
Mario Draghi è tornato. Questa volta, dicono, camuffato da Keynes. No, non è più quello che chiedeva austerità all’Europa e chiudeva i rubinetti della liquidità alla Grecia, per salvare le banche dal disastro finanziario di cui esse stesse portavano la responsabilità. Adesso è cambiato. Nel Rapporto che gli hanno commissionato i vertici di Bruxelles, intitolato “Il futuro della competitività europea” ci dice, infatti, che l’Europa è gravemente malata, soffre di un problema di bassa crescita, sconta ritardi sul terreno dell’innovazione tecnologica, gli indici di produttività lasciano a desiderare, la competitività arranca, i redditi delle classi popolari restano al palo. Il termine di paragone sono, inevitabilmente, gli Stati Uniti e la Cina, con i quali, negli ultimi anni, il divario, tecnologico e di crescita, si è fortemente allargato.
Sono problemi che vengono da lontano, ci tiene a sottolineare Draghi, riconoscendo nondimeno che alla base delle difficoltà attuali ci sono anche – sarebbe il caso di dire “soprattutto” – i prezzi insostenibili dell’energia. «Le aziende dell’UE – scrive – devono ancora affrontare prezzi dell’elettricità che sono 2-3 volte quelli degli Stati Uniti. I prezzi del gas naturale pagati sono 4-5 volte superiori». Bontà sua. Forse c’entra la guerra economica forsennata alla Russia che gli Usa hanno imposto ai loro “alleati”? No, Draghi-Keynes questo non lo può dire. Mica può riconoscere che la condanna dell’invasione russa dell’Ucraina non necessariamente doveva accompagnarsi alla demolizione repentina del rapporto di integrazione tra manifattura europea e materie prime energetiche provenienti dai giacimenti siberiani. Che poi, a ben vedere, proprio in quel rapporto stava la chiave di volta per un rafforzamento della competitività europea. Per produrre serve energia. Meglio se a basso costo, se si vuole essere competitivi sui mercati globali (ne sanno qualcosa alla Volkswagen, che ha annunciato 15 mila licenziamenti). Gli Usa il gas di scisto ce l’hanno a casa, mentre la Cina beneficia del gas russo a buon mercato, per il quale, per di più, nuove e più capienti infrastrutture stanno nascendo. I tubi che univano l’Europa alla Russia ora uniscono più strettamente la Russia alla Cina, spostando a oriente l’asse della crescita mondiale nel prossimo futuro.
Dunque, che fare? Qui il contributo di Draghi si fa metafisico. Dice che bisogna «colmare il divario di innovazione con gli Stati Uniti e la Cina, soprattutto nelle tecnologie avanzate», che serve un piano di decarbonizzazione per ridurre la dipendenza energetica da paesi terzi, che bisogna investire nella sicurezza, ovvero in armamenti, perché le minacce alle nostre libertà e al nostro sistema produttivo sono molto aumentate nell’ultimo periodo. Per fare tutto questo, però, non basta la buona volontà. Servono i soldi. Tanti soldi. 750-800 miliardi di euro aggiuntivi all’anno, fino al 5% del Pil dell’Unione (il Piano Marshall valeva tra l’1 e il 2% del Pil). Non ci si può affidare solo al finanziamento bancario, ammonisce Jhon-Maynard Draghi. Ci vogliono i soldi pubblici, per investimenti diretti e a garanzia del rischio per i privati. Il modello è quello del programma Next Generation EU, debito comune che avrebbe anche il pregio di uniformare i prezzi di obbligazioni societarie, derivati e altri prodotti finanziari in ambito Ue.
Tutto molto bello. Ma davvero si può pensare che nel breve periodo il problema dell’approvvigionamento energetico, e dei suoi costi, possa essere risolto con gli investimenti green? Ammesso che l’operazione riuscisse, ci vorrebbero decenni per vedere risultati apprezzabili. Evidentemente, Draghi-Keynes ha dimenticato una delle frasi più celebri di Jhon-Maynard: «Nel lungo periodo saremo tutti morti». Mentre la Cina, insieme ad altri paesi asiatici (l’India, ad esempio, che sfrutta gas e petrolio russi per la sua economia in espansione), gli stessi Stati Uniti (con qualche dubbio in più), saranno più vivi che mai. Ma poi, oggi ci sono le condizioni in Europa per fare tutto il debito di cui favoleggia Draghi? Noi eravamo rimasti ad un patto di stabilità che ha chiuso la stagione delle politiche fiscali espansive post-pandemiche. La stessa Bce è entrata in modalità orso, con la politica dei tassi restrittiva e con la dismissione del debito che ha in pancia (ereditato dal quantitative easing, di cui proprio Draghi è stato artefice). È tornata l’austerità, in pratica. Tranne che per il riarmo. Le spese per le armi non saranno computate nel calcolo del deficit. Ah, forse ci siamo. La parte più concreta, ancorata alla realtà e alle regole, del dossier Draghi pare che sia proprio quella che si riferisce alla “sicurezza”. Fino ad oggi, dice in sintesi l’ex presidente della Bce, l’ombrello americano ci ha consentito di «liberare risorse dal budget della difesa per altre priorità». Ora però le cose sono cambiate, il mondo è più instabile, crescono le minacce ai nostri confini. E gli Usa ci chiedono di prenderci le nostre responsabilità. Bisogna superare la frammentazione dell’industria bellica per fare dell’Europa, nel suo insieme, un bastione a difesa dei «valori fondamentali», che sono «la prosperità, l’equità, la libertà, la pace e la democrazia in un ambiente sostenibile». Non solo. Vi pare normale, aggiunge il nostro, che «solo per quanto riguarda l’artiglieria da 155 mm, gli Stati membri dell’UE hanno fornito all’Ucraina dieci diversi tipi di obici dalle loro scorte e alcuni sono stati persino consegnati in varianti diverse, creando gravi difficoltà logistiche alle forze armate del Paese»? È assurdo, poi, che «gli Stati membri dell’UE utilizzano dodici tipi di carri armati, mentre gli Stati Uniti ne producono solo uno». È tempo di mettere l’elmetto, insomma. Con l’economia di scala e con l’efficienza.
Ma ricapitoliamo. L’Europa non cresce e ha problemi di competitività. L’idea di Draghi non è quella di rafforzare la cooperazione a livello internazionale ma di assecondare la deriva verso un mondo dominato da poli autosufficienti dal punto di vista energetico e tecnologico, nonché armati fino ai denti. La premessa è che «l’Europa è fortemente dipendente dall’esterno per una gamma di soluzioni che vanno dalle materie prime critiche (CRM) alle tecnologie avanzate», e che «circa il 40% delle importazioni europee proviene da un numero ristretto di fornitori, difficilmente sostituibili, e circa la metà di queste importazioni giunge da Paesi con cui l’Europa non è strategicamente allineata». Siccome «molte di queste dipendenze potrebbero diventare vulnerabilità in una situazione di frammentazione del commercio lungo linee geopolitiche», non c’è altra strada che «aumentare la sicurezza e ridurre le dipendenze». Chiudersi con i propri amici, questa è la ricetta. Più che una risposta moderna ai problemi dell’Europa e del mondo, pare la proposizione di un moderno feudalesimo. Grandi signorie globali con i loro vassalli, che alzano muri e si puntano i fucili addosso. Uno scenario in cui l’Europa avrà tutto da perdere. C’è da giurarci.
P.S. Nel documento non mancano richiami all’inclusione sociale, al welfare, ai diritti. Niente di nuovo: gli stessi richiami abbondano nei trattati europei, da cui discende tutta l’impalcatura neoliberista dell’Unione.
FONTE: https://volerelaluna.it/controcanto/2024/09/20/il-ritorno-di-mario-draghi-camuffato-e-con-lelmetto/
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