n°07 – 17/02/24 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI, NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Chiara Cruciati*: A Rafah aiuti presi d’assalto. Al Nasser muoiono sei pazienti – FUORI TUTTI. Camion fermi, gli sfollati affamati entrano nel valico a Gaza sud.
02 – L’Italia è tra i paesi Ue con i divari di reddito più ampi. In. Europa Le disuguaglianze economiche sono tutt’altro che in calo e l’Ue non costituisce un’eccezione. Tra i paesi più popolosi, l’Italia è quello dove l’1% più ricco detiene la quota più elevata di reddito nazionale e dove dal 1980 è più aumentato l’accentramento.
03 – I cittadini europei detengono oltre 2mila miliardi di dollari all’estero. Solo in Italia parliamo di 198 miliardi di dollari (9,8% del Pil), una cifra che negli ultimi anni è raddoppiata. Per monitorare questo fenomeno, particolarmente esposto all’evasione fiscale, è di cruciale importanza la cooperazione internazionale.
04 – Tommaso Di Francesco*: «Serve il giorno dei “ricordi”, per la dignità di un dolore corale» – PREDRAG MATVEJEVIC. Dall’archivio. Riproponiamo brani dell’intervista uscita il 9/2/2014 all’intellettuale morto nel 2017 – È sempre critico il giudizio di Predrag Matvejevic – l’autore di Breviario mediterraneo che ama definirsi «jugoslavo» – sull’istituzione del Giorno del Ricordo (10 febbraio 2004).
05 – A San Francisco tutti ce l’hanno con i robotaxi. Dalla scorsa estate la città di San Francisco è palcoscenico di proteste, a volte anche curiose. (*)
06 – Morgan Meaker*: Perché gli sviluppatori di app sono in rivolta contro Apple. Il colosso ha modificato i termini d’uso del suo store per allinearsi al nuovo regole Ue, peggiorando le cose per le aziende che creano applicazioni sviluppatori app store.
07 – Andrea Carugati*: Rai, si muovono i dipendenti: «L’ad ignora le sofferenze a Gaza»
CONTRO LE CENSURE. Oggi nuovo sit-in a viale Mazzini

08 – Alfiero Grandi*: Macchè ritocchi il premierato va respinto ! articolo di Alfiero Grandi su Left di Febbraio 2024
09 – La Marca (PD) a New York in occasione del Giorno del Ricordo
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01 – Chiara Cruciati*: A RAFAH AIUTI PRESI D’ASSALTO. AL NASSER MUOIONO SEI PAZIENTI – FUORI TUTTI. CAMION FERMI, GLI SFOLLATI AFFAMATI ENTRANO NEL VALICO A GAZA SUD. ALL’OSPEDALE DI KHAN YUNIS DECINE DI ARRESTI. QUASI 29MILA UCCISI. PALESTINESE UCCIDE DUE ISRAELIANI E NE FERISCE QUATTRO, UN CIVILE GLI SPARA, BEN GVIR: «LE ARMI SALVANO LE VITE». DOPO L’ATTACCO A RE’EM, RAID DI ESERCITO E POLIZIA NEL CAMPO PROFUGHI DI SHUAFAT.
Pneumatici bruciati e decine di palestinesi che tentano di raggiungere camion di aiuti umanitari, fermi al valico. È successo ieri pomeriggio a Rafah, sul lato palestinese del confine. Nessun ingresso in territorio egiziano, ma la tensione era altissima. Secondo un funzionario palestinese della Rafah Border Authority, citato da Al Arabiya, «è stato un tentativo degli sfollati di prendere gli aiuti con la forza. La polizia è stata dispiegata per proteggere i camion umanitari».
Si sono uditi colpi di arma da fuoco, catturati dai video giunti dal valico. Non è la prima volta che gruppi di sfollati, ridotti alla fame, assaltano i camion in transito nella Striscia. Ora hanno preso di mira quelli fermi ad aspettare, perché hanno fame. Poche ore prima, nei suoi account ufficiali, il governo israeliano aveva pubblicato immagini di 500 camion fermi a Rafah, accusando l’Onu di lasciarli lì a marcire.
GUTERRES: «MAI TANTA FAME COME A GAZA». CADAVERI DECOMPOSTI IN STRADA
UN’ACCUSA smentita dalle Nazioni unite che da settimane denunciano i blocchi imposti da Israele e i divieti o i rallentamenti all’ingresso di cibo e medicine. Dopo le rivelazioni di Axios sull’ordine dato dal ministro delle finanze israeliano Bezalel Smotrich di bloccare al porto di Ashdod la farina inviata dagli Stati uniti, ieri il consigliere alla sicurezza nazionale della Casa bianca Jake Sullivan ha detto che «si aspetta che Israele rispetti il suo impegno» e ha assicurato che Washington sta facendo pressioni sull’alleato.
Non basta, la fame è ovunque. Gli sfollati devono aspettare ore in fila per un piatto caldo, denunciava ieri l’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi. E a volte nemmeno riescono ad averlo e mangiano erbacce e foglie.
Non mangiano dentro il Nasser Hospital di Khan Yunis, preso d’assalto e occupato due giorni fa dall’esercito israeliano. «Siamo stati costretti a spostare tutti i pazienti e i feriti nel vecchio edificio dell’ospedale», dice il direttore Nahed Abu Taima. È lì, nel vecchio edificio, che sono stati confinati a centinaia in quello che Tel Aviv definisce un raid «preciso e limitato».
«Molti pazienti lottano per la loro vita – ha aggiunto – Ci sentiamo impotenti, incapaci di fornire assistenza medica». Sei pazienti sono morti per mancanza di ossigeno e cure. Due donne hanno partorito al buio, mentre l’esercito compiva un’incursione nel reparto maternità. Due dottori sono stati arrestati e rilasciati qualche ora dopo. Altri 12 restano agli arresti, con una ventina di civili, accusati da Israele di aver preso parte all’attacco di Hamas del 7 ottobre, in cui sono stati uccisi 1.200 israeliani.
IERI le autorità israeliane hanno detto di aver trovato nell’ospedale mortai e granate, ma non hanno reso pubbliche le immagini. Il portavoce Hagar parla anche della possibilità di trovare corpi di ostaggi. L’Oms insiste: fateci entrare al Nasser. Richiesta negata, mentre sale a 28.775 il bilancio ufficiale degli uccisi a Gaza dal 7 ottobre, bilancio secondo molti sottostimato per l’impossibile conteggio di migliaia di dispersi sotto le macerie.

NETANYAHU: «NON È ORA DI PIANI DI PACE». BLITZ ALL’OSPEDALE NASSER
E mentre il Times of Israel pubblica un documento dell’intelligence militare secondo cui una sconfitta di Hamas è impossibile, il membro del gabinetto israeliano Benny Gantz ieri ha ribadito le intenzioni: «O i nostri ostaggi saranno riconsegnati o allargheremo l’operazione su Rafah – ha detto – Non ci sarà un solo giorno di cessate il fuoco. Non ci saranno rifugi sopra o sotto terra a Gaza. Anche nel mese di Ramadan, il fuoco continuerà».
Parole che non rassicurano gli alleati occidentali che da giorni fanno pressioni per impedire a Israele di muoversi verso la città che ospita oggi 1,5 milioni di palestinesi, su un totale di 2,3. E la violenza supera la frontiera di Gaza per tornare nel sud di Israele e nei Territori occupati. Ieri due israeliani sono stati uccisi e quattro feriti a Re’em, a una fermata dell’autobus, sotto i colpi sparati da Fadi Jamjoum, un palestinese del campo profughi di Gerusalemme est, Shuafat.
L’UOMO è stato ucciso da un civile armato, lodato dal ministro di ultradestra Ben Gvir secondo cui «ciò dimostra che le armi salvano le vite» (sic): «Va fatto a Gaza, in Libano, ovunque. Zero tolleranza, distruggeteli». Poco dopo polizia ed esercito hanno chiuso l’intero campo e hanno arrestato il padre e il fratello di Jamjoum. Un palestinese è stato colpito alla testa e ucciso da un proiettile. Era alla finestra a riprendere il raid con lo smartphone.
«Masse di poliziotti e soldati sono nel campo e attaccano i residenti. È una forma di punizione collettiva, dicono i palestinesi, a cui spesso sono soggetti quando c’è un attacco», riporta da Shuafat la corrispondente di al Jazeera Hamdah Salhut. Nel pomeriggio gli scontri nel campo sono proseguiti e si sono allargati alla città cisgiordana di Hebron.
*(Chiara Cruciati, giornalista, scrive di Medio oriente sulle pagine del quotidiano Il Manifesto ed è caporedattrice dell’agenzia di informazione Nena news)

 

02 – L’ITALIA È TRA I PAESI UE CON I DIVARI DI REDDITO PIÙ AMPI. IN. EUROPA LE. DISUGUAGLIANZE ECONOMICHE SONO TUTT’ALTRO CHE IN CALO E L’UE NON COSTITUISCE UN’ECCEZIONE. TRA I PAESI PIÙ POPOLOSI, L’ITALIA È QUELLO DOVE L’1% PIÙ RICCO DETIENE LA QUOTA PIÙ ELEVATA DI REDDITO NAZIONALE E DOVE DAL 1980 È PIÙ AUMENTATO L’ACCENTRAMENTO. (*)

• L’1% PIÙ RICCO IN EUROPA DETIENE, MEDIAMENTE, L’11,4% DEL REDDITO NAZIONALE (2022).
• L’ITALIA È IL SESTO PAESE CON IL VALORE PIÙ ALTO (13,6%).
• L’ACCENTRAMENTO DEL REDDITO È AUMENTATO IN 22 PAESI MEMBRI SU 27.
• TRA I GRANDI PAESI UE, LA SITUAZIONE ITALIANA È LA PEGGIORE.

Globalmente le disuguaglianze sono tutt’altro che in calo, anzi tendono ad aumentare. Come evidenzia un recente report di Oxfam, le 5 persone più ricche del mondo hanno raddoppiato le proprie fortune dal 2020, mentre 4,8 miliardi di persone (ben più della metà della popolazione) sono più povere oggi rispetto al 2019. Purtroppo nemmeno l’Europa costituisce un’eccezione a questa allarmante dinamica.
Nonostante l’aumento della ricchezza complessiva infatti non tutte le persone hanno migliorato le proprie condizioni materiali di vita. Soprattutto se consideriamo la questione in termini relativi, ovvero qual è lo stato della distribuzione delle risorse economiche all’interno di un singolo paese, tra le varie classi sociali.
Il world inequality lab, un laboratorio di ricerca che studia il fenomeno della disuguaglianza sia tra paesi che all’interno dei paesi stessi, mostra come le disparità nella ripartizione sia del reddito che delle ricchezze sia in realtà aumentata.
In un recente approfondimento abbiamo raccontato come il 10% più benestante possieda più un terzo della ricchezza nazionale (mediamente, il 35,5%). Se ci avviciniamo ulteriormente agli estremi emergono dati ancora più preoccupanti. Nel 2022 l’1% più ricco della popolazione europea deteneva l’11,4% del reddito totale e l’Italia era il sesto paese dell’Unione con il divario più ampio.

LE DISUGUAGLIANZE DI REDDITO NEI PAESI DELL’UE
Nonostante le disuguaglianze nella distribuzione siano marcate a livello di ricchezza, in questo approfondimento ci concentriamo sul reddito. Il world inequality lab opera anche questa rilevazione, determinando la quota di reddito nazionale posseduta dall’1% più ricco.
Con reddito nazionale si intende la somma di tutti i redditi percepiti dagli individui residenti nel paese nel corso dell’anno di riferimento. Sono comprese due tipologie di reddito: quella derivante dal lavoro (i salari) e quella derivante dalla ricchezza individuale (interessi e dividendi).
National income is the sum of all incomes received by individual’s residents in a given country over a year. Incomes takes various forms and we typically distinguish two broad sources: incomes stemming from individuals’ labour (e.g. wages or salaries) and incomes stemming from individuals’ wealth (e.g. interest and dividends).

WORLD INEQUALITY REPORT
• 18,7% del reddito nazionale è nelle mani dell’1% più ricco, in Bulgaria (2022).
• In Bulgaria e Danimarca l’1% detiene quasi un quinto del reddito nazionale.
• Quanto possiede l’1% più ricco della popolazione di reddito nazionale, negli stati membri (2022)
• I dati si riferiscono alla quota del reddito nazionale (ovvero Pil meno consumo di capitale fisso più reddito estero netto) detenuta dall’1% più ricco della popolazione.
• Bulgaria e Danimarca sono i due paesi dove l’1% più ricco detiene la quota maggiore del reddito nazionale, con rispettivamente il 18,7% e il 18,6%. Percentuali inferiori all’8% si riscontrano invece in Repubblica Ceca, Belgio e Slovacchia. L’Italia, con il 13,6%, è il sesto paese con per ampiezza del divario.

LE RISORSE SI CONCENTRANO SEMPRE DI PIÙ
Mediamente negli anni la quota di reddito nelle mani delle persone più ricche è lievemente aumentata. Il picco è stato toccato nel 2007, quando il valore si è attestato al 12,6%. Solo in 5 paesi si è invece registrato un calo: Austria, Spagna, Cipro, Belgio e Lussemburgo.
I maggiori aumenti si sono registrati nell’ex blocco sovietico e in Scandinavia.
Gli incrementi maggiori, dagli anni ’80 a oggi, hanno invece interessato i paesi dell’ex blocco sovietico, che hanno adottato in tempi più recenti il libero mercato. In Bulgaria (il paese che registra anche il divario più pronunciato) la quota è aumentata di oltre 15 punti percentuali, passando dal 3% nel 1980 al 19% nel 2022. Anche in Estonia la quota è cresciuta di 10 punti. Notevoli anche i casi di alcuni paesi scandinavi: la Danimarca (seconda dopo la Bulgaria per entità del divario) registra un aumento di 12 punti percentuali e la Svezia di 7.
D’altronde anche l’Italia, al pari di Ungheria e Lituania, ha visto un aumento pari a 7 punti percentuali. Si tratta del dato più elevato tra i paesi più popolosi dell’Ue (Francia, Germania e Spagna). Inoltre, per l’Italia stessa, si tratta del record assoluto.
Il maggiore accentramento nelle mani di pochi si è verificato in Italia
Quanto, del reddito nazionale, è posseduto dall’1% più ricco della popolazione, negli stati membri più popolosi (1980-2022)
I dati si riferiscono alla quota di reddito nazionale detenuto dall’1% di popolazione più ricca dei paesi europei più popolosi, nel corso degli ultimi 42 anni.
L’ITALIA È, TRA I PRINCIPALI STATI MEMBRI DELL’UE, QUELLO CHE RIPORTA IL DIVARIO PIÙ AMPIO (L’1% DETIENE IL 13,6% DI TUTTO IL REDDITO NAZIONALE) E ANCHE QUELLO CHE HA REGISTRATO IL PIÙ MARCATO ACCENTRAMENTO DELLE RICCHEZZE: +7,4 PUNTI PERCENTUALI TRA 1980 E 2022. In entrambi i casi, segue la Francia.
Mentre la Spagna ha visto un miglioramento graduale e la Germania un accentramento marcato fino al 2020, cui poi è seguito un netto calo. In Italia e Francia si è verificata la dinamica contraria e l’aumento più pronunciato si è registrato proprio dopo il 2020.
(FONTE: elaborazione Open polis su dati world inequality database consultati: lunedì 22 gennaio 2024)

 

03 – I CITTADINI EUROPEI DETENGONO OLTRE 2MILA MILIARDI DI DOLLARI ALL’ESTERO. EUROPA – SOLO IN ITALIA PARLIAMO DI 198 MILIARDI DI DOLLARI (9,8% DEL PIL), UNA CIFRA CHE NEGLI ULTIMI ANNI È RADDOPPIATA. PER MONITORARE QUESTO FENOMENO, PARTICOLARMENTE ESPOSTO ALL’EVASIONE FISCALE, È DI CRUCIALE IMPORTANZA LA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE.

• DALL’INTRODUZIONE DEL COMMON REPORTING STANDARD È DIVENTATO PIÙ FACILE MISURARE L’ENTITÀ DEL FENOMENO.
• I CITTADINI EUROPEI DETENGONO PIÙ DI 2MILA MILIARDI DI DOLLARI OFFSHORE. IN GRECIA LA CIFRA RAGGIUNGE IL 64% DEL PIL.
• IN ITALIA GLI ASSET FINANZIARI ALL’ESTERO AMMONTANO A 198 MILIARDI DI DOLLARI.
• QUESTO AMBITO È PARTICOLARMENTE VULNERABILE ALL’EVASIONE FISCALE.
Evasione ed elusione fiscale possono assumere le forme più diverse. Spesso avvengono a livello di aziende, come nel caso delle multinazionali che, avendo sedi in più paesi, possono facilmente trasferire i propri profitti dove il regime di tassazione risulta più favorevole. Ma anche i privati cittadini possono evadere il fisco, per esempio detenendo ricchezze e risorse finanziarie fuori dal proprio paese, in paradisi fiscali. Importanti episodi di questo tipo, che hanno scosso l’opinione pubblica, sono stati ad esempio i Pandora papers e i cosiddetti Swiss leaks.
La ricchezza offshore è un fenomeno di ampia portata, non di per sé illegale, ma che, essendo maggiormente esposto all’evasione fiscale, può causare ingenti perdite alla collettività e allo stesso tempo inasprire le disuguaglianze economiche, rendendone più difficile la rilevazione. Di quest’ultimo aspetto si occupa l’Eu tax observatory, un laboratorio di ricerca finanziato dall’Unione europea. Dalle loro ultime analisi emerge che i cittadini dell’Ue detengono oltre 2mila miliardi di dollari offshore. Solo in Italia parliamo di quasi 198 miliardi, pari al 9,8% del Pil.
Come si stima la ricchezza offshore
Con ricchezza finanziaria offshore delle famiglie si fa riferimento alle attività finanziarie detenute da individui al di fuori del loro paese di residenza. Tale categoria comprende i depositi bancari e i portafogli titoli (azioni, obbligazioni, quote di fondi comuni di investimento e altri strumenti finanziari).
Detenere asset finanziari all’estero è permesso, purché si dichiarino i guadagni che ne derivano alle autorità domestiche, dato che i paesi tassano i guadagni dei propri residenti a prescindere da dove essi siano ricavati. Tuttavia, l’evasione fiscale è molto più semplice al di fuori dal paese di residenza, per tutta una serie di dinamiche: la poca visibilità, la necessità di un forte coordinamento tra le banche e stati a livello internazionale nonché l’esistenza di una serie di possibili stratagemmi per aggirare la dichiarazione.
Il common reporting standard ha facilitato e automatizzato la cooperazione fiscale internazionale.
Per molto tempo è stato estremamente difficile delineare le dimensioni del fenomeno. È diventato poi più facile grazie alla metodologia di riferimento elaborata dall’economista francese Gabriel Zucman, dell’Eu tax observatory. Si tratta fondamentalmente di misurare il mismatch esistente tra attività e passività a livello internazionale. A segnare una svolta è stata anche la decisione di più di 100 paesi di adottare il common reporting standard (Crs) dell’Ocse. Da allora le banche nei paradisi fiscali perlopiù comunicano automaticamente le informazioni sui propri clienti alle autorità fiscali dei loro paesi di residenza. Prima invece vigeva un vero e proprio regime di segretezza bancaria e le banche rispondevano soltanto a richieste esplicite. L’adesione al Crs ha migliorato enormemente le capacità di analisi e rilevazione sul fenomeno della ricchezza offshore e per questo ha costituito un fondamentale strumento di cooperazione internazionale.
Le attività finanziarie che i cittadini europei detengono all’estero
Secondo le stime effettuate dall’Eu tax observatory, a livello globale circa 12mila miliardi di dollari sono depositati fuori dal paese di residenza del proprietario alla fine del 2022. Si escludono da questa stima le proprietà materiali come oro, opere d’arte e case. Una cifra molto elevata, pari al 12% del Pil mondiale. L’osservatorio stima che circa un quarto di queste ricchezze non vengono in alcun modo tassate.
Global tax evasion report 2024
• Per quanto riguarda i 22 paesi membri per i quali sono disponibili dati (sono esclusi Cipro, Lussemburgo, Belgio e Austria, considerati dall’Eu tax observatory dei paradisi fiscali e non sono disponibili i dati di Malta), la cifra supera i 2mila miliardi di dollari.
• 2.141 miliardi di $ gli asset finanziari detenuti all’estero dai cittadini di 22 paesi Ue (2022).
• In Grecia la ricchezza offshore è pari al 64% del Pil
• La ricchezza finanziaria offshore in termini assoluti e in rapporto al Pil negli stati Ue (2022)

La ricchezza finanziaria offshore delle famiglie si riferisce alle attività finanziarie detenute da individui al di fuori del loro Paese di residenza. Le attività finanziarie comprendono depositi bancari e portafogli di titoli (azioni, obbligazioni e quote di fondi comuni di investimento). Non sono disponibili i dati di Malta, mentre sono esclusi Cipro, Belgio, Lussemburgo e Austria, considerati dall’Eu tax observatory dei paradisi fiscali.
In termini assoluti la Francia è il paese Ue che registra la più consistente ricchezza finanziaria offshore: 545 miliardi di dollari nel 2022. Segue la Germania con 377 miliardi e l’Italia, al terzo posto, con 198. Se però osserviamo il rapporto con il prodotto interno lordo, il dato più elevato è quello greco: la ricchezza offshore in Grecia ammonta al 64% del Pil. Quasi il doppio della Bulgaria, che si attesta al 37,1%.
Prima era molto forte il ruolo della Svizzera, la quale però ha perso notevolmente importanza negli ultimi 15 anni, a vantaggio soprattutto dei paradisi fiscali asiatici. Continua tuttavia a essere il principale paradiso fiscale in Europa, riportando 2,6mila miliardi di dollari provenienti da cittadini non residenti nel paese. Segue il Lussemburgo con 629 miliardi.
197,96 miliardi di $ detenuti da italiani fuori dal paese nel 2022.
Dal 2016 la ricchezza offshore degli italiani è più che raddoppiata
Le attività finanziarie detenute dalle famiglie italiane fuori dall’Italia (2001-2022)

Con ricchezza finanziaria offshore delle famiglie si intendono le attività finanziarie detenute da individui al di fuori del loro paese di residenza. Le attività finanziarie comprendono depositi bancari e portafogli di titoli (azioni, obbligazioni e quote di fondi comuni di investimento).
Nei primi anni 2000 le risorse finanziarie detenute all’estero dagli italiani erano elevate: hanno toccato due picchi nel 2004 (190 miliardi di dollari) e nel 2007 (187 miliardi). Dopo un progressivo calo, a partire dal 2016 l’entità della ricchezza finanziaria offshore è nuovamente aumentata, per toccare un altro picco nel 2021: circa 208 miliardi di dollari. Dal 2020 il rapporto con il Pil si attesta al 9,8%. Una cifra più contenuta rispetto al 14,3% del 2001, ma che comunque segna un incremento rispetto ad anni in cui la percentuale non ha superato il 5%.
L’evasione fiscale offshore
Come abbiamo accennato precedentemente, detenere risorse finanziarie all’estero non è illegale. E spesso le persone possono scegliere di farlo per ragioni che non hanno nulla a che vedere con le tasse. Globalmente, come abbiamo visto, circa il 25% delle risorse finanziarie all’estero riesce a sfuggire alla dichiarazione ed è una quota ormai in calo da diversi anni.
Tuttavia quello della ricchezza finanziaria offshore resta un fenomeno che occorre monitorare con attenzione. Una serie di fattori lo espongono infatti al problema dell’evasione fiscale. L’Eu tax observatory ne individua otto in particolare:
• l’inadempienza delle banche, che non dichiarano le informazioni che sarebbero tenute a rilasciare, per favorire i propri clienti;
• la trasformazione delle aziende in banche di comodo (shell banks), che permettono al proprietario di eludere la dichiarazione a terzi, di fatto auto dichiarando;
• il ricorso ai programmi di ottenimento della cittadinanza tramite investimento;
• la diluizione: ci sono delle soglie al di sotto delle quali non è obbligatorio dichiarare, pertanto si possono diluire gli investimenti in una serie di transazioni di importo più basso;
• le eventuali lacune nei requisiti di dichiarazione;
• la mancata partecipazione degli Stati Uniti (un attore finanziario di dimensioni notevoli) al Crs;
• la carenza di capacità amministrativa;
• le sfide nell’inclusione dei paesi a più basso livello di sviluppo.
Si tratta quindi di una questione che continua a essere delicata, essendo il fenomeno gestito internazionalmente e avendo al proprio centro una serie di interessi. Per appianare il più possibile le disuguaglianze e restituire alla collettività risorse che le spettano, è necessario agire attraverso strumenti di collaborazione internazional
e.
(FONTE: elaborazione Open polis su dati Atlas of the offshore world)

 

04 – Tommaso Di Francesco*: «SERVE IL GIORNO DEI “RICORDI”, PER LA DIGNITÀ DI UN DOLORE CORALE» – PREDRAG MATVEJEVIC. DALL’ARCHIVIO. RIPROPONIAMO BRANI DELL’INTERVISTA USCITA IL 9/2/2014 ALL’INTELLETTUALE MORTO NEL 2017 – È SEMPRE CRITICO IL GIUDIZIO DI PREDRAG MATVEJEVIC – L’AUTORE DI BREVIARIO MEDITERRANEO CHE AMA DEFINIRSI «JUGOSLAVO» – SULL’ISTITUZIONE DEL GIORNO DEL RICORDO (10 febbraio 2004).

CHE BILANCIO VA FATTO DI QUESTO “GIORNO”?
Che non bisogna smettere di raccontare la verità. André Gide diceva: «Bisogna ripetere nessuno ascolta». Ognuno in questa epoca sembra chiuso nella propria sordità. Il bilancio non è positivo, se a celebrare il precedente Giorno della memoria alla Risiera di San Sabba, il lager nazista al confine tra due popoli, accorrono anche i post-fascisti. È ogni anno abbondano fiction e rappresentazioni che invece di raccontare il pathos collettivo che riguarda almeno due popoli, riducono tutto alla sola tragedia delle vittime italiane. Ho scritto sulle vittime delle foibe anni fa in ex Jugoslavia, quando se ne parlava poco in Italia. Ero criticato. Ho sostenuto gli esuli italiani dell’Istria e della Dalmazia condividendo il loro cordoglio nazionale per le vittime innocenti. L’ho fatto prima e dopo aver lasciato il mio paese natio e scelto, a Roma, una via fra asilo ed esilio. Continuo anche ora che sono ritornato a Zagabria. Credevo comunque che le polemiche e le strumentalizzazioni fossero finite. Invece no.
C’È UN CASO CHE RICORDA?
Il caso del 2008 dello scrittore di confine Boris Pahor che ha fatto della coralità del dolore la sua materia, raccontando la tragedia dei crimini commessi dai fascisti in terra slava e il lascito di odio rimasto. Di fronte all’onorificenza offertagli dal presidente della repubblica Giorgio Napolitano, insorse dichiarando che l’avrebbe rifiutata se dalla presidenza italiana non arrivava una chiara presa di posizione contro i silenzi sugli eccidi di Mussolini.
CHE COSA FU IN REALTÀ IL CRIMINE DELLE FOIBE?
Sì, le foibe sono un crimine grave e la stragrande maggioranza di queste vittime furono proprio gli italiani. Ma per la dignità di un dolore corale bisogna dire che questo delitto è stato preparato e anticipato anche da altri, che non sono sempre meno colpevoli degli esecutori dell infoibamento. La tragica vicenda è infatti cominciata prima, non lontano dai luoghi dove sono stati poi compiuti quei crimini atroci. Il 20 settembre 1920 Mussolini tiene un discorso a Pola (una scelta non casuale). E dichiara: «Per realizzare il sogno mediterraneo bisogna che l’Adriatico, che è un nostro golfo, sia in mani nostre; di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara». Ecco come entra in scena il razzismo, accompagnato dalla pulizia etnica.

Gli slavi perdono il diritto che prima, al tempo dell’Austria, avevano, di servirsi della loro lingua nella scuola e sulla stampa, il diritto della predica in chiesa e persino quello della scritta sulla lapide nei cimiteri. Si cambiano massicciamente i loro nomi, si cancellano le origini, si emigra Ed è appunto in un contesto del genere che si sente pronunciare, forse per la prima volta, la minaccia della foiba. È il ministro fascista dei Lavori pubblici Giuseppe Caboldi Gigli, che si era affibbiato da solo il nome vittorioso di Giulio Italico, a scrivere già nel 1927: «La musa istriana ha chiamato Foiba degno posto di sepoltura per chi nella provincia d’Istria minaccia le caratteristiche nazionali dell’Istria» (da Gerarchia, IX, 1927) aggiungendo anche i versi di una canzonetta dialettale già in giro: «A Pola xe l’Arena, La Foiba xe a Pisin».
Le foibe sono dunque un’invenzione fascista. E dalla teoria si è passati alla pratica. L’ebreo Raffaello Camerini, che si trovava ai lavori coatti in questa zona durante la seconda guerra mondiale, ha testimoniato nel giornale triestino Il Piccolo (5. XI. 2001): «Sono stati i fascisti, i primi che hanno scoperto le foibe ove far sparire i loro avversari». La vicenda «con esito letale per tutti» che racconta questo testimone italiano, fa venire brividi.
COSA RISVEGLIA IL “GIORNO DEL RICORDO” NELL’EX JUGOSLAVIA?
La storia (con la S maiuscola) aggiunge altri dati poco conosciuti in Italia. Uno dei peggiori criminali dei Balcani è il duce (poglavnik) degli ustascia croati Ante Pavelic. Il loro campo di Jasenovac è stato una Auschwitz in formato ridotto: lì il lavoro micidiale veniva fatto a mano, mentre i nazisti lo facevano in modo industriale. Il criminale Pavelic con i suoi seguaci, poté godere negli anni Trenta dell’ospitalità mussoliniana a Lipari, dove ricevevano aiuto e corsi di addestramento dai più rodati squadristi.
Le camicie nere hanno eseguito numerose fucilazioni di massa e singole. Tutta una gioventù ne rimase falciata in Dalmazia, in Slovenia, in Montenegro. Senza dimenticare la catena di campi di concentramento, dall’isola di Mamula all’estremo sud dell’Adriatico, fino ad Arbe, di fronte a Fiume. a dove spesso si transitava per raggiungere la Risiera di San Sabba a Trieste e, in certi casi, si finiva ad Auschwitz e soprattutto a Dachau. I partigiani non erano protetti in nessun paese dalla Convenzione di Ginevra e pertanto i prigionieri venivano subito sterminati come cani. E così molti giunsero alla fine della guerra accaniti: infoibarono anche gli innocenti, non solo di origine italiana. Singole persone esacerbate, di quelle che avevano perduto la famiglia e la casa, i fratelli e i compagni, eseguirono i crimini in prima persona e per proprio conto.
La Jugoslavia di Tito non voleva che se ne parlasse. Noi abbiamo cercato di parlarne. Oggi ne parlano purtroppo a loro modo soprattutto i nostri ultra-nazionalisti, una specie di neo-missini slavi. Ho sempre pensato che non bisognerebbe costruire i futuri rapporti in questa zona sui cadaveri seminati dagli uni e dagli altri, bensì su nuove esperienze culturali. Per questo auspico la proclamazione congiunta del «Giorno dei Ricordi».
*(Fonte: Il Manifesto. Tommaso Di Francesco, è un poeta, giornalista e scrittore italiano.)

 

04 – David Bernardini*: POLITICA E VIOLENZA ALLA VIGILIA DELLA TRAGEDIA – STORIA DI IERI. L’ANTINAZISMO MILITANTE NELLA GERMANIA DI WEIMAR. POLITICA E VIOLENZA ALLA VIGILIA DELLA TRAGEDIA

All’inizio degli anni Novanta Sergio Bologna tenne una conferenza, in seguito pubblicata nel volume Nazismo e classe operaia, in cui contestava l’idea che la classe operaia tedesca si fosse arresa al nazismo senza combattere. Al contrario, sosteneva, si era battuta duramente e nelle condizioni più drammatiche, determinate dalle crisi economica del 1929.
A fianco di politici, sindacalisti e intellettuali, non bisogna dimenticare le decine di migliaia di militanti, legati alle diverse anime del movimento operaio tedesco dell’epoca, che decisero di rispondere con la violenza alla violenza nazista. Beninteso, ciò non fu una specificità tedesca: in Italia le camicie nere si scontrarono con gli Arditi del Popolo – e si potrebbero fare altri esempi per quanto riguarda la Francia, l’Inghilterra e così via.
La Prima guerra mondiale, infatti, innescò una serie di processi che portarono alla brutalizzazione della politica e alla militarizzazione delle culture politiche.
La conseguente simbiosi tra politica, violenza e cultura si dispiegò in forme particolarmente radicali nella prima democrazia tedesca, la Repubblica di Weimar. A destra si affermarono prima i Freikorps e in seguito le SA. A sinistra, invece, il Partito socialdemocratico diede vita nel 1924 al Reichsbanner Schwarz-Rot-Gold (Bandiera del Reich nero-rosso-oro, ossia i colori della tradizione repubblicana tedesca) in difesa della repubblica, che alla fine del 1931 entrò nel Fronte di Ferro. Nel 1924 il Partito comunista fondò a sua volta la Lega dei combattenti del Fronte rosso, seguita nel 1930 dalla Lega di lotta contro il fascismo e nel 1932 dall’Antifaschistische Aktion (Azione antifascista). Lo slogan era chiaro: «Schlagt die Faschisten, wo Ihr sie trefft!» («Colpite i fascisti ovunque li incontriate!»). Di dimensioni assai più ridotte erano infine le Schwarze Scharen, una rete di gruppi sorta nell’ambito del sindacato anarchico Faud, i cui membri si presentavano alle manifestazioni completamente vestiti di nero.
Senza formare un insieme solidale e compatto ma anzi spesso in rivalità tra loro, queste organizzazioni si contrapposero fisicamente (anche ricorrendo ad armi bianche e da fuoco) alla sempre maggiore aggressività delle SA, galvanizzate dai successi elettorali di Hitler dal 1929. Tale contrapposizione si dispiegava in uno stillicidio di conflitti politici violenti spesso di piccole dimensioni, incontrollabili e imprevedibili.
Può essere utile un esempio. Il 22 gennaio 1931 i nazisti invitarono provocatoriamente comunisti e socialdemocratici a un dibattito con Joseph Goebbels presso una sala del quartiere operaio berlinese di Friedrichshain. I comunisti accettarono. Alle 20 e 30 si ritrovarono circa 3mila persone, per la maggior parte nazisti. Secondo le cronache, quando Goebbels dichiarò di essere venuto con il suo cervello per dimostrare che Hitler aveva ragione alcuni comunisti urlarono «mostracelo!». Lo scontro fu inevitabile: alla fine della battaglia di Friedrichshain si contarono 100 feriti e 500 sedie distrutte. Diverso è il caso della “domenica di sangue” di Altona. 17 luglio 1932 i nazisti organizzarono una marcia ad Amburgo che, con il suo grande porto, era una delle roccaforti della sinistra.
L’obiettivo era Altona, un ex villaggio di pescatori ormai inglobato nel tessuto urbano. Verso le tre del pomeriggio 7mila SA e SS formarono una colonna inquadrata militarmente che, un’ora dopo circa, giunse alle porte di Altona e venne attaccata dagli antifascisti spalleggiati dagli abitanti. Alla ritirata del corteo nazista seguì l’intervento della polizia: alla fine della giornata persero la vita 18 persone. Pochi mesi dopo iniziava il Terzo Reich.
È interessante notare la persistenza negli odierni movimenti antifascisti del simbolo dell’Antifaschistische Aktion del 1932 (due bandiere rosse, sovrapposte e leggermente sfalsate).
All’inizio degli anni Novanta, infatti, alcuni gruppi antifascisti reagirono all’attivismo neonazista a seguito del crollo del Muro di Berlino e ripresero il simbolo, cambiando il colore di una delle due bandiere (da rossa a nera): lo si può facilmente riconoscere tra le bandiere, gli striscioni e i volantini distribuiti nelle manifestazioni per Ilaria Salis di queste settimane. Le vicende dell’antifascismo degli anni compresi tra le due guerre mondiali continuano a parlare la lingua del presente.
(Fonte: Il Manifesto. David Bernardini. è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Studi Storici dell’Università degli Studi di Milan)

 

05 – Laura Carrer*: A SAN FRANCISCO TUTTI CE L’HANNO CON I ROBOTAXI. DALLA SCORSA ESTATE LA CITTÀ DI SAN FRANCISCO È PALCOSCENICO DI PROTESTE, A VOLTE ANCHE CURIOSE.
Al centro delle manifestazioni non sempre pacifiche ci sono i robotaxi, macchine senza conducente gestite dalle società di veicoli autonomi Waymo e Cruise. La prima è di proprietà della società madre di Google, Alphabet, la seconda di General Motors. In un articolo del New York Times dello scorso agosto, il quotidiano ha inviato sul campo alcuni giornalisti per provare a capire il motivo delle proteste nonché il funzionamento del servizio di taxi autonomo a pagamento. Ci sono stati alcuni intoppi, che in questo campo non sono affatto trascurabili.

L’auto autonoma di uno dei tre giornalisti si è comportata in modo strano, andando oltre la corsia che separa le carreggiate o accelerando quando non doveva. La vettura di un altro giornalista invece ha inchiodato davanti a un pedone, che ha guardato il taxi con uno sguardo infastidito. A San Francisco, a partire dal 2022, si è registrato un boom di auto a guida autonoma che forniscono servizio taxi e, parallelamente, anche numerosi incidenti di vario tipo che hanno coinvolto perlopiù pedoni.
Lo scorso anno il Guardian aveva pubblicato alcuni articoli simili riferendo di un gruppo chiamato Safe Street Rebels, che sta portando avanti una campagna per interrompere la sperimentazione e l’utilizzo di veicoli senza conducente in città perché considerati pericolosi per i cittadini. Le loro azioni sono semplici quanto efficaci: una volta scoperto che le macchine si immobilizzano e non ripartono più (a meno che non intervenga un essere umano) nel momento in cui si appoggia sul cofano un cono per i lavori stradali, il gruppo ha deciso di utilizzare questa vulnerabilità per metterne fuori uso più possibile.
Nella notte tra domenica e lunedì c’è stata una nuova protesta che ha coinvolto un Suv a guida autonoma nel quartiere di Chinatown. Anche se non si conoscono ancora tutti i dettagli dell’accaduto, sul quale la polizia sta indagando, il Guardian riporta di un gruppo di persone che ha iniziato a saltare sopra un veicolo elettrico a guida autonoma di Waymo rompendone i finestrini e firmandolo con le bombolette spray. I vigili del fuoco hanno pubblicato un video della macchina poi data alle fiamme, su X. L’auto è stata completamente distrutta.
I manifestanti mettono in discussione la sicurezza dei veicoli che girano per le strade di San Francisco soprattutto dopo che Cruise si è vista sospendere il permesso di circolazione nell’ottobre dello scorso anno. La filiale è infatti stata accusata di aver cercato di nascondere un grave incidente avvenuto in città alcuni mesi prima. Una donna è stata investita da un robotaxi dopo essere sfuggita poco prima ad un investimento da parte di un guidatore umano. Anche se ha invaso la sua corsia, l’auto autonoma non si è fermata fino a che non l’ha investita. La donna è sopravvissuta all’incidente.
Un altro incidente ha coinvolto invece un ciclista, che è stato ferito lo scorso giugno da un robotaxi di Waymo perché i sensori di prossimità sono stati oscurati da un’altra auto in mezzo a un incrocio. Decine di altri casi, come un’auto che si è schiantata contro un camion dei pompieri o quella che ha intasato il traffico cittadino, rappresentano il motivo per cui la motorizzazione californiana aveva sospeso la circolazione di alcune vetture.
*(a cura di: Laura Carrer, giornalista freelance e ricercatrice. Scrive di sorveglianza di stato, tecnologia all’intersezione con i diritti umani, piattaforme tecnologiche e spazio urbano su IrpiMedia, Wired, Il Post, Il Manifesto e altri.)

 

06 – Morgan Maekar*: PERCHÉ GLI SVILUPPATORI DI APP SONO IN RIVOLTA CONTRO APPLE. IL COLOSSO HA MODIFICATO I TERMINI D’USO DEL SUO STORE PER ALLINEARSI AL NUOVE REGOLE UE, PEGGIORANDO LE COSE PER LE AZIENDE CHE CREANO APPLICAZIONI SVILUPPATORI APP STORE.
C’è una guerra che si sta combattendo all’interno degli iPhone di tutta Europa. Nonostante recentemente Apple abbia introdotto nuove regole che apparentemente allentano il suo controllo sull’App Store, gli sviluppatori europei si stanno scagliando contro il nuovo sistema, che dal loro punto di vista rafforzerebbe l’enorme potere che la compagnia già esercita sulla loro attività. E ora stanno dando vita a una vera e propria rivolta, aumentando la pressione per un intervento da parte dei legislatori dell’Unione europea (Ue) e definendo le nuove condizioni poste dal colosso con termini come “abuso” ed “estorsione”.

LA RABBIA DEGLI SVILUPPATORI
“Apple tiene in ostaggio i fornitori di app come la mafia”, afferma Matthias Pfau, amministratore delegato e cofondatore di Tuta, un provider di posta elettronica crittografata. Secondo Pfau la società tratta gli iPhone come una sua proprietà, controllando attentamente l’accesso degli sviluppatori per poi di prendersi una fetta dei loro profitti. “Chiunque voglia fornire un’app per i Os deve pagare un riscatto ad Apple. Non c’è modo di evitarlo”, aggiunge.
Per anni Apple ha rifiutato gli aggiornamenti dell’app Tuta che includevano link al sito web dell’azienda, afferma Pfau. E come tutte le app iOS, anche Tuta non ha potuto accettare pagamenti diretti in-app dai suoi clienti. Come sappiamo, infatti, Apple opera come un intermediario richiedendo una commissione agli sviluppatori. A tal proposito, Pfau sperava che le riforme dell’App Store imposte dal Digital markets act (Dma) dell’Ue avrebbero reso aziende come la sua meno vincolate ad Apple. Ora però si dice deluso dalle nuove condizioni. “Quello che hanno proposto è la prova migliore del fatto che stanno abusando enormemente della loro posizione dominante sul mercato – afferma l’ad di Tuta –. Apple praticamente si sta comportando come un dittatore”.
Il colosso di Cupertino è stato designato come una delle società “gatekeeper” dal Dma, dopo che l’Ue ha stabilito che l’App Store funge da importante punto di contatto tra aziende e consumatori, dando alla compagnia e ad altri giganti tech tempo fino al 7 marzo per apportare una serie di modifiche. E così, per evitare multe che possono arrivare fino al 20% delle entrate globali, Apple ha annunciato le sue nuove regole a fine gennaio.

MIGLIORAMENTI SOLO APPARENTI
Tecnicamente, le norme consentono agli utenti di scaricare applicazioni da app store alternativi, e permettono agli sviluppatori di utilizzare i propri sistemi di pagamento, aggirando così la commissione di Apple.

Per farlo, però, gli sviluppatori devono sottoscrivere nuove condizioni commerciali. Secondo Pfau, questi termini includono restrizioni che svantaggiano le aziende che si allontanano dallo status quo. Se Tuta dovesse sfruttare il nuovo sistema, per esempio, gli iPhone emetterebbero avvisi – noti ai critici come “scare screen” – per notificare agli utenti possibili rischi di sicurezza legati all’uso di sistemi di pagamento che non vengono gestiti da Apple. In base ai test condotti da Tuta, Pfau stima che queste allerte dissuaderebbero il 50% degli utenti dal procedere con un acquisto.
E anche se permettono a Pfau di offrire Tuta in un app store alternativo a quello di Apple, le nuove condizioni espongono comunque l’azienda a una “tassa sulla tecnologia di base” ogni volta che l’applicazione viene scaricata, o aggiornata più di un milione di volte in un anno. Pfau sottolinea che a fronte di circa 100mila abbonati paganti, Tuta potrebbe non dover pagare questa tassa nel primo anno. “Ma stiamo crescendo – continua –, e quindi dovremo sicuramente pagarla nei prossimi due anni”.
Per aziende come la svedese Spotify, tuttavia, la tassa sui download rappresenterebbe un un problema più immediato. “Con una base di installazioni su dispositivi Apple in Europa che si aggira intorno ai 100 milioni, questa nuova tassa su download e aggiornamenti potrebbe far salire alle stelle i costi di acquisizione di nuovi clienti, potenzialmente decuplicandoli – ha dichiarato l’amministratore delegato di Spotify Daniel Ek su X –. Nonostante Apple si comporti male da anni, quello che ha fatto ieri rappresenta un nuovo punto basso persino per loro”.

SCELTA OBBLIGATA
Per questo motivo il servizio di streaming musicale, come altre applicazioni, ritiene di non avere altra scelta se non quella di attenersi all’accordo attuale, ha spiegato Ek in una telefonata con gli investitori la scorsa settimana. Questo significa continuare a pagare le commissioni ad Apple e rendere disponibile la propria app per iOs esclusivamente nell’App Store del gigante. “Nessuno sviluppatore sano di mente vuole scegliere una qualsiasi delle nuove condizioni”, ha dichiarato Ek. Per Spotify rimanere fedeli al sistema attuale, ha aggiunto Ek, significa perdere i ricavi derivanti dagli acquisti di prodotti come gli audiolibri – uno dei nuovi focus della piattaforma – dall’app dell’azienda. A quanto pare, infatti, Spotify non vende audiolibri nella sua app iOs proprio per evitare le commissioni di Apple. “Quindi alcune delle cose più innovative che vorremmo fare, al momento sono limitate nell’ecosistema iOS”, commenta l’ad della società.
Dal canto suo, Apple sostiene che le sue modifiche sono conformi al Dma oltre che necessarie per proteggere i dispositivi degli utenti europei dai rischi per la sicurezza che verrebbero introdotti dalle nuove regole Ue. “L’approccio di Apple al Digital markets act è stato guidato da due semplici obiettivi: rispettare la legge e ridurre gli inevitabili e crescenti rischi che il Dma crea per i nostri utenti dell’Ue – afferma Julien Trosdorf, portavoce di Apple –. Questo significava creare misure di salvaguardia per proteggere gli utenti europei nella massima misura possibile e al contempo rispondere alle nuove minacce, inclusi nuovi vettori di malware e virus, possibili truffe e frodi, e alle sfide per il funzionamento delle app sulle piattaforme Apple”.
Da soli gli sviluppatori di app non hanno molto potere per far cambiare rotta ad Apple. Ma sperano che le loro critiche costringano la Commissione europea ad agire. Dopo la scadenza del 7 marzo, le autorità Ue dovrebbero valutare sia le proposte di Apple sia la reazione del mercato. “Ora [la Commissione europea] deve respingere la proposta di Apple e prendere in considerazione di comminare una multa nel caso in cui non vengano apportati ulteriori miglioramenti”, afferma Sebastiano Toffaletti, segretario generale del gruppo European Digital Sme Alliance.
Andy Yen, amministratore delegato del servizio svizzero di posta elettronica e cloud Proton, è meno diplomatico. “Se fossi la Commissione europea, probabilmente lo vedrei come un insulto – dice a proposito delle condizioni commerciali proposte da Apple –. È uno schiaffo in faccia”.
*(Questo articolo è comparso originariamente su Wired US. Morgan Meaker, è uno scrittore senior presso WIRED che si occupa di affari europei. Prima di allora, è stata reporter tecnologica presso The Telegraph e ha lavorato anche per la rivista olandese De Correspondent.)

 

07 – Andrea Carugati*: RAI, SI MUOVONO I DIPENDENTI: «L’AD IGNORA LE SOFFERENZE A GAZA» – CONTRO LE CENSURE. OGGI NUOVO SIT-IN A VIALE MAZZINI
LA PROTESTA CONTRO LE CENSURE RAI E IL PENSIERO UNICO FILO-ISRAELIANO NON SI FERMANO, FUORI E DENTRO IL SERVIZIO PUBBLICO. DOPO LE MANIFESTAZIONI SOTTO LE SEDI RAI DI NAPOLI, BOLOGNA, TORINO, FIRENZE E GENOVA, OGGI POMERIGGIO ALLE 15 NUOVO SIT-IN A VIALE MAZZINI A ROMA. STAVOLTA NON È IL PD A PROTESTARE CONTRO «TELE MELONI», MA UNA SERIE DI SIGLE VICINE ALLA CAUSA PALESTINESE E DELLA SINISTRA, SPIN TIME E RETE DEGLI STUDENTI MEDI.
Ma anche dentro la tv pubblica qualcosa si muove. Ieri è stato pubblicato sui social un documento scritto da una ventina di dipendenti non giornalisti che definisce il comunicato riparatore pro-Israele dell’ad Sergio letto domenica scorsa in diretta da Mara Venier «un punto di svolta inquietante». «Contestiamo l ’utilizzo dei canali aziendali per trasmettere le idee personali dell’ad», scrivono i dipendenti, che hanno scelto l’anonimato per evitare provvedimenti disciplinari.
«L’azienda deve avere la forza e la dignità di essere indipendente dagli umori di singoli individui, e non pronta a inginocchiarsi alla diplomazia israeliana per poche frasi pronunciate da una manciata di artisti durante» Sanremo. «Contestiamo con forza l’unilateralità del comunicato che ha completamente omesso la sproporzione del conflitto, le sofferenze della popolazione di Gaza e la violenta occupazione in Cisgiordania». «Si tratta di una iniziativa spontanea», spiegano i firmatari, siamo sconcertati dal silenzio dei sindacati: volevamo chiarire che il comunicato di Sergio non rappresenta affatto i lavoratori dell’azienda».
Si muove anche il comitato di redazione di Rai approfondimento, che raccoglie le redazioni di Report, Agorà, Presadiretta e altri programmi. «La Rai che vogliamo ha solo due padroni: i cittadini e coloro che ci lavorano, e non risponde ai diktat dei governi, né quello italiano né tantomeno governi stranieri. Non è proprietà dei suoi alti dirigenti, né di ministri o partiti politici. Non accetta reprimende, censure, tirate di orecchie.
Non toglie la parola a nessuno, ma la offre a chi è senza voce». «Siamo sconcertati dal clima di questi giorni», prosegue il comunicato. «In Rai non ci sono parole vietate, ma solo parole sulle quali ognuno ha diritto di dire la sua. E questo vale anche per la guerra. Il racconto della guerra non può essere dettato dalla collocazione internazionale del nostro Paese. Per questo chiediamo a tutti coloro che ritengono di poter decidere cosa ha diritto di parola nella Rai, di rinunciare alle proprie pretese. Siamo pronti a difendere la nostra autonomia e indipendenza a ogni costo».
Ma c’è di più: ieri è emersa una chat in cui i vertici della Tgr (guidata da Casarin, vicino alla Lega) danno indicazioni alle redazioni regionali su come “coprire” le manifestazioni di protesta sotto le sedi: «Dare una breve notizia nel tg senza girare immagini». Alleanza Verdi-Sinistra annuncia interrogazioni al ministro Piantedosi per capire «come mai si siano usati i manganelli» (a Napoli e Bologna) e in Vigilanza Rai «per chiedere conto della censura sulle manifestazioni».
*( Andrea Carugati. Giornalista professionista, fotografo, autore di libri, produttore cinema e tv. Ho lavorato per ANSA per oltre vent’anni in qualità prima di redattore)

08 – Alfiero Grandi*: Macchè ritocchi il premierato va respinto ! articolo di Alfiero Grandi su Left di Febbraio 2024

Sta iniziando l’esame della proposta del Governo (Melloni-Casellati) per stravolgere la Costituzione. Non deve trarre in inganno il tentativo di dipingere le modifiche come limitate a rafforzare il ruolo del Presidente del Consiglio. La modifica interviene su punti fondamentali della Costituzione, fingendo di non farlo, ma è una balla perché – ad esempio – non è vero che non verrebbero toccati i poteri del Presidente della Repubblica. Al contrario, il ruolo del Presidente della Repubblica verso gli altri poteri costituzionali come Governo e parlamento verrebbe ridotto ad un ruolo notarile, di presa d’atto di decisioni di altri.

Occorre comprendere le ragioni dell’iniziativa del Governo che punta a un’altra Costituzione, fuori dal perimetro di quella del 1948, democratica (fondata sulla separazione dei poteri dello stato) e antifascista perché nata dalla cacciata del fascismo. Pesano le difficoltà del Governo a realizzare risultati convincenti, anche per i suoi elettori, che non dipendono dai ristretti spazi di manovra ma da idee politiche che non sono in grado di affrontare la realtà economica e sociale.

A forza di rappresentare una realtà di comodo del paese si finisce con il non riuscire a misurarsi con quella esistente e si agisce per strappi, per fughe e rinvii, gli unici punti fermi sono la subalternità agli Usa e all’alleanza atlantica più un capovolgimento, tormentato e ambiguo, del rapporto con l’Europa.

Il Governo fatica a governare e deve continuamente trovare colpevoli a cui addossare le responsabilità delle sue difficoltà. La Costituzione diventa il punto di attacco, del tipo: se avessi le mani libere e una diversa Costituzione potrei fare ben alttro. Da qui la spinta per cambiare la Costituzione e di raccontare che lì è la radice della difficoltà di governare. Eppure il Governo usa i decreti legge, che sono atti del solo Governo con effetto immediato, in misura e quantità che non hanno precedenti, obbligando il parlamento a seguire i suoi contorcimenti. Al punto che per evitare ingorghi nell’attività del parlamento, che non riesce ad approvare la grande quantità di decreti legge del Governo, si lavora in pratica a Camere alternate, una esamina e l’altra ratifica il suo lavoro, che è una pratica fuori dalla Costituzione. L’ingorgo nasce da troppi provvedimenti episodici, adottati per fini di propaganda inseguendo i singoli avvenimenti, senza una visione di insieme, tanto meno di lungo periodo. Una continua rincorsa più per fare propaganda (dai rave in avanti) che per costruire risposte politiche organiche ed efficaci.

Viene dimenticato che il Governo Meloni con il 44% dei voti ha ottenuto il 59 % dei senatori e dei deputati, con un premio di maggioranza del 15 %. Nemmeno Berlusconi nel 2008 ha avuto tanto, malgrado avesse ottenuto più voti. Non ha senso insistere nell’attribuire ad altri delle proprie difficoltà a governare e tanto meno questo dipende dalla Costituzione. Al contrario.

Il Governo ha deciso di presentare una proposta che punta ad uscire dall’alveo della Costituzione del 1948 per ragioni ideologiche. Ad esempio per la difficoltà della destra egemone a ripudiare il fascismo (Fini lo fece), per questo quelli che si richiamano al ventennio si sentono autorizzati a dare vita ad iniziative come la commemorazione della strage di Acca Larentia, perchè pensano che oggi sia possibile farlo in presenza di un governo delle destre. In sostanza il Governo parla al mondo della destra con obiettivi tradizionali come il presidenzialismo, che infatti era nel programma elettorale, e come l’autonomia regionale differenziata, più una riforma della giustizia per togliere alla magistratura poteri ed autonomia garantiti dalla Costituzione del 1948.

La proposta attuale del Governo è diversa da quella del programma elettorale, forse per evitare uno scontro frontale con il Presidente della Repubblica che non sarebbe facile da vincere neppure per la destra arrembante di oggi. Quindi si è scelta una via diversa con evidenti tentativi di nasconderne le conseguenze, di cui è un esempio il tentativo di spacciare l’elezione diretta del Presidente del Consiglio come un modo per non intaccare i poteri del Presidente della Repubblica (Meloni conferenza stampa 4/1/24) mentre in realtà è esattamente il contrario.

La proposta del Governo ha una sostanza eversiva per la Costituzione del 1948 fondata sul ruolo del parlamento, cioè della rappresentanza eletta dai cittadini, che ha l’incarico di dare la fiducia (o toglierla) al Governo, di cui guida l’azione attraverso le leggi che approva e di cui deve controllare l’operato. Il ruolo del parlamento è fondamentale contrappeso sia al ruolo del Presidente della Repubblica che a quello del Governo e ha il compito di garantire l’autonomia della magistratura, come afferma la Costituzione, e deve approvare leggi coerenti con la Costituzione altrimenti la Corte costituzionale, altro potere di bilanciamento, può intervenire disapplicandole.

Se il Presidente del Consiglio fosse eletto direttamente da elettrici ed elettori per 5 anni e se il Presidente della Repubblica non avesse alcun potere di intervento sulle sue decisioni e il Parlamento dovesse obbligatoriamente approvare le decisioni del Governo si arriverebbe alla concentrazione di un potere personale fuori controllo per 5 anni. Se le destre riuscissero a ottenere di nuovo la maggioranza del parlamento grazie ad una legge elettorale maggioritaria, addirittura prevista in Costituzione, che con una minoranza degli elettori consentirebbe di arrivare comunque alla maggioranza del parlamento e quindi anche alla nomina del successore di Mattarella, con la conseguenza che (il La Russa di turno) potrebbe nominare un terzo della Corte costituzionale, presiedere il Csm e quindi influire sull’organo di autogoverno della magistratura.

Giuliano Amato ha parlato del rischio di una possibile deriva di tipo polacco o ungherese, non si può che essere d’accordo.

Le opposizioni parlamentari (e non solo) hanno finora dimostrato di non avere sufficientemente compreso la gravità della sfida che la proposta del Governo porta al sistema democratico garantito dalla Costituzione del 1948.

Non risulta evidentemente chiaro che la maggioranza di destra che ha vinto le elezioni solo perché l’insipienza politica delle attuali opposizioni non ha capito di dovere cambiare la legge elettorale fin che era possibile, lasciando in vigore un meccanismo elettorale che concede un premio di maggioranza enorme al vincitore anche se calano i votanti (nel 2022 il 60%). Purtroppo le opposizioni non hanno capito che nelle ultime elezioni avrebbero dovuto almeno trovare nella Costituzione le ragioni per unirsi contro le destre, di cui potevano fermare o ridurre le ambizioni.

Ora siamo di nuovo alla Costituzione, che è la linea del Piave da cui le opposizioni dovrebbero passare al contrattacco ribadendone l’attualità, la validità con la scelta di fondo di applicarla pienamente, mentre la destra, tronfia di un risultato elettorale “regalato”, propone un modello costituzionale fondato sull’elezione diretta del capo che tutto dirige e decide, un suo antico sogno.

Ci sarà tempo per tornare sui singoli aspetti, per dimostrare che si vuole sostituire un sistema costituzionale democratico, nato dalla Resistenza antifascista, con uno personalistico e accentratore. Stupisce che autorevoli studiosi strologhino proposte come la fiducia per il solo Presidente del Consiglio che poi nominerebbe i Ministri, come fa Astrid, senza alcun intervento del Presidente della Repubblica, dimenticando quando Previti fu depennato dal Presidente della Repubblica da un Ministero perchè improponibile ? Ci sono altri casi. Che senso ha mettersi sul piano delle modifiche ? E’ l’impianto stesso della proposta che è inaccettabile, per di più è una proposta del Governo che può sempre ricorrere alla sua maggioranza schiacciante e al voto di fiducia, senza neppure ricorrere ad una commissione parlamentare rappresentativa. Tutto verrebbe in futuro deciso dalla ristretta cerchia dei collaboratori di fiducia (e dai familiari) del Presidente del Consiglio. Una vittoria postuma di Berlusconi.

Le opposizioni debbono tentare di fermare l’approvazione di questo scempio della Costituzione del 1948 e della nostra democrazia. Potrebbero non riuscirci e ma debbono mantenere aperta la possibilità del referendum popolare costituzionale impedendo alle destre di arrivare ai 2/3.

Occorre contestare con forza proposte inaccettabili e arroganti delle destre, rendendone il più difficile possibile il percorso parlamentare ma impegnandosi a lasciare aperta la possibilità di ricorrere alle elettrici e agli elettori per respingere questa proposta. Il ricorso al referendum abrogativo rendendo protagonisti elettrici ed elettori potrebbe restare l’ultima possibilità anche sull’autonomia regionale differenziata, ormai legata a doppio filo con questa modifica della Costituzione.

Si può tentare di dimostrare che il collegamento del ddl Calderoli alla legge di bilancio è una finzione visto che è stabilito tassativamente che non deve costare un euro in più, in ogni caso il referendum abrogativo potrebbe riguardare i decreti attuativi del Governo.

Nessuna faciloneria, sarebbe una dura battaglia, ma in fondo la maggioranza di destra rappresenta meno del 28 % dell’elettorato ed è del tutto possibile con una posizione chiara e netta respingere queste proposte. La precondizione è una ferma denuncia del carattere autocratico della proposta.

Sbagliato affermare che passeremmo da una democrazia partecipata ad una democrazia autoritaria. E’ una contraddizione in termini, andremmo ad una svolta autoritaria, autocratica, punto. La democrazia è un’altra cosa. Debbono esserci sempre i contrappesi (chek and balance) all’eccesso di potere accentrato, e la dialettica sociale deve essere libera, perfino sollecitata perchè è un fondamento della vita democratica.
*(Alfiero Grandi, giornalista)

 

09 – La Marca (PD) a New York in occasione del Giorno del Ricordo – New York, 14.02.2024
Lunedì 12 febbraio, la Senatrice La Marca ha partecipato ad un evento di commemorazione in occasione del Giorno del Ricordo organizzato dal Consolato Generale d’Italia a New York e dal Console Generale Di Michele. Diversi sono stati gli interventi come quello del Console Di Michele e quello di Padre Ellis Tommaseo, Presidente dell’Associazione Giuliano- Dalmata di New York, che si sono uniti nel ricordo dei Giuliani, Dalmati, Istriani e Fiumani massacrati e gettati nelle Foibe e le centinaia di migliaia di persone costrette ad abbandonare la loro terra e rifugiarsi altrove.
La serata ha voluto rendere omaggio alla figura di Norma Cossetto, donna simbolo della lotta del popolo Istriano, Giuliano Dalmata e Fiumano, medaglia d’oro al merito civile, una figura straordinaria che in quel 1943 si oppose alla violenza dei partigiani di Tito, pagando con la vita.
Dopo aver ripercorso la storia dell’esodo e del massacro delle Foibe, la Senatrice La Marca ha sottolineato l’importanza del riacquisto della cittadinanza italiana per i tanti Giuliano-dalmati che la persero decenni addietro.
“Dopo l’invasione dell’esercito di liberazione jugoslavo di quei territori, gran parte della popolazione è costretta a lasciare la propria casa, diventando esule nei quattro angoli del globo raggiungendo territori anche molto lontani come Canada, Stati Uniti, Argentina e Australia. Con il loro forte senso di comunità, la loro creatività e la loro integrità, questi popoli contribuirono sensibilmente allo sviluppo delle comunità italiane fuori dai confini nazionali. Dati questi elementi, credo che debba essere una priorità di tutte le forze politiche, rappresentanti della Destra e della Sinistra, riconferire ai tanti giuliano dalmati che hanno fatto o che ne faranno richiesta, la cittadinanza italiana. Occorre ripristinare un diritto sacrosanto che, seppur non potrà mai rimediare agli errori del passato, rappresenterebbe un gesto di rispetto e di vicinanza verso un popolo che ha patito tanta sofferenza e che ha contribuito a portare in alto il nome dell’Italia nel mondo. La storia del passato non si può riscrivere ma è nostro compito rileggerla per far si che quanto accaduto ci guidi nella nostra azione politica quotidiana”.
A margine della commemorazione, la Senatrice ha incontrato i membri dell’associazione Giuliano-Dalmata a New York ed un numero di giovani professionisti residenti nella città. Un incontro fortemente voluto dalla Senatrice La Marca per fare il punto sugli obiettivi e le iniziative che l’associazione sta perseguendo a New York, approfondire alcune tematiche vicine ai giovani espatriati e lavorare su altri possibili incontri futuri.
*(Sen. Francesca La Marca – 3ª Commissione – Affari Esteri e Difesa Electoral College – North and Central America)

 

 

 

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