N°21 – 25/5/24 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALE ED INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Emiliano Brancaccio*: Le ricette «austere» che la sinistra non rinnega – Fondo Monetario. Se avevamo ancora dubbi possiamo adesso fugarli tutti: la dottrina dell’austerity sta tornando alla ribalta. Approvato dal governo italiano dei sovranisti redenti, il nuovo Regolamento Ue annuncia una nuova epoca di restrizioni di bilancio.
02 – Luca Kocci*: Autonomia differenziata, la scomunica Cei – RIFORME. La Conferenza episcopale italiana diffonde una nota per bocciare senza appello il ddl Calderoli: «Timori soprattutto per la sanità». «Diritti civili e sociali vanno garantiti in maniera uniforme». Destre stizzite
03 – Luca Tancredi Barone*: Katz furioso per il riconoscimento, Cisgiordania interdetta alla Spagna – SCONTRO ISRAELE – SPAGNA. Yolanda Díaz celebra la scelta con «Palestina libera dal fiume al mare». Apriti cielo.
04 – Ostruzionismo e divisioni a destra frenano la forzatura pre-elettorale – PREMIERATO. Tempi ristretti ma voto dopo le europee. Sergio Mattarella: «Questa non è solo la Costituzione del passato, ma anche quella del futuro»
05 – L’incidenza dei voti di fiducia è ancora molto alta. Governo e parlamento. I dati però dicono che l’attuale esecutivo mantiene il più alto rapporto tra voti di fiducia e leggi approvate delle ultime 4 legislature.
06 – Massimo Villone*: Autonomia, presto la Repubblica rischierà grosso . BASTA UN VOTO. Si sono levate voci autorevoli contro lo stravolgimento della Costituzione. Da Asti, Sergio Mattarella ci ricorda le parole di Giovanni Goria sulla modernità di una Costituzione che è il «nostro […]
07 – Murat Cinar*: Mille settimane da Madri del sabato a Istanbul. UNA LUNGA LOTTA. In Turchia come in Argentina, cercano i propri famigliari fatti sparire dallo Stato per le loro idee. E come ogni settimana, dal 1995, anche oggi sfideranno la polizia con il loro millesimo presidio
08 – Lelio La Porta*: il materialismo storico, tra invettiva e citazione – scaffale. Per le edizioni quodlibet, «retorica e polemica nel capitale di Marx», un saggio di Elisabetta Mengaldo

 

 

01 – Emiliano Brancaccio*: LE RICETTE «AUSTERE» CHE LA SINISTRA NON RINNEGA – FONDO MONETARIO. SE AVEVAMO ANCORA DUBBI POSSIAMO ADESSO FUGARLI TUTTI: LA DOTTRINA DELL’AUSTERITY STA TORNANDO ALLA RIBALTA. APPROVATO DAL GOVERNO ITALIANO DEI SOVRANISTI REDENTI, IL NUOVO REGOLAMENTO UE ANNUNCIA UNA NUOVA EPOCA DI RESTRIZIONI DI BILANCIO.

SE AVEVAMO ANCORA DUBBI POSSIAMO ADESSO FUGARLI TUTTI: LA DOTTRINA DELL’AUSTERITY STA TORNANDO ALLA RIBALTA.
APPROVATO DAL GOVERNO ITALIANO DEI SOVRANISTI REDENTI, IL NUOVO REGOLAMENTO UE ANNUNCIA UNA NUOVA EPOCA DI RESTRIZIONI DI BILANCIO.
E l’ultimo rapporto del Fondo monetario internazionale dedicato all’Italia va persino oltre. La tesi da cui partono gli economisti di Washington è la solita: il nostro debito pubblico è troppo alto e dobbiamo ridurlo tagliando il bilancio statale.
La proposta per diminuire il debito è che entro due anni lo Stato crei un eccesso di entrate fiscali rispetto alla spesa pubblica al netto degli interessi pari a tre punti percentuali di Pil. Ossia, il Fmi invoca una stretta progressiva nell’ordine di una sessantina di miliardi. L’invito, senza tante cerimonie, è a rituffarci nel vecchio mare tempestoso delle lacrime e del sangue.
Alcuni avversari del governo Meloni hanno colto l’occasione per rimettere in funzione una vecchia grancassa: c’è una destra scriteriata che sfascia i conti pubblici, spaventa i mercati e finirà per alzare il famigerato spread, cioè lo scarto fra i tassi d’interesse italiani rispetto a quelli tedeschi. Questa destra andrebbe allora sostituita da una maggioranza di governo responsabile, che rimetta in ordine le casse statali prima che sia tardi.
La pensano così i vari nostalgici dei governi guidati dagli ottimati: da Ciampi, a Monti, a Draghi. Per questi apologeti di una nuova tecnocrazia dei «conti in ordine», i partiti che ancora cercano di intercettare il consenso delle lavoratrici e dei lavoratori dovrebbero rassegnarsi al solito ruolo di portatori d’acqua. Torna così ad essere invocata una quaresimale «sinistra spread»: ancora una volta disposta a immolarsi sull’altare della cosiddetta «responsabilità» di bilancio. Con effetti notoriamente disastrosi in termini di consenso.
Ma quali sarebbero le basi scientifiche di questa nuova e auspicata svolta verso l’austerity? La risposta è che non esistono. Ce lo spiega, paradossalmente, proprio il Fmi. Nel World Economic Outlook dell’aprile 2023 sono riportati gli esiti di un’indagine sui programmi di riduzione del debito intrapresi da 54 nazioni tra il 1980 e il 2019. Ebbene, il Fmi ammette che in media i programmi basati sull’austerity «non portano a un effetto statisticamente significativo sul rapporto debito/Pil». L’indagine segnala pure che in vari casi il rapporto debito/Pil è migliorato con le politiche espansive, cioè l’esatto opposto dell’austerity.
Un tale risultato non costituisce una novità. La ricerca scientifica prevalente ha assodato che le politiche di austerity non aiutano a contenere il rapporto tra debito e Pil ma al contrario creano recessione, abbattono il Pil e pertanto rischiano di aumentare quello stesso rapporto. L’evidenza empirica insegna che per ridurre efficacemente il debito bisogna agire diversamente: soprattutto con un’azione forte della banca centrale per tenere i tassi d’interesse a livelli bassi, stabilmente inferiori ai tassi di crescita del Pil.
Un esempio lampante è rappresentato proprio dall’Italia. Per quasi un trentennio i vari governi nazionali hanno attuato politiche di austerity record, persino più rigide di quelle adottate in Germania. L’effetto è consistito in un andamento del Pil italiano peggiore rispetto alla media UE, con il risultato che il rapporto tra debito e Pil non è affatto diminuito. Anzi, sotto il governo Monti, “austerico” per eccellenza, il debito è pure aumentato. Le uniche fasi in cui la riduzione del debito è avvenuta sono quelle in cui la banca centrale ha spinto i tassi d’interesse sotto la crescita del Pil.
Emerge così una tipica contraddizione di questi tempi turbolenti. Pur tra mille imbarazzi, le grandi istituzioni economiche internazionali insistono nel propugnare ricette smentite dalle loro stesse ricerche scientifiche.
Gareggiare con Meloni e soci a chi sia il più bravo scolaro nell’applicare l’austerity suggerita dalle istituzioni internazionali è dunque insensato sul piano scientifico e stupido sul terreno politico.
La vera onta della destra di governo è che sta spostando spesa pubblica a favore di imprenditori decotti, faccendieri della finanza e monopolisti vari, e al contempo sta allentando la presa su inquinatori ed evasori.
La battaglia di una sinistra degna di questo nome dovrebbe allora riguardare la composizione del bilancio pubblico, non il suo saldo totale. La «sinistra spread» sia lasciata nello sgabuzzino dei fallimenti della storia.

 

02 – Luca Kocci*: AUTONOMIA DIFFERENZIATA, LA SCOMUNICA CEI – RIFORME. LA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA DIFFONDE UNA NOTA PER BOCCIARE SENZA APPELLO IL DDL CALDEROLI: «TIMORI SOPRATTUTTO PER LA SANITÀ». «DIRITTI CIVILI E SOCIALI VANNO GARANTITI IN MANIERA UNIFORME». DESTRE STIZZITE
I vescovi bocciano senza appello il disegno di legge per l’autonomia differenziata: aumenta gli squilibri territoriali, distrugge la solidarietà, mette a rischio l’unità nazionale. Il cardinale presidente della Conferenza episcopale italiana, Matteo Zuppi, l’aveva anticipato giovedì al termine dell’assemblea generale della Cei, e ieri è stata diffusa la nota del Consiglio episcopale permanente con cui l’esecutivo dei vescovi afferma che questa autonomia non s’ha da fare.
«CI PREOCCUPA QUALSIASI tentativo di accentuare gli squilibri già esistenti tra territori, tra aree metropolitane e interne, tra centri e periferie. In questo senso – si legge nella nota – il progetto di legge con cui vengono precisate le condizioni per l’attivazione dell’autonomia differenziata rischia di minare le basi di quel vincolo di solidarietà tra le diverse Regioni che è presidio al principio di unità della Repubblica». A farne le spese, secondo i vescovi, sarebbero le persone in difficoltà, soprattutto a causa dell’ulteriore indebolimento del Sistema sanitario nazionale. Un rischio che «non può essere sottovalutato, in particolare alla luce delle disuguaglianze già esistenti, specialmente nel campo della tutela della salute, cui è dedicata larga parte delle risorse spettanti alle Regioni e che suscita apprensione in quanto inadeguata alle attese dei cittadini sia per i tempi sia per le modalità di erogazione dei servizi».
Il sistema delle autonomie e il principio di sussidiarietà – capisaldi della dottrina sociale della Chiesa – devono tener conto «dell’effettiva definizione dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali» che vanno «garantiti in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale». Aspetti che invece l’autonomia differenziata mette a rischio. Per questo i vescovi rivolgono un appello alla politica affinché «si incrementino meccanismi di sviluppo, controllo e giustizia sociale per tutti e per ciascuno», poiché «non c’è sviluppo senza solidarietà, attenzione agli ultimi, valorizzazione delle differenze e corresponsabilità nella promozione del bene comune».

STIZZITE LE REAZIONI della destra di governo, che fatica a trovare una sintonia con la Cei di Zuppi. «Da tutti ci si poteva aspettare un pregiudizio politico e spiace che l’abbia assunto la Cei, peraltro a pochi giorni dal voto», commenta il “padre” dell’autonomia differenziata, Roberto Calderoli, ministro leghista per gli Affari regionali, che rimprovera ai vescovi di aver rifiutato qualsiasi confronto con l’esecutivo. Quella della Cei è una valutazione «politicamente sbagliata», aggiunge il capogruppo dei senatori di Fdi Lucio Malan. «Non penso che l’autonomia differenziata metta in discussione il principio di solidarietà né metta in difficoltà le Regioni con un’economia meno fiorente», «abbiamo approvato diversi emendamenti che lo impediscono». Dopodiché, concede Malan, «ciascuno fa le valutazioni che ritiene».
PER MAURIZIO GASPARRI si tratta di una nota a orologeria, alla vigilia delle elezioni. «Rispettiamo tutto, anche se la tempistica mi pare strana, ma ne parlerò direttamente con gli esponenti della Cei, con i quali abbiamo una felice interlocuzione, io sono anche cattolico praticante», afferma il capogruppo di Forza Italia al Senato. Che poi cambia bersaglio: i vescovi «hanno fatto un comunicato contro il prete che ha definito criminale Piantedosi?». Gasparri ce l’ha con don Angelo Cassano, prete di frontiera e referente di Libera in Puglia che in una manifestazione a Bari ha attaccato il ministro dell’Interno per le politiche contro i migranti e i morti nel Mediterraneo. «Ho chiesto a Zuppi una presa di posizione pubblica nei confronti di don Cassano, mi dispiace che non l’abbia fatto». Evidentemente quando si è a corto di argomenti l’unica possibilità è quella di “buttarla in caciara”.
*(Fonte: Il Manifesto. Luca Kocci insegna Italiano e Storia nelle scuole superiori a Roma, scrive su il manifesto e Adista)

 

03 – Luca Tancredi Barone*: KATZ FURIOSO PER IL RICONOSCIMENTO, CISGIORDANIA INTERDETTA ALLA SPAGNA – SCONTRO ISRAELE – SPAGNA. YOLANDA DÍAZ CELEBRA LA SCELTA CON «PALESTINA LIBERA DAL FIUME AL MARE». APRITI CIELO

La risposta di Israele a quello che il suo ministro degli esteri Israel Katz vede come «un premio al terrorismo», e cioè l’annuncio che martedì la Spagna riconoscerà lo stato palestinese, non si è fatta attendere.
In un duro messaggio in ebraico, inglese e spagnolo, Katz ha annunciato su X che ha «deciso di tagliare la connessione tra la rappresentazione diplomatica spagnola in Israele e i palestinesi, e di proibire al consolato spagnolo a Gerusalemme di prestare servizio ai palestinesi in Giudea e Samaria», e cioè il territorio che il resto del mondo chiama Cisgiordania.
A fare infuriare particolarmente Katz, oltre all’annuncio di Pedro Sánchez che martedì il Consiglio dei ministri darà il passo del riconoscimento che promette da tempo e che ha coordinato con la Norvegia e l’Irlanda, è stato un messaggio della vicepresidente del governo, Yolanda Díaz, leader di Sumar. Nel messaggio di circa due minuti, Díaz con tono impostato e un po’ artificiale, celebrava la decisione del governo, rivendicando il riconoscimento palestinese come una «questione di diritti umani e legalità internazionale», e come «atto d’umanità». Parla di «genocidio» e di premere sulla Ue per «rivedere la compravendita di armi» e ottenere il cessate il fuoco, per concludere con un «la Palestina sarà libera dal fiume al mare».
Quest’ultima frase è quella che ha fatto saltare i nervi a Katz e al governo di Netanyahu, che la interpreta come antisemita perché tra il fiume e il mare, oltre alla Cisgiordania e Gaza, c’è anche Israele. La frase è usata da anni dai nazionalisti palestinesi come slogan per la liberazione palestinese, e per l’uguaglianza dei diritti fra palestinesi e israeliani, ma non necessariamente come invito alla distruzione dello stato di Israele, come invece interpreta Tel Aviv e l’ambasciatrice israeliana a Madrid, Rodica Radian-Gordon.

Katz chiama Díaz «questa persona ignorante e piena di odio» e la invita «se vuole capire quello che realmente vuole l’islam radicale» a «imparare sui 700 anni di dominio islamico nell’Al Andalús, l’attuale Spagna».
Il consolato spagnolo di Gerusalemme è attualmente una specie di ambasciata di fatto per i palestinesi perché, oltre a offrire loro servizi consolari, si incarica di mantenere i rapporti diplomatici con l’Autorità nazionale palestinese e di coordinare i progetti di cooperazione spagnoli nei territori occupati. Ma chi esercita la giurisdizione sul territorio è Israele dopo l’occupazione del 1967, ed è il ministero guidato da Katz quello incaricato di concedere visti al personale diplomatico spagnolo.
Il ministro degli esteri José Manuel Albares ha già fatto sapere che, se la decisione annunciata sulle reti sociali si concretizza, Madrid protesterà formalmente con il governo israeliano per la decisione. Inoltre Albares e ha negato veementemente che fra gli esponenti del governo spagnolo ci siano antisemiti. Ha detto che è invece «un governo tollerante, plurale e diverso, che non accetta nessun discorso di odio, incluso l’antisemitismo».
All’indomani dell’annuncio dei capi di governo di Spagna, Norvegia e Irlanda, Israele aveva convocato adirato i loro rappresentanti diplomatici per esprimere loro la reprimenda dell’esecutivo israeliano e costringerli a guardare un video in cui si vedeva come i miliziani di Hamas il 7 ottobre scorso sequestravano e maltrattavano varie soldatesse di una base di Nahal Oz, vicino alla Striscia di Gaza.
Intanto le proteste organizzate nei campus spagnoli cominciano a dare frutti: alcune università, fra cui quelle di Barcellona, Granada, Sevilla, e Oviedo annunciano che, come chiedevano gli studenti, hanno interrotto qualsiasi collaborazione con le università israeliane.
*( Luca Tancredi Barone, Barcellona. Attualmente è redattore e conduttore del quotidiano scientifico Radio3 Scienza (Rai) e collabora con i quotidiani Liberazione e il manifesto)

 

04 – OSTRUZIONISMO E DIVISIONI A DESTRA FRENANO LA FORZATURA PRE-ELETTORALE – PREMIERATO. TEMPI RISTRETTI MA VOTO DOPO LE EUROPEE. SERGIO MATTARELLA: «QUESTA NON È SOLO LA COSTITUZIONE DEL PASSATO, MA ANCHE QUELLA DEL FUTURO»

La seconda giornata di votazioni degli emendamenti al premierato, ieri in Senato, si è conclusa con la decisione della conferenza dei capigruppo di contingentare i tempi dell’esame del ddl Casellati: 30 ore complessive di dibattito, suddivise tra tutti i gruppi, che dovrebbe portare a un voto finale dell’aula di Palazzo Madama il 18 giugno. Questo, almeno, nelle intenzioni: si tratta di una decisione forte del centrodestra che tuttavia preoccupa più chi l’ha presa che non chi la subisce. Come si è intuito scrutando i volti dei partecipanti alla riunione al momento della loro uscita: sardonici quelli delle opposizioni, tirati quelli della maggioranza, a partire da quello di Guido Liris, che sostituiva il capogruppo di Fdi Malan.
Per capire tale preoccupazione occorre ripercorre quanto accaduto in aula prima della capigruppo, tenutasi alle 15. In oltre 5 ore di seduta, dalle 9 alle 14,15, sono state bocciate o saltate – grazie al canguro che permette di votare insieme diversi emendamenti simili – solo circa 40 proposte di modifica sulle 147 del solo articolo 1, e sulle quasi tremila all’intero provvedimento. Un risultato identico a quello di mercoledì, deludente o meglio frustrante per Fdi e per la ministra Casellati. E questo non solo per l’efficacia dell’ostruzionismo di tutte le opposizioni (anche Iv e Azione), ma soprattutto per l’algida noncuranza teatralmente messa in scena dalla Lega: quando all’inizio della seduta sono intervenuti tutti i capigruppo, per il centrodestra hanno preso la parola Malan per Fdi e Gasparri per Fi, ma né Massimiliano Romeo né altri leghisti hanno chiesto di intervenire. Dopo un’oretta è anche mancato il numero legale per le troppe assenze nella maggioranza, soprattutto nella Lega, il cui unico big presente era Calderoli. Al ministro non è stata strappata una risposta alla domanda se ci sia un nesso tra la freddezza della Lega sul premierato e quella di Fdi e Fi sull’autonomia differenziata, ferma alla Camera. A Montecitorio, infatti, l’aula è stata impegnata con il Superbonus e altri provvedimenti, e la settimana è passata senza che iniziassero le votazioni sul ddl Calderoli come sperava il partito di Salvini.
Tornando alla capigruppo, in quella sede Liris e Gasparri hanno minacciato forzature con un voto finale sul ddl prima delle europee dell’8 e 9 giugno. «Prego, accomodatevi» è stata la risposta delle opposizioni. Il fatto stesso che il presidente La Russa abbia tentato una mediazione, proponendo un voto finale concordato il 13 giugno, poi spostato al 18, ha dimostrato la difficoltà della maggioranza rispetto a una prova muscolare. E questo per le evidenti divisioni tra Fdi, spalleggiato da Fi, e la Lega, come hanno sottolineato i capigruppo di Pd e 5S, Boccia e Patuanelli. Quindi al contingentamento dei tempi il centrodestra è stato costretto un po’ per non perdere la faccia, un po’ per frustrazione, un po’ per costringere la Lega a ricompattarsi sulla maggioranza.
Le opposizioni hanno fatto muro, rifiutando ogni tipo di accordo. Ora si preparano a mettere in campo nuove forme di ostruzionismo. Il regolamento consente a ciascun gruppo di intervenire per 5 minuti su ogni emendamento, ma una volta esaurite le 14 ore (su 30) spettanti a Pd, M5S, Avs, Iv e Azione, questi non potranno più chiedere la parola. Si moltiplicheranno quindi le richieste di intervento sull’ordine dei lavori, le richieste di verifica del numero legale, e altri trucchi che magari facciano perdere la pazienza ai senatori di Meloni.
Intanto da Asti, citando l’ex presidente del Consiglio Giovanni Goria, Sergio Mattarella ha trovato il modo di dire che «questa non è solo la Costituzione del nostro passato, ma anche quella del nostro futuro». Un messaggio abbastanza esplicito, senza essere un intervento sui lavori del parlamento che il presidente evidentemente osserva con attenzione.
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05 – L’incidenza dei voti di fiducia è ancora molto alta. Governo e parlamento. I dati però dicono che l’attuale esecutivo mantiene il più alto rapporto tra voti di fiducia e leggi approvate delle ultime 4 legislature. (*)

• NEGLI ULTIMI MESI IL RICORSO ALLA QUESTIONE DI FIDUCIA DEL GOVERNO MELONI SI È RIDOTTO. MA L’INCIDENZA DELLO STRUMENTO È ANCORA MOLTO RILEVANTE PER L’AZIONE DELL’ESECUTIVO.
• IL GOVERNO MELONI È TERZO PER NUMERO MEDIO DI VOTI DI FIDUCIA AL MESE (2,83) MA È PRIMO SE SI CONSIDERA IL RAPPORTO TRA VOTI DI FIDUCIA E LEGGI APPROVATE (44%).
• IL CALO NEL RICORSO ALLA FIDUCIA DIPENDE ANCHE DALLA QUANTITÀ E IMPORTANZA DEI PROVVEDIMENTI IN VOTAZIONE.
• SONO 19 I DDL APPROVATI CON DOPPIA FIDUCIA DALL’INIZIO DELLA LEGISLATURA. DI QUESTI, 11 SONO LEGATI AD ATTI CHIAVE.

Nella giornata di ieri il governo ha ANNUNCIATO la decisione di porre la questione di fiducia sul disegno di legge di conversione del DECRETO SUPERBONUS. Un ritorno all’utilizzo di questo strumento che segue di pochi giorni quanto accaduto con il cosiddetto DECRETO PNRR QUATER, per cui l’esecutivo aveva posto la fiducia sia CAMERA che al SENATO.
Al di là di questi episodi, i primi mesi del 2024 si sono caratterizzati per un ricorso allo strumento tutto sommato moderato. Soprattutto se paragonato al dato record del novembre 2023. Questo ha portato a una diminuzione di alcuni indicatori tra cui quello del numero medio di voti di fiducia al mese. Indicatore che adesso non vede più l’attuale esecutivo al primo posto nel confronto con i suoi predecessori.
52 LE QUESTIONI DI FIDUCIA POSTE IN TOTALE DAL GOVERNO MELONI.
È ancora presto per dire se si tratta di una tendenza consolidata o solamente di una fase. In effetti, analizzando i dati, l’incidenza della questione di fiducia è ancora molto forte per quanto riguarda l’azione dell’attuale esecutivo. Infatti il rapporto tra voti di questo tipo e leggi approvate dal parlamento resta il più alto delle ultime legislature. Senza dimenticare che la decisione del governo di porre o meno la fiducia dipende anche dalla rilevanza e delicatezza del provvedimento di volta in volta in discussione.
I dati del governo Meloni e il confronto con i predecessori
Dal suo insediamento nell’ottobre del 2022 fino all’aprile del 2024, il governo Meloni ha posto in totale 51 questioni di fiducia per l’approvazione di disegni di legge. A queste, si deve aggiungere la 52esima, in discussione proprio in queste ore.
L’esecutivo può decidere di mettere la fiducia su un disegno di legge per velocizzarne l’approvazione. I voti di fiducia nascevano per ricompattare la maggioranza in situazioni eccezionali ma sono diventati sempre più frequenti. Vai a “Che cosa sono i voti di fiducia”
In valori assoluti, due esecutivi hanno fatto registrare numeri più elevati durante il loro periodo a palazzo Chigi. Si tratta dei governi Renzi (68) e Draghi (55), mentre quello guidato da Mario Monti riporta lo stesso numero dell’attuale. Questi esecutivi hanno però avuto tutti durate diverse. Il governo guidato da Matteo Renzi ad esempio è rimasto in carica quasi il doppio del tempo rispetto a quello di Giorgia Meloni.
La media dei voti di fiducia mensili del governo Meloni è in diminuzione.
Per permettere un confronto omogeneo tra esecutivi di diversa durata è quindi utile valutare il numero medio di questioni di fiducia poste al mese. Da questo punto di vista al primo posto troviamo il governo Monti (3 voti di fiducia al mese di media). Seguono Draghi (2,89) e Meloni (2,83 considerando i dati consolidati al 30 aprile). Rispetto al nostro ultimo aggiornamento sul tema, il dato riguardante l’esecutivo attualmente in carica risulta in diminuzione. Dopo una fase in cui il ricorso alla fiducia era parso sistematico e quindi eccessivo, sembra quindi che l’operato dell’attuale governo stia rientrando nei canoni adottati anche dai suoi predecessori.
IL GOVERNO MELONI HA IL PIÙ ALTO RAPPORTO TRA VOTI DI FIDUCIA E LEGGI
I DATI SUL RICORSO ALLA FIDUCIA FATTO DAI GOVERNI DELLE ULTIME 4 LEGISLATURE (2008-2024)
Tuttavia occorre sottolineare che sull’evoluzione di questo dato incide molto anche la quantità di disegni di legge che il parlamento discute e vota di mese in mese. Logicamente, un basso numero di Ddl in discussione comporterà anche un basso numero di questioni di fiducia poste dal governo. Viceversa, all’aumentare delle proposte da approvare (in particolare quelle di iniziativa governativa) è più probabile che l’esecutivo sia portato a ricorrere alla fiducia. Questo sia per velocizzare i tempi sia per evitare che il parlamento modifichi eccessivamente il provvedimento in esame. Da questo punto di vista è interessante osservare che l’attuale esecutivo fa registrare il rapporto più alto tra voti di fiducia e numero di leggi approvate.
44% IL RAPPORTO TRA VOTI DI FIDUCIA E LEGGI APPROVATE DURANTE IL GOVERNO MELONI. SEGUONO GLI ESECUTIVI MONTI (42,5%) E CONTE II (39,8%).
L’evoluzione nel ricorso alla fiducia del governo Meloni
Alla luce di quanto appena visto, sarebbe lecito attendersi un andamento abbastanza simile per quanto riguarda il numero di leggi approvate dal parlamento e le questioni di fiducia poste dal governo nello stesso periodo. Come possiamo osservare nel grafico, questa tendenza sembrerebbe a grandi linee confermata. Una dinamica che diventa ancora più evidente se consideriamo le leggi di conversione dei decreti. In questo caso infatti spesso l’esecutivo ha posto la fiducia in entrambe le camere per far sì che fossero approvati entro la scadenza dei 60 giorni.
Questa tendenza risulta piuttosto evidente se si considerano i periodi aprile-giugno e settembre-novembre 2023. In entrambi questi momenti infatti possiamo osservare un alto numero di leggi approvate e parallelamente un elevato numero di questioni di fiducia.
A MARZO 2024 NESSUN VOTO DI FIDUCIA. È LA PRIMA VOLTA DAL NOVEMBRE 2022.
L’ANDAMENTO DEI VOTI DI FIDUCIA E DELLE LEGGI APPROVATE DAL PARLAMENTO NELLA XIX LEGISLATURA
DA SAPERE
Nel grafico non è considerata l’approvazione di leggi di ratifica di trattati internazionali poiché questo tipo di norme, salvo rarissimi casi, sono poco rilevanti dal punto di vista politico. Vengono infatti approvate con larghissime maggioranze e non sono mai oggetto di questioni di fiducia. Non sono state oggetto di analisi nemmeno le mozioni di fiducia sul governo stesso e quelle di sfiducia nei confronti di singoli ministri presentate dalle opposizioni.
Il governo può porre la fiducia su un disegno di legge in entrambe le camere. Per questo possono esserci dei mesi in cui il numero di voti di fiducia è superiore alle leggi entrate in vigore.
A SETTEMBRE E OTTOBRE 2022 NON SONO STATE APPROVATE LEGGI.
Il ricorso più o meno massiccio alla fiducia dipende anche dal numero dei Ddl in discussione.
Ad aprile 2023 le leggi approvate sono state 4 (di cui 3 erano conversioni di decreti legge) e i voti di fiducia 2. A maggio si registra un aumento sia delle leggi approvate (6 di cui 4 conversioni di decreti) che di voti di fiducia (4). A giugno si raggiunge un primo picco di voti di fiducia con 6 in un solo mese a fronte di 4 leggi approvate (tutte conversioni). Invece a settembre 2023 le leggi approvate sono state 7 a fronte di 2 soli voti di fiducia. Nei due mesi successivi si registra però un progressivo aumento di queste votazioni fino al dato record di 8 raggiunto a novembre 2023.
In questo mese le leggi approvate sono state 10 (la metà sono conversioni di decreti legge). Non si tratta del dato più alto in assoluto. A febbraio 2024 infatti le leggi entrate in vigore sono state 11 in totale. In questo caso i voti di fiducia registrati sono stati solo 2, questo mese può quindi essere considerato un’eccezione. Così come il successivo mese di marzo in cui il governo non ha mai fatto ricorso alla fiducia a fronte di 5 leggi approvate (4 conversioni di decreti). Nel valutare questi dati però occorre tenere conto anche della portata politica dei disegni di legge in esame.
A febbraio 2024 ad esempio sono entrate in vigore ben 6 leggi di iniziativa parlamentare.
Tra queste l’ISTITUZIONE DELLA GIORNATA DELL’UNITÀ NAZIONALE E DELLE FORZE ARMATE, LE DISPOSIZIONI PER LA PROMOZIONE E LO SVILUPPO DELL’IMPRENDITORIA GIOVANILE NEL SETTORE AGRICOLO, L’ISTITUZIONE DELLA COMMISSIONE D’INCHIESTA SUL COVID e altre norme in tema di AGRICOLTURA. Tutte misure su cui il governo non aveva probabilmente alcun interesse a porre la fiducia né per ragioni politiche né per rispettare delle tempistiche (come nel caso dei decreti legge che sono soggetti a
Situazione diversa invece a marzo dove il parlamento ha convertito ben 4 decreti e in nessun caso è stata posta la fiducia. Si tratta dei Dl sulla presidenza italiana del G7, sull’Ilva, sulle elezioni e sulle olimpiadi invernali. Si tratta in questo caso di provvedimenti per cui c’era un’ampia convergenza, anche da parte di esponenti dell’opposizione molti dei quali si sono astenuti per non ostacolare l’iter. Probabilmente quindi il ricorso alla fiducia non si è reso necessario.
È ancora presto quindi per poter dire se stiamo assistendo a una effettiva tendenza dell’esecutivo a ricorrere meno alla fiducia. Anche perché in effetti quando si è trattato di provvedimenti particolarmente delicati come i già citati decreti superbonus e Pnrr quater, il governo è tornato subito a utilizzare lo strumento. Occorrerà quindi continuare a monitorare questi aspetti per capire se ci troviamo di fronte a una reale inversione di rotta.
I Ddl approvati con doppia fiducia
Un altro dato interessante da analizzare da questo punto di vista riguarda i provvedimenti su cui viene posta la fiducia in entrambi i rami del parlamento. In questo caso infatti le possibilità di intervento in assemblea per i parlamentari si riducono al lumicino, limitandosi alle dichiarazioni di voto.
Per quanto riguarda il governo Meloni sono 19 i provvedimenti che rientrano in questa categoria. Stesso numero anche per il governo Draghi mentre l’esecutivo Renzi è quello che fa registrare il dato più alto con 22 (da ricordare però che quest’ultimo è rimasto in carica 33 mesi, il governo Draghi 20, quello di Meloni per il momento circa 18).
PER IL GOVERNO MELONI 19 PROVVEDIMENTI APPROVATI CON DOPPIA FIDUCIA
LE LEGGI APPROVATE CON LA FIDUCIA IN ENTRAMBE LE CAMERE NELLE ULTIME 3 LEGISLATURE (2013-2024)
Con specifico riferimento all’esecutivo attualmente in carica tra le leggi approvate con doppio voto di fiducia soltanto una non è una conversione di un decreto legge. Si tratta della legge di bilancio per il 2023. È interessante osservare che dei 19 provvedimenti approvati con doppia fiducia, molti sono atti chiave. Si tratta di Ddl particolarmente significativi o per l’importanza dell’atto o per la rilevanza del tema in discussione.
11 GLI ATTI CHIAVE SU CUI IL GOVERNO MELONI HA POSTO LA FIDUCIA IN ENTRAMBE LE CAMERE.
Tra i più recenti possiamo citare i DL PNRR QUATER, MILLEPROROGHE 2024 E IMMIGRAZIONE E SICUREZZA. Al netto della diminuzione del dato sui voti di fiducia posti in media al mese dunque, l’incidenza di questo strumento è ancora molto rilevante.
(FONTE: elaborazione e dati openpolis – ultimo aggiornamento: venerdì 10 Maggio 2024)

 

06 – Massimo Villone*: AUTONOMIA, PRESTO LA REPUBBLICA RISCHIERÀ GROSSO . BASTA UN VOTO. SI SONO LEVATE VOCI AUTOREVOLI CONTRO LO STRAVOLGIMENTO DELLA COSTITUZIONE. DA ASTI, SERGIO MATTARELLA CI RICORDA LE PAROLE DI GIOVANNI GORIA SULLA MODERNITÀ DI UNA COSTITUZIONE CHE È IL «NOSTRO […]

Si sono levate voci autorevoli contro lo stravolgimento della Costituzione. Da Asti, Sergio Mattarella ci ricorda le parole di Giovanni Goria sulla modernità di una Costituzione che è il «nostro passato, ma anche il nostro futuro».
Un richiamo che qualche corifeo di maggioranza ha subito stigmatizzato come ingresso dell’arbitro in partita. Ovviamente, non è così. Ma a destra piace un capo dello stato che sia supino follower del primo ministro.
E non è solo Mattarella. Il cardinale Zuppi, parlando dopo la chiusura dell’assemblea generale dei vescovi, ha chiesto sul premierato cautela e un risultato non contingente, «cioè che non sia di parte». L’esatto contrario è accaduto in senato. Il presidente La Russa con tempi contingentati ha annunciato il 18 giugno come data possibile per il voto finale dell’aula, applicando agli emendamenti il famigerato «canguro» per stroncare l’ostruzionismo delle opposizioni.
Il 22 maggio il consiglio episcopale permanente ha approvato una nota sull’autonomia differenziata in cui si segnala la preoccupazione che siano accentuati gli squilibri già esistenti «tra territori, tra aree metropolitane e interne, tra centri e periferie … il progetto di legge (Calderoli) rischia di minare le basi di quel vincolo di solidarietà tra le diverse Regioni, che è presidio al principio di unità della Repubblica». Parole chiarissime. Ora la Chiesa dovrà far giungere il messaggio alla base, cioè nelle parrocchie, in modo da contribuire alla consapevolezza del popolo dei fedeli. Perché è di una resistenza popolare che abbiamo bisogno. È necessario scendere in campo, qui e ora. Lo impongono la tempistica decisa dalla destra e gli strumenti disponibili per opporsi.
Una maggioranza divisa su tutto – dal redditometro alle alleanze in Ue – si compatta nel mercatino delle riforme tra premierato a Meloni, autonomia differenziata alla Lega, giustizia addomesticata a Forza Italia. Dopo il voto europeo, salvo sconvolgimenti imprevedibili, la maggioranza arriverà in tempi brevi al voto finale sul Calderoli, probabilmente cercando di rimanere allineata con il voto del 18 giugno in senato.
Il punto è che subito dopo percorsi e tempi delle riforme inevitabilmente si divaricano. La via per il premierato e la giustizia – leggi costituzionali – rimane lunga, e può concludersi con un referendum confermativo. Il disegno di legge Calderoli è invece definitivamente approvato, e un referendum (abrogativo) sarebbe probabilmente inammissibile. Anche se così non fosse, probabilmente non si voterebbe prima del 2026.
Il negoziato per intese di autonomia differenziata con singole regioni può invece partire subito – come Zaia chiede, già dal «giorno dopo» l’approvazione – almeno per le materie e/o funzioni non condizionate alla previa determinazione di livelli essenziali delle prestazioni. Si tratta di circa 200 su un totale di 500 funzioni statali nelle materie in principio devolvibili. La trattativa sarà nelle mani dei presidenti di regione e di Calderoli, che ha diffidato Meloni a non usare il potere di cui dispone di porre limiti al negoziato.
Sarà questa la fase di maggiore rischio per la Repubblica una e indivisibile. Se anche solo una o due regioni riuscissero a fare breccia – ad esempio mettendo le mani sulla scuola, obiettivo molto concupito dal ceto politico regionale – per un effetto domino inevitabile altri «governatori» farebbero richieste analoghe e a quel punto non resistibili. Escluso il referendum abrogativo, l’unico strumento di contrasto immediatamente attivabile contro il disegno di legge Calderoli una volta approvato è – come ho già proposto – il ricorso in via principale di una o più regioni in Corte costituzionale.
Per questo interessa che il coordinamento nazionale della Via Maestra, a prima firma Landini, abbia scritto ai presidenti di regione sollecitando il ricorso contro la (futura) legge Calderoli. Come interessa che in una chat (È sempre 25 aprile) Bonaccini abbia detto «sono convinto che l’Emilia Romagna sarà tra le regioni a presentare quesito di legittimità alla Corte costituzionale».
Avevamo dubitato dei suoi buoni propositi, per il silenzio sulle 6mila firme che hanno chiesto con una legge di iniziativa popolare il ritiro dell’adesione ai preaccordi del 2018. Forse avevamo torto. Comunque, è utile che venerdì 24 ci sia stato davanti al consiglio regionale un sit-in, al fine appunto di sollecitare il ricorso. Aspettiamo ora Bonaccini alla prova. Che dia una mano.
*(Fonte: Il Manifesto. Massimo Villone è un politico e costituzionalista italiano. È professore emerito di Diritto costituzionale nell’Università degli Studi di Napoli “Federico)

 

07 – Murat Cinar*: MILLE SETTIMANE DA MADRI DEL SABATO A ISTANBUL. UNA LUNGA LOTTA. IN TURCHIA COME IN ARGENTINA, CERCANO I PROPRI FAMIGLIARI FATTI SPARIRE DALLO STATO PER LE LORO IDEE. E COME OGNI SETTIMANA, DAL 1995, ANCHE OGGI SFIDERANNO LA POLIZIA CON IL LORO MILLESIMO PRESIDIO. PARLA BESNA TOSUN, ALLA RICERCA DI SUO PADRE DA 29 ANNI: «FAR SCOMPARIRE LE PERSONE IN DETENZIONE PROVVISORIA O IN ALTRE CIRCOSTANZE È UN REATO PERMANENTE FINCHÉ NON VENGONO RITROVATE QUELLE PERSONE E PUNITI I COLPEVOLI. PER QUESTO SIAMO ANCORA QUI»

La protesta popolare non violenta più antica e duratura della Turchia, quella delle “Madri del sabato”, ha raggiunto le mille settimane di presidio. Dal 1995, ogni sabato, con grande tenacia, un gruppo di persone si riunisce davanti al Liceo di Galatasaray a Taksim/Istanbul. Sono alla ricerca dei loro cari scomparsi.

IL PRIMO PRESIDIO risale al 27 maggio 1995, due mesi dopo la scomparsa di Hasan Ocak che era in detenzione provvisoria per gli scontri avvenuti nel quartiere di Gazi a Istanbul, il 21 marzo 1995. Sua madre, Emine Ocak, la famiglia e gli amici lo hanno cercato per 55 giorni. Il 15 maggio il corpo di Hasan è stato ritrovato nel cimitero dei senzatetto, evidenti segni di tortura. Il suo caso ha fatto scattare la lotta delle “Madri del sabato”. Al loro primo sit-in c’erano 20 persone.

Questa prima azione ha spinto una serie di madri a scendere in piazza con un obiettivo comune: ritrovare i loro figli ma anche individuare i colpevoli.
L’INIZIATIVA SI ISPIRA alle madri di “Plaza de Mayo”, i cui figli furono fatti sparire dalla giunta militare in Argentina. Anche in Turchia, le “Madri del sabato” cercano i loro cari, considerati “scomodi” dallo Stato per le loro idee e posizioni politiche.
Tra queste donne c’è anche Besna Tosun, alla ricerca di suo padre da 29 anni. «Avevo 12 anni quando lo hanno preso e portato via davanti ai miei occhi. Poco dopo, mia madre si è rivolta all’Associazione per i Diritti umani (Ihd) e quando siamo venute a sapere dell’esistenza delle “Madri del sabato” ci siamo unite a loro. Da quel giorno sono in piazza ogni sabato».
IL PADRE DI BESNA si chiama Fehmi Tosun e aveva 35 anni quando è stato rapito nel giardino della sua abitazione di sera a Istanbul. La famiglia si è rivolta subito alla polizia, che ha risposto dicendo che non poteva fare nulla. Il percorso legale sul suo caso si è concluso nel 2003: la Corte europea dei Diritti dell’uomo (Cedu) ha condannato la Turchia e il governo dell’epoca pagò il risarcimento. Ma tuttora non si sa dove si trovi Fehmi Tosun e nessun responsabile è stato identificato. Nel 2019 il caso è caduto in prescrizione. «Le scomparse non vengono definite come reati contro l’umanità in Turchia, quindi, dopo 20 anni, possono cadere in prescrizione. Purtroppo, il caso di mio padre non è l’unico», racconta Besna con amarezza.
LE “MADRI DEL SABATO”, con la loro determinazione, hanno reso di pubblico dominio un fatto noto ma oscurato. Da mille settimane cercano di creare consapevolezza a livello popolare, portando avanti un percorso politico e giuridico con l’intento di evitare che simili casi si ripetano e che i colpevoli siano identificati. «Sappiamo che ci sono stati governi complici – aggiunge Besna – e altri che non hanno voluto muovere un dito, perché non indagano né puniscono i colpevoli. Per questo siamo sempre qui».
DAVANTI AL LICEO DI GALATASARAY ci sono almeno tre autobus pieni di poliziotti tutti i giorni a tutte le ore, anche se il presidio delle “Madri del sabato” si svolge solo una volta a settimana e dura appena 15 minuti. La repressione della polizia si è fatta permanente dal 2018.
«In questi anni sono stati aperti diversi processi a causa di questo presidio e delle mie rivendicazioni, tuttavia, in merito a mio padre non è stato aperto nessun fascicolo. Far scomparire le persone in detenzione provvisoria o in altre circostanze è un reato permanente finché non vengono ritrovate quelle persone e puniti i colpevoli. È un reato che esiste da anni ma non viene punito. Quindi la nostra posizione resta ferma: pretendiamo informazioni e nel caso la possibilità di trovare il corpo e svolgere i funerali. Per questo siamo ancora qui», così Besna Tosun riassume il motivo della loro lunga lotta.
Ma svolgere questo presidio è diventato sempre più difficile. «Per ben 30 settimane numerose persone sono state prese in detenzione provvisoria. Ora poche persone sono autorizzate ad accedere a questa piazza», spiega Besna, illustrando la situazione attuale.
OGGI SARÀ IL MILLESIMO presidio delle “Madri del sabato”. «Vorremmo sederci in piazza in massa. Speriamo che saranno rimosse le transenne della polizia e non ci saranno limitazioni. Non sappiamo cosa ci aspetta – conclude Besna – ma noi ci saremo anche stavolta».
*(Murat Cinar – Attualmente e saltuariamente scrive in Turchia per il portale di giornalisti indipendenti BiaNet. Nel passato ha collaborato con Sendika.org, HaberSoL, Birgun)

 

08 – Lelio La Porta*: IL MATERIALISMO STORICO, TRA INVETTIVA E CITAZIONE – SCAFFALE. PER LE EDIZIONI QUODLIBET, «RETORICA E POLEMICA NEL CAPITALE DI MARX», UN SAGGIO DI ELISABETTA MENGALDO

IN UNA NOTA DEI QUADERNI DEL CARCERE, DAL SAPORE AUTOBIOGRAFICO NON DEL TUTTO CELATO, MA AVENTE COME OGGETTO REALE MARX, GRAMSCI INDICAVA QUALI FOSSERO GLI ACCORGIMENTI PER «STUDIARE LA NASCITA DI UNA CONCEZIONE DEL MONDO CHE DAL SUO FONDATORE NON È STATA MAI ESPOSTA SISTEMATICAMENTE» E FRA TALI ACCORGIMENTI IL LAVORO FILOLOGICO ACCURATO VENIVA COLLOCATO AL PRIMO POSTO.
Perché, si chiedeva il marxista sardo, è necessaria tanta cura con gli scritti marxiani? Perché si tratta di un pensatore «piuttosto irruento, di carattere polemico» il cui intelletto si trova «in continua creazione e in perpetuo movimento». La specificità dei toni polemici dell’opera di Marx, in specie del Capitale, unita ad una ricerca attenta e puntuale delle figure retoriche più ricorrenti soprattutto nel primo libro dell’opus magnum costituiscono il contenuto del lavoro che Elisabetta Mengaldo consegna alle lettrici e ai lettori (Retorica e polemica nel Capitale di Marx, Quodlibet, pp. 139, euro 12).
IL SAGGIO è denso e ricco nell’esame della dimensione poetica e retorica del Capitale che consente di rivelare quali fossero le capacità letterarie del Moro e come sapesse sapientemente utilizzarle al fine di rendere più solido l’ordito di storia, filosofia, economia di cui si avvale la sua opera maggiore. Un intreccio di critica e polemica, come ricorda l’autrice: «La critica vuole convincere l’interlocutore e/o lettore; la polemica vuole distruggere l’avversario». Le polemiche, spesso agite attraverso attacchi personali, poste il più delle volte in nota, riempiono di sé tutto quanto il Capitale con la loro asprezza; ne costituiscono elemento ineludibile.

L’asprezza nulla toglie alla raffinatezza della costruzione marxiana che si rivela ancora di più in quella che Mengaldo definisce «retorica della citazione». Il secondo capitolo del libro (Distorsione, commento e personificazione: il montaggio di citazioni del Capitale) è dedicato al tema. Partendo dal significato etimologico del termine «citazione» («chiamare in giudizio, convocare»), l’uso che Marx fa della citazione letteraria risulta «creativo, talora manipolativo», ma raramente teso ad assumere «un semplice valore documentario o di testimonianza». Ciò che maggiormente potrebbe intrigare la lettrice e il lettore è il riferimento all’uso creativo che il filosofo di Treviri fa delle citazioni. Cosa significa? Lo spiega l’autrice: si tratta di modificare le citazioni per integrarle nel testo e usarle per lo scopo che Marx si prefigge di raggiungere; questo vale per Dante, per Shakespeare, per Goethe, tutto documentato e pregevolmente analizzato da Mengaldo che, inoltre, classifica le citazioni in tre categorie: letterarie, polemiche, empatiche. Nella sostanza, scrive l’autrice, «l’opus magnum di Marx è esso stesso una “immane raccolta” di citazioni, un colossale e stratificato palinsesto».
Da questo palinsesto prende forma e vita un romanzo? Può, quindi, Il Capitale essere definito un romanzo? È stato inteso come la bibbia del materialismo storico e del marxismo, è stato analizzato sub specie politica ed economica, anche filosofica, ma ha valenza anche sub specie letteraria? La figura del capitalista infelice quasi costretto all’astinenza, ad una vita di privazioni e sacrifici nell’attesa che venga partorito il sistema di sfruttamento capitalistico si colloca dentro la storia lunga di quella che Marx intitola, nel capitolo 24 del primo libro, La cosiddetta accumulazione originaria, titolo nel quale, nota Mengaldo, «cosiddetta» è un aggettivo «vistoso e polemico». Quasi a chiudere il cerchio, ritorna il Marx polemico che usa le figure della retorica per criticare quanti hanno scritto di un «presunto stadio originario idillico in cui sarebbe stato magicamente accumulato il primo capitale».
NELLA STESSA NOTA a cui si è fatto riferimento all’inizio, Gramsci individuava nella ricerca «del leit-motiv, del ritmo del pensiero in sviluppo» l’importante per chi volesse dedicarsi allo studio di Marx. Mengaldo, con il suo lavoro, offre la possibilità di affrontare tale ricerca con una modalità nuova che ci restituisce un’immagine a tutto tondo di Marx e ci consente di comprendere il senso profondo della risposta che diede alle figlie quando gli chiesero quale fosse la sua occupazione preferita: «razzolare tra i libri»

*(Lelio La Porta è membro del “Centro per la filosofia italiana” e della “International Gramsci Society Italia”. È studioso di Gramsci (Un Gramsci per le nostre scuole. Antologia, 2016), Lukács (Lukács chi?)

 

 

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