villaggio di Mahabo, nella regione di Anosy, nel sud del Madagascar, violenti scontri tra abitanti e ladri di zebù – i «dahalos» – hanno provocato otto morti, quattro fra gli abitanti e quattro fra i ladri. Un centinaio di dahalos ha preso d’assalto il villaggio per impadronirsi di 800 zebù – una razzia frequente nel sud montagnoso del paese. La violenza provocata dal traffico di zebù ha raggiunto il parossismo nel giugno del 2012, quando un’imboscata tesa ai gendarmi ha innescato una serie di scontri impossibili da controllare per via del difficile accesso alla zona. Gli scontri hanno provocato diverse centinaia di vittime. Sia Amnesty international che molte autorevoli personalità malgasce hanno denunciato gravi violazioni dei diritti umani da parte della polizia.

2 – ASIA OCEANIA ANTARTIDE (Pacifico)

AUSTRALIA – Quel che spetta agli indìgeni / Il parlamento australiano ha approvato una legge che apre la strada al riconoscimento degli aborigeni e degli abitanti delle isole dello stretto di Torres come primi abitanti del paese. L’act of recognition è passato nel quinto anniversario delle scuse formali del governo di Canberra agli aborigeni e alla generazione rubata, le migliaia di bambini tolti alle famiglie, presentate dall’ex premier Kevin Rudd nel 2008. Il prossimo passo sarà un referendum per modificare la costituzione, scrive il Sydney Morning Herald.

PAPUA NUOVA GUINEA – II 6 febbraio una donna di 20 anni è stata bruciata viva davanti a centinaia di persone a Mount Hagen, nella provincia di Western Highlands. Era accusata di stregoneria.

COREA DEL NORD – PROVA DÌ FORZA NUCLEARE Proteste contro Pyongyang a Seoul, 13 febbraio 2013
La mattina del 12 febbraio la Corea del Nord ha compiuto un test nucleare nel sito di Punggyer, nel nord del paese. Nel comunicato in cui annunciava il successo dell’esperimento, Pyongyang ha fatto capire che si tratta di una risposta alle nuove sanzioni imposte dalla comunità internazionale nel dicembre del 2012, quando i nordcoreani avevano lanciato un razzo a lunga gittata. Il ministro degli esteri di Pyongyang ha dichiarato che se l’ostilità degli Stati Uniti dovesse continuare, il suo paese sarà pronto ad adottare misure ancora più decise. La Corea del Nord aveva già compiuto due test nucleari a Punggyeri, nel 2006 e nel 2009, ma quello del 12 febbraio è stato il più potente (circa sette chilotoni). "Il test è stato immediatamente condannato da Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone, mentre la Cina, il principale alleato di Pyongyang, ha convocato l’ambasciatore nordcoreano a Pechino per esprimere la sua preoccupazione", scrive il Korea Herald. Poco dopo, il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si è riunito per discutere della situazione. Il segretario generale Ban Kimoon ha definito l’esperimento nucleare una violazione delle risoluzioni dell’Orni e una provocazione destabilizzante. Sull’Asahi Shimbun, l’esperto di questioni coreane Shunji Hiraiwa scrive che Pyongyang ha voluto mandare un messaggio forte a Barack Obama alla vigilia del suo discorso sullo stato dell’Unione, per spingere gli Stati Uniti verso un atteggiamento più conciliante. Secondo il South China Morning Post, l’atteggiamento della Corea del Nord è un problema soprattutto per la Cina: "Pechino non volterà le spalle alla Corea del Nord, ma forse comincerà a chiedersi fino a che punto le conviene sostenere un governo così arrogante. Soprattutto considerando che Kim Jong-un finora ha mostrato un atteggiamento poco rispettoso degli interessi della Cina".

INDIA – Il 10 febbraio 36 persone sono morte schiacciate dalla folla ad Allahabad durante la festa indù del kumbh mela.

INDIA – Tangenti a Finmeccanica / Dopo l’arresto del presidente di Finmeccanica, Giuseppe Orsi, il 12 febbraio, il ministro della difesa indiano ha ordinato l’apertura di un’inchiesta su presunte tangenti nell’acquisto di dodici elicotteri Agusta Westland siglato con Finmeccanica nel 2010. Secondo gli inquirenti, l’azienda italiana avrebbe versato 50 milioni di euro al governo indiano per aggiudicarsi il contratto di fornitura dei velivoli. L’ex capo dell’aeronautica militare, S. P. Tyagi, indicato dagli inquirenti italiani come il destinatario delle tangenti pagate da Finmeccanica, respinge le accuse, sostenendo che dal 2007 non era più in carica, scrive The Hindu.

INDIA – SANKARALINGHAM JAGANNATHAN, GANDHIANO CENTENARIO / SE NE VA IL «PAPÀ» NONVIOLENTO DEI COMBATTENTI PER LA LIBERTÀ / Insieme alla moglie lottò per il diritto alla terra e per l’economia di villaggio egualitaria di Marinella Correggia
Aveva da poco compiuto CENTO ANNI SANKARALINGHAM JAGANNATHAN («Appa», papà), morto il 12 febbraio alla «Dimora dei lavoratori» nell’università rurale Gandhigram, stato indiano meridionale del Tamil Nadu. Grande seguace di Gandhi ha percorso l’India nello spazio e nel tempo a partire dagli anni 1940 insieme alla moglie Krishnammal («Amma», mamma), del 1926, tuttora attivissima. Lui era nato benestante di casta alta, lei intoccabile e povera: per la feroce tradizione indù non avrebbero nemmeno dovuto sfiorarsi. Prima militarono come freedom fighters nonviolenti a fianco del mahatma Gandhi nel Quit India Movement, la lotta di massa per l’indipendenza, poi si dedicarono all’impegno nonviolento per i senzaterra che costò ad Appa altro carcere. Non ebbero mai una casa loro, vissero in diversi ashram, dimore comunitarie, dove Appa ogni alba filava per un’ora all’arcolaio i suoi abiti di cotone e Amma cucinava con semplicità vegetariana.
Per rendere produttivi i quattro milioni di acri che i poveri avevano ottenuto in seguito all’appello al Bhoodan (dono della terra), Jagannathan creò il movimento Assefa per l’autosufficienza dei villaggi gandhiani.
NEL 1968 quarantadue donne e bambini senzaterra in sciopero vengono rinchiusi e bruciati vivi da ricchi possidenti nel distretto di Tanjavur. Amma e Appa decidono di concentrare là il loro lavoro sulla terra e per la terra. Nasce il movimento Lafti: «Terra per la liberazione dei braccianti». Con scioperi, marce, raduni, digiuni e petizioni; vincendo anche ostacoli burocratici, tredicimila famiglie ottengono infine altrettanti acri da coltivare. Parallelamente il Lafti opera per lo sviluppo dei villaggi, con attività edili di autocostruzione, artigianali, educative.
NEL 1993 le comunità costiere del Tamil Nadu dove lavorano Amma e Appa subiscono l’aggressione dei nuovi latifondisti, i grossi imprenditori del gamberetto per l’esportazione. Risaie salinizzate e mangrovie distrutte. Jagannathan ricorre alla Corte Suprema dell’India che nel 1996 vieta l’acquacoltura intensiva entro i 500 metri dalla costa. Ma la distruzione non si ferma, in un’India ben diversa dal sogno di Appa.
Come l’economista gandhiano J.C. Kumarappa, Jagannathan sosteneva un’economia di villaggio egualitaria basata su agricoltura, artigianato e «lavoro per il pane». Il volto locale di un’India che doveva essere autonoma, pacifica, resistente contro l’imperialismo.

THAILANDIA – ATTACCO ISLAMISTA NEL SUD, UCCISI 16 GUERRIGLIERI (Sonny evangelista) / Si risveglia la guerriglia nel Sud della Thailandia. Oltre 60 militanti hanno assalito una base militare e, negli scontri a fuoco, l’esercito ha ucciso 16 guerriglieri, mentre non vi sono vittime fra i soldati. L’attacco è avvenuto all’alba di ieri nella provincia di Narathiwat, vicino al confine con la Malaysia.
La Thailandia meridionale, quella lingua di terra protesa verso il golfo, include tre province (Pattani, Yala e Narathiwat) che furono annesse al Siam (l’odierna Thailandia) oltre un secolo fa. Da allora registrano la ribellione di gruppi indipendentisti locali: la regione, infatti, è caratterizzata da una diversità etnico-religiosa, rispetto alla società thailandese, che ha acuito i sentimenti di estraneità alla nazione. I militanti sono una minoranza di religione islamica e in passato hanno portato attacchi a famiglie e templi buddisti che rappresentano, invece, la maggioranza nella nazione. La popolazione locale lamenta l’abbandono del governo centrale e soffre discriminazione e violenza da parte della polizia e delle autorità civili, impegnate a mantenere l’ordine. Secondo stime ufficiali, il conflitto a bassa intensità che non cessa di alimentarsi – uno di quelli latenti, che di rado giungono alla ribalta delle cronache – ha fatto oltre 5.000 vittime e si era riacceso all’improvviso nel 2004, placato poi dal rafforzamento delle misure di sicurezza e delle azioni militari dell’esercito regolare thai.
Quello di ieri è dunque un attacco che, secondo il generale Pramote Phromin, portavoce del Comando Operazioni di Sicurezza Interna, rappresenta un rigurgito di ribellione che da anni non si verificava. Sembra che i militari abbiano potuto respingere le folate dei militanti grazie a un difesa puntuale, organizzata dopo la soffiata ricevuta da alcuni informatori locali.
Diversamente, l’azione dei guerriglieri avrebbe potuto avere ben altro esito. Tre giorni fa, infatti, cinque soldati sono stati uccisi da militanti in un attentato avvenuto a Yala, provincia confinante. E la polizia locale ha registrato, nell’ultimo mese, altri attentati che hanno suggerito al governo locale di imporre un coprifuoco in alcune parti della regione, come ha riferito il vice primo ministro Chalerm Yubamrung.
Secondo Sunai Phasuk, ricercatrice dell’ufficio thailandese dell’Ong Human Rights Watch, ha spiegato che «gli insorti sono in aumento e continueranno a combattere per l’autonomia e per attirare l’attenzione del governo di Bangkok», che sembra ignorare le loro rivendicazioni. D’altro canto, gli insorti non hanno chiarito o dato forma, nel corso degli anni, alle ragioni della ribellione armata, creando, organizzazioni o movimenti strutturati che possano essere presenti nella società e nella politica. Amnesty International, nel recente rapporto annuale, ha chiesto ai ribelli di porre fine agli attacchi contro la popolazione civile, denunciando «attacchi deliberati contro obiettivi vulnerabili», come agricoltori, insegnanti, studenti, leader religiosi e funzionari pubblici. Amnesty ha definito queste azioni «crimini di guerra» segnalando, d’altro canto, casi di torture compiute dai soldati sui militanti. (sonny evangelista)
AFGHANISTAN – Dieci civili, tra cui cinque bambini, sono morti il 13 febbraio in un bombardamento della Nato nella provincia del Kunar, nell’est del paese. L’ha rivelato il governatore Fazulullah Wahidi.

AFGHANISTAN – CORRUZIONE, CIFRE DOPPIE DEL BILANCIO DELLO STATO / Nel 2012, la totalità delle tangenti versate dagli afghani raggiungerebbe i 3,9 miliardi di dollari. Una cifra equivalente al doppio del bilancio dello Stato. Lo attesta un rapporto Onu su droga e crimine. Secondo il rapporto, un afghano su due è stato coinvolto in un’operazione illegale di questo tipo. L’Ong Transparency International sostiene che l’Afghanistan è oggi uno dei paesi più corrotti al mondo. Il 68% degli afghani ritiene normale che un funzionario accetti dei soldi per sveltire una qualunque pratica. Secondo alcune testimonianze del rapporto, anche per richiedere una semplice carta d’identità, i cittadini afghani devono pagare l’equivalente di una trentina di euro di tangente al funzionario di turno.
AFGHANISTAN – Villaggi in rivolta contro i taleban / Gruppi di abitanti hanno preso le armi contro i taleban nella provincia di Kandahar (a sud), roccaforte dei ribelli islamici. Un episodio che fa seguito ad altre rivolte simili avvenute in varie parti dell’Afghanistan, spesso pilotate dai capi tribali intenzionati a riprendere il controllo del territorio prima della partenza delle truppe internazionali, nel 2014. A Kakaran, un villaggio a 10 km da Kandahar, ha capeggiato la rivolta Haji Abdul Udood, un capo tribale del distretto di Panjwaji: esasperato dalle minacce di morte dei taleban contro uno dei suoi figli, entrato nella polizia locale (Alp), finanziata dagli Usa. Una sessantina di persone, stufe delle «atrocità» degli insorti, che usano bombe artigianali provocando vittime fra i civili, ha seguito il capo tribale, ha ucciso due taleban e costretto decine di altri a fuggire. «Noi alleniamo e sosteniamo questi abitanti», ha dichiarato il generale Abdul Raziq, capo della polizia della provincia di Kandahar. E ha precisato che, in seguito, i giovani ribelli saranno assunti all’Alp, una forza destinata a combattere la ribellione nelle zone rurali.

CINA . IL DIPLOMATICO DEL PINGPONG / Il 10 febbraio l’ex campione del mondo di tennis da tavolo Zhuang Zedong è morto di cancro a 73 anni in un ospedale di Pechino. Zhuang è stato una figura chiave della "diplomazia del pingpong ". Fu lui a donare un’immagine del monte Huangshan all’atleta statunitense Glenn Cowan, salito per sbaglio sul pullman della squadra cinese durante i mondiali in Giappone del 1971. Il gesto fu usato come inizio del processo di distensione tra Pechino e Washington. Tuttavia, ricorda i Feng, una volta caduto il maoismo, gli errori della rivoluzione culturale e la vicinanza alla Banda dei quattro fino ad allora al potere, costarono a Zhuang quattro anni di isolamento e la revoca da ogni incarico.

3 – AMERICA MERIDIONALE

COLOMBIA – Rafael Correa ha la vittoria in tasca Nathan Jaccard, Semana, / Se la popolarità di un candidato si misurasse dal volume della sua propaganda elettorale, alle presidenziali del 17 febbraio Rafael Correa otterrebbe il 90 per cento dei voti. Il colore del suo partito Alianza pais, un vistoso verde fosforescente, non si può ignorare. Nei quartieri popolari di Quito ci sono case dipinte di verde, bandiere con la sua immagine, manifesti e striscioni.
L’opposizione non ha perso le speranze, anche se due candidati hanno affermato che le elezioni sono "una partita con il campo inclinato e l’arbitro venduto". Guillermo Lasso è secondo dopo Correa con il 15 per cento delle intenzioni di voto. Altri sei candidati, compreso l’ex ministro dell’energia Alberto Acosta, sperano in qualche sorpresa. Secondo l’analista politico Felipe Burbano, nella visione di Correa "lo stato svolge un ruolo decisivo".
Il governo ha fatto riparare chilometri di strade, sta costruendo otto centrali idroelettriche e ha triplicato i fondi per la sanità e per l’istruzione. Con i soldi dei contributi ha creato la Banca dell’istituto di previdenza sociale, che concede mutui a basso interesse, e ha stanziato un bonus di cinquemila dollari per casa. La misura più popolare di Correa è il sussidio per lo sviluppo umano, che è aumentato ogni anno.
Ma per far funzionare questa macchina servono molti soldi. Dal 2007 il governo ha varato dieci riforme tributarie, che hanno aumentato il gettito fiscale del 136 per cento, e ha rinegoziato i contratti petroliferi. Correa è andato in Cina per cercare nuovi capitali, ottenendo 21 miliardi di dollari di credito in cambio di contratti per le infrastrutture, il petrolio e il settore minerario.
Il 17 febbraio l’Ecuador vota per eleggere il nuovo presidente. Da sei anni al governo, il leader uscente Rafael Correa è in testa a tutti i sondaggi. Grazie a politiche sociali molto popolari
Il presidente ha aumentato di sei volte gli investimenti pubblici e nel 2012 ha raggiunto il record storico di 12 miliardi di dollari da spendere. Ma l’Ecuador ha il debito pubblico più grande della regione dopo il Venezuela e la sua economia dipende dal prezzo del greggio.
UN POLITICO AMBIVALENTE
Secondo Felipe Burbano, "nessuno sa bene come sono gestite le risorse". Molti sostengono che all’ombra del governo alcune persone stanno accumulando fortune enormi. Il "presidente, candidato e compagno", come lo chiamano i suoi militanti, prende tutto a titolo personale. Come privato cittadino ha querelato quotidiani, giornalisti e banche. Come presidente ha fatto arrestare chi l’ha insultato e ha chiesto che fossero aperte delle inchieste contro degli utenti di Twitter che gli avevano mancato di rispetto. Ma secondo la fondazione Ethos, dell’opposizione, nel suo programma televisivo e radiofonico Enlace ciudadano il presidente ha pronunciato quasi duecento insulti.
Un giornalista ecuadoriano ha spiegato che Correa ha "tre tipi di nemici: i vecchi
politici, sconfitti anni fa, i banchieri, quasi invisibili, e i mezzi d’informazione". Questa è la battaglia più difficile. Correa ha espropriato il gruppo editoriale Isaias e ha costruito un sistema statale a metà tra un sistema d’informazione pubblica e la propaganda governativa. Ha anche attaccato la stampa privata con querele, insulti e intimidazioni. I giornali più colpiti sono stati El Universo e La Hora. Alla fine il presidente li ha perdonati, ma la "guerra" con la stampa ha lasciato ferite profonde e oggi i giornali ci pensano due volte prima di denunciare uno scandalo.
L’Ecuador di Rafael Correa ha perso credibilità internazionale. Human rights watch, Reporters sans frontières e la Sociedad interamericana de prensa hanno pubblicato diversi rapporti critici. Finora Correa è stato un politico ambivalente: pragmatico secondo alcuni, ambiguo secondo altri. C’è chi lo considera progressista e pieno di buona volontà che vuole cambiare il volto dell’ Ecuador. Quello che succederà nei prossimi anni stabilirà il modo in cui ci ricorderemo di lui: come un presidente autoritario o come il grande trasformatore del suo paese. +fr

GUATEMALA – Il 14 agosto processo / all’ex dittatore Rios Montt / Il processo all’ex dittatore guatemalteco Efrain Rios Montt, accusato di «genocidio e crimini contro l’umanità» commessi nel 1982 contro le popolazioni indigene inizierà il 14 agosto. Lo hanno annunciato il portavoce della Corte suprema, Carlos Castillo. L’ex generale Montt, 86 anni, sarà allora il primo ex presidente guatemalteco a essere giudicato per delitti simili. Il 28 gennaio scorso, il giudice Miguel Galvez aveva accettato come valide le prove presentate contro l’ex dittatore. Agli arresti domiciliari da un anno, Montt è accusato di essere responsabile del massacro di 1.770 indigeni maya di etnia ixile nel dipartimento di Quiché (nel nord), epicentro della guerra civile che ha sconvolto il paese tra il 1960 e il ’96, e che ha provocato 200.000 morti e scomparsi. I difensori dell’ex dittatore (in carica dal 1982 al 1983) hanno dichiarato che il loro assistito ignorava l’operato del suo esercito. Per gli stessi capi d’accusa sarà giudicato anche un altro ex-generale, Jose Rodriguez. Dopo il suo arrivo al potere a seguito di un golpe militare, Rios Montt ha messo in atto la politica della «terra bruciata» contro le popolazioni native, accusate di appoggiare la guerriglia di sinistra. L’ex generale affronta anche una seconda tornata di accuse per il massacro di 201 contadini in un villaggio nel dipartimento del Peten, a 600 km a nord della capitale, commessi tra il 6 e l’8 dicembre dell’82. Accuse che potrebbero valergli un altro processo per genocidio. Un rapporto dell’Onu presentato nel ’99 ha riscontrato 626 massacri e la distruzione di 500 villaggi, e ha precisato che oltre il 90% delle violazioni ai diritti umani commesse durante la guerra civile sono avvenute tra il 1978 e l’84.
COLOMBIA – 08/02 – FARC PRESENTANO OTTO PROPOSTE PER UN RIORDINO DEMOCRATICO E PARTECIPATIVO DEL TERRITORIO. Lo scorso mercoledì 6 gennaio, la Delegazione di Pace delle FARC-EP ha pubblicato sul proprio blog 8 proposte minime per il riordino e l’uso del territorio, come contributo politico alla soluzione del problema agrario che affligge la Colombia e rappresenta la madre di tutte le cause storiche del conflitto. La delegazione descrive l’attuale ordinamento del territorio come uno strumento autoritario per ottenere lauti guadagni per mezzo dello sfruttamento intensivo delle risorse naturali, e propone la creazione di un nuovo ordinamento socio-ambientale del territorio che sia realmente democratico e partecipativo, tramite la convocazione di un grande dibattito nazionale sulla questione; tale riordinamento deve garantire la sostenibilità ambientale e la sovranità alimentare, cosa che implica la definizione di zone di riserve forestali e parchi naturali, con particolare attenzione alla tutela delle istanze delle comunità contadine, indigene ed afro discendenti.
Per raggiungere tali risultati è indispensabile liberare almeno 20 milioni di ettari, ora organizzati in latifondi, frenando al contempo la deforestazione e le attività di estrazione minerario-energetiche, garantendo il diritto all’acqua ed annullando gli invasivi e devastanti megaprogetti idroelettrici, orientati all’esportazione energetica.
Tutto ciò comporta la necessità di prendere misure quali la sospensione di concessioni per lo sfruttamento e l’estrazione petrolifera, in deroga alla Risoluzione 45, che definisce come aree strategiche minerarie parti importanti della regione amazzonica, ed un’alta percentuale di zone di tradizione e vocazione agricola. Per garantire il benessere delle comunità rurali, dovranno essere legalizzati i titoli minerari in mano ai lavoratori di piccole e medie miniere.
Per migliorare le condizioni di vita e di lavoro di comunità rurali che attualmente basano la loro attività, per ragioni di sussistenza, sulle cosiddette coltivazioni illecite, le FARC propongono infine di cessare la politica di criminalizzazione e persecuzione, sospendere le aspersioni aeree e le altre forme di eradicazione (che generano impatti negativi sull’ambiente e sulle popolazioni), orientando l’uso della terra verso produzioni agricole sostenibili, prendendo inoltre in considerazione piani di legalizzazione di alcune coltivazioni di marijuana, papavero e foglia di coca con fini terapeutici e medicinali, per uso industriale o tradizionale.
L’insorgenza colombiana dimostra di mantenere l’iniziativa politica al tavolo dei dialoghi, portando importanti contributi per la soluzione delle cause del conflitto colombiano, unico strumento per l’ottenimento di una Pace definitiva con giustizia sociale; la controparte governativa non riesce ad esprimere alcunché, tranne roboanti e contraddittorie accuse alla guerriglia, mostrando anche in questa storica occasione di non voler rinunciare a nessuno dei privilegi di cui dispone la classe che rappresenta da 150 anni, l’oligarchia al potere in Colombia.

COLOMBIA – SANTOS MINACCIA RISCATTO A FERRO E FUOCO DEI POLIZIOTTI DETENUTI DALLE FARC / Lo scorso venerdì 25 gennaio l’insorgenza rivoluzionaria delle FARC-EP ha catturato due poliziotti nel sudoccidentale dipartimento del Valle del Cauca. / In seguito a questa detenzione, la stampa di regime ha scatenato una campagna mediatica, ripetendo in coro la falsa versione di un “sequestro”, mentre il ministro della Guerra, “Bomba” Pinzón, ha accusato addirittura la guerriglia di commettere “crimini di lesa umanità”. Se il conflitto colombiano non fosse la questione seria che è, ci sarebbe di che ridere per giorni: Pinzón che dà lezioni sul tema della difesa di diritti umani! Lo stesso Pinzón che è il ministro della Guerra di un paese che vive un conflitto decennale, appartenente al governo delle esecuzioni extragiudiziarie, e che ha nella pratica quotidiana del terrorismo di Stato e delle violazioni dei diritti umani il suo tratto distintivo, asserragliato in difesa dei privilegi dell’oligarchia.
La condizione dei poliziotti è quella di prigionieri di guerra, segnala l’insorgenza in un comunicato pubblicato il 29 gennaio, ribadendo che “questo fenomeno si dà in qualunque conflitto che ci sia nel mondo”. “Allo stesso modo”, prosegue il comunicato, “ci riserviamo il diritto di catturare come prigionieri di guerra i membri della forza pubblica arresisi in combattimento”.
Ciò significa rispettare il Diritto Internazionale Umanitario (D.I.U.), che invece le Forze Armate colombiane violano in continuazione, arrivando persino a giustiziare guerriglieri fatti prigionieri o a torturarli nelle carceri del regime.
D’altro canto, le FARC avevano decretato un cessate il fuoco unilaterale durato due mesi, conclusosi il 20 gennaio, per favorire un clima adatto ai dialoghi, durante il quale il governo ha continuato imperterrito ad attaccare la guerriglia; ed è evidente che se il conflitto prosegue (per volontà della sola controparte governativa) si possono produrre nuove detenzioni. Come quella di un soldato fatto prigioniero dalle FARC martedì scorso nel Nariño, taciuta vergognosamente dal governo colombiano.
Santos piagnucola per la vita dei due poliziotti, ma parla di un folle riscatto a ferro e fuoco; in questo modo, oltre a mettere a rischio la vita dei prigionieri (e per il D.I.U. in casi come questi la responsabilità sulla vita e la integrità delle persone private di libertà ricade esclusivamente su chi tenta il riscatto violento) mette a rischio lo stesso processo di Pace.
Le FARC, dando ancora una volta prova di generosità e senso di responsabilità, hanno ieri dichiarato di essere disposte a rilasciare i tre prigionieri di guerra ad una commissione composta dai “Colombiani per la Pace” e dalla Croce Rossa Internazionale.
Quelle di Santos sono lacrime di coccodrillo, manifestazioni ipocrite e opportuniste volte a manipolare la realtà dei fatti agli occhi dell’opinione pubblica; e in questa “politica” di morte e terra bruciata i media oligarchici sono complici e responsabili, perché deliberatamente ignorano i fatti “scomodi”, talvolta li manipolano a vantaggio del regime e, generalmente, mentono sfacciatamente.
COLOMBIA – MOVIMENTO POLITICO E SOCIALE MARCHA PATRIÓTICA ENTRA A FAR PARTE DEL FORUM DI SAO PAULO / Il Forum di Sao Paulo, uno degli spazi di dibattito e coordinamento dei partiti e movimenti della sinistra latinoamericana e caraibica, ha accettato come suo membro con pieni diritti il movimento politico e sociale Marcha Patriótica.
Per l’importante movimento colombiano, composto da oltre 2000 organizzazioni popolari tra partiti politici, sindacati, associazioni contadine, indigene e di afrodiscendenti, coordinamenti studenteschi, ecc., rappresenta un prestigioso riconoscimento a livello
internazionale che proietta le proposte politiche del popolo colombiano in lotta sullo scenario continentale.
Il Forum di Sao Paulo ha altresì approvato all’unanimità un documento di pieno appoggio alle conversazioni tra le FARC-EP ed il governo Santos, invitando il popolo colombiano a partecipare alle iniziative promosse dalle organizzazioni sociali per accompagnare il processo di pace, ed a elaborare in maniera attiva proposte come contributo per arrivare ad una Pace con Giustizia Sociale.
Inoltre, il Forum esige dal governo di Bogotá quelle garanzie democratiche per tutta la sinistra e per i movimenti sociali. Mentre la stragrande maggioranza del popolo vuole essere soggetto attivo nella ricerca di una soluzione politica, il governo fa orecchie da mercante alle proposte popolari e asserisce che perseguirà tutti coloro che si recheranno all’Avana a dialogare con l’insorgenza, dimostrando ancora una volta il suo vero carattere fascista. Clicca qui leggere gli altri "Clamori dalla Colombia" http://www.nuovacolombia.net

VENEZUELA – Moneta svalutata / L’8 febbraio il governo del Venezuela ha annunciato una svalutazione del 32 per cento della moneta nazionale, il bolivar, rispetto al dollaro. L’obiettivo è rilanciare l’economia. "È la settima svalutazione da quando Hugo Chàvez è stato eletto", ricorda l’Economist. "Il collasso della moneta nazionale è forse l’indicatore statistico più impressionante della cattiva gestione economica di Chàvez". Secondo il quotidiano TalCual, critico verso il governo, "a parte gli effetti devastanti per le tasche dei venezuelani, l’aspetto più interessante della svalutazione del bolivar è che il governo ad interim ha fatto ricadere l’impopolare provvedimento sulle spalle di Chàvez, ancora ricoverato all’Avana". La svalutazione migliorerà i conti dello stato, ma avrà un impatto negativo sull’inflazione, che è già la più alta della regione.

CUBA / L’HABANA – DICHIARAZIONE DEI REDDITI / Per chi ha cominciato a lavorare in proprio nel corso dell’ultimo anno è arrivato il momento di pagare le tasse. Nelle prossime settimane dovrà fare la dichiarazione dei redditi, calcolare quanto ha guadagnato e valutare se ne è valsa la pena. Negli uffici in cui si trovano i moduli per i pagamenti si formano lunghe file fin dalla mattina. Ci sono persone che hanno guadagnato bene e altre che ci hanno rimesso. Non è una sorpresa, considerata la mancanza di formazione contabile e imprenditoriale. Una parte dei cubani che hanno aperto bar, videoteche, negozi di musica o centri di estetica deve ammettere che le cose non sono andate bene. A Cuba, oggi, lavorano nel settore privato quasi 400mila persone. Un numero ancora basso se paragonato ai dipendenti pubblici.
Le piccole iniziative private hanno ottenuto visibilità grazie alla loro qualità, alla dedizione e all’ingegno, ma non è tutto rosa e fiori. La mancanza di un mercato all’ingrosso, le tasse alte e la scarsa formazione imprenditoriale ostacolano il settore privato emergente. Inoltre molti usano il lavoro autonomo per risparmiare e poter emigrare. Quando hanno i soldi per il passaporto e il visto, chiudono l’attività. Eppure qualcosa sta cambiando. Anche il nervosismo per le tasse è un’esperienza nuova che crea atteggiamenti sconosciuti. L’autonomia economica sta portando all’autonomia politica, e né le tasse né il numero eccessivo d’ispettori riusciranno ad evitarlo.

CILE – L’8 febbraio un giudice ha ordinato l’esumazione del corpo del poeta Pablo Neruda per verificare le cause della sua morte, avvenuta il 23 settembre 1973.
Il 12 febbraio venti indigeni mapuche sono stati arrestati durante gli scontri con la polizia a Collipulli. Chiedevano la scarcerazione di un loro leader, Fernando Millacheo.

4 – AMERICA SETTENTRIONALE

STATI UNITI – L’11 febbraio il Pentagono ha esteso ai partner dei soldati gay il diritto a usufruire di alcune prestazioni sociali.
STATI UNITI – PROTESTA CONTRO I DRONI DAVANTI AL SENATO / «I tuoi figli sono più importanti dei bambini pakistani?» Con queste parole, una pacifista statunitense del Code Pink – che manifestava davanti al Senato Usa contro l’impiego di droni nella pratica degli «omicidi mirati» da parte del suo governo -, ha apostrofato il nuovo direttore della Cia, John Brennan, al momento della nomina ufficiale. Durante il suo discorso al Senato, Brennan ha difeso la «legalità» degli attacchi, sostenendo che sono «necessari per proteggere delle vite e prevenire attentati terroristi». I manifestanti, che hanno più volte interrotto la seduta, hanno risposto innalzando cartelli con su scritto: «Sei una disgrazia per la democrazia».
STATI UNITI – Collaborazioni segrete / Almeno 54 paesi – 25 europei, 14 asiatici, 13 africani, più Canada e Australia – hanno partecipato alle operazioni di renditions condotte dalla Cia dopo l’u settembre, che prevedevano il rapimento, la detenzione e la tortura di sospetti terroristi. Lo denuncia un rapporto della Open society justice initiative (Osji), una ong di New York. Il rapporto di 216 pagine, intitolato Globali-zing torture, contiene un elenco di 136 vittime, scrive The Nation. E precisa che l’Italia è l’unico paese ad aver condannato agenti della Cia per i programmi clandestini.
STATIUNITI – IL FUTURO SECONDO OBAMA / Il 12 febbraio, nel suo discorso sullo stato dell’Unione, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha chiesto al congresso di sostenere gli sforzi dell’amministrazione per rilanciare l’economia del paese e sostenere la classe media. Ha promesso un governo non "più grande" ma "più intelligente", che lavori "per tutti", e ha ribadito la necessità di nuove leggi sulle armi e sull’immigrazione. Nella replica il senatore repubblicano Marco Rubio ha chiesto a Obama di "abbandonare la sua ossessione per gli aumenti delle tasse"

5 – EUROPA
EUROPA – L’UNIONE EUROPEA SI CONDANNA ALLA PARALISI Nicolas Barré, Les Echos, Francia / I paesi europei si sono accordati IB su un progetto di bilancio che taglia i fondi per la competitività e la crescita. UNA MANCANZA DI CORAGGIO CHE MINACCIA IL FUTURO DEL CONTINENTE.
mmettiamolo: il progetto di bilancio europeo appena approvato è ben misero. Il documento conferma una totale mancanza di ambizione e di visione economica a livello dei ventisette, proprio mentre siamo in aperta concorrenza con paesi-continente come Stati Uniti, Cina o India. Questi hanno strategie chiare finalizzate all’eccellenza in alcuni settori produttivi e alla promozione di grandi aziende che, per conquistare il mondo, possono fare affidamento sull’enorme base del loro mercato interno. Il progetto di bilancio europeo fa esattamente il contrario: i futuri progetti che sarebbero potuti servire da punto d’appoggio per una strategia industriale europea sono stati fatti a pezzi. Non rappresentano che una minima parte dei sussidi all’agricoltura e poco più di un decimo del bilancio generale. Al contrario, abbiamo portato avanti pressoché immutate le politiche del passato, senza interrogarci sulla loro efficacia. Così nei prossimi sette anni continueremo a dedicare oltre un terzo degli stanziamenti agli aiuti ai paesi dell’Europa orientale e meridionale. Ma la Grecia ha davvero bisogno di altri finanziamenti per costruire strade e rotatorie? Le difficoltà dell’euro-zona sono strettamente legate al flop delle politiche dei sussidi, anche perché questi non sono neppure subordinati a progressi verificabili in materia di gestione, trasparenza e concorrenza.
La crisi, la rapida trasformazione della sfera economica e la straordinaria evoluzione dei rapporti di forza mondiali avrebbero dovuto ispirare all’Europa almeno un sussulto. Si sperava che i leader europei volessero mostrarsi uniti di fronte a un’America che si risolleva, a una Cina in espansione e a un mondo nel quale il capitale e i talenti sono sempre più mobili. A consolidare lo stato federale americano sono state la crisi e le terribili sfide degli anni trenta, quando la spesa pubblica passò dal 3,4 per cento del pil nel 1930 al 10 per cento dieci anni dopo. La storia invece ricorderà che durante la crisi l’Europa ha compiuto il cammino inverso, puntando su sterili misure di austerità. Sfide immense, ambizioni zero.
IL SABOTAGGIO BRITANNICO
Da questo scempio è indispensabile trarre alcuni insegnamenti politici. Il dibattito sul bilancio è stato preso in ostaggio da un paese, il Regno Unito, che non è nemmeno sicuro che domani farà ancora parte dell’Ue. David Cameron ha partecipato all’incontro per sabotare l’interesse comune europeo, e ci è riuscito perfettamente. Senza preoccuparsi delle esigenze degli altri. In questo caso, allora, andiamo fino in fondo: essendo il club dei ventisette votato all’impotenza, le riflessioni strategiche devono svolgersi a livello di eurozona. Ma per riuscirci bisognerà ripristinare la relazione speciale tra la Francia e la Germania. Perché è proprio questo l’altro insegnamento da trarre dalla farsa in corso a Bruxelles: l’asse Parigi-Berlino non funziona più. Poniamoci quindi, almeno una volta, questa domanda: dall’ottica di Pechino o di Washington la paralisi europea è davvero una notizia così cattiva? (In collaborazione con Presseurop.eu)
NOTA.
L’8 febbraio, dopo un vertice durato 25 ore, i 27 paesi dell’Unione europea hanno trovato l’accordo sul bilancio per il periodo 2014-2020. La cifra stanziata è di 960 miliardi di euro, l’i per cento del pil europeo. Per la prima volta il budget è inferiore rispetto a quello del settennato precedente, per l’esattezza di 15,5 miliardi. I tagli più consistenti colpiscono gli investimenti per la crescita: stando alla prima proposta del presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, i fondi dovevano ammontare a 152,5 miliardi, mentre l’accordo ha stabilito un tetto di 125,7 miliardi. Sono aumentati invece i fondi di coesione. Il parlamento europeo, in maggioranza molto critico verso i tagli, comincerà la discussione sul bilancio a maggio, ma il suo si non è affatto scontato.

VATICANO – Sono d’accordo con " QUANDO LA FEDE NON È «CREDENZA» MA «SAPERE» Benedetto XVI come l’ultimo papa di Nietzsche di Marco Vannini / Le dimissioni di Benedetto XVI hanno sorpreso tutti perché inaspettate. Devo dire però che non mi hanno sconvolto più di tanto, perché le ho viste in quella che credo la loro realtà più semplice e vera, cioè come la rinuncia a un incarico diventato troppo gravoso per il peso dell’età e le condizioni di salute precarie. Vedendo alla tv il volto del papa mentre leggeva in concistoro l’annuncio delle dimissioni, ho percepito i segni della vecchiaia, della stanchezza, da parte di un uomo che probabilmente – che Dio non voglia, e lo conservi in vita ad multos annos ! – si sente vicino alla fine. Venendo invece a quelle che di queste dimissioni possono essere ragioni diverse, relative a problemi del suo incarico stesso, e dunque inerenti ai problemi della chiesa cattolica in questo frangente storico, dirò con altrettanta franchezza che le considerazioni dei vaticanisti o degli opinionisti del settore, mi sono sembrate inappropriate e riduttive. Forse non sbagliate, nel senso che anche esse avranno probabilmente giocato un ruolo nel far sentire al papa tutto il peso del suo ufficio, ma certamente non essenziali, perché le questioni che rendevano gravosa al papa la sua croce, davvero cruciali, erano e sono ben altre.
Certamente le beghe e gli intrighi curiali sono fastidiosi, ma non nuovi, anzi, presenti da sempre. La vicenda dei preti pedofili è stata ed è penosa per la chiesa di questi anni, ma non è una novità: preti, vescovi , cardinali, sodomiti, così come donnaioli, ci sono sempre stati: nella novella di Abraham Giudeo e Giannotto di Civigny nel Decamerone si sostiene, paradossalmente, che la loro presenza dimostra che Dio assiste la sua chiesa. Doloroso, ma destinato ad esaurirsi in una stagione, anche l’episodio delle carte trafugate dal segretario-maggiordomo: non sarà certo l’evento che affonda una navicella che ha corso ben altri mari e affrontato ben altre tempeste. Anche altri problemi, più seri, come il celibato dei preti o del sacerdozio femminile, non sono nuovi, né tali da scuotere più di tanto un’istituzione abituata a pensare in termini di secoli, se non di millenni.
Il vero dramma del papa è un altro e riguarda una cosa davvero essenziale: una fede che ha perduto le sue fondamenta storiche. Ricordo che la fatica principale di Benedetto XVI in questi anni è stata la redazione di una vita di Gesù, di cui nel Natale scorso è uscito l’ultimo volume, quello dedicato all’infanzia di Gesù stesso. Molto significativamente l’opera è stata presentata come uno studio scientifico, di cui era autore il prof. Joseph Ratzinger, appunto, l’esperto di storia del cristianesimo che dialoga con i dotti, prima ancora che il pontefice romano che parla ex cathedra.
Io credo che un uomo colto come il papa, cui non sono ignoti i risultati della ricerca storica, non possa onestamente credere alle storie bibliche, ma sappia benissimo che sono invenzioni la Genesi, le storie dei patriarchi, l’Esodo, ecc. Più ancora: costruzione mitica la storia della nascita di Gesù, il concepimento verginale, così come leggendario buona parte del racconto evangelico, ivi compresa – forse – la stessa resurrezione.
Ma il dramma non è solo in questo, sta nel fatto che il papa conosce bene la profondità spirituale del cristianesimo, la fede non come credenza in uno o più fatti storici, ma come esperienza dello spirito. E dunque il vero dramma viene dalla difficoltà di far comprendere che la verità del cristianesimo sussiste intatta – anzi, viene davvero alla luce – anche senza quelle credenze tradizionali, cui è stata affidata per due millenni. Far passare il cristianesimo da una fede ingenua alla conoscenza dello spirito nello spirito, è in realtà un compito che richiede secoli, probabilmente, e forze molto superiori a quelle di un vecchio papa.
Per questo le dimissioni di Benedetto XVI fanno venire alla mente l’«ultimo papa» di cui parla davvero profeticamente Nietzsche nel suo Zarathustra: quel vecchio papa ormai Ausser Dienst, collocato a riposo, appunto, perché il suo Dio, «un Dio nascosto, pieno di mistero» è morto. È stato ucciso da quello stesso amore di verità che ha fatto dire a un maestro « Dio è spirito , compiendo così il più grande passo verso l’incredulità: non è facile infatti sulla terra portare rimedio a una tale parola». Ma Benedetto XVI conosce anche altre parole di quel maestro: «È bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi lo spirito. Esso vi condurrà a tutta la verità». Perciò ha preso congedo con dignità e umiltà commoventi, ma anche e soprattutto con grande serenità, frutto di una fede che non è credenza, ma sapere.
VATICANO – RATZINGER OSANNATO INCENERISCE LA CURIA di Luca Kocci / Nella sua ultima omelia davanti alla folla di fedeli, il Papa esplicita l’accusa contro chi «deturpa il volto della Chiesa» Divisioni e rivalità sono il «nocciolo delle tentazioni» Nella sua prima uscita pubblica da papa dimissionario, Ratzinger ribadisce i motivi della sua decisione di lasciare il pontificato «ma punta il dito contro le «divisioni» e le «rivalità» che «deturpano il volto» e il «corpo» della Chiesa».
«Ho deciso di rinunciare al ministero» pontificio, ha detto ieri mattina il papa di fronte ai fedeli presenti all’udienza generale in Vaticano, «ben consapevole della gravità di tale atto, ma altrettanto consapevole di non essere più in grado di svolgere il ministero petrino con quella forza che esso richiede». Subito dopo, nella catechesi per l’inizio della Quaresima, si è soffermato sul tema della «tentazione», con evidenti allusioni alle lotte curiali di potere esplose rumorosamente nell’ultimo periodo: il «nocciolo delle tentazioni» è «strumentalizzare Dio, usarlo per i propri interessi, per la propria gloria e per il proprio successo». Nel pomeriggio, durante l’omelia nella messa di inizio Quaresima celebrata nella basilica di san Pietro, le allusioni si sono trasformate in espliciti atti di accusa contro ciò che «deturpa il volto della Chiesa»: «Penso in particolare – ha aggiunto Ratzinger – alle colpe contro l’unità della Chiesa, alle divisioni nel corpo ecclesiale», agli «individualismi», «alle riva

 

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