9491 I ministri che verranno, dal generale al cattolico

20111115 19:23:00 redazione-IT

[b]La lista dei ministri di Mario Monti, che domani alle 11 scioglierà la riserva nelle mani del capo dello Stato, è quasi pronta. Vi raccontiamo chi sono i personaggi in pole position per prendere in mano il paese.[/b]

[i]Carlo dell’Aringa – Sa di pesce in barile[/i]
Ci sono «indesiderabili» poco noti al grande pubblico, ma già sperimentati da qualche milione di lavoratori. Soprattutto «pubblici». Carlo Dell’Aringa si è fatto notare nella seconda metà degli anni Novanta come presidente dell’Aran (Agenzia per la rappresentanza negoziale nel Pubblico impiego), l’ente incaricato di gestire i rinnovi contrattuali per conto del governo. «Fu il periodo peggiore – ricodano ancora oggi alcuni sindacalisti – In quegli anni ci fu un aumento salariale di appena 7.000 lire».
Docente di economia politica alla Cattolica di Milano – un’autentica miniera di candidati ministro, insieme alla Bocconi – è uno specialista «problemi del lavoro».

Ha diretto il Creli (centro di ricerche su questi temi, della Cattolica), ed anche l’Istituto di economia dell’impresa e del lavoro (stessa università). Nella sua produzione spicca anche un libro firmato insieme a Renato Brunetta, nel 1990 (Labour relations and economic performance). A dispetto di tanta analisi scientifica, il suo rapporto con i lavoratori in carne e ossa è stato parecchio problematico. Il suo ufficio all’Aran fu più volte occupato da sindacalisti di base durante vertenze che, anche a causa della sua «rigidità», ne favorirono il radicamento. «Non perdeva occasione di ricordare che era un docente universitario e che la pubblica amministrazione era nel baratro». Non proprio il massimo dell’interattività, insomma, per un analista delle labour relations.
Ma il meglio di sé lo diede come presidente dell’Isfol, un tempo glorioso ente specializzato in ricerche e formzione di alto livello. Con lui alla guida fu stabilito un nuovo record: diventare l’unico istituto pubblico di una certa dimensiona ad avere in pianta organica «più precari che dipendenti fissi». Si era nella prima metà del nuovo millennio, «e quei precari lì non sono masi stati stabilizzati».
Sul piano politico ha lavorato indifferentemente con entrambi gli schieramenti, portando avanti l’identiche scelte operative. Un tratto che forse lo rende un ministro ideale per un governo «di larghe intese», senza conflittualità interna, supportato in modo bipartisan per applicare quelle «riforme» che una maggioranza parlamentare «normale» non potrebbe mai realizzare. In Italia come altrove.
Tra le sue fissazioni ricorrenti, immortalate in numerose interviste, c’è l «necessità di trovare un’autorità indipendente o una commissione che si metta a misurare la produttività del personale pubblico». Nella convizione che «le singole amministrazioni sono state troppo generose, tanti dipendenti sono stati promossi e il costo del lavoro è aumentato». Nemmeno lui è però privo di incoerenze logiche, perché di recente ha ammonito «starei molto attento ai dipendenti pubblici; i loro stipendi sono già non molto elevati, un’ulteriore riduzione potrebbe avere conseguenze sul potere d’acquisto e rallentare la ripresa». E’ un problema che si presenta spesso con i professori «tecnici»: la realtà gli si ribella. (francesco piccioni)

[i]Rolando Mosca Moschin – Generale, meglio a riposo[/i]
Non è uso nelle democrazie parlamentari che un militare si tolga la divisa per mettersi l’abito civile da ministro della difesa. Nemmeno se il candidato è di carriera specchiata (non farebbe il consigliere militare al Quirinale), dopo avere pure diretto quella Guardia di Finanza che nell’epoca berlusconiana sembra essere diventata una vasca di pirana. Il generale Rolando Mosca Moschin è in corsa per prendere il posto di Ignazio La Russa, e questo, a dire il vero, potrebbe essere una benemerenza. Ma la nomina di un ministro politico alla Difesa è sempre un messaggio democratico: tanto è vero che il comandante in capo delle forze armate è il capo dello stato, o il presidente nelle repubbliche presidenziali.
Mosca Moschin è stato alla guida della Guardia di Finanza fino alla vigilia dell’introduzione dell’euro e capo di stato maggiore della difesa, una valanga di riconoscimenti in Italia e all’estero, mai chiacchiere sul suo conto; anche se cliccando su Google, un paio di strani siti che lo accusano di qualche cosa, a sorpresa non si aprono. Sulla Rete, gli uomini con le stellette non sono popolari, ma a 72 anni può vantare un profilo Facebook (copiato però da Wikipedia), e contare su «41 mi piace» e, ahinoi, soltanto su «3 ne parlano». Sul piatto della bilancia, dalla sua non possiamo mettere per principio nemmeno un punto che sarebbe a favore. Quando nella sede di via XX Settembre arriva un nuovo ministro, è tradizione che i generali fingano devozione, mentre studiano da subito quale è il modo di continuare a difendere – innanzitutto – i loro interessi. Più difficile sarebbe farlo con uno di loro, che conosce il terreno palmo a palmo. Nel settembre del 2001, Francesco Cossiga ricorda perentoriamente in pubblico a Mosca Moschin (c’è stato un cambio di governo) che «in un regime democratico un principio fondamentale è la sottoposizione del cosiddetto potere militare al potere politico». Insomma, è vietata ogni capriola, anche da ex. Chiaro che il discorso vale per il generale dell’Aeronautica Vincenzo Camporini, anche lui in corsa per la Difesa. Una falsa alternativa. (francesco paternò)

[i]Giuliano Amato – Troppa sottigliezza[/i]
Per Giuliano Amato, il confine tra tecnico e politico è diventato di colpo così sottile che il suo nome nel toto-ministri è entrato il primo giorno per non uscirne più. Sarà perché dovrebbe diventare il nuovo titolare della Farnesina? Si sa che in fondo gli esteri sono sempre considerati un po’ una repubblica a parte (come nei giornali), ma sarebbe un’altra forzatura di questa strana stagione far passare Amato da tecnico. Anche se questa fosse l’unica carta in regola per entrare in un prossimo governo Monti (e sempre che questa sia davvero la strada in salita imboccata dal Professore). Amato, che almeno non è un bocconiano, è un giurista, presto partito con biglietto di sola andata per la politica. Prima nel Psiup e poi nel Psi, di cui arriva a diventare vicesegretario e sottosegretario alla presidenza del consiglio dei governi Craxi 1 e 2, fino alle ultime sponde del Pd. Ha fatto il ministro della repubblica sei volte, il presidente del consiglio due volte, in una delle quali – con un colpo questo sì molto tecnico – ha provato a mettere a tappeto i conti correnti degli italiani, con un prelievo del 6 per mille a data retroattiva per i furbi. Certo, ci vogliono competenze anche tecniche per riscrivere la costituzione europea, compito portato a termine nel 2007 insieme al Comitato d’azione per la democrazia europea da lui presieduto. Ma come dicono i francesi, politique d’abord. Che sia un inconfondibile politico, lo dimostra infine la pensione dorata da parlamentare di 5.800 euro netti mensili, stando ai dati forniti dalla Camera dei deputati. Altri 11.000 li percepisce da ex capo dell’antitrust, presieduta tra il 1994 e il 1997. Numeri che non coincidono con i circa 31.000 euro di pensioni cumulate di cui lo accusano i giornali di destra, ma che non lo trasformano nemmeno in un tecnico dell’ultima ora. E inelegantemente, se si ricorda che la prima concreta riforma delle pensioni si deve al suo governo (1992). Se poi Monti volesse per forza un tecnico alla Farnesina, potrebbe sempre pescare nella lista B (o A) del toto-ministri: in corsa Giampiero Massolo, segretario generale della «Casa Bianca», diplomatico di lungo corso e basta, in cima con governi di opposto colore. All’estero, per altro, non avrebbe bisogno di dar del lei a nessuno. (francesco paternò)

[i]Lorenzo Ornaghi – Un cattolico di valori assoluti[/i]
Le voci che girano giungono da molto molto in alto. Il più papabile candidato alla poltrona che fu di Mariastella Gelmini, il più imbarazzante ministro della pubblica istruzione della storia repubblicana, si chiama Lorenzo Ornaghi. 63 anni, milanese di Monza, è il rettore dell’Università Cattolica di Milano (al terzo mandato).
Non è un cattolico qualsiasi, ma uno degli uomini di punta del pensiero politico cattolico («ruiniano» da sempre, molto vicino al cardinale Angelo Bagnasco e gradito al ciellino Roberto Formigoni) che da anni predica la necessità di un ritorno forte dei valori religiosi per riorientare la politica italiana; e così sostenere «le aggregazioni partitiche, a cui toccherà di dar corpo alla volontà dei cattolici di essere un movimento non di second’ordine nella politica italiana» (da un’intervista sull’Avvenire, di cui Ornaghi è vicepresidente). Il suo non è un progetto subliminale concepito su basi puramente accademiche, è un vero e proprio manifesto politico che sembra destinato a segnare l’indirizzo del ministero più delicato di tutti, se è vero che il recupero della credibilità anche «culturale» di un popolo frastornato del berlusconismo si dovrà per forza di cose incrociare con la rigidità dei sacrifici che il governo Monti imporrà anche ai lavoratori della scuola – quella pubblica, naturalmente: le scuole cattoliche già stanno festeggiando.
Il concetto chiave dell’Ornaghi-pensiero è stato esposto un anno fa con la potenza suggestiva di uno slogan, quasi un’autoprofezia, se non un’autocandidatura. «Sembra essersi aperto il tempo, per il cattolicesimo italiano, di manifestarsi con decisione guelfo, se non già di originare da subito un nuovo, energetico guelfismo». Ed essere guelfi per Ornaghi significa «affermare l’idea e la realtà di italianità quale dato storico – insieme, culturale e popolare – di cui gli essenziali e più duraturi elementi sono religiosi, cattolici». Si dice anche che il rettore della Cattolica, in virtù delle sue idee federaliste, «utili per ricomporre la secolare lacerazione tra nord e sud», potrebbe risultare gradito alla Lega nord. Ma le ambizioni di un pensiero politico che intende guidare l’uscita dalla crisi dei partiti sulla base dei valori cattolici sembrano destinate a volare più in alto. E forse, per Ornaghi, ormai è arrivato il momento di spiccare il volo.
La settimana scorsa, durante l’inaugurazione dell’anno accademico all’Università Cattolica, il professore sembra quasi essersi congedato dai suoi studenti di Milano. «L’anno che si aprirà – ha detto, con le valige in mano – deve e può veder nascere una fase della vita nazionale in cui saremo tutti chiamati, ognuno per la sua parte, a riprendere responsabilmente in mano i fili del nostro comune domani, del nostro stare insieme dentro la società, della nostra capacità di riuscire ad avviare un modello di sviluppo duraturo o meno iniquo o squilibrante di quello attuale». D’accordo. Ma non si capisce perché proprio un cattolico così convinto deve essere chiamato a restituire valore, e valori, al ministero della pubblica Istruzione. Anzi, si capisce. (luca fazio)

[i]Cesare Mirabelli – Un uomo di garanzia[/i]
Può stare nel «governo del presidente» della Repubblica uno che il presidente lo ha violentemente criticato (per non aver controfirmato il decreto Eluana Englaro, due anni fa, quando Napolitano si prese dell’«assassino» dai berlusconiani)? E può stare nel governo della rinascita morale uno che da ex giudice costituzionale riceveva al telefono le pressioni di Pasqualino Lombardi, quando il factotum della P3 si dava da fare per aggiustare la sentenza sul lodo Alfano? Se la risposta è sì Cesare Mirabelli, sessantanove anni, presidente emerito della Consulta, è il candidato giusto per la giustizia.
Certo Berlusconi al ministero gli preferirebbe il «suo» Nitto Palma o il «tecnico» Ghedini, ma deve acconciarsi a un compromesso e Mirabelli può offrire le dovute garanzie per una delle due caselle che davvero lo interessano (l’altra è quella delle tv, qui accanto). Non per niente è stato l’unico costituzionalista di rango che i giornali del cavaliere sono riusciti a trovare per fare il controcanto all’opposizione, per tutto il corso delle sfibranti polemiche sui lodi e sulle altre leggi ad personam. In particolare Mirabelli è stato favorevolissimo a limitare le intercettazioni. E quando in un’intercettazione imbarazzante c’è finito lui stesso si è capito meglio il perché. Democristiano di lunghissimo corso, Mirabelli fu eletto ancora giovane al Consiglio superiore della magistratura dove da vicepresidente divenne l’uomo di fiducia di Francesco Cossiga che, dal Quirinale, gli affidò tutte le deleghe e la gestione dei suoi rapporti turbolenti con l’organo di autogoverno della magistratura.
«Mirabelli non conta più nulla, gli ho parlato solo perché volevo acquisire meriti con Berlusconi» si è giustificato l’anno scorso Pasqualino Lombardi, il lobbista di fiducia di Flavio Carboni. Ma sbagliava, basta guardare le poltrone che il giurista cattolico – autore di un saggio sulla rilevanza giuridica del battesimo – ha occupato e occupa ancora. Terminato il mandato alla Corte costituzionale, infatti, il professore (diritto ecclesiastico a Roma Tor Vergata ma anche alla pontificia università lateranense) è stato nominato presidente del consiglio nazionale degli utenti, un organismo che si occupa di televisioni istituito presso l’Agcom.
Non basta, dopo il terremoto dell’Aquila è stato scelto da Berlusconi per sorvegliare sull’impiego delle somme donate alla protezione civile, è nel comitato dei garanti. E nel frattempo era stato scelto da papa Benedetto XVI al vertice dei consiglieri del Vaticano, il più alto organo amministrativo dello stato. Infine è uno dei componenti del consiglio superiore della Banca d’Italia, fu proprio lui, da cattolico a cattolico, a raccogliere le dimissioni del governatore Antonio Fazio quando questi fu travolto dallo scandalo Fiorani. Ed è ancora in Bankitalia, Mirabelli, con Draghi e ora con Visco, a suo agio anche nel nuovo corso e magari anche più su. (andrea fabozzi)

[i]Antonio Catricalà – Gli interessi televisivi[/i]
C’è un problema. L’unica volta in cui l’Antitrust ha fatto qualche osservazione, inarcato un sopracciglio, sollevato un dubbio sul conflitto di interessi – per carità, senza alcuna conseguenza pratica – è stato quando nel 2005 l’Autorità per la concorrenza guidata da Antonio Catricalà ha eccepito sul fatto che un ministro – all’epoca Lucio Stanca – potesse anche sedere nel consiglio di amministrazione di un’università privata. Nello specifico l’Università Bocconi il cui attuale presidente del cda Mario Monti (pronto a lasciare, certo) si appresta a diventare presidente del Consiglio. Chiamando, pare, proprio Catricalà allo sviluppo economico.
Ora, non c’è dubbio che Catricalà non sia un fenomeno in fatto di economia e attività produttive, però è certo che sarebbe una garanzia in fatto di comunicazioni, la magnifica preda che il ministero dello sviluppo nasconde tra le sue competenze. In effetti al custode della trasparenza dei mercati non è parso di scorgere alcun conflitto di interessi al governo negli ultimi sei anni, da quando cioè ha lasciato l’incarico di segretario generale del presidente del Consiglio Berlusconi per assumere quello di controllore indipendente della libera concorrenza. Sei anni durante i quali i rappresentanti del centrosinistra – non esattamente degli scalmanati in fatto di conflitto di interessi – hanno chiesto più volte all’Antitrust di darsi una mossa, di fare caso a quel signore che da palazzo Chigi dava ogni tanto uno sguardo alle sue faccende private. Ma Catricalà niente, al massimo qualche lamentela sulla legge Frattini. O qualche pratica aperta, ma immediatamente chiusa con motivazioni da antologia.
Per esempio nel 2006 secondo l’Antitrust di Catricalà il fatto che il governo Berlusconi avesse destinato un contributo statale per l’acquisto dei decoder prodotti da Paolo Berlusconi e necessari a rendere visibili le trasmissioni di Mediaset non configurava un caso di conflitto di interessi perché il vantaggio economico della famiglia era stato «verosimilmente contenuto». Oppure che il ministro Lunardi non aveva agito in conflitto di interessi partecipando alla delibera del Cipe che aveva approvato i lavori della metropolitana di Napoli, anche se i lavori erano finiti alla Rocksoil della famiglia Lunardi. O infine che quando Berlusconi era «sceso in campo» per convincere Fiorello a mollare Sky e passare a Mediaset non aveva fatto nulla di male perché aveva agito non in qualità di presidente del Consiglio.
Con un curriculum del genere, nessuna sorpresa che Berlusconi l’anno scorso abbia cercato di promuovere Catricalà alla guida dell’Autorità dell’energia. Senza riuscirci visto che ormai non controllava più il parlamento. Ma non è detto che adesso, e questa volta davvero senza poter agire più in qualità di primo ministro, possa farcela a mandarlo al governo. (andrea fabozzi)

http://www.ilmanifesto.it/attualita/notizie/mricN/5836/

 

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