8461 Voto di libertà, un altro accordo ora è possibile

20110116 12:16:00 redazione-IT

[b]di Loris Campetti[/b]

Le luci rimangono accese a Mirafiori. Questa volta è andata diversamente dall’autunno ’80, non ci sono lacrime di disperazione, nessuno grida al tradimento perché c’è un sindacato vero, sia pure solo uno, al fianco di chi si è giocato la partita più difficile sulle linee di montaggio. Domani o quando la cassa integrazione darà una tregua i carrozzieri varcheranno di nuovo i cancelli di Mirafiori, passeranno il tesserino a quello che una volta si chiamava «l’imparziale» perché fermava per i controlli chi voleva, supereranno i tornelli, indosseranno la tuta e si collocheranno alla catena nel luogo e con la mansione che verrà loro assegnata.
In tanti, la maggioranza al montaggio, lo faranno a testa alta per aver retto l’urto terribile contro un padrone delle ferriere globalizzato che voleva tutto da loro, corpo e anima, e invece dovrà accontentarsi di un eventuale acquisto che non potrà che essere contrattato della forza lavoro. L’anima è salva, i diritti si possono difendere collettivamente. Il corpo è piegato dalla fatica, come prima.

Questo dice l’applauso che alle 22 scatta alla porta 2, in una notte storica che finirà solo all’alba con il risultato sul voto del diktat di Sergio Marchionne. Lui, il monarca amato a destra e a sinistra che parla di modernità fasulla e ingiusta, sta nel suo ufficio al Lingotto, anche lui aspetta per sapere quanti chili di dignità operaia avrà strappato, quanto sarà riuscito a lacerare lavoratori e sindacati, e più pomposamente quanto avrà cambiato l’Italia. I numeri sono bugiardi, hanno vinto i perdenti e chi dice di aver vinto ha perso la scommessa e la dignità. Mentre la notte scorre alla porta 2 il clima cambia, i dati delle urne al montaggio confermano che non è iniziato un secondo autunno operaio davanti a questi cancelli. Per raggiungere il 54% dei sì, la Fiat che con il suo esercito di ascari sindacali partiva dal 71%, ha dovato cammellare alle urne le sue truppe scelte, cioè le peggiori: capi, capetti e quadri, yesmen usi a obbedir tacendo che hanno fatto la differenza, insieme ad altri ascari in tuta operaia: i «pipistrelli» della notte, ruffiani della gerarchia ripagati con la regalia del turno notturno che porta in tasca trenta denari in più. Quattrocento quarantuno yesmen hanno votato in massa, tranne una ventina di eroi, per il grande capo e così ha fatto il 70% dei pipistrelli. Numeri prevedibili, e previsti dal vostro cronista, che avrebbero potuto essere anche più impietosi.
Qualcuno ai cancelli piange, ma di commozione quando si accumulano i dati dei vari seggi che spiegano una metafora sociale: chi è vincolato alla catena di montaggio, ripete tutti i minuti, le ore, i giorni, gli anni della sua vita lo stesso movimento, si ammala di tendiniti e tunnel carpale, ha urlato il suo no a chi lo vuole non solo vincolato, subordinato, ma schiavo. Poi, via via che l’innovazione tecnologica riduce la quantità di lavoro vivo necessario a unità di prodotto, via via che la durata delle mansioni (la «battuta» in gergo operaio) si allunga, si sopportano un po’ di più i soprusi fino a viverli come regalo, di notte o in camice invece che in tuta. I «vaselina» che manipolano il personale non si sono mai sognati di disobbedire in vita loro, a forza di far abbassare la testa e la schiena ai sottoposti non riescono più a drizzare le loro, di teste e schiene. Eccola l’analisi sociale del voto di Mirafiori, parla di quelle condizioni materiali su cui si può passare con le scarpe chiodate per i Chiamparini, i Fassini, i Bersani. E dire che qualcuno si era indignato quando, sia pure in modo più elegante di quanto noi si scriva, il segretario della Fiom Maurizio Landini aveva consigliato loro di fare una capatina alla catena di montaggio e poi darsi una regolata.
Chi è stato per giorni ai cancelli di Mirafiori queste cose le sa, tutti conoscevano la differenza tra lavorare in linea, in lastratura, in verniciatura, di giorno o di notte, in giacchetta e sapevano che quelle differenze avrebbero trovato un riscontro nel voto. Sapevano che il sì con la pistola puntata alla tempia avrebbe vinto di poco, non si sono fatti ingannare dal voto strepitoso dei montatori. Speravano orgogliosamente che i no fossero almeno un punto sopra i no di Pomigliano, in una sana competizione territoriale della dignità operaia. Albeggia quando i numeri confermano le speranze, si applaude e ci si abbraccia. In città, la città dell’auto ferita da un trentennio di ideologia anti-operaia, uno striscione portato dagli amici delle tute blu e della Fiom (l’associazione Terra del fuoco) scende dalla Mole antonelliana per ringraziare i 2.325 no degli eroi di Mirafiori. Ma bisogna ringraziare, finalmente, anche la città, che non si è nascosta in casa, non ha fatto il tifo per i ricchi prepotenti, si è ricordata che ogni cittadino ha un padre che ha passato la vita a Mirafiori, un figlio che fa l’interprete precario per la Fiat, un nonno licenziato da Valletta o Romiti, o lavora nell’indotto dell’auto, in uno show room, in una «piola» davanti alla fabbrica. Questa volta Torino, la sua parte migliore troppo a lungo silente, ha detto che la Fiat ha esagerato, Marchionne se ne potrebbe anche andare in Canada o a Detroit, si chiede dove si siano imboscati rampolli e nipotini di primo, secondo e terzo letto degli Agnelli: nascosti, o fuggiti come i Savoia nel ’43. Torino democratica, invece, ha rimesso i piedi fuori casa perché ci si può piegare fino a un certo punto, un po’ di dignità ci vuole, concetto che qui si traduce con «ciuc ma dignitous».
Pietro dai cancelli non s’è mai mosso in questi giorni di fuoco, se non per correre in piazza Statuto per la fiaccolata di mercoledì scorso. Il compagno Pietro, una vita alle presse di Mirafiori, libero da diversi anni; quando se ne andò dalla fabbrica scrisse una lettera di dimissioni all’avvocato Agnelli e per conoscenza al manifesto: «Ho scelto questa data simbolica, il 25 aprile, per riprendermi la mia libertà». Ora fa il creativo, «organico» al movimento operaio. È lui che aveva disegnato il Marx dei 35 giorni, è suo il disegno delle mani operaie che aprono le sbarre con cui è scritto l’acronimo Fiat. Ascolta i risultati del voto trasmessi alla porta 2, si ricorda la vergogna dell’80 «quando ci si piegò ai capi in marcia senza rispondere». I suoi occhi dicono che questa volta è diverso, un’altra storia può cominciare.
La paura del voto sì, strappato alla coscienza; l’orgoglio e la dignità del voto no, con la Fiom, un voto di rispetto per sé e per i figli, una speranza accesa sul futuro. Anche sul nostro di futuro. Per fare che? Per rovesciare quel contratto fasullo e scriverne un altro, con il confronto tra uguali e non tra servi e padrone. È l’alba di un nuovo giorno, il clima è incerto ma la nebbia s’è un po’ diradata, la nottata è passata e le luci non si sono spente a Mirafiori. Noi del manifesto stiamo con questo operai, noi stiamo con la Fiom. Le ultime notti le abbiamo passate fisicamente e metaforicamente alla porta 2. Non in un ufficio all’ultimo piano del Lingotto come ha fatto, forse solo metaforicamente, la politica della vergogna.

http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2011/mese/01/articolo/4006/

 

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