n°16 – 20/04/24 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 .- Marina Catucci, NEW YORK*: Dagli Usa riarmo bipartisan di Ucraina e Israele – DEMOCRATICI E REPUBBLICANI SBLOCCANO I FONDI. 60 miliardi a Kiev, 26 a Tel Aviv. E anche 8 a Taiwan. Il “progressista” Ted Lieu: «L’America è tornata». Manovra divisa in 4 per superare i veti incrociati. Nuove sanzioni a Iran, Cina e Russia. Chiusa così ogni possibilità di mediazione per la pace.
02 – Sabato Angieri*: Palestina membro dell’Onu? L’uomo degli Usa ha detto no – AL CONSIGLIO DI SICUREZZA TORNA LA SOLITA AMERICA DEI VETI. 12 voti a favore su 15, tra cui quelli di Francia, Cina e Russia, non bastano a far passare la risoluzione. Per la Casa bianca passo «prematuro». E comunque che se la vedano tra loro, con il negoziato Robert Wood al momento del voto che blocca la risoluzione.
03 – Lorenzo Tecleme*: Clima, pace e lavoro: è tornata l’ecoprotesta – GLOBAL STRIKE. I Friday for future in piazza in solidarietà con la Palestina e per impedire il «green backclash», il contraccolpo verde: la marcia indietro in atto in Europa sulle politiche verdi, sotto la spinta delle destre
Clima, pace e lavoro: è tornata l’ecoprotesta
04 – Emiliano Brancaccio*: pezzo dopo pezzo nell’economia di guerra – LA UE CONTRO IL WELFARE. Si usa dire che stiamo precipitando verso una guerra mondiale “a pezzi”. Possiamo anche aggiungere che stiamo scivolando verso una “economia di guerra”? Alcuni prodromi, in effetti, si intravedono. Due […]
05 – Pierluigi Ciocca*: IL COMMENTO DELLA SETTIMANA – Il problema economico italiano è, da oltre vent’anni ormai, un “problema di crescita”, di tendenziale ristagno e bassa qualità delle attività produttive.
06 – Rossana e la scuola*: l’intervento del 1965 alla camera . Atti parlamentari. Nel 1965 la deputata Banfi (all’epoca le donne dovevano tenere il nome del marito) interviene in aula per il PCI sulla riforma della scuola

 

 

01 – Marina Catucci, NEW YORK*: DAGLI USA RIARMO BIPARTISAN DI UCRAINA E ISRAELE – DEMOCRATICI E REPUBBLICANI SBLOCCANO I FONDI. 60 MILIARDI A KIEV, 26 A TEL AVIV. E ANCHE 8 A TAIWAN. IL “PROGRESSISTA” TED LIEU: «L’AMERICA È TORNATA». MANOVRA DIVISA IN 4 PER SUPERARE I VETI INCROCIATI. NUOVE SANZIONI A IRAN, CINA E RUSSIA. CHIUSA COSÌ OGNI POSSIBILITÀ DI MEDIAZIONE PER LA PACE.

Una rara coalizione di democratici e repubblicani ha votato a stragrande maggioranza a favore della legge sugli stanziamenti supplementari per la sicurezza dell’Ucraina con un voto di 311 a 111. Per arrivare a questo risultato che allontana ogni spiraglio di mediazione nella guerra che infiamma l’Europa lo speaker repubblicano della Camera, Mike Johnson ha diviso la manovra in quattro distinti disegni di legge.
Le misure riguardano l’Ucraina (60 miliardi di dollari), Israele (26, di cui 9 per aiuti umanitari) e Taiwan (8 miliardi). Il quarto mira a bandire TikTok se l’app cinese non verrà venduta, a utilizzare gli asset russi congelati e imporre nuove sanzioni a Iran, Cina e Russia.
SOLITAMENTE i quattro disegni di legge sarebbero stati raggruppati in uno solo, ma questo frazionamento è servito a Johnson per superare un’impasse che da ottobre teneva in ostaggio il pacchetto di aiuti destinati all’Ucraina mentre Zelensky pressava Washington ripetendo che i soldati non potevano più attendere la burocrazia occidentale e che la Nato doveva dimostrare «se siamo davvero alleati». La situazione in Ucraina «è al limite», ha detto il presidente ucraino al segretario della Nato.
Per mesi i repubblicani hanno continuato sul da farsi, prima chiedendo che qualsiasi aiuto venisse legato a cambiamenti delle politiche per la gestione dei migranti e del confine fra Usa e Messico, per poi rifiutare un’offerta bipartisan del Senato proprio su questo punto, facendo naufragare la manovra.
Con questa mossa, che divide il pacchetto in quattro sezioni singole, Johnson è riuscito a superare l’opposizione dell’ala più a destra del Gop guidata dalla trumpiana Marjorie Taylor Greene, e ha superato un primo voto procedurale con 316 sì e 94 no, dove, paradossalmente a votare a favore sono stati più i democratici, 165, che i repubblicani (151). E poi il voto finale, mentre i democratici applaudivano e sventolavano la bandiera ucraina. «L’unica cosa che ha tenuto a bada i terroristi e i tiranni è la percezione di un’America forte – ha detto Johnson -, questo è un messaggio molto importante che invieremo a tutto il mondo».
IL PACCHETTO DA 61 MILIARDI di dollari per l’Ucraina e i partner regionali passato alla Camera contiene più o meno la cifra inclusa nel disegno di legge del Senato. Di questo totale, circa 23 miliardi di dollari verrebbero utilizzati per ricostituire stock di armi, scorte e strutture statunitensi. Oltre 11 miliardi finanzierebbero le attuali operazioni militari Usa nella regione. Quasi 14 miliardi di dollari inclusi nel disegno di legge aiuterebbero l’Ucraina ad acquistare armamenti avanzati e attrezzature di difesa. «L’America è tornata», ha scritto su X il deputato progressista Ted Lieu.
È passato con un ampio margine anche il pacchetto “H.R. 8034” da 26,4 miliardi di dollari sugli aiuti a Israele: 366 voti a 58. A favore di questo disegno di legge hanno votato più repubblicani che democratici per i quali la questione del sostegno ad Israele rappresenta un problema con la base del partito, sempre meno favorevole ad armare Israele e sempre più preoccupato per la situazione in Palestina: anche mentre la Camera votava fuori il Congresso si svolgevano manifestazioni a sostegno della Palestina.
CON QUESTO VOTO si apre un a nuova corsa al riarmo per tutte le regioni attraversate dai conflitti, e si prefigura un’estate che non sarà segnata solo dalla campagna elettorale, ma anche da un nuovo è più netto coinvolgimento degli Stati Uniti nelle guerre che insanguinano Europa e Medio Oriente.
*(Marina Catucci · Giornalista e documentarista, corrispondente dagli Usa per Il Manifesto)

 

02 – Sabato Angieri*: PALESTINA MEMBRO DELL’ONU? L’UOMO DEGLI USA HA DETTO NO – AL CONSIGLIO DI SICUREZZA TORNA LA SOLITA AMERICA DEI VETI. 12 VOTI A FAVORE SU 15, TRA CUI QUELLI DI FRANCIA, CINA E RUSSIA, NON BASTANO A FAR PASSARE LA RISOLUZIONE. PER LA CASA BIANCA PASSO «PREMATURO». E COMUNQUE CHE SE LA VEDANO TRA LORO, CON IL NEGOZIATO ROBERT WOOD AL MOMENTO DEL VOTO CHE BLOCCA LA RISOLUZIONE.
Tutto come previsto e sempre a sfavore della Palestina. Gli Stati Uniti hanno posto il veto sulla risoluzione che chiedeva la piena adesione della Palestina come membro effettivo delle Nazioni Unite.
Nel Consiglio di sicurezza che si è svolto giovedì in seguito alla proposta della Lega Araba, 12 dei 15 Paesi partecipanti al voto hanno votato a favore della risoluzione, tra cui ben 3 dei membri permanenti: Francia, Cina e Russia. La Gran Bretagna, fedele al discorso cerchiobottista della rappresentante permanente all’Onu, si è astenuta perché i tempi per l’adesione della Palestina sono «prematuri», seppure la misura sia ritenuta «necessaria» in un futuro. L’unica altra astensione è stata quella della Svizzera.
A FAR CROLLARE definitivamente le speranze palestinesi è stata la mano alzata dello statunitense Robert Wood alla domanda «qualcuno dei membri permanenti del Consiglio intende porre il veto alla risoluzione?». Fine della storia, se ne riparlerà (ancora) in futuro.
Lo Stato di Palestina attualmente è un «osservatore non membro» dell’Onu e la risoluzione di giovedì proponeva di darle lo stesso status dei membri a pieno titolo. Ma la risoluzione avrebbe prima dovuto essere approvata dal Consiglio di Sicurezza con almeno 9 voti a favore sui 15 membri totali e nessun veto da parte dei membri permanenti. In seguito, nel voto alla plenaria, 2/3 dei 193 stati membri avrebbero dovuto votare a favore. Fallito il primo passaggio, l’iter si è bloccato.
Dopo aver posto il veto alla misura, Wood, che è il vice rappresentante di Washington al Palazzo di vetro, ha spiegato che secondo la Casa Bianca «non c’è altra via per ottenere uno Stato palestinese se non attraverso i negoziati tra israeliani e palestinesi. Siamo inoltre consapevoli da tempo che azioni premature qui a New York, anche con le migliori intenzioni, non consentiranno al popolo palestinese di ottenere lo status di Stato».
DIVERSI ANALISTI, tra cui Marwan Bishara di Al Jazeera, hanno tuttavia evidenziato come il veto statunitense dimostri che la politica di Washington nei confronti della Palestina non ammetta intromissioni. «La Palestina potrebbe essere un paese come lo vedono gli Stati Uniti, o come lo vede Israele, solo nel momento in cui sarà adatto agli Stati Uniti e all’interno della geopolitica e dell’interesse globale degli Stati Uniti», sostiene Bishara.
Nel suo discorso durante la fase preliminare della riunione, il rappresentante palestinese Ziad Abu Amr, aveva dichiarato: «Desideriamo ancora esercitare il nostro diritto all’autodeterminazione, a vivere in libertà, sicurezza e pace in uno stato indipendente simile ad altri paesi del mondo. Inoltre, e si tratta di un dato significativo perché è stato evocato anche dal rappresentante russo che del CdS è membro permanente, «a chi dice che il riconoscimento dello Stato palestinese deve avvenire attraverso negoziati e non attraverso una risoluzione dell’Onu, diciamo: “Come è stato costituito lo Stato di Israele? Non è stato attraverso una risoluzione delle Nazioni Unite, la Risoluzione 181?”».
DURA LA REAZIONE DELL’IRAN al veto degli Usa, aggravata senz’altro dall’attacco che nella notte ha scalfito le strutture militari di Teheran nei pressi di Isfahan. «Il veto degli Stati Uniti ha messo di nuovo a nudo la natura ipocrita della politica estera di Washington e l’isolamento delle posizioni statunitensi nella comunità internazionale».
L’Iran ha inoltre rilanciato su uno stato palestinese che si estenda «dal fiume al mare» e non nei confini del 1967 come ormai chiedono quasi tutti i soggetti politici palestinesi (Hamas compreso) e i loro alleati. Hamas ha condannato il veto e ha assicurato «al mondo e ai palestinesi» che «continuerà la sua lotta e resistenza finché non sconfiggerà l’occupazione e stabilirà il suo Stato palestinese indipendente e pienamente sovrano con Gerusalemme come capitale». Molto critici verso gli Usa anche il Qatar e l’Egitto, nonostante entrambi siano legati agli Usa da accordi militari e strategici.
INTANTO OGGI NEGLI USA si voterà di nuovo il pacchetto di aiuti militari straordinari a Israele e all’Ucraina, oltre che (in misura molto minore) a Taiwan e agli alleati nel Pacifico, proposto da Biden a fine 2023. L’escamotage trovato dai rappresentanti repubblicani alla Camera è stato quello di dividere la votazione in 4, una per ogni alleato, il che rischia di trasformare l’ostruzionismo dei trumpiani contro Kiev nella tomba definitiva delle speranze di nuove armi per Zelensky e i suoi.
*(Sabato Angieri).

 

03 – Lorenzo Tecleme*: CLIMA, PACE E LAVORO: È TORNATA L’ECOPROTESTA – GLOBAL STRIKE. I FRIDAY FOR FUTURE IN PIAZZA IN SOLIDARIETÀ CON LA PALESTINA E PER IMPEDIRE IL «GREEN BACKCLASH», IL CONTRACCOLPO VERDE: LA MARCIA INDIETRO IN ATTO IN EUROPA SULLE POLITICHE VERDI, SOTTO LA SPINTA DELLE DESTRE CLIMA, PACE E LAVORO: È TORNATA L’ECOPROTESTA.

«Lo slogan della giornata, che abbiamo scritto anche sullo striscione d’apertura, è “clima, pace, lavoro”. Perché clima lo sappiamo: il 2023 è stato l’anno più caldo di sempre, maciniamo record negativi su record negativi. La pace è evidentemente riferita alla Palestina. Il lavoro per noi è centrale. Qua a Torino abbiamo creato una bellissima convergenza coi lavoratori di Mirafiori: siamo stati al loro corteo e loro sono venuti al nostro». A parlare è Luca Sardo, studente di Economia dell’ambiente all’Università di Torino e attivista di Fridays For Future fin dagli esordi.

Di tutti gli scioperi globali per il clima (le manifestazioni studentesche nate nel 2019 dalla protesta solitaria di Greta Thunberg) quello di ieri è stato uno dei più peculiari. Innanzitutto per l’enorme presenza della causa di Gaza: nelle grandi città le comunità palestinesi si sono unite ai cortei, e in mezzo alle bandiere verdi dell’ecologismo sono spuntati il rosso, il bianco e il nero panarabi. Poi per la partecipazione dei sindacati, in particolare alcuni settori della Cgil che in città come Firenze, Bologna e Torino stanno costruendo solidi rapporti col movimento per il clima. Infine per la resilienza di un rituale, quello dello sciopero globale, che non accenna a tornare ai fasti degli inizi ma nemmeno a sparire.

La data del 19 aprile doveva centrarsi all’inizio sulla risposta al green backclash, il contraccolpo verde. È questo uno dei nomi che la stampa europea ha dato alla battuta d’arresto che la transizione ecologica sta subendo nel Continente, stretta tra le spese legate al riarmo e una destra radicale che promette di smantellare il Green Deal non appena ne avrà la possibilità. La soluzione per Fridays For Future Italia e le altre realtà che hanno animato le piazze di ieri sta nell’alleanza con il mondo del lavoro, a partire dalle vertenze nella logistica e nell’automotive. L’esempio guida è quello dei lavoratori ex-Gkn di Campi Bisenzio, anche ieri in piazza, che da due anni occupano il loro stabilimento chiedendo conversione ecologica, nazionalizzazione e ripresa della produzione.

Il massacro a Gaza, però, si è inevitabilmente imposto. «Abbiamo dedicato la data di ieri interamente alla Palestina, in concomitanza con la fine dei lavori del G7 a Capri» spiega Michela Spina di Fridays For Future Napoli. «È stato un bel momento, le comunità palestinesi si sono unite al corteo» è la testimonianza di Michele Ghidini, attivista bresciano. «Non si può parlare di giustizia climatica senza parlare di Palestina»: la pace e la fine dell’occupazione come priorità ma inserite nell’elaborazione che il movimento ecologista ha creato negli anni.
«Qui in Sardegna insiste un pericoloso piano di metanizzazione e slitterà la chiusura del carbone. Chiediamo che vengano fermati» spiega Luca Pirisi. Nella sua Cagliari anche Ultima Generazione ha partecipato al corteo, stavolta non bloccando le strade ma con uno spettacolo nella centralissima piazza Yenne. «Siamo molto soddisfatti! Abbiamo potuto lanciare in modo adeguato la proposta di intervento pubblico per la reindustrializzazione ecologica dell’ex Gkn. È questa la cornice: intervento pubblico per rendere possibile e giusta la transizione» dice Giorgio de Girolamo, attivista pisano. In alcune città più piccole si è deciso di manifestare domenica, per consentire anche a chi lavora di partecipare. «Qui a Pavia sciopereremo nel week end. Ieri siamo stati nelle scuole a dibattere. C’è voglia di parlare di clima» conclude Pietro Losio.
*( Lorenzo Tecleme . Giornalista freelance che collabora con Domani, Jacobin, Repubblica e Valori, è un giovanissimo attivista di Fridays for Future)

 

04 – Emiliano Brancaccio*: PEZZO DOPO PEZZO NELL’ECONOMIA DI GUERRA – LA UE CONTRO IL WELFARE. SI USA DIRE CHE STIAMO PRECIPITANDO VERSO UNA GUERRA MONDIALE “A PEZZI”. POSSIAMO ANCHE AGGIUNGERE CHE STIAMO SCIVOLANDO VERSO UNA “ECONOMIA DI GUERRA”? ALCUNI PRODROMI, IN EFFETTI, SI INTRAVEDONO. DUE […]

Si usa dire che stiamo precipitando verso una guerra mondiale “a pezzi”. Possiamo anche aggiungere che stiamo scivolando verso una “economia di guerra”? Alcuni prodromi, in effetti, si intravedono.
Due caratteristiche sono tipiche di un’economia che tende verso la guerra: l’aumento del deficit pubblico per finanziare il riarmo e la spinta inflazionistica a danno dei salari.
La mobilitazione delle finanze pubbliche per il rilancio della spesa militare è già in corso. I dati World Bank indicano che nell’ultimo decennio l’Unione europea ha accresciuto la spesa per armamenti di quasi un quarto. L’Italia è andata oltre, con aumenti superiori al 25 percento. Se accettiamo la tesi di un recente manifesto pubblicato dall’istituto Bruegel e dagli altri think-tank europei, siamo ormai nel mezzo di una “nuova guerra fredda”. Considerato che negli anni della “vecchia guerra fredda” l’Italia e il resto d’Europa spendevano per armi oltre il doppio di oggi, c’è da temere che l’incremento della spesa militare sia solo iniziato.
Ma come finanziare una tale corsa al riarmo? Ancora più tagli e privatizzazioni nei servizi pubblici, dalla sanità alla scuola, sarebbe la risposta ideale degli economisti ortodossi. Sarebbe tale anche per i capi di governo che vanno oggi di moda, i quali però sanno pure che la guerra richiede un minimo di consenso popolare. Bisogna allora drenare risorse dalla classe lavoratrice a favore dell’industria delle armi in modo meno plateale, più surrettizio. Il deficit pubblico è la soluzione ottimale. La banca centrale deve favorire questa opzione, abbassando i tassi d’interesse e contrastando i tentativi di liquidazione dei titoli pubblici da parte della finanza privata. In tal modo il disavanzo aumenta senza rischi di crisi finanziaria né di spread ai massimi. Così i banchieri centrali hanno agito fino a qualche tempo fa, ed è il motivo per cui negli ultimi anni abbiamo sentito parlar poco dei cosiddetti “mercati che puniscono gli spendaccioni”. Finché c’è guerra c’è speranza di fare debito.
C’è poi la tendenza inflazionistica. I nessi con l’economia di guerra sono molti, a partire dall’aumento del costo delle materie prime. Ma c’è un legame più insidioso, che si riferisce alle peculiari caratteristiche dell’attuale fase bellica. Abbiamo più volte spiegato che gli attuali venti di guerra sono alimentati dalla svolta degli Stati Uniti – con l’Unione europea al traino – verso una politica protezionista aggressiva, di divisione dell’economia mondiale in due blocchi: gli “amici” occidentali e i loro sodali con cui proseguire gli affari e i “nemici” cinesi, russi e orientali da tenere alla larga. Ebbene, una conseguenza di questo nuovo ordine protezionista è la riduzione dell’efficienza produttiva e l’aumento dei costi e dei prezzi. Naturalmente a scapito della classe lavoratrice: l’Ocse stima che negli ultimi due anni i salari reali orari sono caduti in quasi tutti i paesi occidentali, con un crollo superiore ai sette punti e mezzo in Italia. Il protezionismo bellico spiega una parte rilevante di questo impoverimento di massa.
È importante notare che questi caratteri tipici di un’economia di guerra entrano in contraddizione con il nuovo patto di stabilità e in generale con le regole europee. In base a queste, con la scusa della lotta all’inflazione la Bce è tornata a rialzare i tassi d’interesse, per la felicità dei creditori privati e l’ansia dei debitori. Inoltre, il patto in vigore impone controllo della spesa pubblica e contenimento del deficit. Certo, esiste una clausola richiesta proprio dal governo italiano, che fino al 2027 crea un po’ di tolleranza sull’aumento delle spese militari nell’aggiustamento del disavanzo. Ma è evidente che l’assetto generale delle norme europee è incompatibile con la tendenza verso un’economia di conflitti. Bisogna scegliere: o austerity recessiva o guerra inflazionista.
A Bruxelles c’è chi ritiene che il nuovo patto sia nato già vecchio, poiché non tiene conto della necessità di adeguare il sistema produttivo alle montanti esigenze belliche. Un inasprimento dei fronti di guerra potrebbe rendere inevitabili clausole più generose per favorire il deficit e l’inflazione. Meloni e Giorgetti un po’ ci sperano.
*( Fonte: Il Manifesto. Emiliano Brancaccio è un economista e saggista italiano.)

 

05 – Pierluigi Ciocca*: IL COMMENTO DELLA SETTIMANA – IL PROBLEMA ECONOMICO ITALIANO È, DA OLTRE VENT’ANNI ORMAI, UN “PROBLEMA DI CRESCITA”, DI TENDENZIALE RISTAGNO E BASSA QUALITÀ DELLE ATTIVITÀ PRODUTTIVE.
Concorrono due fattori: le carenze nel governo dell’economia e la tardiva, autonoma, risposta del complesso delle imprese.
Affinché l’Italia ritrovi la via della crescita occorrono sia quello che Einaudi chiamava buongoverno sia la presa d’atto da parte dei produttori che il confidare nella via battuta per decenni pone loro stessi a rischio nel medio-lungo periodo.
I grandi gruppi, privati e pubblici, superano a stento le dita di una mano e quanto offrono non si situa alla frontiera di un progresso tecnico che possa utilmente ricadere sull’intero tessuto produttivo.
Il ristretto manipolo delle migliori aziende medie manifatturiere è tuttora orientato alla gestione “familiare”. Un tale atteggiamento difensivo le dissuade dall’innalzare la scala produttiva, ricorrere a capitale e dirigenza dall’esterno, quotarsi in Borsa. Lo stesso distretto industriale ha perso brillantezza, incontra limiti.
Il resto del sistema – una galassia di quattro milioni e più di unità – è costituito da imprese irrimediabilmente minuscole, con due addetti in media, mera spugna di occupazione (quasi metà del totale).
Peraltro, il tutto non si riduce a una questione di dimensione aziendale, statica e dinamica.
Le imprese italiane d’oggi non sono solo “piccole donne che non crescono” così come non sono solo vittime dei vuoti di politica economica e di assetti infrastrutturali e istituzionali che i governanti non colmano.
Ancor più grave è che le imprese – considerate nel loro insieme, in media, al di là delle positive eccezioni – si sono da troppo tempo assuefatte a un circolo vizioso.
I profitti non sono scaturiti da accumulazione di capitale, innovazione e progresso tecnico, produttività (che tuttora secondo l’Istat giace sui livelli del 1995!).

I profitti sono derivati da tre fonti:
– BASSA CONCORRENZA IN DIVERSI SETTORI;
– ACCONDISCENDENZA SINDACALE E MODERAZIONE SALARIALE;
– UN RAPPORTO MALATO CON LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE, A PROPRIA VOLTA PER DECINE E DECINE DI MILIARDI BASATO SU TRASFERIMENTI DIRETTI, EVASIONE DELLE IMPOSTE, CONTRATTI DI FAVORE PER FORNITURE, APPALTI, CONCESSIONI.
Almeno il 10% delle attività economiche – duecento miliardi l’anno – sono stimate in nero, nel sommerso. Quegli stessi profitti – piuttosto che all’investimento, spesso addirittura negativo al netto dell’ammortamento – sono stati rivolti a ridurre i debiti aziendali.
Date le tre fonti di “facili” utili, ben visti dalla Borsa, perché rischiare nell’investire e nell’innovare?
Ma un siffatto sistema non può permanere. La concorrenza su scala internazionale crescerà, per ragioni geopolitiche, economiche, tecnologiche (ICT e AI, e non solo). La pax sindacale sarà scalfita da salari reali non più tollerabili, perché impari alle esigenze di consumo – private e sociali (istruzione, servizi, soprattutto sanità – dei lavoratori. Il risanamento del bilancio e del debito pubblico restringerà i margini desumibili dalle imprese che vi si affidano.
Il circolo vizioso – buoni profitti, bassa produttività – va spezzato.
Va spezzato dallo Stato, che promuova la concorrenza, predisponga infrastrutture fisiche e immateriali oltre il PNRR, ispiri a rigore le spese correnti non sociali e la fiscalità. Metà dei cittadini ha smesso di crederci, non vota.
Va spezzato dalle stesse imprese, se torneranno ad affidare profitti durevoli agli investimenti, alle innovazioni, all’efficienza, in una parola alla produttività.
L’impegno è rivolto alla responsabilità delle imprese, nell’interesse del Paese ma ne dipende anche la loro sopravvivenza.
*( Ciocca, Pierluigi. Economista e storico dell’economia.)

 

06 – Rossana e la scuola*: L’INTERVENTO DEL 1965 ALLA CAMERA. ATTI PARLAMENTARI. NEL 1965 LA DEPUTATA BANFI (ALL’EPOCA LE DONNE DOVEVANO TENERE IL NOME DEL MARITO) INTERVIENE IN AULA PER IL PCI SULLA RIFORMA DELLA SCUOLA, TRA ACCORDI FUORI DAL PARLAMENTO, GIRAVOLTE DEMOCRISTIANE, MOVIMENTO DEGLI STUDENTI, IL SENSO PROFONDO DELL’ISTRUZIONE E DELLO STUDIO UNIVERSITARIO

ROSSANA E LA SCUOLA, L’INTERVENTO DEL 1965 ALLA CAMERA
Roma, Teatro Eliseo, 15 febbraio 1970: prima uscita pubblica del gruppo-rivista Il Manifesto

Rossana Rossanda
Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, IV Legislatura
SEDUTA DI VENERDÌ 4 GIUGNO 1965
Presidenza del Vicepresidente Restivo, indi del Vicepresidente Rossi
La seduta comincia alle 11. (…)
L’onorevole Rossana Rossanda Banfi ha facoltà di illustrare la mozione Ingrao, di cui è cofirmataria (la mozione riguardava il “piano della scuola”, ndr).

Signor Presidente, onorevoli colleghi, non possiamo non accorgerci che questa seduta si svolge in una situazione che è poco definire singolare.
Si sono svolte infatti e tuttora si stanno svolgendo riunioni tra le ‘direzioni’ dei partiti e il comunicato della direzione del partito socialista italiano e il suo giusto risentimento per l’episodio ieri avvenuto in quest’aula possono far legittimamente pensare che siamo sull’orlo di una crisi di Governo.
Non possiamo non tener conto che la maggioranza ieri si è spaccata su un tema analogo a quello che andiamo a discutere oggi e si è spaccata con un atto qualitativamente nuovo nella sua gravità.

Il gruppo della democrazia cristiana, infatti, massicciamente e ufficialmente, per bocca del suo presidente ha rimesso in causa gli accordi di governo in tema di difesa del cinema italiano e contro il Governo ha fatto prevalere la sua tesi con l’aiuto della destra monarchica e fascista, coronando così quello che era già stato un in credibile itinerario di compromessi su una legge da oltre un anno all’esame del Parlamento.
Né, purtroppo, questi modi di agire del partito di maggioranza sono nuovi; li stiamo sperimentando più modestamente anche in sede di Commissione istruzione, in tema, per esempio, di scuola materna.
Noi ormai assistiamo alla prassi secondo la quale il Governo porta in Commissione o in aula i compromessi raggiunti in sede di Consiglio dei ministri o meglio in quella curiosa istanza, che è diventata di moda adesso, che è la riunione delle delegazioni dei partiti della maggioranza che extraparlamentarmente decidono fino nei dettagli tecnici dei progetti di iniziativa governativa; dopo di che, da parte della maggioranza democratica cristiana fioccano gli emendamenti riduttivi, restrittivi, faziosamente ideologici, destinati in genere a passare, non fosse che per il rapporto di forza numerica, e a modificare così sostanzialmente gli accordi di partenza.
L’episodio di ieri non ha avuto che il pregio di rimarcare pubblicamente e ufficialmente, con un voto massiccio del gruppo della democrazia cristiana, che questo partito non si sente vincolato a nessuno degli accordi presi col partito socialista, col partito repubblicano e, immagino, anche col partito socialdemocratico, il cui peso politico su questi temi è, per altro, di giorno in giorno più irrilevante.
Non si sfugge all’impressione che questo sta accadendo da un po’ di tempo soprattutto su questioni che investono la natura ideale della nostra società. Lo abbiamo visto a proposito della mozione su Il Vicario; l’abbiamo visto nel corso della discussione sul cinema; lo vediamo in tutta la elaborazione, faticosa e semiclandestina, della riforma della scuola.
Non è solo un caso di scorrettezza politica della democrazia cristiana nei confronti dei suoi alleati.
Credo che siamo arrivati al punto di dover trarre conclusioni politiche di fondo più gravi: riconoscere, cioè, che la democrazia cristiana, anche in tema di attuazione dell’accordo di centro-sinistra non accetta alcuna posizione sostanzialmente diversa da quelle che per anni ha sostenuto con l’esperienza centrista.
Dobbiamo riconoscere che questo partito non sembra capace di resistere a un complesso e vasto movimento, a una complessa e vasta pressione che non voglio neppure definire cattolica, ma clericale e codina, che opera alle sue spalle anch e se non è presente in quest’aula. (Proteste al centro).
I fiori che noi abbiamo sentito in questi giorni sotto il profilo culturale e ideale in materia di cinema meriterebbero un posto nell’antologia delle volgarità parlamentari (Proteste al centro) e ci duole che l’onorevole Zaccagnini abbia voluto erigersene a difensore, facendo loro l’onore sorprendente di travestirli da principi etico-sociali della Costituzione repubblicana.
Questa zavorra di cultura e di idee (Proteste al centro) pesa ancora sul partito cattolico ed è unita al vecchio abito mentale della democrazia cristiana che ha sempre concepito le sue alleanze e perfino i suoi impegni di Assemblea come un vincolo facoltativo. (Vive proteste al centro).

PRESIDENTE. Onorevole Rossanda Banfi, la prego di attenersi all’oggetto della mozione. Ella fino a questo momento ha parlato di tutt’altro.

ROSSANDA BANFI ROSSANA.
Se noi oggi insistiamo sul tema della politica scolastica, su un dibattito, cioè, in cui tutti scoprono le loro carte, è perché anche in questo settore conosciamo da anni il metodo che ci viene imposto dal partito di maggioranza relativa, che consiste nel venire tardi e male ad un discorso di riforma per poi bloccarlo nel tempo ed impoverirlo, facendo prevalere di fatto, con una serie di colpi di maggioranza, le proprie posizioni.
Tanto per citare alcuni fatti avvenuti nel corso di questi ultimi mesi, in tema di politica scolastica, sappiamo che al Senato è stato risolto il problema dell’università di Trento quando ancora non era stato presentato il progetto governativo di riforma universitaria; abbiamo constatato che la riforma delle scuole per segretari d’azienda è stata affrontata prima ancora che il Governo presentasse un progetto per il riordino dell’istruzione secondaria.
Quando questo metodo tendente a far passare una riforma a pezzi e bocconi, senza una discussione approfondita, non funziona, allora si arriva, come è avvenuto ieri, ad uno scontro diretto.
Non si può non pensare che esiste una precisa scelta politica, una ben chiara volontà politica. Non crederemo certo che la Presidenza del Consiglio sia stata ieri sorpresa nella sua buona fede dalla indisciplina del partito di maggioranza relativa, che l’onorevole Zaccagnini sia stato così temerario da votare contro la tesi sostenuta dal ministro del turismo e dello spettacolo all’insaputa dell’onorevole Moro, e che non vi sia infine un certo gioco delle parti tra la delegazione democristiana al governo e la maggioranza democristiana in Parlamento inteso a togliere con una mano quello che viene concesso con l’altra.

Dobbiamo riconoscere che la coerenza del partito cattolico nel modo di concepire i rapporti di governo con i propri alleati è da un ventina di anni fuori discussione.
Quello che resta da vedere è fino a quando i partiti laici , e in particolare il partito socialista, saranno disposti ad accettare questo stato di cose di cui, insieme con il paese, sono destinati a pagare il prezzo ogni giorno.
L’onorevole De Martino ha parlato di uno spirito di sacrificio del partito socialista, i cui limiti non possono più oltre essere valicati.
Non vorremmo che con l’episodio di ieri questo spirito di sacrificio fosse diventato addirittura una vocazione al martirio. (Commenti a sinistra).
E veniamo alla scuola. Non fa onore a questo Governo il fatto che sia stato necessario da parte nostra ricorrere ad un espediente procedurale, quale la presentazione di una seconda mozione, giacché una nostra prima mozione presentata nello scorso autunno non fu discussa, perché l’Assemblea fosse finalmente investita di una discussione generale sul piano della scuola.
Sono stati necessari parecchi mesi e la presentazione di una nuova mozione comunista perché questo piano, sbocco ed interpretazione governativa di un lungo processo culminato nel lavoro della Commissione parlamentare di indagine sulla scuola, venisse sottoposto a quel sia pur limitato confronto di posizioni politiche che la discussione di una mozione consente.
Non possiamo non sottolineare che senza questo nostro atto sarebbe passata sotto silenzio anche la violazione dei tempi entro i quali il Governo si era impegnatò a presentare talune riforme. Ad esempio, esisteva il preciso impegno di presentare entro il 30 giugno il complesso del programma di riforma. Abbiamo saputo che nel testo della mozione frettolosamente concordata ieri sera fra i partiti di maggioranza (e finora – a quanto pare – non presentata all’Assemblea) questo termine è stato prorogato al 30 dicembre.
Ora di questa prassi, che sostanzialmente è scorretta nei confronti dell’Assemblea, non ci sono ignoti i motivi: essi consistono nei ritardi nella elaborazione della riforma, nelle controversie di merito che a questo proposito esistono nella compagine di Governo, nella confusione dei principi che caratterizza il piano Gui e nelle limitazioni finanziarie che investono l’intera politica di programmazione e di piano.
Di queste difficoltà in cui versa il Governo, di questo impoverimento dei suoi contenuti ideali, della sua capacità riformatrice, la scuola, come sempre succede, paga forse uno dei prezzi più pesanti. E poiché anche in questo caso, a quanto pare, le forz e dell’attuale maggioranza sembrano piuttosto preoccupate di salvare il Governo che il suo contenuto, anche a spese degli accordi programmatici, una curiosa complicità, una congiura del silenzio si è stabilita per mesi intorno a questa grande discriminante della vita nazionale rappresentata appunto dal piano Gui.
Non sono rimasti che la nostra opposizione ed il movimento del paese.
Noi non ricordiamo un anno scolastico più travagliato dal punto di vista del movimento degli insegnanti e degli studenti volto a riportare alla luc e anche questo nodo gravissimo, quello della politica scolastica, per rompere questa congiura del silenzio, della quale la maggioranza si serve non solo in maniera non corretta nei confronti dell’Assemblea, ma anche nei rapporti reciproci fra le forze politiche che la compongono.
Anche qui, se gli accordi non vengono presentati e discussi nella loro globalità, è lecito credere che i contraenti mantengano e si pro pongano di far valere le rispettive riserve mentali.
L’accordo non ha che un valore politico nominale, dopo di che ricomincia il tiro alla fune all’interno della maggioranza , tiro alla fune che è destinato a modificare ed a deteriorare i termini iniziali.
Che la parte democristiana stia a questo gioco, e con quale combattività, l’abbiam o veduto; ci sorprende però che ci stiano anche le forze laiche, anche se di questo tiro alla fune – non foss’altro per il rapporto di forz e numeriche all’interno della maggioranza – esse sono in partenza perdenti; eppure non mancano di cadere in questo tipo di illusioni.
Che cosa vi è del resto al fondo del piano della scuola? I partiti della maggioranza governativa sanno che se si andrà ad una discussione di fondo, pubblica, in aula, di fronte al paese, questo piano non potrà passare come piano unitario della maggioranza. Il ragionamento che le forze democratiche all’interno del Governo fanno, o sembrano fare, è quello di accettare tale situazione di meno peggio, di non impegnarsi in una discussione

approfondita, nella speranza di poter strappare qualche cosa in sede di elaborazione di singoli progetti di legge. Si vedrà punto per punto che il piano dovrà essere emendato ed allora senza accorgersene ed in modo politicamente indolore il ministro Gui, che è uomo come tutti sanno candido e non energico nel battersi per le proprie idee, si troverà tra le mani una riforma tutta diversa da quella in cui aveva creduto.

Quel che è accaduto ieri insegna invece che il partito cattolico ha un a straordinaria combattività, è capace di condurre la sua lotta politica, e su queste questioni dimostra di essere forte della sua tradizione e della pressione clericale che ha alle spalle.
Siamo di fronte a fatti che ne investono la struttura ideologica, sulla quale, non a caso, si saldano e fanno blocco tutte le sue correnti, fondendosi nel comune cemento integralista.
Avviene così che, per una preordinata tattica della democrazia cristiana, da quando esiste il centro-sinistra, continuamente una riforma viene subordinata all’altra: non si fanno le riforme economiche con il pretesto di fare prima le riforme civili; non si passa però alle riforme civili con il pretesto di voler fare le riforme economiche.
Perché avviene tutto questo? Dipende solo dalla difficoltà dei partiti laici a reggere al rapporto di forze o dipende anche da qualche cosa di più profondo, di più sottile difficoltà cioè a difendere oggi i propri principi con una contestazione che sia insieme reale e attuale di fronte all’offensiva cattolica?
In altre parole, la debolezza dei partiti laici è solo politica o è anche una debolezza più profonda, di natura ideale?
Riusciamo noi oggi (e questo è, credo, un esame di coscienza che dobbiamo fare tutti, ma soprattutto debbono farlo le forze di tradizione laica presenti nella maggioranza) a sostanziare questa tradizione laica così gloriosa in tema di principi di educazione, di principi scolastici, di concezione dei rapporti tra Chiesa e Stato e riusciamo a radicarla alle forze di sviluppo sociale del paese, ai nuovi dati che queste forze sociali rappresentano, così come la democrazia cristiana tende a radicare la sua posizione ideale in quell’aspetto dialettico-sociale che è un aspetto di specifica conservazione?
Mi chiedo se le forze laiche non abbiano ieri perduto sul cinema, perché già nella loro accettazione del progetto governativo si apriva un varco alla discrezionalità del Governo in tema di difesa del cinema italiano; così pure io mi chiedo se questo lungo e penoso impoverimento del discorso sulla scuola, che pure parve uno dei grandi discorsi su cui il centro – sinistra avrebbe aperto una fase in qualche maniera nuova della vita nazionale, non abbia le sue radici anche in certi compromessi che già si verificarono quando si discusse della scuola unica e del suo carattere ed in un certo accordo che avvenne in tema di scuola privata al tempo della Commissione di indagine.
Non vi è dunque soltanto, noi temiamo, una timidezza politica, un imbarazzo per la difficoltà di tenere in piedi la coalizione, ma vi è qualche cosa di più che dovrebbe costringere tutti ad un esame di coscienza più profondo rispetto alle nostre stesse tradizioni ; un esame di coscienza di cui noi crediamo di veder lo sbocco nel senso che oggi questa gloriosa tradizione laica con la quale noi abbiamo condotto una serie di battaglie e che mette molti degli uomini anche dell’attuale maggioranza governativa in una difficile situazione morale vada difesa con un diverso rapporto politico, ideale e sociale con il complesso del movimento operaio italiano.
In questa fase dei vostri rapporti con la democrazia cristiana voi, colleghi del partito socialista e delle altre forze laiche, dovete assumere una posizione anche sui temi contenuti nella nostra mozione. La quale non contiene di nuovo forse che un punto, l’ultimo, per lo meno nell’approfondimento della parità di condizione dell’istruzione umanistica e di quella tecnico-professionale (tornerò poi su questo), problema nuovo sia alla cultura sia alla società, mentre per tutto il resto delle nostre richieste voi non potete non riconoscervi in esse come in richieste che sono vostro patrimonio e vostra proprietà .
Potreste quindi votarle con noi oggi. È solo una questione di opportunità politica che vi impedirà di farlo.
Noi non siamo qui a fare alcun ricatto, alcun tiro alla fune. Siamo qui a sottolineare il fatto che su questi temi, i quali investano la natura e lo sviluppo della nostra società civile, questo Governo è arrivato a una situazione di particolare tensione e di particolare crisi.
Per questo noi riteniamo che sia opportuno, sia sano – e semmai arriviamo tardi – che una discussione esplicita si svolga tra noi e le altre forze politiche sulla nostra mozione, cioè sul tema della scuola; che prima di procedere a qualsiasi operazione di riforma, questa Assemblea dia un giudizio sui contenuti, gli indirizzi, la linea politica secondo cui l’Italia repubblicana nel 1965 intende attuare la sua riforma scolastica.

La pretesa di procedere ad una riforma senza questa premessa sarebbe inaccettabile anche se la maggioranza non fosse divisa e inquieta come è oggi, anche se fosse la più seria e la pi solida delle maggioranze.
Come si può pensare che si possa indifferentemente cominciare con il discutere la riforma delle nostre strutture senza una precisa chiarificazione della politica di spesa o viceversa ? Non basta, come si può pensare che si possa iniziare la discussione della riforma delle strutture indifferentemente dal basso o dall’alto? Prima si affronta il problema della scuola materna perché il relativo progetto è già pronto: adesso viene sul tappeto una parte della legge universitaria perché vi sono aspetti che ne sono rimasti fuori: senza comprendere che le soluzioni in materia di scuola materna e di università non possono essere prese indipendentemente da un certo indirizzo che investe di necessità l’intero arco scolastico, indirizzo che viene stabilito in sede politica e che deve dirci quale tipo di formazione noi vogliamo dare ai nostri ragazzi, quale scuola noi vogliamo creare oggi nel nostro paese.
Ora, quale concetto abbiamo noi comunisti, quale concetto hanno le forze di Governo in ordine al rapporto scuola-società ? Di conseguenza, come si adeguano le singole riforme settoriali a questo concetto?
Se non ricordo male, tra la presentazione dei risultati della Commissione parlamentare di indagine e la presentazione dei primi progetti di legge era stato previsto un intervallo di tempo di sei mesi, durante i quali l’Assemblea avrebbe dovuto appunto sviluppare i risultati della Commissione d’indagine, esprimere un giudizio, ratificare o respingere l’analisi che le veniva sottoposta, ratificare o re spingere la linea che la Commissione di indagine proponeva. Questo non si è fatto.
Ora, il piano ha una sua coerenza, una sua coerenza però, a nostro giudizio, inadeguata alla struttura reale del paese.
Una riforma della scuola non ha solo bisogno di una sua organicità interna di principio: ha un fondamento se questa organicità di principio si ricollega con lo sviluppo delle forze reali . Il piano Gui sembra a noi coerente sui principi, incoerente, e quindi confuso nelle soluzioni, rispetto allo sviluppo specifico che la situazione sociale del paese presenta oggi.
Dicevo che l’Assemblea non ha ancora espresso un giudizio sul piano.
Significa questo che i partiti della maggioranza in qualche maniera accolgono questo sottofondo ideale, questa piattaforma ideologica del piano presentato dal ministro Gui?
Cioè, per andare al concreto : accolgono, come lui lo presenta, il concetto del rapporto che deve intercorrere tra scuola e sviluppo, rapporto che – direi, finalmente – il piano modifica solo introducendo a favore dell’autonomia della scuola un momento, che è un vecchio momento del concetto dell’educazione come formativa di una quieta personalità sociale?

Tanto è vero che, con forti parole, viene respinto il principio di una scuola che, impostando l’educazione critica può portare dentro di sé i germi di una dialettica rinnovatrice o sovvertitrice della società. Accettano le forze della maggioranza governativa la concezione ribadita del concetto di complementarità della scuola privata rispetto alla istruzione statale?

Accettano il rapporto che l’onorevole Gui presenta, in forme più o meno esplicite, fra Stato e scuola, Stato e comuni, concezione (tornerò poi su questo) esplicitamente autoritaria dello Stato?

Sono questi i principi accettati e condivisi, i principi ideali sui quali la maggioranza crede che si possa fare la riform a della scuola? Lo si dica allora. Si dica che questo è il terreno sul quale l’accordo di centro-sinistra idealmente si muove, che esso è espresso coerentemente dalla relazione di apertura del piano del ministro Gui.
Quello che non si può fare è fingere che si possano affrontare dei problemi settoriali di riforma senza dare esplicitamente queste risposte.

Noi abbiamo l’abitudine di vantarci – e credo anche giustamente – del carattere rappresentativo, aperto ed integrale che ha questa nostra democrazia parlamentare rispetto a forme autoritarie che sono in atto anche in paesi a noi vicini.
Mi permetto di ricordare agli onorevoli colleghi che nell’assemblea nazionale francese, cui il governo è assai meno subordinato di quanto non lo sia istituzionalmente in Italia, si sono svolti in queste settimane dibattiti specifici e aperti sui contenuti delle riforme scolastiche.
Su questi te mi che, del resto, per una lunga tradizione investono profondamente la coscienza nazionale francese, l’assemblea ha avuto una discussione che è andata al fondo degli elementi sociali, pedagogici e ideali.
Del resto, guardiamo ai fatti.
Mi voglio limitare (perché non credo che questa sia la sede per aprire una discussione sul piano; noi siamo qui a richiederla) soltanto a degli esempi per chiarire quella che a me sembra l’impossibilità tecnico-politica di procedere, come abbiamo proceduto, senza una discussione di fondo degli orientamenti generali della riforma.
Guardiamo i fatti: intorno alla discussione sulla scuola materna, per esempio, che si sta prolungando nella Commissione istruzione, al di là dei problemi di riforma tecnica, strutturale, specifica, giocano questioni di indirizzo sostanziale sulle quali non è possibile, sembra a noi, non pronunciarci in quella sede, trattandosi di un problema di scelta politica.
La democrazia cristiana ha impostato tutto il suo discorso sulla scuola materna basandosi sul concetto di un suo presunto carattere ancora (come dire ?) strettamente filantropico- assistenziale.

NOI – ED ALTRE FORZE CON NOI – PENSIAMO, INVECE, CHE LA SCUOLA MATERNA NON SIA UN FATTO DI ASSISTENZA, MA SIA UNA VERA E PROPRIA SCUOLA.
Dietro questa differenza, vi è una diversa concezione pedagogica, una diversa concezione del ruolo che la scuola assume nella società rispetto all’età infantile in questo specifico momento in cui – come ha ricordato un nostro collega in Commissione – assistiamo alla crisi della struttura sociale, alla disgregazione della società contadina e ad un certo tipo di formazione della società urbana nel quale il problema del rapporto fra bambino e famiglia assume una caratterizzazione nuova rispetto a quella che poteva essere 10-15-20 anni fa.
Qui non sono in giuoco scelte di carattere tecnico-strutturale della scuola; sono in giuoco analisi di tendenze, di indirizzi, di tipi di soluzione, di prospettiva che noi vogliamo dare.
Sempre in tema di scuola materna, il progetto governativo parla di scuola materna statale e respinge la scuola degli enti locali e la scuola dei privati in un’unica altra categoria, che non è presa in esame dal progetto di legge.
Anche qui, vi sono delle affermazioni di non poco rilievo politico generale: prima di tutto un’affermazione che noi riteniamo, fra l’altro, nettamente e francamente incostituzionale e che non pensiamo possa essere accolta – sia pur dopo un minimo di riflessione – dai partiti della maggioranza o per lo meno dai partiti laici della maggioranza governativa; ma, trattandosi di interpretazione costituzionale, non potrebbe essere accolta, per la verità, da nessun partito.
Il progetto sembra dimenticare che, ai sensi della Costituzione repubblicana, il comune non è qualche cosa di diverso dallo Stato, ma è un organo decentrato dello Stato, e che parlare di scuola statale dovrebbe comprendere anche la scuola dei comuni e che, quindi, la sola discriminante corretta, a termini di Costituzione, non può che essere fra scuola pubblica e scuola privata e non già fra scuola statale e scuola dei comuni o dei privati.
Che cosa c’è dietro a questa impostazione? C’è l’indicazione d’una persistente concezione autoritaria, anticostituzionale, che la democrazia cristiana porta nella sua concezione dello Stato.
E vi è forse anche un più sottile disegno: attraverso la degradazione del comune al livello dell’iniziativa privata, è contrabbandato il diritto dell’iniziativa privata, insieme con quella comunale, di concorrere a quest’opera di costruzione della scuola privata in cui lo Stato non intende che rappresentare una parte.

Si apre quindi già da questa posizione di principio la strada a tutto quel discorso sulla espansione della spesa pubblica in favore dei privati su cui poi torneremo.
Sono queste posizioni – ripeto – di linea politica e culturale, niente affatto di carattere tecnico, sulle quali non si vede come la Camera possa non esprimersi.
Non vedo presente l’onorevole La Malfa, poiché credo che sia in corso una discussione in Commissione bilancio. Ma io ricordo i suoi richiami continui alla sua filiale devozione alla memoria di Gramsci, per non parlare di Benedetto Croce, solo perché è implicito che la sua formazione è intessuta di quel pensiero e di quelle idee.
Bene, ma se non è sui grandi temi del carattere dello Stato, sul rapporto Stato-società, sul significato della scuola, sul significato dell’educazione, sul concetto della cultura; se non è su queste cose che si ritrovano le tradizioni – anche liberali – avanzate del nostro paese, oltre che le tradizioni socialiste, su che cosa si misura questa fedeltà ai principi?
È qui che le forze laiche – repubblicane e socialiste – devono dire qual è il peso che gettano sulla bilancia ideale della contrattazione nel Governo di centro – sinistra.

Lo stesso discorso può essere fatto per l’università. Anche qui mi limito a indicare i punti di indirizzo senza i quali non mi sembra possibile decidere la natura della riforma dell’ordinamento universitario.

Vi è anzitutto il problema del diritto allo studio, che in questa legge non è indicato.

Questo problema può essere correttamente im-postato soltanto se il Parlamento italiano precisa con chiarezza se ritiene o meno che lo studio universitario abbia un carattere di lavoro e di impegno sociale, e se il nostro paese intende porre il problema della istituzione del presalario, che può fare del diritto allo studio una realtà concreta di accesso all’università per le categorie dei lavoratori.

D’altra parte, dalla soluzione del problema possono derivare due diverse università, diverse nelle attrezzature, nel reclutamento degli insegnanti, nei rapporti con gli enti locali. E il discorso, da quantitativo, finisce col diventare un discorso di qualità.
Un’altra questione preliminare riguarda il modo di concepire il collegamento fra formazione professionale e formazione culturale.
Questa questione non riguarda soltanto noi, ma tutte le società; essa riguarda il modo di concepire la «sistemazione» del sapere, da cui derivano due diversi tipi di università.
Noi possiamo ritenere per fermo che formazione professionale e formazione culturale, allo stato attuale della cultura e di fronte a una società in sviluppo, non possono non essere che un unico momento.
E allora abbiamo una università che, per esempio, abolisce gli istituti aggregati e, se ammette il primo diploma, lo ammette come momento, come fase interna di un unico metodo.
Oppure possiamo credere che altra cosa sia la cultura e altra cosa sia la formazione professionale.
Ma questo significa allora che non ci siamo posti l’essenziale e urgente problema sociale della riqualificazione e della modificazione della stessa natura delle professioni.
La società si modifica, si modificano le forze di lavoro, le tecniche e nascono nuovi mestieri, dietro i quali non vi è solo un nuovo assetto sociale, ma il sorgere di un diverso modo con cui la società guarda se stessa.
Ora, scindere la cultura della formazione professionale significa non riconoscere questo che pure è un elemento essenziale della società italiana.
Io voglio anche ammettere che questo problema non sia risolto, ma desideriamo che ne abbia coscienza la nostra Assemblea, la quale deve dire se questo è o no un problema della società italiana.
Sempre per quanto riguarda le università vi è la questione dei rapporti, non più fra cultura e professione, ma fra studio-didattica e momento della ricerca scientifica.

Si può pensare che l’unico modo per insegnare all’università sia quello di fare del momento didattico e del momento della ricerca scientifica una sola cosa e sia anche il solo modo per risolvere la disastrata situazione della ricerca scientifica nel nostro paese: oppure che altra cosa è formare un ricercatore e altra un laureato e che i due problemi non sono strettamente connessi alla natura e al carattere interno della riforma universitaria che vogliamo attuare.
Anche a questo proposito, si tratta di una scelta avente natura politica e che, per il fatto di investire la ricerca scientifica, va ben oltre la natura della nostra università.
E’ una di quelle questioni di ordine sociale sulle quali il Parlamento e la stampa hanno l’abitudine di piangere una volta all’anno senza che mai nessuno affronti a fondo questo tipo di problematica.
In sede di riforma universitaria va affrontata anche questa questione. Non si tratta di tecnica legislativa ma di una scelta sociale preliminare alla realizzazione tecnica, che non può non investire la sede politica, delle riforme settoriali.
Questo problema si presenta in tutta la sua urgenza nel paese e appare chiara la responsabilità politica per la sua mancata soluzione, quando si pensi a tutta la fascia dell’istruzione secondaria, problema esso pure non risolto, in particolare quello dell’istruzione professionale.
Sulla materia non vi è un disegno di legge governativo, ma un progetto del gruppo comunista.
Ma si può seriamente pensare a quale deve essere l’università italiana senza avere deciso, non dico prima ma insieme, che cosa debba essere la fascia dell’istruzione secondaria che tutti riteniamo debba essere seriamente e radicalmente riformata?
È evidente che l ‘università̀ sarà quello che la scuola secondaria le consentirà di essere.
A questa fascia di istruzione secondaria e in particolare all’istruzione professionale, quale natura diamo? Come accennavo prima a proposito della professionalità a livello universitario, questo è un problema aperto in tutti i paesi, sia quelli a ordinamento capitalista sia quelli a ordinamento socialista.
Ricordo che va in crisi la vecchia distinzione fra liceo, la scuola aristocratica che fa da ponte all’università̀, che non dà titoli professionali, e la scuola che prepara alla professione e al lavoro.
Questa concezione va in crisi non solo perché oggi matura un’esigenza di promozione sociale, per cui nessun paese è più disposto ad ammettere che all’istruzione professionale debba essere attribuito un ruolo sociale inferiore, essere considerata quasi una strada chiusa; ma va in crisi, anche qui, qualcosa di più profondo.
Noi siamo, io credo, di fronte ad un momento di trasformazione, di rivoluzione culturale, nella quale il nesso tra formazione della cultura e lavoro, il rapporto tra cultura ed espressione concreta della società si presenta con un carattere nuovo, diverso da quello con cui poteva essere presentato in forme più arretrate dello sviluppo.
Noi marxisti a questo problema, che conosciamo da un pezzo nella nostra storia teorica, abbiamo dedicato un’analisi, una prospettiva di indirizzo: lo abbiamo collegato alla divisione del lavoro e al suo superamento.
Noi però vediamo che oggi questo problema – divisione del lavoro e suo superamento – nel campo sociale e considerato attraverso le sue tangenti culturali, non sta solo in un processo volontaristico, liberatorio, della classe operaia e della sua teoria politica, ma già si presenta come oggettivo processo sociale corrispondente ai più alti livelli produttivi.
Non occorre ricorrere ai Grundrisse di Marx per trovarlo oggi presente in forme curiosamente parziali e mistificate nella più interessante pubblicistica pedagogica moderna.
Su una questione di questo tipo ci siamo trovati di fronte all’incertezza ed anche alla banalità del piano (e in questo noi facciamo la nostra doverosa parte di autocritica come componenti della Commissione parlamentare di indagine), banalità che poi, nel piano Gui, si manifesta in questa continua confusione ed interscambio tra istruzione professionale, artigianale, formazione, addestramento, in cui i termini e l’oggetto della questione sembrano sfuggire.
Questo è inaccettabile e ci riporta indietro rispetto alle maturazioni dei processi sociali; dà al piano Gui un carattere culturalmente subalterno, frammentario, un carattere la cui conclusione quasi obbligatoria (per l’incapacità di cogliere nel suo complesso questo tipo di processo) è poi quella della consegna di gran parte dell’istruzione professionale ad una competenza extrascolastica, che poi è la competenza dei privati.
Ho voluto esemplificare questi tre punti – scuola materna, università, istruzione professionale – non per discuterli nel merito, ma per sottolineare l’urgenza di tale discussione; urgenza che, ripeto, non può non investire la sede politica, non può non costituire il dibattito preliminare attraverso cui l’Assemblea, nel suo complesso, democraticamente, a seconda di quella che è la sua maturazione politica e civile, la sua capacità di corrispondenza al processo sociale e culturale, opererà le sue scelte.
Il dibattito di indirizzo va pure fatto sulle altre due questioni che passano verticalmente attraverso il piano Gui ed anche ai due progetti di riforma finora presentati, e cioè sul problema della scuola privata, del suo carattere complementare rispetto all’istruzione pubblica di Stato, e su quello della politica della spesa.
Sulla questione della complementarità della scuola privata non voglio tornare a ribadire le posizioni chiare ed esplicite del nostro partito.
Il nostro partito non ha mai fatto questioni di libertà costituzionali: a chiunque deve essere consentito di aprire scuole e di insegnare.
Noi riteniamo per fermo che, al di là perfino del profilo giuridico-costituzionale, il solo modo corretto col quale un’assemblea e un governo possono porsi di fronte allo stato drammatico in cui, per dichiarazione unanime, versa la scuola italiana è quello di una totale assunzione da parte dello Stato dei problemi della ristrutturazione scolastica e quindi anche di una totale assunzione delle spese.
Questo è un compito al quale non possono rinunciare uno Stato che si dichiari capace di governare e un’assemblea che voglia essere sovrana.
Come possiamo noi accettare che si deleghi al privato quello che è un dovere della collettività? Noi assistiamo a un permanente degradare della spesa per la scuola: non mi riferisco al piano Saraceno, perché si dirà che non è mai divenuto un documento di governo, e nemmeno al piano Giolitti, che ha avuto anch’esso una triste vita; intendo però riferirmi al piano della Commissione d’indagine e da questo scendere al piano Gui, dal piano Gui al piano Pieraccini, dal piano Pieraccini alla proroga della legge stralcio che ci verrà presentata in questi giorni.
E mi limito a pochissimi esempi. Per l’edilizia scolastica, il piano Pieraccini valuta il fabbisogno di posti in 4 milioni e 296 mila, mentre le previsioni della Commissione d’indagine superavano i 6 milioni. Nel quinquennio, il piano Pieraccini ne prevedeva un milione e 455 mila contro i 2 milioni e 575 mila dello stesso piano Gui, previsioni, queste ultime, già ridotte rispetto a quelle della Commissione d’indagine. A sua volta, il piano Gui sopriva i sei decimi dei posti mancanti.
Assistiamo, quindi, ad una degradazione del fabbisogno – non si capisce come conteggiato – fra le previsioni della Commissione d ‘indagine e quelle del piano Pieraccini.
Per quanto riguarda le università, lo stesso piano Pieraccini prevede la costruzione di nuovi edifici per un milione e 350 mila metri quadrati nel quinquennio, mentre la Commissione d’indagine ne prevedeva 9 milioni per il decennio (non è verosimile che gli altri 8 milioni potranno essere costruiti a grande velocità nella seconda metà del decennio) oltre a prevedere il sistema dei mutui.
Quanto al fabbisogno di insegnanti, il processo di ridimensionamento continua: dalla Commissione d’indagine alla relazione del ministro della pubblica istruzione e al piano Gui si arriva al programma quinquennale di sviluppo, in cui si prevedono 70mila nuovi professori nel quinquennio contro i 280mila proposti nel decennio dalla Commissione d’indagine.
Per gli investimenti e le spese pubbliche , il piano prevede 6 .650 miliardi per le spese correnti contro i circa 7 mila del piano Gui. Per l’edilizia non è possibile un raffronto, in quanto nella cifra del piano Gui sono esclusi i contributi degli enti locali, mentre gli investimenti di circa 1.025 miliardi del piano economico comprendono i contributi degli enti locali.
Basta dire però che la Commissione parlamentare d’indagine prevedeva un fabbisogno di 1.500 miliardi. Quindi anche qui la riduzione è permanente.
Circa poi il rapporto fra spesa per l’istruzione e reddito nazionale nel prossimo quinquennio, si dice che rispetto al quinquennio precedente il rapporto salirebbe dal 4,1 al 5,3.
Basta però pensare che nel 1961 questo rapporto era già del 5,24, per cui rimarrebbe sostanzialmente una costante nel prossimo decennio, mentre cinque anni fa era del 4 e dieci anni fa poco più del 3. Quindi, il ritmo di incremento della spesa per la scuola nel prossimo quinquennio è previsto minore al ritmo di incremento della scuola nei periodi precedenti.
Accanto a questo vi è il gonfiarsi delle spese che noi riteniamo anticostituzionali per la scuola privata, per la quale è prevista una spesa di 90 miliardi, accrescendo proporzionalmente allo sviluppo della spesa statale (e quindi praticamente programmando lo sviluppo della scuola non statale) la spesa di 9 miliardi già prevista in base alla legge n. 1073.
Nel rilevare il pericoloso slittamento della spesa per la scuola non ho tenuto conto degli ultimi dati che ci vengono dalla sede politica.
Essendo diminuito il reddito nazionale e il piano Pieraccini non essendo concepito come momento di riequilibrio e di risanamento di esso, avremo una percentuale che scende; quindi le spese per la scuola verosimilmente saranno inferiori a quelle del quinquennio precedente.
Questi sono i motivi per i quali noi consideriamo come elemento minimo su cui l’Assemblea non può non impegnarsi il punto di riferimento finanziario ai fabbisogni indicati dalla Commissione parlamentare d’indagine, tenendo anche presente, come tutti i colleghi sanno, che, essendo invecchiata tale Commissione, quel tipo di spesa allora proposto è già insufficiente perché aumentano i costi, ed è destinato a diventare sempre più insufficiente col ritardo nella sua applicazione.
Questi sono i motivi per i quali il nostro gruppo ha ritenuto di dover presentare la mozione e che illustrano le nostre richieste su cui chiederemo il voto della Camera:
di non procedere ad alcun provvedimento parziale di riforma prima che si svolga una discussione globale sulle linee generali della riforma stessa;
di assumere come limite minimo della spesa per la scuola il fabbisogno indicato dalla Commissione parlamentare d’indagine;
di riaffermare il dovere dello Stato di assicurare attraverso la scuola pubblica il soddisfacimento del diritto di tutti i cittadini al l’istruzione, senza attribuire un compito specifico alla scuola privata.
In particolare crediamo che l’Assemblea debba decidere in tema di riforma su quei punti che riguardano la natura, il carattere che vogliamo dare al di ritto allo studio, alle possibilità di accesso all’università e al complesso problema del rapporto fra istruzione umanistica e istruzione tecnico-professionale.
Un solo punto della nostra mozione non ho ricordato, quello che riguarda il rinnovamento democratico delle strutture scolastiche e la realizzazione di un sistema di autogoverno della scuola. Non l’ho ricordato perché su di esso voglio terminare ricordando alla Assemblea che l’autogoverno della scuola in questa fase della nostra vita politica non è soltanto una concessione democratica che il Parlamento può fare o no, oppure, come prevede il progetto di riforma delle università, dosare col misurino o che possa essere oggetto di trattative in sede di accordi di governo.
Bisogna capire che l’autogoverno della scuola è un dato di fatto nella formazione della nostra società nazionale che il Governo ed il Parlamento devono intendere e ratificare.
È già in atto nel processo sociale una riforma che nasce dal ritardo con il quale la classe dirigente politica (e qui esiste una precis a responsabilità del Governo e della maggioranza) ha affrontato i problemi della scuola italiana, ritardo che non può essere più tollerato.
Mentre voi ritardate nel tempo la soluzione delle questioni di fondo, la scuola va in crisi, ma nello stesso tempo esprime già delle forme nuove che racchiudono in sé la volontà di dare vita ad una riforma e sono già in nuce un momento di autogoverno della scuola italiana.
La verità è che nel paese sono maturati i processi sociali e culturali, e lo sono tanto maggiormente quanto più poveri e ritardatari appaiono questo Governo e questa maggioranza, nella loro capacità di interpretarli e dirigerli.
La verità è che voi non riuscite a governare nulla se non andate in fondo alla realtà. E non andate in fondo alla realtà perché siete incerti e divisi nella sua interpretazione e nelle scelte che essa vi impone. Questo è il senso della nostra mozione.
Guardiamoci in faccia: oportet ut scandala eveniant. Se deve avvenire uno scandalo nella nostra società in tema di politica scolastica, ebbene, che questo scandalo avvenga!
Ma guardate un po’ la realtà. Il vostro progetto di riforma universitaria non è ancora arrivato alla discussione in Commissione e in aula e già sta ottenendo quello che non sono riuscite ad ottenere le opposizioni di tutto il movimento studentesco, cioè la frattura di quella organizzazione unitaria dei professori del corpo accademico sulla quale l’onorevole ministro, grazie alla pressione dei magnifici rettori, pensava di potere avere un controllo.
Oggi il mondo universitario, e non soltanto gli studenti, non accetta questo tipo di soluzione.
Confrontare le nostre idee, andare fino in fondo e alla radice dei nostri principi: questo è il solo modo con il quale il Parlamento può far fronte a questo processo prima che esso si degradi e diventi un insolubile momento di crisi nel rapporto tra società̀ politica e società civile.
(Applausi all’estrema sinistra — Congratulazioni).

 

 

 

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