8269 In memoria di Mario Merotto, il Com.It.Es. Vaud-Friburgo

20101012 10:59:00 redazione-IT

Il Comites Vaud-Friburgo si è riunito in seduta plenaria lo scorso 29 settembre. Si è trattato della prima riunione tenutasi dopo la scomparsa di Mario Merotto avvenuta nel corso del mese di luglio e la presidente Grazia Tredanari ha fatto precedere i lavori da un omaggio alla sua persona.
Mario Merotto è stato un dirigente di spicco dell’associazionismo italiano in Svizzera. Ha fatto parte dell’organo di rappresentanza degli Italiani del cantone sin dai primi CoCoCo, sia quelli di nomina consolare che quelli a elezione diretta auto-organizzata, precedendo la promulgazione della legge sui Coemit, poi divenuti Comites.
Infaticabile animatore della Colonia Libera Italiana di Aigle, non ha mai fatto venire meno il suo contributo al sindacato FTMH, oggi UNIA, di cui è stato presidente e vice-presidente.

La sua tenacia e continuità di impegno gli hanno fatto conquistare una stima condivisa da tutti coloro che l’hanno conosciuto.

In occasione del suo ultimo Congresso, la Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera l’ha eletto suo Presidente onorario.

Con molta tristezza si è appreso della sua morte, dopo una terribile e dolorosa malattia affrontata, sino all’ultimo, con determinazione e coraggio.

Rinnovando alla famiglia tutta la vicinanza dei componenti del Comites, pubblichiamo, di seguito, per onorarne la memoria, il suo intervento nell’aula del Senato italiano, in occasione di una manifestazione nazionale della FCLIS.

[b]Intervento di Mario Merotto[/b]

Primi anni sessanta.
La stampa nazionale impazza nel sogno del boom.
Attraverso, immerso nella tristezza dell’addio, una pianura veneta nell’attesa del risveglio primaverile.
Penso al villaggio adagiato tra i colli in cui ho passato i diciotto anni della mia giovinezza.
Il treno corre veloce verso Milano, la grande città letta sui libri di scuola con l’avidità tipica di chi è vissuto tra i campi ed i colli.
Non vi è tempo per nostalgie.
A Milano si cambia.
Si risale.
Un’ora ed è Chiasso, la Svizzera.
I controlli sono freddi e severi.
Attorno a me una miriade di volti a me sconosciuti.
La gente del sud alla ricerca della terra promessa.
Attendiamo tutti in fila la visita medica: occorre essere in buona salute per accedere alla terra degli elvezi.
La Svizzera? Un lavoro sicuro e poi, il ritorno.
Ma quale ritorno?
Storia, la mia, di emigrato tra emigrati.
La baracca, la lingua di una incomprensibile freddezza, l’isolamento e spesso l’astio attorno a te.
Ausländer? Si! Straniero;
è il dramma sconosciuto di migliaia di uomini e di donne partiti dall’allora Triveneto, dalla campagna a lambire il placido Po, come dalle vallate prealpine, dall’assolato altopiano delle Puglie, o della impervia Sila, la terra di una Calabria povera e orgogliosa.
Si ricomincia tra una orgogliosa miscela di gioventù che non si è rassegnata.
Coabita, vive, fatica e cerca di farsi coraggio quando spesso, troppo spesso è vittima del sangue versato a costruire gallerie, viadotti, alti muri di cemento a sbarrare lo scorrere impetuoso dei fiumi.
Una giornata uguale all’altra, e tra esse, la domenica, per un breve, annoiato riposo.
Non sai ove andare, con chi, di chi e che cosa parlare.
Pian piano trasmetti esperienze, momenti di vita e scopri destini comuni.
Rispunta la voglia: di informarsi, di unirsi per fare qualcosa.
Da qui nasce il seme, l’embrione delle prime associazioni democratiche degli Italiani nella Svizzera del dopoguerra;
è la mia storia,
La storia di migliaia di emigrati come me.
La militanza nelle Colonie Libere, nei Partiti, nati allora con il contributo dei tanti che riscoprivano in terra straniera il gusto della politica e della partecipazione.
E poi, nel sindacato, nelle associazioni regionali, negli enti di promozione e assistenza in cui l’emigrazione costruiva l’avvenire per se e per tutto un popolo.
Sono il figlio di una Italia sconfitta, ma che ha poi dato un suo incancellabile contributo al riscatto del tricolore e al progresso della democrazia repubblicana.
Uno dei figli che non si è rassegnato ad un destino cinico e bravo.
Che già nei primi anni settanta si impegnò per sconfiggere la belva xenofoba di Schwarzenbach, trovando sul suo cammino tanti confederati a cui dobbiamo essere grati per averci aiutati a sconfiggere l’isolamento e la paura.
Non solo braccia di lavoro, ma uomini e donne protagoniste del progresso della Confederazione Elvetica, protagonisti della costruzione di una società, ancora incompiuta in tanti suoi aspetti, di liberi ed eguali, di un multiculturalismo che non ha eguali in altre parti del mondo.
Da emigrati senza diritti a cittadini i cui figli e nipoti sono oggi componenti a pieno diritto della società Svizzera del nuovo millennio.
Il mio è un esempio tra tanti.
Dalla cittadina, a lambire le onde del lago Lemano in cui vivo e nel cui Consiglio siedo, sereno e orgoglioso, di rappresentare tutto il popolo, guardo ai decenni passati con tanta nostalgia e fierezza d’animo.
Ho cercato di dare, uno tra tanti.

E con me, arrivata dalla terra di Albione, ha dato, in impegno, Veronica, la cara compagna della mia vita, la madre dei miei figli, la donna che ha sopportato, condiviso e compreso il senso di una lotta, di una scelta di vita.

Oggi siamo qua, cittadini e cittadine italiani, inglesi, svizzeri, europei, coscienti di dover dare ancora un contributo per costruire quell’Unione di popoli e nazioni conviventi e solidali, verso se stessi e i tanti immigrati che bussano alla nostra porta in cerca del medesimo riscatto che fu il sogno della nostra gioventù.
Questa è, per come l’ho vissuta e la vedo, l’integrazione.
Per me un sogno realizzato: essere cittadino.
Vorrei ancora dare, per la mia famiglia e per tutti quelli che hanno bisogno.

Mario Merotto

 

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