11909 LA CHIAMANO COSTITUZIONALE MA È UNA “RIFORMA ESECUTIVA”.

20160112 19:58:00 guglielmoz

Voi al governo, avete capito quello che avete fatto? di Gustavo Zagrebelsky.
Coloro che vedono le riforme costitu­zionali gravide di conseguenze negative non si aggrappano alla Costituzione perché è «la più bella del mondo». So­no gli zelatori della riforma che usano quell’espressione per farli sembrare degli stupidi conservatori e distogliere l’attenzione dalla posta in gioco.
La posta in gioco è la concezione della vita politica e sociale che la Costituzione prefigura e promette, sintetizzandola nelle parole «democrazia» e «lavoro» che campeggiano nel primo comma dell’art. 1.

Quali credenziali possono esibire gli at­tuali legislatori costituzionali? A parte la questione, bellamente ignorata, dell’inco­stituzionalità della legge elettorale in base alla quale essi sono stati eletti; a parte la falsificazione delle maggioranze che quella legge ha comportato, senza la quale non ci sarebbero stati i numeri in Parlamento; a parte tutto ciò, la domanda che deve essere posta è: quale visione della vita politica li muove? A quale intento corrispondono le loro iniziative? C’è un «non detto» e lì si trovano le ragioni di tanta enfasi, di tanto accanimento, di tanta drammatizzazione che non si giustificherebbero se si trattasse solo di riduzione dei costi della politica e di efficientismo decisionale. La posta in gioco non è di natura economica e funzionale. Se fosse solo questo, si dovrebbe trattare la «ri­forma» come una riformetta da discutere tecnicamente, incapace di sommuovere acute passioni politiche. Invece, c’è chi la carica d’un significato eccezionale, si atteg­gia a demiurgo d’una fase politica nuova e dice d’essere pronto a giocarsi su di essa perfino il proprio futuro politico.

Ciò si spiega, per l’appunto, con il «non detto». Cerchiamo, allora, di dirlo, nel qua­dro delle profonde trasformazioni istituzio­nali degli ultimi decenni, trasformazioni che hanno comportato un ribaltamento della democrazia parlamentare in uno stra­no regime tecnocratico-oligarchico che, per sua natura, ha come punto di riferimen­to l’esecutivo. Viviamo in «tempi esecuti­vi»! La politica esce di scena. I tecnici ne oc­cupano lo spazio nei posti-chiave, cioè nei luoghi delle decisioni in materia economi­ca, oggi prevalentemente nella versione del­la finanza, e nel campo della politica este­ra, oggi principalmente nella versione degli impegni militari. La partecipazione politica che dovrebbe potersi esprimere nella veri­tiera rappresentazione del popolo, cioè in parlamento, a partire dai bisogni, dalle aspi­razioni, dagli ideali non è più considerata un valore democratico da coltivare, ma un intralcio. Così, del fatto che la metà degli elettori sia lontana dalla politica al punto da non trovare attrattive nell’esercizio del diritto di voto, nessuno si preoccupa: pare anzi che ce ne si rallegri. Il fatto che i sinda­cati trovino difficoltà nel rappresentare i bisogni dei lavoratori, invece che spingere a misure che ne rafforzino la capacità rap­presentativa, induce ad at­teggiamenti sprezzanti e di malcelata soddisfazio­ne. Che i diritti dei lavora­tori siano sottoposti e con­dizionati alle esigenze del­le imprese, non fa proble­ma: anzi il ritomo a condi­zioni pre-costituzionali si considera un fattore di modernizzazione. Che i partiti siano a loro volta ri­dotti come li vediamo, a sgabelli per l’ascesa alle ca­riche di governo e poi a in­tralci da tenere sotto la frusta del capo e di coloro che fanno cerchio attorno a lui, non è nemmeno da denunciare con più d’una parola. A questa desertificazione social-po­litica corrisponde perfettamente la legge elettorale. Essa dovrebbe servire a incoro­nare «la sera stessa delle elezioni» il vincito­re, cioè il capo politico che per cinque anni potrà governare controllando il parlamen­to attraverso il controllo del partito di cui è capo. La piramide si è progressivamente ro­vesciata e non abbiamo fatto il necessario per impedirlo. La democrazia dalle larghe basi voluta dalla Costituzione è stata sosti­tuita da un regime guidato dall’alto dove si coagulano interessi sottratti alle responsa­bilità democratiche. L’informazione si alli­nea; la vita pubblica è drogata dal conformi­smo; gli intellettuali tacciono; non c’è da at­tendersi alcuna vera alternativa dalle elezio­ni, pur se e quando esse si svolgano, e se al­ternative emergessero dalle urne, sarebbe la pressione proveniente da fuori (istituzio­ni europee, Fondo monetario intemaziona­le, grandi fondi d’investimento) a richiama­re all’ordine; nella scuola si affermano mo­delli vertìcistici e i nostri studenti e i nostri insegnanti gemono sotto programmi mini­steriali finalizzati a produrre non cultura ma tecnica esecutiva. Può essere che questo è quanto richiedono i tempi che vi­viamo, i tempi dello svilup­po per lo sviluppo, dell’in­novazione per l’innovazio­ne, della competitività che non ammette deroghe, del­la spremitura degli esseri umani, dei diritti dei più de­boli e delle risorse naturali per tenere il passo sempre più veloce della concorren­za. Può essere che solo a queste condizioni il nostro paese sia annoverabile tra i virtuosi, nei quali la finanza sovrana consideri conve­niente investire le sue im­mani risorse; cioè, in termi­ni più realistici, consideri conveniente veni­re a comperarci, approfittando delle tante privatizzazioni che segnano l’arretramento dello stato a favore degli interessi del mer­cato. Gli inviti che provengono dalle istitu­zioni sovranazionali, legate al governo del­la finanza globale, sono univoci. I moniti che provengono dall’Europa («ce lo chiede l’Europa») sono dello stesso segno. Perfino una banca d’affari (gli «analisti» della J.P. Morgan) ha dettato la propria agenda, nel­la quale è scritta anche la riduzione degli spazi di democrazia che le costituzioni anti­fasciste del II dopoguerra hanno garantito ai popoli usciti dalle dittature (è detto pro­prio così e nessuno, tra le autorità che avrebbero il dovere di difendere la demo­crazia e la Costituzione, ha protestato). La riforma della Costituzione, promossa, anzi imposta dall’esecutivo, s’inserisce in que­sto contesto generale. Il «non detto» è qui. Occorre dimostrare d’essere capaci di ri­spondere alle richieste. Se, come si dice nel­la prosa degenerata del nostro tempo, non si riesce a «portare a casa» il risultato, viene meno la fiducia di cui i governi esecutivi de­vono godere rispetto ai centri di po’tere che stanno sopra di loro e da cui, alla fine di­pende la loro legittimazione tecnica.

La chiamiamo «riforma costituzionale», ma è una «riforma esecutiva». Stupisce che tanti uomini e tante donne che hanno nel­la loro storia politica numerose battaglie per la democrazia, si siano adeguati a subi­re questa involuzione, anzi collaborino atti­vamente chiudendo gli occhi di fronte a ciò che a molti appare evidente. La riforma co­stituzionale è il coronamento, dotato di si­gnificato perfino simbolico, di un processo di snaturamento della democrazia che pro­cede da anni. Coloro che l’hanno non solo tollerato ma anche promosso sono oggi gli autori della riforma. Sono gli stessi che ora ci chiedono un voto che vorrebbe essere di legittimazione popolare a un corso politico che di popolare non ha nulla.

I singoli contenuti della riforma importa­no poco o nulla di fronte al significato poli­tico. Contano così poco che chi avesse vo­glia di leggere e cercare di capire ciò su cui ci si chiede di esprimerci nel referendum re­sterebbe sconcertato (…). Siamo di fronte a un testo incomprensibile. Verrebbe voglia di interrogare i fautori della riforma – innan­zitutto il presidente della Repubblica di al­lora, il presidente del Consiglio, il ministro – e chiedere, come ci chiedevano a scuola: dite con parole vostre che cosa avete capi­to. Qui, addirittura, che cosa avete capito di quello che avete fatto? Saprebbero rispondere? E noi, che cosa possiamo capirci?

Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento del professore Zagrebelsky, letto ieri davanti all’assemblea del comitato del No dal professore Francesco Pollante.

 

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