11922 PRIMARIE USA- Hillary Clinton e Bernie Sanders

20160128 15:17:00 guglielmoz

1 – Radical, professore hippy, BERNIE seduce con aplomb e storytelling Sanders. Le molte Americhe riflesse nel candidato che sfida Hillary.
2 – BIZZARRO, L’IOWA sarà ancora decisivo
Primarie Usa. Uno stato piccolo e assai poco rappresentativo dell’America nel suo complesso. Che però grazie al meccanismo perverso dei caucus diventa il test con cui l’establishment dei due partiti individua il nome percepito come "giusto" per la Casa bianca

1 – BERNIE SANDERS lo aveva detto fin dall’inizio: la sua non sarebbe stata una campagna simbolica, una crociata generosa per tenere alta la causa dei democratici progressisti e «costringere» Hillary Clinton a spostarsi a sinistra: «Corro per vincere», aveva chiarito.
Ma non molti avrebbero pensato che, nove mesi dopo aver annunciato la sua candidatura, «il nonno socialista cool» (secondo la definizione di un Op-ed del New York Times dell’autunno), si sarebbe trovato, alla vigilia delle primarie, in quasi pareggio con Hillary Clinton in Iowa, e in vantaggio rispetto a lei in New Hampshire.
Si è sempre trattato, secondo una retorica adottata anche durante il dibattito democratico di lunedì, di una battaglia tra la poesia (Sanders) e la prosa (Clinton). Solo che la poesia del senatore del Vermont — il cui ultimo, normanrockwelliano, spot pubblicitario scorre sulle note di America, di Simon & Garfunkel — è risultata molto più affilata e concreta del previsto, obbligando Hillary (oltre che a spostarsi a sinistra) ad assumere un tono più aspirational.
In altre parole, Bernie — con i capelli bianchi scompigliati, i modi burberi (interi articoli dedicati al fatto che non ama baciare i bambini, stringere le mani, il Super bowl e parlare della sua biografia: doveri classici del candidato elettorale), l’aria da professore svagato e gli enfatici movimenti delle braccia — si è rivelato un politico molto più astuto ed efficace del suo collega del Vermont Howard Dean, la cui promettente, progressista, campagna presidenziale del 2004 venne affondata da un semplice urlo d’entusiasmo giudicato troppo potente.
In una recente intervista a Politico, Obama ha lodato l’idealismo di Sanders ma ha anche aggiunto: «Non dimentichiamo che Bernie è stato senatore, ha servito nella Commissione per i veterani di guerra. È uno che sa passare delle leggi».
La carriera politica di Bernie Sanders si è formata e concretizzata in uno degli angoli più idiosincratici del New England, dove negli anni Sessanta faceva il giornalista free lance con articoli che si intitolavano The Revolution Is life Versus Death, per il periodico alternativo The Vermont Freman, e dove assunse le sua prima carica ufficiale nel 1981, in qualità di sindaco di Burlington, per poi diventare deputato al Congresso (dal 1991 al 2007) e infine senatore (dal 2007 ad oggi).
Ma le radici del suo progressismo socioeconomico vanno probabilmente cercate nel quartiere ebraico di Flatbush e nella Brooklyn proletaria del secondo dopoguerra dove è nato (suo padre era un immigrato polacco che vendeva vernici) e ha studiato (tre le altre cose, nella stessa scuola elementare della più battagliera dei giudici nell’attuale Corte suprema, Ruth Bader Ginsberg).
Se a tradire le sue origini non bastasse l’accento, ancor oggi fortissimo, osservarlo in questi mesi è stato vedere emergere, dietro all’aura un po’ hippie rural-idealista (tutta Birkenstock-granola-ben&jerry..), l’agguerrita stoffa del politico newyorkese — un leader appassionato, dal carisma ruvido, visibilmente impaziente di fronte alla fuffa, che non ha paura di dire quello che pensa o di alzare la voce quando necessario. La dice lunga –sulla sua popolarità e sulla qualità del suo personaggio — che per interpretare l’avatar di Sanders su Saturday Night Live si sia scomodata una star della commedia magnificamente «intrattabile» come Larry David (nato a Brooklyn anche lui).
La sua non malleabilità nei confronti degli espedienti della politica ha fatto sì che il settantreenne senatore del Vermont scegliesse di trattare il suo avversario principale, Hillary Clinton, con più grazia e giustezza di quella riservatale dall’intero establishment mediatico, venendole persino in soccorso, durante il primo dibattito, quando un giornalista insisteva troppo sulla questione dell’indirizzo privato di posta elettronica: «Gli americani non ne possono più di sentir parlare delle tue dannate e mail!!».
Paradossalmente, persino la «civiltà» di Sanders aiuta quelle credenziali anti-establishment che hanno contribuito a fare del dream candidate dei sessantottini (a cui The Nation ha recentemente dato il suo endorsement), una vera rock star tra i millennials, in questo ciclo elettorale.
La sua popolarità sui social è infatti straordinaria, con un frequentatissimo forum su Reddite e vari siti (come FeeltheBern.org e il Bernie Post) che lavorano per la sua elezione in autonomia rispetto alla macchina della campagna. Cavalcando l’onda radical progressista che, da Zuccotti Park ha reso possibile l’elezione di neofiti come l’ex professoressa universitaria Elizabeth Warren, dall’autunno a oggi, Sanders ha trasformato il suo messaggio sull’ineguaglianza economica in una metafora della piattaforma elettorale che sta cominciando ad articolare con più precisione: sanità gratuita per tutti (a costo di alzare le imposte), niente tasse universitarie nei college pubblici, investimenti nelle infrastrutture e per la protezione dell’ambiente …
Insomma, tutte cose condivisibilissime. Arrivando da uno Stato prevalentemente bianco e d’indole libertaria quando si tratta di pistole e affini, in vista del post Iowa e New Hampshire, Sanders sta lavorando sul suo appeal nei confronti degli afroamericani e a una posizione più assertiva rispetto al controllo delle armi da fuoco. ( da Il Manifesto di G D’Agnolo Valtan)

2 – BIZZARRO, L’IOWA SARÀ ANCORA DECISIVO
Primarie Usa. Uno stato piccolo e assai poco rappresentativo dell’America nel suo complesso. Che però grazie al meccanismo perverso dei caucus diventa il test con cui l’establishment dei due partiti individua il nome percepito come "giusto" per la Casa bianca

Pensate di fare campagna elettorale in un’Italia, dal Brennero a Roma, dove però ci sono solo tre milioni di abitanti, quasi metà dei quali vivono in graziose fattorie. Oggi ci sono 5 gradi sotto zero ma potrebbe fare tranquillamente –20° e i caucus, le riunioni degli elettori, si tengono di solito nelle palestre delle scuole, generalmente poco riscaldate.
La città più grande si chiama Des Moines e ha la stessa popolazione di Trieste, poi troviamo Cedar Rapids, con gli abitanti grosso modo di Latina, e Davenport, che ha esattamente lo stesso numero di cittadini di Arezzo. Gli altri sono sparsi in 92.600 fattorie e, come avrete capito, non ci sono città come Milano, Torino, Venezia, Bologna, Firenze e Roma. In compenso, ci sono circa 3.700.000 buoi e mucche. Questi tre milioni di abitanti (o meglio, i circa 250.000 di loro che partecipano ai caucus) ogni quattro anni suscitano l’isteria della stampa mondiale, con qualche buona ragione: sono una rotellina chiave nel bizzarro meccanismo per eleggere il presidente degli Stati uniti.

QUI COMINCIA L’AVVENTURA
Perché l’Iowa è così importante? Non certo per il numero di delegati che elegge alle convention dei due partiti dove i candidati alla presidenza sono formalmente nominati: sono circa l’1% del totale. No, la vera ragione è che la campagna elettorale americana formalmente inizia il 1° febbraio, con l’Iowa e poco dopo con le primarie in New Hampshire; in realtà è iniziata oltre un anno fa con la cosidetta «primaria invisibile», quel lungo percorso in cui gli aspiranti alla nomination cercano finanziatori, cercano visibilità sui media, cercano il contatto con le lobby, si fanno vedere gli elettori.
Quindi nel 2015 i candidati si sono sforzati di “entrare in gioco” e di costruire le rispettive organizzazioni (in un paese con partiti deboli sono i politici a dover mettere a punto la propria macchina organizzativa, enormemente costosa), un requisito necessario per poter eventualmente competere nella lunga fase delle primarie (da febbraio a giugno) e poi nell’altrettanto lunga fase della campagna elettorale vera e propria (si vota l’8 novembre 2016).
In Iowa non ci sono schede o macchine per votare: si tratta di caucus, una combinazione tra la riunione di attivisti e l’assemblea di quartiere. Gli infreddoliti cittadini discutono e poi dichiarano la loro preferenza per uno dei candidati, in modi non sempre precisissimi: molti meeting finiscono con un «Tutti i sostenitori del candidato X in fondo alla sala a destra, tutti quelli che appoggiano il candidato Y, qui a sinistra, per favore».
Non a caso, nel 2012, i caucus furono attribuiti inizialmente a Mitt Romney, poi dopo un nuovo conteggio i repubblicani decisero che in realtà era stato l’ex senatore Rick Santorum a prevalere, sia pure per soli 34 voti su 121.503 partecipanti.
Il problema è che se il vincitore viene conosciuto settimane o mesi dopo la cosa non ha più alcuna importanza: Iowa e New Hampshire servono per creare momentum, ovvero slancio, una dinamica favorevole nel sostegno di attivisti, dirigenti del partito, finanziatori. Sono i due test necessari all’establishment dei grandi partiti per decidere chi appoggiare tra i candidati alla nomination.

UN TERRITORIO DA BATTERE PALMO A PALMO
Per questo i politici che vogliono correre per la presidenza passano gran parte dell’anno precedente alle elezioni battendo palmo a palmo uno stato assai poco rappresentativo dell’America nel suo complesso: nel 2011 Santorum passò 266 dei 365 giorni dell’anno in Iowa; Michelle Bachmann fece 200 visite nello stato, per ottenere un misero sesto posto nelle primarie repubblicane.
Dal punto di vista del processo elettorale, il ruolo assunto da Iowa e New Hampshire è estremamente negativo. Il primo problema è che il meccanismo delle primarie, in sequenza invece che tutte nello stesso giorno, di fatto trasforma questi due stati in una porta stretta da cui i candidati devono necessariamente passare: chi crede di poter saltare questi appuntamenti, come l’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani nel 2012, si ritrova ignorato dagli elettori, che concentrano la loro attenzione su quelli che stampa e televisione presentano come i protagonisti del “duello”, quasi sempre due soli candidati per ciascun partito.
Nel 2008 la competizione tra i democratici fu tra Hillary Clinton (che vinse in New Hampshire) e Barack Obama (che vinse in Iowa) mentre fra i repubblicani emersero brevemente Mike Huckabee (primo in Iowa), Mitt Romney e John McCain: alla fine fu quest’ultimo (vincitore in New Hampshire) a prevalere.
Più sostanziale la questione che l’Iowa è uno stato assai diverso dal resto degli Stati Uniti, per esempio le minoranze sono fortemente sottorappresentate: gli afroamericani sono il 3,4% contro una media nazionale del 13,2% e gli ispanici sono il 5,6% contro il 17,4%. L’agricoltura e l’allevamento sono molto più importanti che altrove (l’Iowa sta nel cuore delle grandi praterie) e lo stato trae grandi vantaggi dalle regole federali che prescrivono di mescolare la benzina con l’etanolo tratto dai cereali: non a caso il popolare governatore repubblicano Terry Branstad ha attaccato uno dei candidati, Ted Cruz, perché sarebbe contro il business dell’etanolo.

PER VINCERE IN NOVEMBRE
L’Iowa, quindi, è un pessimo test per avviare il processo elettorale, soprattutto considerando che la dinamica della corsa alla presidenza negli ultimi anni è stata dominata dai primi risultati ottenuti dai candidati: nel 2008 la competizione tra Obama e Clinton proseguì fino a giugno ma la regola generale è che dopo le primarie di febbraio rimane un solo candidato per ogni partito perché i media, i finanziatori e, soprattutto, l’establishment dei due partiti si compattano attorno al nome percepito come quello “giusto” per vincere in novembre.
Quest’anno potrebbe andare diversamente, ma i repubblicani sono già orientati a restringere la scelta ai due aspiranti meglio piazzati in Iowa, Ted Cruz e Donald Trump, benché entrambi lontani dall’establishment del partito. Ma Trump riuscirà a tradurre in voti il suo vantaggio nei sondaggi? ( da Il Manifesto di F Tonello)

 

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