n°13 – 30/03/24 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Chiara Cruciati*: «Armi e processi, la Corte dell’Aja ha prodotto effetti a cascata». ISRAELE/PALESTINA. Intervista al giurista Triestino Mariniello: «La decisione della Corte internazionale influirà anche sulla Corte penale che nel 2021 ha aperto un’indagine sui crimini di guerra commessi nei Territori occupati»
02 – Carlo Formenti*: Salario minimo? Timeo Danaos et Dona Ferentes
03 – Chiara Cruciati*: Il regalo Usa a Netanyahu in marcia su Rafah: 2mila bombe e 25 jet
GAZA. Washington Post: miliardi di dollari in armi. E Gallant presenta a Biden la sua idea: truppe arabe per tagliare fuori Onu e palestinesi
04 – Sabato Angieri*: Tusk: «La guerra è alle porte». E fa decollare i caccia alleati – IL LIMITE IGNOTO. Un drone cade in Romania. La Bulgaria cerca di mediare: «Evitiamo l’escalation» Caccia della Nato.
05 – Federico Gonzato*: I lobbisti continuano a entrare in Parlamento senza farsi notare .
06 – Sabato Angieri*: Loro terroristi, lui macellaio. Alla guerra con i soliti mezzi – RUSSIA . Mosca insiste: tracce ucraine sulla strage al Crocus. Biden insiste: il leader russo un carnefice – Loro terroristi, lui macellaio. Alla guerra con i soliti mezzi.

 

01 – Chiara Cruciati*: «ARMI E PROCESSI, LA CORTE DELL’AJA HA PRODOTTO EFFETTI A CASCATA». ISRAELE/PALESTINA. INTERVISTA AL GIURISTA TRIESTINO MARINIELLO: «LA DECISIONE DELLA CORTE INTERNAZIONALE INFLUIRÀ ANCHE SULLA CORTE PENALE CHE NEL 2021 HA APERTO UN’INDAGINE SUI CRIMINI DI GUERRA COMMESSI NEI TERRITORI OCCUPATI»
«Mai visto un simile supporto popolare a uno strumento del diritto internazionale. Il 19 gennaio davanti alla Corte internazionale c’erano emittenti tv e testate giornalistiche di tutto il mondo, tantissime persone venute a seguire l’udienza. Avevi subito la percezione che si trattava di una giornata storica. I colleghi palestinesi me lo hanno detto: a prescindere dall’esito abbiamo già vinto. In diretta mondiale per la prima volta si parlava di genocidio contro persone che fino al giorno prima non avevano voce».

Racconta così il primo giorno di udienza del caso Sudafrica vs Israele all’Aja Triestino Mariniello, associato di diritto penale internazionale alla Liverpool John Moores University e parte del team legale che rappresenta le vittime palestinesi di fronte alla Corte penale internazionale (Cpi).

IL 26 GENNAIO LA CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA (CIG) HA EMESSO SEI MISURE CAUTELARI, DISATTESE DA ISRAELE. GIOVEDÌ HA EMESSO NUOVI ORDINI.
La nuova ordinanza rappresenta un’ulteriore vittoria per il Sudafrica. Conferma che c’è ancora rischio di genocidio plausibile a Gaza e sottolinea che quello che il 26 gennaio era solo un rischio di carestia ora è realtà. Cita dati impressionanti: il 31% dei bambini sotto i 2 anni soffre di malnutrizione acuta e almeno 27 minori sono morti. Ma, sebbene noti che molte organizzazioni ritengono il cessate il fuoco l’unico modo per porre fine alla carestia, la Corte non lo impone come misura cautelare. Impone invece a Israele la garanzia immediata di aiuti umanitari e la prevenzione di atti genocidari. Infine dà altri 30 giorni a Israele per presentare un rapporto in merito. Da un lato si tratta di una decisione positiva perché conferma che Israele sta commettendo atti plausibilmente genocidari, dall’altro però manca l’imposizione esplicita del cessate il fuoco. In ogni caso sette giudici su 15 nelle loro opinioni allegate alla decisione fanno riferimento al cessate il fuoco e al fatto che la Corte avrebbe dovuto ordinarlo perché la distribuzione di beni può avvenire solo in un contesto di cessazione delle ostilità.

NON C’È CESSATE IL FUOCO ESPLICITO MA DI EFFETTI LA DECISIONE DEL 26 GENNAIO NE AVEVA PRODOTTI.
La decisione è storica perché pone fine per la prima volta all’impunità di Israele a livello internazionale e perché ha già prodotto effetti. Sul breve periodo paesi o tribunali hanno ordinato l’interruzione della vendita di armi a Israele. È una tendenza che crescerà e nel medio periodo inciderà sui rapporti economici e militari con Israele, anche di paesi occidentali. E non escludo sorprese nel futuro anche negli Stati uniti. Avrà poi effetti sui procedimenti penali per responsabilità individuale in commissione di atti di genocidio: in Germania c’è già un processo in corso contro Schulz per complicità, in Svizzera contro Herzog per crimini contro l’umanità. E prima o poi avrà effetti anche sul lavoro della Corte penale internazionale: è scandaloso che la Procura della Cpi ancora non abbia detto nulla.

E SUL FRONTE DELLE SANZIONI INTERNAZIONALI?
Non va escluso. Guardiamo alla storia: alla vigilia della caduta del regime di apartheid in Sudafrica nessuno si aspettava che potesse crollare. È stato possibile in presenza di una mobilitazione permanente della società civile: non saranno gli strumenti del diritto internazionale a portare alla liberazione del popolo palestinese.

HA CITATO LA CORTE PENALE. IL PROCURATORE KHAN PUÒ INSERIRE L’ORDINANZA DELLA CIG NELLA SUA INDAGINE?
Sì, il procuratore ha ampia discrezionalità. C’è già un’indagine in corso alla Corte penale internazionale. La Palestina si è rivolta alla Cpi la prima volta nel 2009 dopo Piombo fuso. E dopo tre anni l’allora procuratore capo, l’argentino Luis Moreno Campo, decise di non decidere. Disse: non sappiamo se la Palestina è uno Stato ai sensi dello Statuto della Corte. Anche quando l’Assemblea generale dell’Onu riconobbe la Palestina come Stato osservatore, il procuratore non è mai tornato sui suoi passi: nessuna indagine su Piombo fuso e su crimini di guerra ampiamente documentati anche dalle Nazioni unite. Poi, nel 2015 dopo Margine protettivo, la Palestina si è rivolta di nuovo alla Corte penale. Cinque anni dopo, alla fine del 2019 la procuratrice Fatou Bensouda ha concluso l’indagine preliminare e nel marzo 2021 ha aperto le indagini. Pochi mesi dopo però è stato eletto Khan, che ha congelato l’indagine, alimentando seri dubbi sulla sua indipendenza. Fino a fine ottobre: il procuratore ha visitato il valico di Rafah, ha iniziato a intraprendere una serie di azioni e qualche settimana fa ha detto di stare indagando con utmost urgency, massima urgenza. I reati imputabili a cittadini israeliani che lui cita sono l’affamare deliberatamente la popolazione civile di Gaza e la violenza commessa dai coloni, ma non fa riferimento agli altri crimini ampiamente documentati.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:
All’Aja un’occupazione che si è fatta regime militare
QUALI SONO I CONTENUTI DELL’INDAGINE APERTA NEL 2021?
I crimini di guerra commessi nell’ambito di Margine protettivo, quelli commessi nell’ambito della Grande marcia del ritorno e le colonie. Ma non sappiamo se Khan stia procedendo. Non esiste un limite temporale, la Procura ha piena discrezionalità.

COME VALUTA LA NOMINA DELL’AVVOCATO ANDREW CAYLEY, EX PROCURATORE GENERALE BRITANNICO, A CAPO COORDINATORE DELL’INDAGINE?
La sua nomina è problematica. Innanzitutto Cayley è molto vicino ai conservatori britannici, che formalmente si oppongono all’indagine della Cpi in Palestina. In secondo luogo, da procuratore capo militare in Gran Bretagna ha chiuso tutte le indagini sui crimini di guerra commessi dalle truppe britanniche in Iraq, impedendo alla Cpi di indagare in merito perché ufficialmente lo avevano già fatto le autorità nazionali. In terzo luogo, non sono chiari gli standard di imparzialità e indipendenza adottati dalla Cpi in merito ai procuratori e allo staff della procura: qualcuno così vicino a un partito non soddisfa tali requisiti, di fatto la Corte adotta standard più bassi di quelli degli stessi stati membri. Quarto, il suo nome viene reso pubblico quando nessuno conosce le identità degli altri membri del team investigativo: credo sia un modo per rassicurare chi è contrario a tale indagine.

IL FILE PRESENTATO ALLA CORTE PENALE È AGGIORNABILE CON NUOVI CRIMINI DI GUERRA?
Il raggio di azione delle indagini si può restringere o allargare in qualsiasi momento. Anche perché le indagini effettive iniziano in una fase successiva: nella fase preliminare si usano solo le cosiddette prove indirette come i report di organizzazioni non governative o delle Nazioni unite. Poi con le indagini si attiva un procedimento penale che deve poter sostenere un processo.

La società civile palestinese ha fatto un enorme lavoro di raccolta e documentazione in merito.

Senza il lavoro della società civile palestinese non ci sarebbe mai stata un’indagine alla Corte penale internazionale. Siamo a marzo 2024 e nessun investigatore dell’ufficio della Procura ha mai messo piede a Gaza o in Cisgiordania. La società civile, per raccogliere le prove dei crimini, non poteva aspettare l’arrivo della Corte. Dieci, 15 anni dopo, come si fa a raccogliere prove di quanto successo nel 2009, nel 2014 o nel 2018? Dietro c’è un lavoro di documentazione delle organizzazioni della società civile, in particolar modo del Palestinian Center for Human Rights e al Mesan a Gaza, di Al Haq, Addameer, Defence for Children in Cisgiordania. Hanno pagato un prezzo molto alto: sei di queste organizzazioni sono state designate da Israele come terroriste nel novembre 2021, per la loro cooperazione con la Corte penale. È impressionante come non abbiano ricevuto nessun sostegno dalla stessa Corte, nemmeno una dichiarazione.

ONG PALESTINESI SOTTO ATTACCO. PER ISRAELE SONO ORGANIZZAZIONI TERRORISTICHE
LEI HA PARTECIPATO A QUESTO LAVORO.
La documentazione viene raccolta dalle organizzazioni sul campo. Il nostro ruolo di giuristi è costruire la base legale, presentare memorie sulla base delle fonti primarie e delle prove raccolte, spiegare alla Procura ed eventualmente ai giudici in che modo queste prove dimostrino la commissione di crimini internazionali. Questo avverrà in modo più efficace quando si apriranno i processi. È quello che è mancato finora: l’apertura dei casi e l’identificazione di eventuali responsabili.

L’ASSEDIO DI GAZA, INIZIATO NEL 2007, RIENTRA IN QUESTO FILE?
In termini giuridici l’assedio di per sé costituisce un attacco sistematico e su larga scala alla popolazione civile di Gaza. La sua radicalizzazione, oggi, pensiamo alle dichiarazioni di assedio totale di Gallant, rientra nella giurisdizione della Corte penale internazionale. Il diritto umanitario internazionale vieta in modo assoluto la privazione di beni essenziali come metodo di guerra. Non è ammissibile alcuna deroga. Rientra anche nel concetto di genocidio, che si esplica anche con l’imposizione di condizioni di vita volte a distruggere il gruppo protetto. Tra queste condizioni ci sono l’assedio totale e la privazione dei beni essenziali. Il Sudafrica ha citato questi aspetti di fronte alla Cig.
*(Chiara Cruciati – Segue le pagine internazionali del manifesto, dalla scrivania di via Bargoni e dalle città del Medio Oriente. Vicedirettrice del manifesto)

 

02 – Carlo Formenti*: SALARIO MINIMO? TIMEO DANAOS ET DONA FERENTES

L’ITALIA È L’UNICO PAESE EUROPEO CHE ABBIA REGISTRATO UNA CONTRAZIONE DEI SALARI REALI NEL TRENTENNIO 1990-2020;
– è anche il Paese che vanta il poco invidiabile record di una percentuale a due cifre di working poor (nel 2019 i lavoratori in condizioni di povertà erano l’11,8% del totale);
– è infine il Paese in cui i lavoratori che percepiscono una retribuzione oraria inferiore agli otto euro e mezzo l’ora sono più di un milione (1,3).
Non sono forse tre buone ragioni per fissare un salario minimo legale, provvedimento che ci viene fra l’altro sollecitato dall’Europa? Savino Balzano, sindacalista pugliese (di Cerignola, città natale di Di Vittorio, precisa orgogliosamente) già autore di libri (1) sulle problematiche del lavoro e collaboratore de La Fionda, non è convinto che questa sarebbe la soluzione giusta per migliorare le condizioni di una delle classi lavoratrici più tartassate del mondo occidentale, e spiega le ragioni di tale opinione in un pamphlet dal titolo Il salario minimo non vi salverà, appena uscito da Fazi Editore.
IL SALARIO MINIMO, sostiene, potrebbe essere l’ultima di una lunga serie di trappole che, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, hanno collaborato a ridurre progressivamente il potere contrattuale dei lavoratori italiani, fino a ridurlo praticamente a zero. Descrivendo le tappe di questa via crucis, l’autore prende le mosse da Luciano Lama, la vestale del moderatismo sindacale che, con parole degne di Menenio Agrippa, spiegò agli operai che l’impasse del lungo ciclo di lotte del decennio 60/70 era l’inevitabile esito di una stagione di rivendicazioni “estremiste”, alimentate dall’illusione di fare del salario una variabile indipendente. Purtroppo, ammoniva Lama, appellandosi alle “leggi” dell’economia canonizzate dagli esperti al servizio della Confindustria, il capitalismo conosce una sola variabile indipendente, vale a dire quel profitto che, ove costretto a scendere al di sotto di un “ragionevole” minimo, provoca crisi, disinvestimenti, chiusure di imprese, licenziamenti.
Una volta incisa nell’opinione pubblica l’idea che la crisi iniziata negli anni Settanta era attribuibile alle intemperanze del sindacalismo di base e dei consigli dei delegati di reparto, (e non alla fine della copertina balzano.jpegbonanza delle materie prime a buon mercato, ai conflitti interimperialistici, all’avvio di un nuovo ciclo di finanziarizzazione dell’economia, ecc.), e una volta imboccata la via della “compatibilità” fra livelli salariali e margini di profitto, si è scesi lungo un piano inclinato sempre più ripido. Incassata la sconfitta della Fiat nel 1980, celebrato (con la scarsa opposizione, se non con la benedizione, di una sinistra sempre più sensibile alle sirene neoliberali) il divorzio fra Banca Italia e Tesoro (1981), a partire dal quale è divenuto impossibile ricorrere al debito pubblico per finanziare politiche economiche anti regressive, si è benedetto il compromesso storico PCI-DC celebrato all’insegna dell’austerità come valore “di sinistra” (2). Finché nel 1985 i sindacati, sposando la tesi che attribuiva la causa dell’inflazione al meccanismo di indicizzazione dei salari, firmano il protocollo Scotti che taglia del 15% la scala mobile, che verrà finalmente soppressa nel 1992, lo stesso anno di quel Trattato di Maastricht che segna la definitiva abdicazione dello Stato italiano alla possibilità stessa di praticare politiche economiche anticicliche.
La cronistoria che Balzano stende dei tradimenti perpetrati nei confronti degli interessi dei lavoratori si articola su due linee, parallele ma strettamente connesse. Da un lato, si impegna a smascherare il mito di un’Europa chiamata a legittimare le politiche di contenimento di retribuzione e spesa pubblica come via obbligata per evitare la catastrofe del fallimento. Un’Europa che letteralmente non esiste, scrive Balzano, ove si consideri che non condividiamo una lingua né un’identità comuni, né tanto meno, uno spirito solidaristico unitario; ma se non esistono una comunità o un popolo europei, esiste la UE in quanto sistema giuridico, ingegneria istituzionale, un organismo che, ancorché privo di legittimazione democratica, può dettare ai paesi membri le politiche pubbliche. Esiste l’Europa come spazio che impone la concorrenza fra stati per attirare capitali garantendo bassa pressione fiscale, tagli allo stato sociale, basso costo del lavoro. L’Europa che nel 2012 ci ha imposto di integrare il Fiscal Compact nella Costituzione, cancellandone con un tratto di penna tutti gli articoli formulati a tutela della dignità del lavoratore e del cittadino.
Dall’altro lato l’autore elenca gli obiettivi che, sfruttando l’inquadramento del Paese nella gabbia europea e la trasmigrazione di vertici sindacali e partitici sotto i vessilli del liberismo, questa spietata guerra di classe dall’alto (3) è riuscita a realizzare sul fronte interno. Di anno in anno, accusa, la classe operaia è stata inondata di menzogne, un coro cui hanno partecipato non solo sindacalisti e politici ma anche intellettuali, studiosi, giornalisti unanimemente impegnati ad assicurare, in occasione di ogni taglio di salario diretto e indiretto (sanità, pensioni, welfare), e di ogni cambiamento peggiorativo delle regole sui contratti di lavoro, che questi “sacrifici” avrebbero garantito un aumento dell’occupazione.
Ciò che in realtà si è ottenuto è stato l’aumento della precarietà. Così, in un crescendo culminato con il famigerato Jobs Act varato da Renzi, i lavoratori hanno “conquistato”: la liberalizzazione dei contratti a termine; i contratti di apprendistato che hanno istituzionalizzato lo sfruttamento semi gratuito di persone congelate a tempo indeterminato nello status di lavoratori “in formazione” e “in prova” (per tacere dell’alternanza scuola-lavoro, che ha consentito di imporre a migliaia di studenti di sgobbare gratuitamente, e di pagare un sanguinoso tributo alla strage dei caduti per incidenti sul lavoro); la creazione di un esercito di finte partite Iva, inquadrate come dipendenti a tempo pieno senza godere dei “privilegi” dei colleghi regolarmente assunti (operazione accompagnata da una tambureggiante retorica sulle magnifiche sorti e progressive di una nuova generazione di aspiranti “imprenditori di se stessi”); infine, a correzione dell’ “eccesso di tutela” garantito dallo Statuto dei lavoratori, i vincitori delle cause contro licenziamenti immotivati non hanno più potuto ottenere la reintegrazione del posto di lavoro ma solo modesti rimborsi.
Per colmo di ironia, una volta creato questo variegato esercito di precari, lo si è aizzato contro gli ingiusti “privilegi” di lavoratori garantiti e pensionati, tentando di dirottare la rabbia delle nuove generazioni contro gli anziani, una delle tante guerre fra poveri al pari dei conflitti fra uomini e donne, immigrati e autoctoni, ecc. Nel frattempo, le sinistre liberal progressiste sventolavano la bandiera arcobaleno (simbolo di quei diritti civili – riservati a individui e gruppi minoritari (4) – che Balzano definisce senza peli sulla lingua il nuovo oppio dei popoli) dimentiche di essere le prime responsabili della falcidia di salari, occupazione e stato sociale. Nel corso dei decenni in cui l’esercito del lavoro abbandonato dai propri generali passava di sconfitta in sconfitta, l’unico provvedimento in controtendenza è stato, pur con i suoi limiti, quel Decreto dignità varato nel 2018 dal governo M5S – Lega, provvedimento che, nella misura in cui poneva un minimo argine agli effetti dell’abolizione dell’Articolo 18, è stato criticato da PD e CGIL perché foriero di rischi di “irrigidimento” del mercato del lavoro. A rassicurare i padroni in merito ai rischi in questione hanno del resto provveduto i successivi governi Draghi e Meloni.
A questo punto perché non guardare con favore alla proposta di istituire un salario minimo fissato per legge? In primo luogo, risponde Balzano, perché a sostenerla sono gli stessi soggetti, come la UE, le sinistre liberal progressiste e persino la Confindustria (“non poniamo ostacoli, anche perché noi già paghiamo di più”) che hanno gestito lo scempio dei diritti delle classi lavoratrici appena descritto: timeo danaos et dona ferentes, per citare l’avvertimento di Laocoonte agli imprudenti troiani che si apprestavano a introdurre il cavallo nelle mura cittadine. Per corroborare il proprio sospetto, Balzano cita fra gli altri il guru del neoliberismo von Hayek: l’uomo che aveva individuato nell’Europa il dispositivo ideale per abbattere il costo del lavoro si è infatti speso a favore di un reddito minimo “per impedire che i poveri possano rappresentare una minaccia”.
Eppure, gli si potrebbe obiettare, è indubbio che i lavoratori non coperti da contratti collettivi potrebbero trarne giovamento. Vero, replica Balzano ma, a parte il fatto che lavoratori in nero e finti autonomi ne resterebbero fuori, si tratterebbe comunque di una minoranza, visto che la maggioranza gode di retribuzioni superiori alle soglie minime previste. Ma soprattutto, aggiunge, il rischio è che, in un contesto di debolezza contrattuale, il salario minimo legale potrebbe trascinare verso il basso le retribuzioni. Un simile provvedimento potrebbe funzionare solo in un contesto contrattuale favorevole alla forza lavoro, svolgendo il ruolo di base retributiva incomprimibile per gli strati più deboli e di primo gradino di una mobilità verso l’alto per quelli più forti, viceversa, in un contesto di debolezza generalizzata, qual è quello attuale, agirebbe da “tappo”, legittimando il rifiuto padronale nei confronti di ogni velleità di aumento (vi diamo già più del minimo) o addirittura le decurtazioni di salari “eccessivi” in situazioni di crisi aziendali e/o di crisi settoriali o generalizzate (non possiamo darvi più del minimo fissato per legge, ed è già fin troppo). Del resto, scrive Balzano, la stessa CGIL ha già siglato contratti che prevedono paghe sotto i 9 euro l’ora (cioè la base che si ipotizza per il salario minimo legale).
Per capire il vero nodo sollevato da Balzano, occorre però andare al di là delle argomentazioni fin qui esposte. Il fatto è che la sua diffidenza è rivolta in generale contro la regolazione politica dei rapporti di forza fra classi sociali. Un esempio? I diritti acquisiti con lo Statuto dei lavoratori, argomenta, sono stati operativi solo finché gli operai hanno avuto la forza di imporne l’applicazione. Venuta meno tale condizione si è capito come quella “conquista” fosse servita a congelare, istituzionalizzandolo, il processo di democratizzazione delle imprese innescato dalla rivoluzione dei delegati di reparto, per poi decapitarlo in una fase successiva. Insomma: le vere conquiste non derivano dalla legge ma dagli equilibri di potere, solo i lavoratori possono salvare i lavoratori, mentre delegare alla legge (cioè alla politica) la gestione dei loro interessi “significa firmare una cambiale in bianco ai partiti”, gli stessi che li hanno massacrati.
Eppure nemmeno Balzano può esimersi dall’evocare la legge nella sua forma più alta, vale a dire quegli articoli della nostra Costituzione che trattano del lavoro, per spiegare a quale modello dovrebbero a suo avviso ispirarsi i rapporti fra capitale e lavoro. Un modello al quale, sembra di capire da alcuni passaggi del libro, si sarebbe in qualche modo avvicinato, pur senza realizzarlo, il capitalismo del trentennio postbellico, (un modello capitalistico “che è stato svenduto” scrive). Dopodiché riconosce che quel modello costituzionale appare oggi insostenibile (5), per cui conclude ammettendo francamente di non essere in grado di proporre una pars construens, tanto è vero che l’unica affermazione “positiva” che ho trovato nel libro è che ci vorrebbe un sindacato “animato da una visione del lavoro e della società”. Perché piuttosto non un partito radicalmente altro da quelli che giustamente critica, un partito diverso sul piano di principi, valori e modalità di intervento politico e sociale? Evidentemente perché Balzano è a sua volta parte di quella cultura radicalmente antipolitica che caratterizza anche l’ala più onesta e incazzata (tanto da rivendicare il proprio diritto all’odio di classe) di una sinistra occidentale ormai arresasi alle ragioni del verbo liberale. Una cultura che, nel suo caso, assume toni che non esisterei a definire pansincalisti, visione di cui la sua generosa denuncia sconta inevitabilmente i limiti. Vedi laddove scrive che quello del lavoro è un mercato, non un mercato qualunque ma pur sempre un mercato; ebbene: questo è esattamente il confine al di là del quale nessuna prassi sindacale, anche la più radicale, potrà mai spingersi. Oltre c’è solo il riconoscimento di Marx – ma anche di Polanyi (6) – che la forza lavoro (non il lavoro!) è, al pari della terra e del denaro, una finta merce, e che questa finzione, su cui si fonda l’oppressione e lo sfruttamento delle classi lavoratrici, può essere superata solo da una società socialista, magari “imperfetta”, come quelle di cui mi occupo nel mio ultimo libro (7), ma in cui è comunque la politica a governare sull’economia e non viceversa.
*( Fonte. Il Manifesto – Carlo Formenti è un giornalista e scrittore italiano.)

 

03 – Chiara Cruciati*: IL REGALO USA A NETANYAHU IN MARCIA SU RAFAH: 2MILA BOMBE E 25 JET GAZA. WASHINGTON POST: MILIARDI DI DOLLARI IN ARMI. E GALLANT PRESENTA A BIDEN LA SUA IDEA: TRUPPE ARABE PER TAGLIARE FUORI ONU E PALESTINESI

CINQUECENTO BOMBE MK82 DA 230 CHILI E OLTRE 1.800 MK84 DA PIÙ DI 900 CHILI: È IL PACCHETTO DI AIUTI MILITARI DI CUI, SECONDO IL WASHINGTON POST, L’AMMINISTRAZIONE BIDEN HA APPENA AUTORIZZATO L’INVIO A ISRAELE. LE MK84 NON SONO BOMBE QUALSIASI: SONO QUELLE ACCUSATE DI AVER CAUSATO LE PEGGIORI STRAGI A GAZA.
«Abbiamo continuato a sostenere il diritto di Israele a difendersi – ha commentato un funzionario anonimo della Casa bianca al quotidiano – Gli aiuti condizionati non sono mai stati la nostra politica».
La scorsa settimana il Dipartimento di Stato aveva autorizzato l’invio di 25 jet F35, per un valore totale di 2,5 miliardi di dollari. Nei giorni in cui si preparava ad astenersi, con una decisione storica, nella risoluzione 2728 che ha chiesto il cessate il fuoco immediato nei giorni che restano di Ramadan (sempre meno, l’Eid cade il 10 aprile) e mentre insisteva con Tel Aviv per farsi dire come usa le armi statunitensi, Washington continuava a inviarne. Consapevole che il premier israeliano non intende fare un passo indietro: Rafah, la città considerata dagli Usa una «linea rossa», vedrà presto l’arrivo delle truppe israeliane.
È PROBABILE che l’approvazione finale alle mega-bombe sia arrivata durante la visita del ministro della difesa israeliano Yoav Gallant a Washington della scorsa settimana. È in quell’occasione, ha scritto Axios, che avrebbe presentato la sua ultima idea: una forza multinazionale per assicurare la consegna di aiuti umanitari a Gaza.
A comporla, secondo Axios, sarebbero tre paesi arabi «amici» (tra cui l’Egitto) che resterebbero per un periodo limitato di tempo a fare la guardia al porto che gli Stati uniti stanno costruendo lungo le coste gazawi. Negoziati sarebbero già in corso – continua Axios – ma i paesi coinvolti non intenderebbero mandare truppe adesso. Forse in futuro, dopo la guerra, con compiti di peacekeeping.
Ai boots on the ground arabi spetterebbe anche il compito di scortare i convogli in partenza dal porto. Di nuovo, l’ennesimo modo per bypassare le agenzie delle Nazioni unite attive sul campo, soprattutto alla luce della denuncia di Ocha, l’agenzia per gli affari umanitari, secondo cui Israele ha negato l’autorizzazione a otto delle 19 missioni di consegna degli aiuti al nord di Gaza programmate tra il 23 e il 29 marzo. Da inizio marzo il diniego ha riguardato 18 missioni, il 30% del totale.
«Tale mossa – ha commentato un funzionario israeliano ad Axios – costruirà un ente governativo nell’enclave che non è Hamas e che permetterà di risolvere i crescenti problemi con gli Usa quando si parla di situazione umanitaria». L’idea di Gallant fa il paio con quella di un altro membro del gabinetto di guerra Gadi Eisenkot: supervisione araba e statunitense su una fantomatica nuova leadership palestinese che si occupi di «garantire la sicurezza di Israele e di modificare il sistema scolastico». Difficile che avvenga: Israele non ha mai autorizzato nessuna forza multinazionale, nemmeno sotto il cappello Onu, a svolgere ruolo di interposizione dentro Gaza.
ANZI, A SENTIRE il quotidiano israeliano Haaretz, le autorità israeliano stanno allargando la zona cuscinetto, da anni unilateralmente imposta nell’est della Striscia e inutilizzabile dai palestinesi: una volta completata, la buffer zone arriverà a occupare il 16% di Gaza e si accompagnerà alla costruzione di un corridoio controllato dall’esercito israeliano che dividerà la Striscia in due. Israele, insomma, è rientrato fisicamente a Gaza per restarci.
A quattro giorni dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu, a Gaza si muore comunque. Il più colpito è stato il quartiere orientale di Shujaiyah, a Gaza City: sono stati presi di mira un centro sportivo diventato rifugio per gli sfollati (15 uccisi), una stazione di polizia (17 vittime, di cui un agente), una pattuglia che accompagnava un convoglio di aiuti e la casa del giornalista Mahmoud Aliwa (tre uccisi).
E poi di nuovo Rafah: colpita una casa privata, 12 uccisi, per lo più donne e bambini. A Gaza city è stata centrata un’auto che viaggiava su Salah al-Din Street, otto morti (cinque bambini, due donne e un uomo), mentre il raid sulla moschea Saad Abi Waqqas di Jabaliya ha provocato due feriti.
RESTA nel mirino l’ospedale al-Shifa, sotto assedio da dieci giorni: alla distruzione sistematica degli edifici intorno, ieri si è aggiunta l’uccisione di un giornalista di Al Quds Radio, Muhammad Abu Sakhl, abbattuto da un cecchino israeliano. È il 137esimo reporter ammazzato in quasi sei mesi di offensiva. Il bilancio si è così attestato sui 32.623 palestinesi uccisi dal 7 ottobre e oltre 75mila feriti.
C’è anche un altro bilancio, quello della distruzione della vita sociale ed economica, una devastazione di strutture e infrastrutture che impedirà per anni la vivibilità di quel pezzo di terra. Ieri Forensic Architecture, dopo l’analisi di immagini satellitari, ha denunciato la distruzione da parte dell’esercito israeliano di oltre 2mila siti agricoli, tra fattorie e serre, un terzo del totale: «La distruzione è stata più intensa nel nord di Gaza, dove il 90% delle serre è stato colpito nelle prime fasi dell’invasione via terra» iniziata a fine ottobre, scrive Forensic Architecture.
Nelle stesse ore usciva l’ultimo rapporto di Ocha: il 67% delle scuole è distrutto o danneggiato, il 38% (212 istituti) è stato deliberatamente preso di mira e una parte «usata per operazioni militari, come centri di detenzione e interrogatorio e basi militari»
*(Chiara Cruciati – il manifesto – E’ una professionista, una giornalista, ma soprattutto una donna di grande prossimità umana e disponibilie a condividere il proprio sapere ed il proprio …)

 

04 – Sabato Angieri*: TUSK: «LA GUERRA È ALLE PORTE». E FA DECOLLARE I CACCIA ALLEATI – IL LIMITE IGNOTO. UN DRONE CADE IN ROMANIA. LA BULGARIA CERCA DI MEDIARE: «EVITIAMO L’ESCALATION» CACCIA DELLA NATO.

Dalle parole ai caccia. Il comando operativo delle forze armate polacche la scorsa notte ha dato l’ordine di far decollare gli aerei di Varsavia e quelli Nato presenti nelle basi del Paese est- europeo per «garantire la sicurezza dello spazio aereo polacco». Il motivo è l’ennesimo bombardamento massiccio russo ai danni delle città ucraine e il precedente risale allo scorso martedì, quando, secondo i radar polacchi, un missile russo «ha sorvolato lo spazio aereo nazionale per 39 secondi, prima di tornare in Ucraina».
DI FRONTE ai giornalisti internazionali del consorzio Lena (di cui fa parte anche Repubblica), il primo ministro polacco, Donald Tusk, ha interpretato il delicato momento storico in cui ci troviamo come una «fase pre-bellica». «Non voglio spaventare nessuno, ma la guerra non è più un concetto del passato. È reale, è già iniziata più di due anni fa. La cosa più preoccupante è che ogni scenario è possibile. So che sembra devastante, soprattutto per i più giovani, ma dobbiamo abituarci mentalmente all’arrivo di una nuova era. È l’era prebellica. Non sto esagerando». Secondo Tusk «sta diventando ogni giorno più evidente» e ha invitato l’Europa a «essere pronta e unita» anche se l’Ue «ha ancora molta strada da fare» per raggiungere tali obiettivi.
NON USA mezzi termini il leader polacco nel suo primo appuntamento con la stampa estera e palesa tutte le preoccupazioni e le aspirazioni del suo Paese. Da mesi, infatti, i vertici polacchi si presentano come eventuali prossimi bersagli della Russia e invocano maggiore coesione intorno alla Difesa comune europea. Ma nel frattempo Varsavia non aspetta, la Polonia ha già superato il tetto del 4% di spesa militare per i prossimi bilanci e il partenariato strategico con gli Usa è sempre più stretto. La decisione di ieri assomiglia più a una dimostrazione di forza che a una reale misura difensiva, ma da qualche tempo siamo abituati a queste improvvise fughe in avanti. Il pericolo, prescindendo da ogni allarmismo, è che in un clima del genere qualcuno possa davvero farsi prendere la mano. Anche perché ormai non si tratta più di eventi isolati.
Nella confinante Romania un drone è caduto nel sud-est del Paese, nella zona di Braila intorno alle 22 di mercoledì. Diverse squadre di ricerca dell’esercito sono state inviate nella zona che è stata transennata. Il ministero della Difesa e gli altri apparati della sicurezza pubblica romena stanno conducendo un’indagine sull’incidente e non hanno ancora rilasciato dichiarazioni definitive, ma dall’inizio della guerra in Ucraina si tratta almeno del quinto drone rinvenuto in territorio romeno. «La Romania rimarrà profondamente impegnata nel processo di adattamento permanente della Nato per fare in modo che l’Alleanza diventi più potente, resiliente e meglio preparata per il futuro» ha dichiarato il presidente rumeno, Klaus Iohannis, per il ventennale dell’adesione di Bucarest alla Nato.
In controtendenza il governo bulgaro che invoca il dialogo. «Dobbiamo aiutare l’Ucraina, ma non dobbiamo nemmeno permettere una pericolosa escalation e l’inclusione di tutti noi nel conflitto, il che significherebbe uno scontro globale con conseguenze imprevedibili per l’umanità» dunque, sostiene il presidente bulgaro Rumen Radev, «dobbiamo fare tutto il possibile per impegnare gli sforzi diplomatici nel cessate il fuoco».
INTANTO la Repubblica Ceca avrebbe portato a termine l’iniziativa per l’acquisto di munizioni da inviare alle forze armate ucraine. Il presidente della repubblica, Petr Pavel, nei mesi scorsi aveva riunito intorno a Praga una «coalizione per le munizioni» a Kiev adducendo come motivazione l’urgenza con la quale i soldati ucraini hanno bisogno di proiettili per rispondere al fuoco russo. I 16 Paesi del gruppo (nei quali non figura l’Italia) sarebbero riusciti a concludere contratti di forniture per un milione di munizioni, principalmente del calibro da 155 mm, per un valore complessivo di 1,8 miliardi di dollari. Del resto, lo squilibrio tra la capacità di fuoco dei due eserciti in questo momento è enorme. Secondo il comandante delle forze armate ucraine, Oleksandr Syrsky, «qualche giorno fa il vantaggio del nemico in termini di munizioni sparate era di circa sei a uno».
Intanto sul campo «l’esercito russo ha lanciato un potente attacco contro le strutture energetiche dell’Ucraina», lanciando 99 testate tra droni e missili. Secondo il comandante dell’aeronautica ucraina, Mykola Oleschuk, «la difesa ha abbattuto 84 obiettivi su 99».
*(Sabato Angieri. Giornalista, scrittore, traduttore e autore teatrale. Dodici anni di esperienza come reporter per la carta stampata e per diverse pubblicazioni on-line.)

 

05 – Federico Gonzato*: I LOBBISTI CONTINUANO A ENTRARE IN PARLAMENTO SENZA FARSI NOTARE .

Incontrano parlamentari, ministri e sottosegretari. Frequentano i corridoi di Camera e Senato e rappresentano gli interessi delle aziende di molti settori, dall’energia alla sanità. Sono i cosiddetti “rappresentanti di interessi”, meglio noti come “lobbisti”. Questo nome deriva da lobby, che in inglese vuol dire “loggia”, ed è usato per indicare chi, pur non essendo un parlamentare e non avendo incarichi di governo, influenza le decisioni politiche promuovendo dentro e fuori le sedi istituzionali gli interessi dei soggetti per cui lavorano.
Insomma, i rappresentanti di interessi possono influenzare le decisioni che ricadono sulla vita di milioni di cittadini. Complici alcuni scandali e situazioni poco chiare, negli anni il termine “lobbista” ha assunto nel dibattito politico un significato soprattutto spregiativo, a scapito di chi fa questo mestiere in modo trasparente. In Italia tutto è reso poi più complicato dal fatto che non esistono regole chiare su questo settore e mancano i controlli.

COME SI FA IL LOBBISTA
Il compito dei rappresentanti di interessi è molto generico: esporre ai politici un determinato problema in un particolare ambito. «Di base, se inteso correttamente, il nostro lavoro è quello di presentare ai decisori politici l’attività e gli interessi delle aziende e dei settori per cui lavoriamo. Poi i politici decidono se darci ascolto e prendere provvedimenti in una determinata direzione», ha spiegato a Pagella Politica un’ex consulente di una società di rappresentanza di interessi, che oggi lavora per una grande azienda e ha preferito rimanere anonima. In altre parole, il lobbista fa un’attività informativa: «I politici non possono sapere tutto di qualsiasi cosa: se siamo credibili, sono loro stessi a chiamarci quando hanno bisogno di avere informazioni su una determinata questione».
Dunque, di per sé l’attività del lobbista non è un qualcosa di negativo, anzi: fa parte del dialogo tra la politica e le varie realtà sociali, dalle aziende alle associazioni di categoria. Allo stesso tempo, però, i rappresentanti di interesse possono esercitare una forte influenza sulla politica, e alcuni sfruttano questo potere in modo poco trasparente. «Ognuno interpreta il suo lavoro a proprio modo: c’è chi fa le cose in maniera chiara e presenta semplicemente gli interessi dell’azienda, altri promettono favori per poter parlare con un politico e ottenere in cambio qualcosa. A mio parere, alla lunga questo atteggiamento non paga, perché ne va della nostra credibilità», ha aggiunto l’ex consulente.

LE REGOLE ALLA CAMERA E AL SENATO
Gli incontri tra i politici e i rappresentanti di interesse possono avvenire sia fuori sia all’interno delle istituzioni: alla Camera, al Senato o nei ministeri.
La Camera ha regolato la presenza dei rappresentanti di interessi per la prima volta nel 2016, adottando un registro pubblico con l’elenco di tutte le realtà e i soggetti che svolgono l’attività di lobby all’interno di questo ramo del Parlamento. Chi vuole accedere alla Camera per svolgere l’attività di rappresentante di interesse deve registrarsi su una piattaforma e ottenere un permesso. Si possono iscrivere sia aziende sia singole persone per conto di società che svolgono unicamente il lavoro di rappresentanza di interessi. Al momento le società iscritte al registro sono 361, le persone iscritte singolarmente sono 88. Tra gli iscritti al registro ci sono importanti società farmaceutiche come Bayer, multinazionali del tabacco come Philip Morris, aziende pubbliche italiane come Ferrovie dello Stato, associazioni di categoria come Federalberghi e realtà impegnate nel sociale come l’Associazione Luca Coscioni ed Emergency.
Una volta ottenuto l’accredito, i rappresentanti di interesse possono accedere alla Camera e incontrare i politici in un’apposita sala, che si trova al termine di un lungo corridoio alla sinistra dell’aula, poco dopo l’entrata della Galleria dei presidenti. La Galleria dei presidenti è un corridoio dove alle pareti si trovano i ritratti di tutti i presidenti della Camera dal Regno d’Italia a oggi. All’interno della sala dedicata agli incontri tra i deputati e i rappresentanti di interessi ci sono computer da cui è possibile seguire le dirette delle sedute parlamentari.

UN SISTEMA LACUNOSO
Le regole che si è data la Camera valgono solo fino a un certo punto. «Nella pratica la sala per i rappresentanti di interessi alla Camera è a nostra disposizione solo durante la discussione della legge di Bilancio», ha spiegato l’ex consulente. «Nel momento in cui inizia la discussione della legge di Bilancio ci arriva una mail da parte della Camera in cui veniamo avvisati che possiamo registrarci per accedere alla sala, e allora ognuno può fare la sua richiesta di accesso». Il resto dell’anno gli incontri tra politici e rappresentanti di interessi avvengono per lo più in altre sedi della Camera: «Di solito prendiamo contatti con il parlamentare o con i suoi collaboratori. Loro ci accreditano direttamente per entrare alla Camera e li incontriamo nei loro uffici oppure direttamente nella Galleria dei presidenti. Di fatto l’unica limitazione è non incontrarli in Transatlantico».

Il Transatlantico è l’ampio salone che separa l’aula della Camera dal cortile interno, ed è il luogo dove i deputati si incontrano tra loro o con i giornalisti tra una seduta e l’altra.
Immagine 2. Il Transatlantico all’interno della Camera dei deputati – Fonte: Camera dei deputati
Immagine 2. Il Transatlantico all’interno della Camera dei deputati – Fonte: Camera dei deputati
Ogni anno le società e le persone iscritte al registro dei rappresentanti di interessi devono presentare una relazione in cui dichiarano i nomi dei deputati con cui hanno avuto incontri, senza però dare informazioni sul numero e sulla durata di questi incontri. Per esempio secondo la relazione più recente, nel 2022 i rappresentanti di interessi di Philip Morris hanno incontrato cinque deputati: due della Lega, uno di Forza Italia, uno del Partito Democratico e uno di Liberi e Uguali. Questi, è bene precisarlo, non corrispondono necessariamente a tutti gli incontri avuti tra Philip Morris e politici, perché le relazioni considerano solo le riunioni avvenute all’interno della Camera, ma non altri eventuali incontri esterni.
Il sistema di accredito e di registrazione per i rappresentanti di interessi della Camera è comunque aggirabile: i controlli interni sono meno serrati di come dovrebbero. «Io sono collaboratore parlamentare ma, oltre a questo lavoro, fuori dalla Camera faccio anche il rappresentante di interessi per una società di consulenza», ha raccontato a Pagella Politica un collaboratore di un deputato, che ha preferito restare anonimo. I collaboratori parlamentari assistono deputati e senatori nel loro lavoro, preparando per esempio i discorsi e gli emendamenti. Spesso per le scarse tutele economiche sono costretti a sommare più lavori o collaborazioni. «Io accedo alla Camera con il permesso da collaboratore parlamentare. Quando entro seguo i lavori del mio parlamentare, ma siccome i controlli arrivano fino a un certo punto, se volessi potrei anche parlare con altri deputati e magari fare la mia attività di lobbista, pur non essendo iscritto al registro. Alla fine dipende tutto dall’etica del singolo», ha spiegato.

AL SENATO C’È ANCORA MENO TRASPARENZA RISPETTO ALLA CAMERA.
Come hanno confermato fonti del Senato a Pagella Politica, qui è previsto un sistema di accredito e di permessi per i rappresentanti di interessi, ma non esiste un registro pubblico sul sito del Senato. Non è dunque possibile avere informazioni sull’attività dei lobbisti in questo ramo del Parlamento.
I ministeri in ordine sparso
I rappresentanti di interessi non operano solo alla Camera e al Senato. «Gran parte del lavoro dei rappresentanti di interessi si svolge ormai nei ministeri: chi vuole promuovere un’azienda e i suoi interessi punta sempre di più al governo, perché è lì che si prendono le decisioni che contano», ha detto a Pagella Politica un’ex parlamentare della precedente legislatura, che oggi lavora in Parlamento per una società di consulenza e monitoraggio parlamentare.

Nei ministeri la situazione è più caotica rispetto al Parlamento. In base alle verifiche di Pagella Politica, tra i 15 “ministeri con portafoglio”, ossia quelli che hanno autonomia di spesa, una minoranza ha un registro per la trasparenza sull’attività dei rappresentanti di interessi sono cinque: il Ministero dell’Agricoltura, il Ministero delle Imprese e del Made in Italy, il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, il Ministero della Cultura e il Ministero dell’Università e della Ricerca. Gli altri dieci ministeri non hanno una sezione del loro sito dedicata ai rappresentanti di interessi: si tratta del Ministero degli Affari Esteri, quello dell’Interno, quello dell’Economia, quello della Difesa, quello della Giustizia quello dell’Ambiente, quello del Lavoro, quello dell’Istruzione, quello della Salute e quello del Turismo.
Tentativi falliti
La regolazione e la trasparenza dell’attività dei rappresentanti di interessi è al centro del dibattito politico da diversi anni. Finora il Parlamento non è ancora riuscito ad approvare una legge per introdurre norme uniche a livello nazionale. Nel 2013 il governo Letta aveva iniziato l’esame preliminare di un disegno di legge per regolare il settore. L’esame preliminare è la fase in cui il governo esamina per la prima volta un provvedimento, riservandosi poi di approvarlo in una fase successiva, ossia l’esame definitivo. A luglio 2013 il disegno di legge sui rappresentanti di interessi non superò l’esame preliminare del governo, complice una serie di dubbi sulla legge.

Negli ultimi anni sono state presentate varie proposte di legge in Parlamento, in particolare dai partiti di centrosinistra e dal Movimento 5 Stelle. Nella scorsa legislatura la Camera era riuscita ad approvare una proposta frutto dell’unione di tre testi: uno a prima firma di Marianna Madia (Partito Democratico), uno di Francesco Silvestri (Movimento 5 Stelle) e uno di Silvia Fregolent (Italia Viva). Tra le altre cose, il testo della proposta approvata prevedeva la creazione di un unico registro nazionale dei rappresentanti di interessi, con all’interno l’agenda dettagliata degli incontri intrattenuti con i politici. Il compito di sorvegliare il registro sarebbe stato affidato all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Agcm), un organismo indipendente che vigila sul rispetto delle regole di mercato in Italia. Dopo essere stata approvata alla Camera, la proposta è passata al Senato, ma non è stata approvata in via definitiva, complice la fine anticipata della legislatura.
La volta buona?
Fino a oggi in questa legislatura sono state presentate nove proposte di legge tra Camera e Senato: tre sono state depositate da parlamentari del Movimento 5 Stelle, due del Partito Democratico, due di Italia Viva, una di Azione e una di Alleanza Verdi-Sinistra. Questi testi sono tutti molto simili e ricalcano quello approvato dalla Camera nella scorsa legislatura. Al momento né la Camera né il Senato hanno iniziato l’esame di queste proposte.

A marzo 2023, alla Camera è stata istituita un’indagine conoscitiva da parte della Commissione Affari costituzionali per approfondire il tema dei rappresentanti di interessi. Le indagini conoscitive sono procedure che permettono alle commissioni di acquisire notizie, informazioni e documentazioni su materie di loro competenza. In concreto, queste indagini consistono di solito in un ciclo di audizioni che può durare alcuni mesi. Al termine di questo ciclo viene approvato un documento conclusivo, che però non comporta necessariamente la presentazione di una proposta di legge.

Secondo Silvia Fregolent, oggi senatrice di Italia Viva, l’istituzione di un’indagine conoscitiva rischia di ritardare l’esame delle proposte presentate sul tema. «A mio parere non è più il tempo delle indagini conoscitive, delle audizioni e dei convegni. Approfondire e conoscere è sempre un bene, ma di audizione sul tema ne sono state fatte tante nella scorsa legislatura, non vorrei che questa indagine conoscitiva sia un tentativo di allungare i tempi per non arrivare a una conclusione», ha detto a Pagella Politica Fregolent, che da anni si batte per una legge sulla trasparenza dei rappresentanti di interesse. «Non c’è assolutamente la volontà di affossare le proposte di legge, anzi. L’indagine conoscitiva ha coinvolto tanti esperti e professori universitari, con l’obiettivo di approfondire le varie proposte di legge presentate negli anni», ha risposto a Pagella Politica il presidente della Commissione Affari costituzionali Nazario Pagano, deputato di Forza Italia. «Che senso avrebbe esaminare proposte vecchie, che non hanno mai avuto successo? Dopo Pasqua gli esperti ci invieranno le loro conclusioni e da lì partiremo per formulare un testo senza “bandiere” politiche e il più possibile condiviso con tutti, che punti tra le altre cose a istituire un registro nazionale degli operatori», ha aggiunto.
L’istituzione del registro nazionale non convince tutti. «Il registro può essere utile, perché può essere una “vetrina” per chi lavora in modo trasparente, ma bisogna che ci sia una convenienza a iscriversi, come per esempio obbligare i politici a interfacciarsi solo con persone iscritte al registro. Se io mi iscrivo perché ho a cuore la trasparenza, ma mancano i controlli e ci sono persone che lo aggirano, che convenienza avrei a iscrivermi?», si è domandata l’ex consulente.

CHE COSA SUCCEDE ALL’ESTERO
A livello europeo la Francia ha approvato nel 2016 una legge contro la corruzione che contiene norme sulla trasparenza dell’attività dei rappresentanti di interessi, mentre la Germania ha approvato una legge nazionale sui lobbisti nel 2021. In Spagna la situazione è simile a quella italiana, dato che non esistono ancora norme nazionali sui lobbisti. A novembre 2022 il governo spagnolo guidato da Pedro Sánchez ha presentato una proposta di legge sul tema, ma finora non è stata approvata.
Il Parlamento europeo ha un registro con l’elenco di tutti i rappresentanti di interesse che hanno il permesso per accedere nella struttura ed entrare in contatto con i parlamentari. Quest’ultimi devono pubblicare nella loro pagina personale sul sito del Parlamento europeo tutte le riunioni che hanno avuto con lobbisti nelle sedi europee. Di recente questo sistema è stato messo dopo il cosiddetto “Qatargate”, un’inchiesta in cui sono stati coinvolti alcuni parlamentari europei accusati di aver ricevuto denaro e regali in cambio della difesa degli interessi del Qatar.
*(Fonte: Ansa. Federico Gonzato, Giornalista professionista. Già Resto del Carlino, ora Pagella Politica)

 

06 – Sabato Angieri*: LORO TERRORISTI, LUI MACELLAIO. ALLA GUERRA CON I SOLITI MEZZI – RUSSIA . MOSCA INSISTE: TRACCE UCRAINE SULLA STRAGE AL CROCUS. BIDEN INSISTE: IL LEADER RUSSO UN CARNEFICE, LORO TERRORISTI, LUI MACELLAIO. ALLA GUERRA CON I SOLITI MEZZI

Mosca insiste sulle responsabilità ucraine nell’attentato alla sala da concerti Crocus e ora anche la destra meno estremista si apre all’idea di dichiarare il governo ucraino come «entità terroristica criminale». Dall’altra parte dell’oceano il presidente statunitense Biden non torna indietro e torna a ingiuriare pesantemente l’omologo russo definendolo «quel macellaio di Putin». Intanto sui fronti aperti in Ucraina la guerra non si placa. Ieri un bombardamento russo su Kharkiv ha ferito una ventina di persone, tra cui 4 bambini, ed è costato la vita a due persone.
«Tentativi di lasciare al buio più di un milione di persone, attacchi costanti con missili e droni. Ora anche bombe aeree. Il rafforzamento della difesa dell’Ucraina e l’accelerazione della consegna degli F-16 sono vitali. Non si spiega perché non abbiamo i Patriot per difenderci dai terroristi russi». Mentre passa in rassegna le truppe nella regione di confine nord-orientale di Sumy, il presidente Zelensky si prende il tempo per rilasciare una dichiarazione sull’attacco russo e in poche righe evidenzia alcuni punti che vale la pena approfondire.
PRIMO, LE BOMBE teleguidate. Come riporta Sky News, citando un funzionario locale, si tratterebbe proprio delle devastanti Fap-1500, vecchie bombe a caduta dall’alto potenziale esplosivo modificate con delle alette direzionali e un sistema di teleguida che permettono agli ordigni di planare da distanze considerevoli (si stimano anche 60-70 km) tenendo al sicuro l’aereo che le sgancia dalla contraerea nemica.

COME SPIEGARE L’ISIS AL CREMLINO. E A NOI
Lungo tutto il fronte est le bombe Fap stanno martellando le difese e le città ucraine e i primi risultati già si intravedono. Con una copertura aerea così massiccia, le truppe di Mosca possono permettersi di aspettare più tempo prima di avanzare contro un nemico meno equipaggiato e meno numeroso. Le trincee, le casematte e i rifugi diventano luoghi meno sicuri ed è fondamentale non farsi individuare dai droni mandati in ricognizione. Per i reparti già esausti le attese nelle «case sicure» si fanno così interminabili. Secondo: i caccia. Diversi stati occidentali hanno già detto sì mesi fa, ma i piloti ucraini sono ancora in addestramento e al momento non ci sarebbe neanche un’intera flottiglia pronta. Infine, le armi. Kiev ne ha un bisogno disperato, sia di quelle di offesa sia dei missili per la contraerea.
Dall’altro lato del fronte gli strascichi dell’attentato di Mosca continuano a occupare in modo totalizzante i media nazionali. Secondo le autorità russe non ci sarebbero più vittime sotto le macerie del Crocus e la conta dei morti si è fermata a 140. Ma altre 19 persone – tra cui tre bambini – sono in condizioni gravi, 56 corpi sono ancora da identificare e, stando alle denunce delle famiglie, 3 persone risultano ancora disperse.
La Russia intera si è spaventata e commossa per quanto è accaduto il 22 marzo e le voci che chiedono vendetta sono sempre più insistenti. Ma contro chi? «Ovvio, l’Ucraina», si potrebbe dire citando letteralmente la risposta di Nikolaj Patrushev, il segretario del Consiglio di sicurezza nazionale russo. E non stiamo parlando di un semplice lacchè dello zar, ma del successore di Putin a capo dei Servizi segreti, di un «duro» che raccoglie i favori della destra più nazionalista e guerrafondaia russa. Il fatto che Patrushev si mostri così sicuro dice del colpevole dice molto di più delle dichiarazioni dei vari politici e commentatori di Mosca.

IL CREMLINO per ora resta in disparte, dopo aver ammesso che si trattava di «estremisti islamici» ma aver puntato il dito contro eterei «mandanti» ucraini, Putin ora osserva. Nel frattempo ci pensano i suoi a battere i tamburi.
«È estremamente difficile credere» ha dichiarato la portavoce del ministero degli esteri russo, Maria Zakharova, «che lo Stato islamico abbia la capacità di programmare un attacco come quello di venerdì a Mosca». Il parlamento indagherà «organizzazione, finanziamento e conduzione di atti terroristici» contro la Russia da parte degli Stati Uniti e di altri Paesi occidentali, come già ipotizzato dal capo dell’Fsb Bortnikov. I diretti interessanti parlano di «accuse insensate e totalmente false», ma nel frattempo la macchina è partita e sembra già difficile fermarla.
*(Sabato Angieri. Giornalista, scrittore, traduttore e autore teatrale. Dodici anni di esperienza come reporter per la carta stampata e per diverse pubblicazioni on-line.)

 

 

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