n°38 –21/09/24 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Mario Ricciardi*: Il contagio della svolta autoritaria – L’attacco ai diritti Il disegno di legge «sicurezza», presentato dal governo Meloni e approvato ieri sera in prima lettura alla camera, introduce nuove misure in difesa dell’ordine pubblico che prevedono, tra l’altro, pene sproporzionate (fino a due anni di reclusione) per chi ponga in atto proteste collettive
02 – Eliana Riva *: ONU: La devastazione economica nei Territori palestinesi è sbalorditiva e senza precedenti.
03 – Andrea Fabozzi*: non c’è solidarietà umana né lealtà di coalizione dietro la sguaiata difesa che Meloni fa di Salvini, accusato di un reato assai grave, compiuto e rivendicato sotto gli occhi dell’opinione pubblica quando il capo della lega era in una stanza a palazzo Chigi e l’attuale presidente del consiglio all’opposizione.
04 – Mario Di Vito*- Musolino: «Deriva trumpiana, chi governa pretende un’immunità totale». Intervista al segretario di Magistratura democratica: «L’idea che tutto sia un complotto o una macchinazione inquina i rapporti tra le istituzioni. Alzano il livello dello scontro per cercare di imporre le loro riforme»
05 – Michele Giorgio*: GERUSALEMME – Gaza,14 pagine di neonati uccisi. Bibi ora punta il Libano.
Striscia di Gaza Il ministero della sanità palestinese ha pubblicato i nomi di 34mila morti identificati. Uccisi ieri a Gaza altri 20 palestinesi. Cinque sono stati fatti a pezzi da una bomba mentre erano in fila davanti a una panetteria nell’«area sicura» di Mawasi

 

 

01 – Mario Ricciardi*: Il contagio della svolta autoritaria – L’attacco ai diritti Il disegno di legge «sicurezza», presentato dal governo Meloni e approvato ieri sera in prima lettura alla camera, introduce nuove misure in difesa dell’ordine pubblico che prevedono, tra l’altro, pene sproporzionate (fino a due anni di reclusione) per chi ponga in atto proteste collettive.

Le immagini dell’incontro di Starmer e Meloni a Roma hanno provocato reazioni vivaci nel Regno unito. Le associazioni che si battono per la tutela dei diritti umani, diversi esponenti della sinistra e anche alcuni parlamentari laburisti hanno manifestato il proprio dissenso.
Per un’iniziativa politica che allinea l’attuale governo britannico alle posizioni della destra italiana in materia di immigrazione. La domanda che molti si pongono è cosa abbia da imparare un partito della sinistra riformista da una forza che affonda le proprie radici (orgogliosamente rivendicate) nel neofascismo. Purtroppo, quello delle politiche in materia di migrazioni non è l’unico tema sul quale tale allineamento si sta palesando in questi mesi. Un altro è quello della libertà di espressione del dissenso, anche quando esso si manifesti attraverso forme di disobbedienza civile.
Il disegno di legge «sicurezza», presentato dal governo Meloni e approvato ieri sera in prima lettura alla camera, introduce nuove misure in difesa dell’ordine pubblico che prevedono, tra l’altro, pene sproporzionate (fino a due anni di reclusione) per chi ponga in atto proteste collettive che comportano l’interruzione della circolazione ferroviaria. La misura è pensata per reprimere le proteste degli ambientalisti, ma potrebbe in futuro essere utilizzata anche per colpire iniziative di altro genere, come quelle in difesa dei diritti umani dei palestinesi, o a favore della pace. Vale la pena di ricordare che a luglio un processo che riguardava alcuni attivisti dell’associazione ambientalista Just Stop Oil che avevano interrotto la circolazione su un’autostrada si è concluso in Uk con condanne pesantissime, provocando le reazioni indignate di diversi giuristi, oltre che delle associazioni ambientaliste e di quelle in difesa dei diritti umani. La magistratura britannica è indipendente dal governo, ma Starmer (che pure in passato è stato un avvocato impegnato nella difesa dei diritti umani) ha lasciato intendere che questa risposta repressiva non sarà rivista dal governo (che ha a disposizione sia strumenti per intervenire sull’esecuzione della pena sia la possibilità di legiferare in materia).
L’uso repressivo e intimidatorio della forza è stato di recente massiccio non solo in Uk (dove per fortuna la polizia si è astenuta dagli eccessi, e l’opinione pubblica ha fatto sentire la propria voce in difesa del diritto di manifestare), ma anche in altri Paesi che si vantano di essere democrazie liberali, come gli Stati uniti, la Francia e la Germania.
Alla repressione legale si è affiancata, rafforzandola, una notevole pressione informale, ma non per questo priva di efficacia, da parte di privati, individui e istituzioni (tra cui imprese e università), che hanno utilizzato vari strumenti per intimidire, delegittimare e reprimere il dissenso. Oggi chi aderisce a una manifestazione di protesta in questi paesi, può andare incontro a conseguenze serie sul piano personale, che in alcuni casi possono arrivare fino alla perdita del posto di lavoro o a pesanti discriminazioni.
Chi ha a cuore la libertà, indipendentemente dal fatto che condivida o meno le motivazioni e l’opportunità delle proteste, non può che essere preoccupato da questa svolta autoritaria che corre il rischio di mettere in discussione, e in prospettiva di erodere, le condizioni per l’esercizio del diritto manifestare il proprio dissenso in modo pacifico, anche quando questo comporti la momentanea violazione di leggi che tutelano la proprietà privata o la libera circolazione.
Che a adottare queste misure contro il dissenso siano governi sedicenti liberali o riformisti è un ulteriore segnale preoccupante. Quando le idee non convincono, e il consenso traballa, la forza può apparire l’ultimo rimedio per difendere il proprio potere, ma questa reazione, come è già accaduto in passato, ottiene il più delle volte soltanto il risultato di legittimare ulteriormente la destra più estrema. Lo abbiamo visto negli anni Trenta in Europa, e negli Stati uniti nel secondo dopoguerra. Un grande liberale, John Rawls, ha scritto che la disobbedienza civile è un messaggio di allarme che una minoranza lancia alla maggioranza. In gioco, non c’è l’interesse personale dei manifestanti, che anzi mettono il proprio corpo in prima linea, esponendosi al manganello o alla galera, ma la difesa di principi di giustizia politica riconosciuti dalle costituzioni democratiche. In gioco non è solo la libertà di alcuni, ma quella di tutti.
*( Mario Ricciardi. insegna Filosofia del diritto presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e Teoria generale del diritto presso l’Università Statale di Milano)

 

 

02 – ELIANA RIVA *: ONU: LA DEVASTAZIONE ECONOMICA NEI TERRITORI PALESTINESI È SBALORDITIVA E SENZA PRECEDENTI.

PAGINE ESTERI, 13 SETTEMBRE 2024. LA PORTATA DELLA DEVASTAZIONE ECONOMICA NEI TERRITORI OCCUPATI PALESTINESI È “SBALORDITIVA”. IL DECLINO SENZA PRECEDENTI SUPERA LUNGAMENTE TUTTE LE PRECEDENTI OPERAZIONI MILITARI SU GAZA: SIA QUELLA DEL 2018 CHE DEL 2012, SIA L’ATTACCO DEL 2014 CHE QUELLO DEL 2021. SOLO PER CITARE GLI ULTIMI.

La Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD) ha rilasciato giovedì 12 settembre un rapporto sullo stato dell’economia a Gaza e in Cisgiordania. Lo scenario è catastrofico. “L’economia palestinese è in caduta libera” ha dichiarato in conferenza stampa il vicesegretario dell’UNCTAD, Pedro Manuel Moreno. 201.000 posti di lavoro sono stati persi a Gaza e 306.000 in Cisgiordania dal 7 ottobre 2023 alla fine di gennaio 2024. Due terzi dei lavoratori della Striscia sono rimasti senza un impiego. Nella West Bank il tasso di disoccupazione è passato dal 12,9 pre-7 ottobre al 32%.

All’inizio di gennaio 2024 gli attacchi israeliani avevano distrutto tra l’80 e il 96% delle risorse agricole della Striscia di Gaza. I bombardamenti hanno colpito anche il settore privato, danneggiando e devastando l’82% delle imprese. L’Onu ha rivelato che “A metà del 2024 l’economia di Gaza si era ridotta a meno di un sesto del suo livello 2022”. Il Prodotto interno lordo della Striscia è crollato dell’81% nell’ultimo trimestre del 2023.

Intanto, in Cisgiordania “un’ondata di violenza, demolizione di beni palestinesi, confische ed espansione di insediamenti” ha danneggiato enormemente l’economia. Il rapporto ONU evidenzia che “L’impatto combinato dell’operazione militare a Gaza e le sue ripercussioni in Cisgiordania hanno prodotto uno shock senza precedenti che ha sopraffatto l’economia palestinese in tutto il territorio occupato”.

A Gerusalemme Est i trasporti, il turismo e il commercio sono stati pesantemente danneggiati e l’80% delle imprese nella Città Vecchia ha ridimensionato o chiuso le proprie attività. In tutta la Cisgiordania il 96% delle imprese hanno diminuito le proprie attività, soprattutto a causa delle restrizioni negli spostamenti. Già prima dell’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre i posti di blocco, gli ordini di chiusura, i checkpoint limitavano fortemente il commercio. Dall’inizio della guerra i posti di blocco si sono moltiplicati, da 567 sono divenuti 700 a febbraio 2024. L’ampliamento delle colonie e la conseguente occupazione delle proprietà palestinesi ha diminuito le capacità imprenditoriali, l’ondata di arresti ha sottratto manodopera, soprattutto maschile, ad attività spesso di tipo familiare, i raid dell’esercito hanno causato enormi danni economici nei più grandi campi profughi. In Cisgiordania sono stati uccisi, dal 7 ottobre 2023, 662 palestinesi secondo il Ministero della Salute. Circa 30 gli Israeliani uccisi da attacchi palestinesi fuori da Gaza secondo le fonti israeliane.

“La stabilità fiscale del governo palestinese è sottoposta a un’immensa pressione, mettendo a repentaglio la sua capacità di funzionare efficacemente e fornire servizi essenziali”. Insieme alla diminuzione degli aiuti internazionali, secondo il report dell’organismo delle Nazioni Unite, le detrazioni e le trattenute da parte israeliana sui fondi dell’Autorità Palestinese sono il problema maggiore. L’ONU afferma che tali “trattenute”, ossia una sorta di dazio, una percentuale che il governo di Tel Aviv sceglie di tenere per sé dai soldi destinati al governo palestinese, sono aumentate dal 7 ottobre. Il Ministro israeliano delle finanze, Bezalel Smotrich, ha dichiarato a giugno di aver trasferito circa 130 milioni di NIS (35 milioni di dollari) di fondi fiscali dell’Autorità palestinese alle vittime degli attacchi di Hamas del 7 ottobre, accusando l’ANP di sostenere il terrorismo. Accusa che i vertici dell’Autorità hanno rigettato. Ad agosto, sempre Smotrich ha fatto sapere di aver sequestrato circa 100 milioni di NIS (26 milioni di dollari) destinati a Ramallah. Tra il 2019 ad aprile 2024 Israele ha sottratto dai fondi destinati al governo palestinese 1,4 miliardi di dollari, con un aumento significativo dopo il 7 ottobre: “Queste sfide fiscali hanno ostacolato la capacità del governo di pagare i dipendenti, i debiti di servizio e mantenere i servizi pubblici fondamentali come l’assistenza sanitaria e l’istruzione. La situazione ha anche portato a un indebitamento crescente, a ritardi dei pagamenti ai fornitori privati e a una riduzione dei trasferimenti sociali ai poveri. I dipendenti pubblici hanno ricevuto solo stipendi parziali da novembre 2021”.
L’UNCTAD ha chiesto alla comunità internazionale di intervenire immediatamente per fermare la caduta libera dell’economia e affrontare la crisi umanitaria, attraverso la realizzazione di un piano di recupero globale per i Territori palestinesi occupati e l’aumento degli aiuti. Fondamentale, per le Nazioni Unite, riconsegnare al governo palestinese i fondi trattenuti da Israele e, come già più volte richiesto dal segretario generale, interrompere il blocco su Gaza. Pagine Esteri
*( Eliana Riva. Giornalista)

 

 

03 – Andrea Fabozzi*: NON C’È SOLIDARIETÀ UMANA NÉ LEALTÀ DI COALIZIONE DIETRO LA SGUAIATA DIFESA CHE MELONI FA DI SALVINI, ACCUSATO DI UN REATO ASSAI GRAVE, COMPIUTO E RIVENDICATO SOTTO GLI OCCHI DELL’OPINIONE PUBBLICA QUANDO IL CAPO DELLA LEGA ERA IN UNA STANZA A PALAZZO CHIGI E L’ATTUALE PRESIDENTE DEL CONSIGLIO ALL’OPPOSIZIONE.

Ogni giorno e in ogni occasione possibile, che si tratti di nomine o scelte politiche importanti, i due si danno infatti battaglia in una perenne campagna elettorale all’interno dello stesso bacino di consenso.
Sono altre le ragioni che spingono la presidente del Consiglio a stracciare ancora una volta quella veste istituzionale che proprio non le si adatta. Innanzitutto la condivisione che i migranti vanno intesi prima di tutto come carne da propaganda, una minaccia che non esiste sul piano della realtà ma che funziona benissimo, ha sempre funzionato, in campagna elettorale. Poi c’è il disprezzo per qualsiasi cosa possa anche solo alludere alla separazione dei poteri.
Nel momento in cui la premier disegna un’architettura istituzionale centrata sul potere assoluto di un’eletta dal popolo è del tutto coerente che ribadisca come nessun controllo di legalità potrà mai essere tollerato. E infine c’è la conferma dell’unica “politica” che questa destra è in grado di immaginare di fronte a un fenomeno come quello delle migrazioni che nessuna mitragliata di decreti sempre meno costituzionali è in grado di affrontare seriamente.
La “politica” della paura che se vale per gli elettori in patria deve valere anche per chi si mette in viaggio per sopravvivere: meglio che non ci tentiate.
La presidente del Consiglio che qualche anno fa suggeriva di sparare dall’alto sui barconi, il cui ministro dell’interno non si è fatto scrupolo di dare la colpa delle morti nelle traversate agli stessi morti, vede chiaramente nella ferocia di Salvini che ai tempi del primo governo Conte lasciava i migranti in una prolungata condizione di sofferenza la ragionevole anticipazione delle sue deportazioni in Albania. Meglio che non ci tentiate.
Crudele, ma anche inefficace. Così come non basta un video fuori da ogni grammatica istituzionale e dai toni allucinati ad allontanare il rischio di una condanna per il vice presidente del Consiglio. Che è tutt’altro da escludere e che sarebbe un’ulteriore problema per il governo. Qui il discorso deve però allargarsi. Perché se mettiamo in fila i nomi che raccontano tutti i guai della destra al potere, Salvini è solo l’ultimo.
Prima ci sono quelli di Sangiuliano, Lollobrigida, Delmastro, Toti, Santanchè e sicuramente dimentichiamo qualcuno.
Nessuno di questi nomi parla di un’iniziativa dell’opposizione per mettere in difficoltà l’altra parte. La destra si fa male da sola, spesso semplicemente essendo se stessa. Anche perché il centrosinistra non tocca palla, ancora in attesa di definirsi dopo il suicidio elettorale, dal quale però sono passati ormai due anni. Tanto da non escludere in alcune sue componenti, dopo la riapparizione di Draghi, nemmeno la speranza di un nuovo colpo di palazzo con un non nuovo protagonista.
Nel frattempo l’opposizione si limita ad assistere allo spettacolo dei disastri altrui. Spettacolo orrendo, ma che può persino peggiorare e non è detto duri poco.
*( Andrea Fabozzi, Direttore de Il Manifesto)

 

 

04 – Mario Di Vito*- MUSOLINO: «DERIVA TRUMPIANA, CHI GOVERNA PRETENDE UN’IMMUNITÀ TOTALE» – INTERVISTA AL SEGRETARIO DI MAGISTRATURA DEMOCRATICA: «L’IDEA CHE TUTTO SIA UN COMPLOTTO O UNA MACCHINAZIONE INQUINA I RAPPORTI TRA LE ISTITUZIONI. ALZANO IL LIVELLO DELLO SCONTRO PER CERCARE DI IMPORRE LE LORO RIFORME»

La richiesta di condanna a sei anni nei confronti di Matteo Salvini per la vicenda Open Arms riapre, ancora una volta, il romanzone dello scontro tra forze politiche e magistratura, grande classico del dibattito pubblico italiano da almeno un trentennio a questa parte.
Stefano Musolino, procuratore aggiunto a Reggio Calabria e segretario di Magistratura Democratica, nel weekend dal governo sono arrivati tuoni e fulmini contro la magistratura: hanno parlato tutti, da Meloni in giù e i toni sono quelli dello scontro totale…
La reazione di Salvini, e ovviamente anche quelle del resto del governo, mi sembrano una sorta di influenza trumpiana sulla politica italiana. Il vicepremier, forse più degli altri, interpreta un po’ questo riflesso. È come se mancasse completamente la percezione della differenza tra ruolo istituzionale e vicende personali.
Il risultato è, appunto, un attacco sempre più diretto ai magistrati. Nel merito, però, la vicenda appare piuttosto chiara: la requisitoria contro Salvini ha ricostruito con una certa precisione quanto accaduto nell’estate del 2019.
Prima di tutto bisogna dire che siamo alla richiesta di condanna, non alla sentenza. In ogni caso, le reazioni di questi giorni sembrano quasi voler dire che quel processo non si doveva proprio fare, come se qualsiasi pronunciamento al di fuori dell’assoluzione fosse inaccettabile. Ma la cosa più incredibile di tutte è un’altra.

Quale?
C’è un tentativo di assimilarsi alla voce del popolo, quando in realtà un vicepremier è evidentemente in una posizione privilegiata rispetto a tantissimi altri. Mi spiego: ci sono molti imputati che si lamentano perché ritengono di aver subito una condanna troppo pesante o perché proprio ritengono di non dover rispondere di alcunché. Va bene, ma tutti debbono sottostare al processo. Nel caso di Salvini invece ci si pone al di sopra delle leggi e si pretende una sorta di immunità assoluta. Alla contestazione di fatti precisi si risponde come se fosse lesa maestà.

Processi, scandali, teorie del complotto, addirittura gossip. Ogni settimana ne arriva una nuova. Non le sembra che questo governo soffra di sindrome dell’accerchiamento?
L’idea che tutto sia un complotto o una macchinazione inquina i rapporti tra le istituzioni. La verità è che discorsi di questo tipo servono solo a distogliere l’attenzione dai problemi reali del paese, concentrandosi invece su questioni che riguardano gli interessi di pochissimi.

In questo clima di scontro, le sembra che l’Anm stia facendo abbastanza? Le risposte alle dichiarazioni del governo certo non mancano, ma non si vedono iniziative più, diciamo, concrete.
È un periodo in cui nel paese, anche per effetto dei ripetuti attacchi sistematici che vediamo ogni giorno, la magistratura non gode dei favori dell’opinione pubblica. Mi pare chiaro che da parte del governo ci sia un tentativo di alzare il livello dello scontro per portare avanti con maggiore facilità le riforme di cui tanto parlano. L’obiettivo finale è deformare i rapporti istituzionali. Soprattutto contro la magistratura e contro i diritti dei più deboli.
Di battaglie tra toghe e politica ne abbiamo viste parecchie. Rispetto al passato come giudica questa fase?
Probabilmente è una delle fasi peggiori di sempre, proprio perché c’è stato un lungo lavoro di logoramento dell’immagine della magistratura, che ora è più debole rispetto al passato e viene vista come una parte come un’altra all’interno dell’agone politico. Intendiamoci, questo è avvenuto anche per colpe proprie, ma dobbiamo ricordarci che l’attacco alla magistratura è un attacco ai diritti di tutti.

*(Mario Di Vito – Cronista politico, si occupa per lo più di giustizia e ingiustizia. Ha scritto alcuni libri, l’ultimo è “La pista anarchica” (Editori Laterza)

 

 

05 – Michele Giorgio*: GERUSALEMME/Gaza:14 PAGINE DI NEONATI UCCISI. BIBI ORA PUNTA IL LIBANO – STRISCIA DI GAZA IL MINISTERO DELLA SANITÀ PALESTINESE HA PUBBLICATO I NOMI DI 34MILA MORTI IDENTIFICATI. UCCISI IERI A GAZA ALTRI 20 PALESTINESI. CINQUE SONO STATI FATTI A PEZZI DA UNA BOMBA MENTRE ERANO IN FILA DAVANTI A UNA PANETTERIA NELL’«AREA SICURA» DI MAWASI

Mentre Benyamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant dicevano ieri all’inviato Usa Amos Hochstein che solo un conflitto totale in Libano «riporterà nelle loro case gli sfollati» dall’Alta Galilea, l’offensiva israeliana che da quasi un anno devasta Gaza continua ogni giorno, senza eccezioni, a uccidere palestinesi. Almeno altri 20 ieri, a sud come a nord della Striscia, in prevalenza civili colpiti in campi di tende e abitazioni: cinque sono stati fatti a pezzi da una bomba mentre erano in fila davanti a una panetteria nel campo Al Sumud nell’«area sicura» di Mawasi. Non si sa se queste vittime saranno identificate tutte subito, andando ad aggiungersi alle oltre 30mila, sulle 41.226 in totale dal 7 ottobre, che sono state riconosciute ufficialmente e hanno un nome e un cognome.

Due giorni fa il ministero della Salute di Gaza ha pubblicato un documento di 649 pagine in cui vengono forniti nome, età, sesso e numero della carta di identità di 34mila palestinesi uccisi dalle forze israeliane. Le prime 14 pagine del documento sono agghiaccianti. Contengono i nomi dei bambini che avevano meno di un anno quando sono morti nei bombardamenti israeliani. I minori uccisi sono 11.355, un terzo del totale dei morti. 13.737 sono gli uomini, con un’età compresa tra i 18 e i 30 anni, in parte combattenti di Hamas e di altri gruppi armati palestinesi, tutti gli altri sono civili. Ottobre 2023 è stato il mese più mortale per i bambini e le donne palestinesi. Tuttavia, il numero effettivo dei deceduti con ogni probabilità è più alto anche del totale degli uccisi identificati e da identificare: sotto le macerie di edifici e case, ci sarebbero i corpi di almeno 10mila palestinesi dispersi. Sono invece circa 1.600 i soldati e i civili israeliani uccisi il 7 ottobre e negli 11 mesi successivi.

Un bagno di sangue che include anche la Cisgiordania occupata (centinaia i palestinesi uccisi) e che per starebbe per allargarsi al Libano. Ieri Hochstein, l’inviato di Biden, ha ripetuto agli israeliani che un conflitto più ampio contro Hezbollah – che lancia attacchi contro Israele in sostegno dei palestinesi – non aiuterà gli sfollati a tornare a casa. Una possibilità che non spaventa Benyamin Netanyahu, anzi il premier israeliano appare deciso ad aprire un nuovo fronte di guerra. I 60.000 israeliani evacuati dal nord, ha detto Netanyahu a Hochstein giunto ieri a Tel Aviv, «non potranno tornare alle loro case senza un cambiamento fondamentale nella situazione della sicurezza» nelle zone di confine con il Libano. «Israele – ha avvertito il primo ministro – apprezza e rispetta il sostegno degli Stati uniti, ma alla fine farà ciò che è necessario per mantenere la sua sicurezza». Una dichiarazione di guerra indiretta che potrebbe materializzarsi nel giro di qualche giorno, malgrado la presunta opposizione alla guerra, almeno in questa fase del ministro della Difesa Yoav Gallant, contrario a disperdere le forze armate su più fronti. In realtà anche Gallant punta alla guerra, ma non subito. Secondo un comunicato del ministro della Difesa diffuso dopo il faccia a faccia con Hochstein, Gallant ha sottolineato che la possibilità di un accordo con Hezbollah si sta esaurendo poiché il movimento sciita continua a «legarsi» a Hamas.

Paradossalmente proprio l’uscita di scena di Gallant darebbe inizio del conflitto. Liberandosi del «dubbioso» ministro della Difesa e sostituendolo con Gideon Saar, un ex rivale divenuto di recente suo alleato, Netanyahu avrebbe la strada spianata per l’attacco in Libano. Saar è noto per il suo sostegno alla «vittoria totale» contro Hamas a Gaza e per un attacco massiccio in Libano. Le sue posizioni spaventano persino le famiglie degli ostaggi israeliani: la sua nomina, dicono, significherebbe l’addio definitivo alla possibilità di un accordo con Hamas per uno scambio di prigionieri. Netanyahu comunque ieri ha negato di voler sostituire Gallant.

Gli esperti militari affermano che Israele ha raccolto in questi mesi «informazioni di intelligence fondamentali» ed è pronto a lanciare un attacco dal cielo a sorpresa in Libano per neutralizzare buona parte dei sistemi di lanci di razzi e missili di Hezbollah. Se ciò non spingerà il movimento sciita ad arretrare i suoi uomini e avrà inizio una pioggia di razzi, droni e missili contro obiettivi in Israele (inclusa Tel Aviv), scatterà l’offensiva di terra e una nuova occupazione del Libano del sud, 24 anni dopo il ritiro israeliano dal paese dei cedri.

Hezbollah non si lascia intimidire e anche ieri ha rivendicato attacchi contro postazioni militari israeliane in Alta Galilea, in rappresaglia per i sanguinosi raid israeliani nei quali sono morti non solo combattenti ma anche civili, tra cui un bambino. L’influente deputato di Hezbollah, Hussein Hajj Hasan, ha ribadito che la sua organizzazione cesserà i lanci di razzi e droni quando Israele metterà fine alla sua offensiva a Gaza. «Il nostro obiettivo è chiaro ed è evidente a tutti: impedire al nemico di vincere e aiutare la resistenza a Gaza a ottenere la vittoria» ha detto.

Netanyahu fa la voce grossa anche con i combattenti Houthi. Domenica ha avvertito non mancherà di rispondere al lancio di un missile balistico dallo Yemen verso il centro di Israele, caduto a soli 35 chilometri dall’aeroporto internazionale Ben Gurion. Lo scorso luglio, dopo l’uccisione di un israeliano a Tel Aviv causata da un drone degli Houthi, l’aviazione israeliana bombardò massicciamente il porto yemenita di Hodeida causando gravi danni e numerose vittime.

 

 

 

 

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