11965 Brexit. Un’ascia sui diritti dei lavoratori migranti

20160308 19:04:00 redazione-IT

[b]di Carlo Caldarini (Bruxelles)[/b] – [i]Un nuovo Dossier a cura dell’Osservatorio fa il punto sulle misure adotatte dal Consiglio europeo, riunitosi a Bruxelles il 18 e il 19 febbraio 2016.[/i]

In un’atmosfera dominata dall’esigenza di trovare un’intesa con il Regno Unito, per scongiurarne l’uscita dall‘Unione europea e di far fronte alla cosiddetta crisi migratoria e dei rifugiati, i 28 capi di stato e di governo 28 hanno convenuto un insieme di disposizioni che avranno effetto a partire dalla data in cui il governo del Regno Unito – espletato il referendum – informerà il Consiglio della sua decisione di restare o meno membro dell’Unione europea. Disposizioni che, per semplificare, possiamo riunire in due sottoinsiemi.

Da un lato, i leader europei hanno raggiunto un’intesa che rafforza lo status speciale del Regno Unito in seno all’UE, conferendogli maggiore peso rispetto alla governance economica (gestione dell’unione bancaria e ulteriore integrazione della zona euro) e maggiori margini di libertà rispetto alla sovranità (meno vincoli per il Regno Unito in rapporto a un’ulteriore integrazione politica dell’Unione europea).

Dall’altro lato – e di questo intendiamo parlare qui – sono state adottate diverse misure che non è esagerato definire epocali, tese a frenare il cosiddetto “abuso del diritto di libera circolazione delle persone”, riguardanti, più precisamente, gli assegni per i figli a carico e le “prestazioni a carattere non contributivo collegate all’esercizio di un’attività lavorativa”.

[b]Indicizzazione delle prestazioni per i figli a carico[/b]

Per quanto riguarda le prestazioni familiari per figli a carico, i leader europei hanno deciso che la Commissione elaborerà presto una proposta di modifica del regolamento 883/2004 sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, al fine di offrire agli Stati membri la possibilità di indicizzare l’importo delle prestazioni per figli a carico residenti in uno Stato membro diverso da quello in cui il genitore lavoratore soggiorna.

In pratica, se secondo le regole attualmente in vigore – anzi, in vigore da più di mezzo secolo – un lavoratore italiano o polacco che lavora in Germania riceve i medesimi assegni familiari dei suoi colleghi tedeschi, indipendentemente dal paese di residenza dei figli, con le nuove regole gli assegni per i figli residenti nel paese d’origine saranno indicizzati al costo della vita nel paese di residenza, quindi dell’Italia o della Polonia nel nostro esempio, anche se il lavoratore in questione ha un salario tedesco, e versa, quindi, nelle casse fiscali e previdenziali della Germania gli stessi importi dei suoi colleghi tedeschi.

Detto così, sembrerebbe che le misure invocate siano solo, come dire, degli aggiustamenti. In realtà esse mettono in discussione i pilastri della libera circolazione delle persone e del coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale. Simili restrizioni erano del resto state già introdotte in passato da alcuni stati membri, ma la Corte di giustizia dell’Unione europea ne aveva ordinato il ritiro, ricordando appunto che i lavoratori migranti “godono degli stessi vantaggi fiscali e sociali dei lavoratori nazionali” (art. 7.2 del regolamento UE 492/2011, relativo alla libera circolazione dei lavoratori).

[b]Limitazione nell’accesso alle prestazioni assistenziali di welfare legate al lavoro[/b]

Con il pretesto di “tener conto del fattore di attrazione di cui gode uno Stato membro”, il Consiglio europeo ha anche approvato una proposta di modifica delle norme europee relative alla libera circolazione dei lavoratori. In pratica, il Consiglio ha ideato un cosiddetto “meccanismo di allerta e salvaguardia” che dovrebbe far fronte a ipotetiche “situazioni di afflusso di lavoratori provenienti da altri Stati membri di portata eccezionale”. Uno Stato membro, che desideri avvalersi di tale meccanismo, notificherebbe alla Commissione e al Consiglio l’esistenza di una siffatta situazione eccezionale, di entità tale – si badi bene – da “ledere aspetti essenziali del suo sistema di previdenza sociale”. Tale Stato membro sarebbe così autorizzato (con buona pace del Parlamento europeo che non viene neppure consultato) a limitare l’accesso dei lavoratori stranieri “nuovi arrivati” alle “prestazioni a carattere non contributivo collegate all’esercizio di un’attività lavorativa”, per un periodo totale massimo di quattro anni dall’inizio del rapporto di lavoro. Il meccanismo della limitazione prevede che un lavoratore sia inizialmente totalmente escluso dalle prestazioni assistenziali di welfare, per poi gradualmente acquisire qualche diritto, in funzione del “crescente collegamento del lavoratore con il mercato del lavoro dello Stato membro ospitante”.

Ma vediamo di cosa si tratta, esattamente. Nel Regno Unito, per esempio, esistono due prestazioni destinate a compensare la perdita di reddito per i lavoratori disoccupati. La prima, di tipo contributivo, che è subordinata al versamento di un certo numero di contributi assicurativi in un determinato lasso di tempo, e dura al massimo sei mesi. La seconda prestazione, cui si può accedere dopo i sei mesi, è di natura assistenziale ed è subordinata alla verifica di uno stato di bisogno e, dunque, è legata al reddito. Questa seconda prestazione spetta, di norma, anche a coloro che, pur essendo disoccupati, non hanno diritto alla prima prestazione contributiva, in ragione ad esempio di una carriera lavorativa breve e frammentata. Ed è proprio questa seconda prestazione che potrà essere negata ai lavoratori cittadini di un altro Stato europeo, anche se questi – non è inutile precisarlo – contribuiscono alle casse fiscali e previdenziali come gli altri lavoratori autoctoni.

[b]Se l’effetto demagogico di una misura è più importante della sua efficacia[/b]

Va subito detto che, oltre a fare a pugni con decenni di giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, la premessa stessa su cui si basa l’accordo – ossia l’esistenza di “flussi di lavoratori di ampiezza tale da produrre effetti negativi sia per gli Stati membri di origine che per quelli di destinazione” – è smentita da tutte le analisi e da tutti gli studi finora conosciuti, compresi quelli della Commissione europea e dell’OCSE.

L’applicazione eventuale di simili regole restrittive avrebbe insomma solo un effetto demagogico. Il reale impatto sulle finanze sarebbe infatti trascurabile. Nel Regno Unito, su 13 milioni di bambini che ricevono assegni familiari, appena 34000, ossia meno del 0,3%, sono residenti in un altro Stato membro. In Germania, per fare un altro esempio, dei 14 milioni di bambini aventi diritto alle prestazioni familiari, solo lo 0,6% vive all’estero.

Una comunicazione della Commissione europea del 25 settembre 2014 mostra, cifre alla mano, come la popolazione “straniera” versa nelle casse dei paesi ospitanti, sotto forma di imposte e contributi, più di quanto non riceva sotto forma di prestazioni e aiuti vari. Queste conclusioni si basavano su un rapporto indipendente realizzato da ICF GHK per la stessa Commissione europea nel 2013. Lo studio, infatti, ha dimostrato come, tra i beneficiari delle prestazioni sociali, la presenza degli stranieri fosse in realtà molto bassa: meno dell’ 1% in Austria, meno del 5% in Germania e Paesi Bassi per fare alcuni esempi. E per quanto riguarda la spesa nazionale per l’assistenza sanitaria, il costo attribuibile alla popolazione straniera è solo lo 0,2% in media.

Un’altra indagine dell’University College di Londra del novembre 2014, basato su dati ufficiali del governo, ha confrontato il contributo fiscale netto a quello dei vari gruppi di immigrati. Negli anni tra il 1995 e il 2011, il contributo fiscale netto degli stranieri europei è stato superiore a quello dei cittadini britannici, per oltre il 10%. E ancora. Nel giugno 2014, IZA World of Labor ha dimostrato come le singole decisioni in materia di immigrazione non siano state prese sulla base della relativa generosità dei sistemi sociali del paese ospitante. Al contrario, anche di fronte a un rischio più elevato di povertà, gli immigrati – anche cittadini UE – mostrano meno dipendenza dal welfare rispetto agli autoctoni. In breve, ancora una volta versano nelle casse dello Stato ospitante più di quanto ricevono. E anche quando gli immigrati beneficiano del welfare più intensamente dei cittadini nazionali, questo è dovuto alle differenze sociali, piuttosto che allo status di immigrazione di per sé.

Il luogo comune, insomma, secondo cui l’immigrazione approfitta della generosità dei sistemi sociali dei paesi ricchi è ampliamente smentito dalle statistiche internazionali. Secondo il Rapporto OCSE 2013 sulle migrazioni internazionali, la differenza tra i contributi sociali e fiscali versati dagli immigrati e le prestazioni da questi percepite è sempre a vantaggio dei paesi ospitanti e a discapito dei migranti (vedi tabella).

Come abbiamo già detto, agli occhi di un osservatore distratto, tali cambiamenti potrebbero sembrare soltanto degli aggiustamenti, dettati persino dal buon senso: lotta alle frodi e agli abusi, adeguamento delle prestazioni al costo della vita, eccetera. In realtà, come ha schiettamente affermato il Vice-Presidente della Commissione europea, si vuole separare l’accesso al mercato del lavoro dall’accesso alla protezione sociale. Se un tale principio venisse applicato oggi nei confronti di “stranieri” e “migranti”, non è difficile immaginare che in seguito lo stesso si potrà estendere a tutti gli altri lavoratori. Bruxelles, 7 marzo 2016

Articolo a cura di Carlo Caldarini, Direttore dell’Osservatorio Inca Cgil per le politiche sociali in Europa

[b]Per saperne di più:[/b]

Dossier a cura dell’Osservatorio
[url]http://www.osservatorioinca.org/section/image/attach/Articolo_Brexit.pdf[/url]

Conclusioni del Consiglio europeo del 18 e 19 febbraio 2016 (in italiano)

Precedente articolo a cura dell’Osservatorio

http://www.fiei.org/index.php?option=com_content&view=article&id=129:brexit-un-ascia-sui-diritti-dei-lavoratori-migranti&catid=23&Itemid=163

 

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