n°04 – 27/01/2024 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – La Marca*(PD): lunedì di incontri per la Senatrice. Nella giornata di ieri, lunedì 22 gennaio, la Sen. La Marca ha incontrato, presso il Senato della Repubblica, il Ministro Consigliere dell’Ambasciata di El Salvador in Italia, Juan Carlos Staben Boillat e la Dottoressa Sabrina Costantini.
02 – dl. “La Marca” sul riacquisto della cittadinanza italiana
03 – Claudio Paudice*: Anche i soldi si fanno guerra. Lo yuan scavalca l’euro: se l’Europa non si sveglia è un bel problema
04 – Alfiero Grandi*: a destra vuole fare a pezzi l’Italia, bisogna fare di tutto per fermare l’autonomia regionale differenziata approvata al senato.
05 – Pierre Haski*: GEOPOLITICA. Tutte le potenze del mondo corteggiano l’Africa. La settimana scorsa il ministro degli esteri cinese Wang Yi ha dedicato all’Africa il suo primo viaggio dell’anno, come succede regolarmente da tre decenni.
06 – Annalisa Camilli*: MIGRANTI. Cosa prevede l’accordo con l’Albania sui migranti. Il 24 gennaio la camera dei deputati ha approvato il disegno di legge sulla ratifica ed esecuzione del protocollo d’intesa tra Italia e Albania sui migranti con 155 voti a favore, 115 contrari e due astensioni.
07 – Mao Valpiana *: Bruno Segre, 105 anni di vita da «antifascista, quindi pacifista» IL LUTTO. Morire proprio il Giorno della Memoria è stato l’ultimo geniale colpo di teatro.
08 – Andrea Colombo*: quell’onda che travolse i partiti novecenteschi. 1994-2024. L’esordio caotico e plastificato alla fiera di Roma
09 – Milei se ne frega. L’Argentina in piazza, il presidente manda a casa 5 mila statali.

 

 

01 – La Marca*(PD): LUNEDÌ DI INCONTRI PER LA SENATRICE. – Roma, 23.01.2024 – Nella giornata di ieri, lunedì 22 gennaio, la Sen. La Marca ha incontrato, presso il Senato della Repubblica, il Ministro Consigliere dell’Ambasciata di El Salvador in Italia, Juan Carlos Staben Boillat e la Dottoressa Sabrina Costantini.
L’incontro ha rappresentato un’occasione utile per fare il punto sull’attuale situazione politica di quel Paese, sui diversi trattati in corso di stipulazione, sulle prossime elezioni presidenziali e parlamentari in El Salvador del 4 febbraio che per la prima volta prevedono l’utilizzo del voto elettronico. Una novità interessante che permetterà di godere del diritto di voto anche ai Salvadoregni che risiedono all’estero o che si trovano fuori dal territorio nazionale nel giorno del voto. Un bel momento di confronto per ribadire i sinceri rapporti di amicizia e collaborazione tra Italia ed El Salvador, Paese nel quale risiedono circa 3000 cittadini italiani e utile per condividere le buone pratiche sulle differenti modalità di voto per i connazionali all’estero che possono ispirare anche l’Italia per le future tornate elettorali.
Nell’appuntamento successivo, la Senatrice La Marca ha incontrato il Dott. Pietro Caldaroni, Direttore della Comunicazione e delle Relazioni Istituzionali presso ITA Airways, per fare il punto sull’espansione delle tratte aree della compagnia in Nord e Centro America.
Uno scambio proficuo dove il Direttore Caldaroni ha informato la Senatrice riguardo alle caratteristiche e lo sviluppo delle attuali tratte intercontinentali attive con particolare riguardo al Nord e Centro America. Attualmente risultano attivi i collegamenti diretti verso New York, Washington, Boston, San Francisco, Miami, Los Angeles. Inoltre, la notizia rilevante riguarda l’apertura di due ulteriori tratte nei prossimi mesi; infatti, il 7 aprile Ita Airways effettuerà il suo primo volo verso Chicago mentre il 10 maggio arriverà anche la tratta Roma Fiumicino – Toronto. Un’ottima notizia che conferma l’importanza della destinazione canadese per la compagnia aerea.
Nel corso dell’incontro, il dott. Caldaroni ha sottolineato l’importanza della promozione del Made in Italy nel mondo ribadendo l’attenzione che la Compagnia pone nel design degli interni dei propri aeromobili e delle divise ufficiali della compagnia come anche dei menù di bordo, elementi realizzati esclusivamente dall’eccellenza e dalle professionalità italiane.
In questi giorni, inoltre, si è in attesa del pronunciamento della Commissione Europea sulla trattativa in corso tra ITA Airways e Lufthansa, che mira ad acquisire il 41% della proprietà. Un momento di snodo fondamentale che una volta risolto, permetterà all’azienda di continuare ad ampliarsi verso nuove destinazioni.
*(Sen. Francesca La Marca – 3ª Commissione – Affari Esteri e Difesa – Electoral College – North and Central America)

 

02 – dl. “La Marca” SUL RIACQUISTO DELLA CITTADINANZA ITALIANA
Roma, 24.01.2024 – Grazie alle tante sollecitazioni della Senatrice La Marca, ieri, martedì 23 gennaio, sono approdati in 1ª Commissione, Affari Costituzionali, in Senato, i suoi due Disegni di Legge che prevedono “Disposizioni in materia di riapertura del termine per il riacquisto della cittadinanza italiana” e “Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, in materia di riacquisto della cittadinanza da parte delle donne che l’hanno perduta a seguito del matrimonio con uno straniero e dei loro discendenti”.
“Questo è l’inizio di un lungo percorso che mi vedrà impegnata nei prossimi mesi a seguire i lavori della 1ª Commissione del Senato. Colgo l’occasione per ringraziare il Presidente della Commissione Balboni per aver accolto le mie richieste, comprendendo l’importanza del riacquisto della cittadinanza italiana per i tanti connazionali nel mondo in attesa di questa misura da molti anni”.
“Ogni settimana il mio ufficio riceve sollecitazioni da tanti italiani, non soltanto in Nord e Centro America, ma da tutto il mondo, che ci chiedono come e quando potranno riacquisire la cittadinanza italiana data la sospensione che si protrae oramai da 25 anni. Confido che, su una misura così importante, si raggiunga la più ampia convergenza possibile e che anche la maggioranza collabori con noi nell’obiettivo di riaprire i termini e permettere finalmente ai tanti italiani di recuperare un diritto per troppo tempo sospeso”.
In una sua intervista, rilasciata ieri a 9Colonne, la Senatrice ha ulteriormente ribadito il suo totale impegno e la costanza con la quale porterà avanti la battaglia su questo tema.
*(Sen. Francesca La Marca – 3ª Commissione – Affari Esteri e Difesa – Electoral College – North and Central America – Senato della Repubblica XIX Legislatura)

 

03 – Claudio Paudice*: ANCHE I SOLDI SI FANNO GUERRA. LO YUAN SCAVALCA L’EURO: SE L’EUROPA NON SI SVEGLIA È UN BEL PROBLEMA.

ANCHE I SOLDI SI FANNO GUERRA. LO YUAN SCAVALCA L’EURO: SE L’EUROPA NON SI SVEGLIA È UN BEL PROBLEMA
CON L’AIUTO DEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO E DEL GOLFO, PECHINO AUMENTA IL RUOLO DELLA SUA MONETA PER REGOLARE GLI SCAMBI COMMERCIALI, COLPENDO GLI INTERESSI DI DOLLARO ED EURO, APPESANTITI DALL’AUMENTO DEI TASSI. L’ALLARME DI PANETTA: “LO YUAN SI STA AFFERMANDO, L’USO DELLE VALUTE COME ARMA È FONTE DI RISCHIO”.

Lo scorso agosto dal porto di Santos, in Brasile, sono salpati 43 container carichi di polpa di cellulosa diretti a Qingdao, in Cina. Una spedizione a prima vista non degna di nota, se non fosse per un aspetto: si è trattata della prima transazione commerciale tra Cina e Brasile nelle valute locali, supportata dalle istituzioni centrali e in particolare dalla Bank of China Brasile. Da tempo ormai la Repubblica Popolare ha deciso di promuovere il ruolo della sua moneta negli scambi internazionali, con un chiaro obiettivo: minare la dominanza del dollaro. Si tratta di un processo lungo e certamente tortuoso, quello avviato da Pechino, tuttavia alcuni effetti ottenuti finora iniziano a manifestarsi. In più occasioni gli analisti di Jn Morgan hanno affermato di vedere segnali di de-dollarizzazione parziale del commercio globale, inclusi gli scambi di beni energetici.
Ma anche l’Europa inizia a interrogarsi sui rischi della continua ascesa della moneta cinese, da cui ha ben poco da guadagnarci. Intervenendo a una conferenza a Riga, in Lettonia, il Governatore di Banca d’Italia Fabio Panetta, ha messo in guardia sul ruolo crescente dello yuan. “Le autorità cinesi stanno apertamente promuovendo il ruolo della loro moneta in ambito internazionale, incoraggiandone l’impiego da parte di altre nazioni, incluse quelle destinatarie di sanzioni da parte dalla comunità internazionale in seguito all’invasione dell’Ucraina. La maggior parte delle esportazioni cinesi in Russia, così come gran parte delle forniture di petrolio russo alla Cina, sono oggi fatturate in renminbi”, ha spiegato Panetta. Inoltre, nell’ultimo triennio “è raddoppiata la quota degli scambi commerciali mondiali regolata in renminbi. Per effetto di questi andamenti, alla fine del 2023 il renminbi è divenuto la seconda valuta più utilizzata al mondo per le transazioni commerciali internazionali, scavalcando l’euro, e la quarta valuta più usata nei pagamenti su scala mondiale, superando lo yen”.
Al momento, ha sottolineato il Governatore di Bankitalia, non si vede una frammentazione valutaria ma alla luce delle recenti tensioni internazionali non si può escludere che nel futuro la politica plasmi il sistema finanziario globale. Le spinte sono già in atto e in parte arrivano anche dal blocco occidentale. Dopo la guerra in Ucraina, Stati Uniti ed Europa hanno escluso diverse banche russe dal sistema dei pagamenti Swift e congelato metà delle riserve in dollari ed euro detenute dalla Banca Centrale della Russia. Gli Stati Uniti inoltre hanno fatto largamente intendere di poter fare lo stesso con la Cina nel caso dovesse invadere Taiwan.
Per questo tanto Mosca quanto Pechino vogliono accelerare gli sforzi per allontanarsi dall’uso delle monete occidentali nei pagamenti internazionali di beni e servizi. Un obiettivo che è diventato centrale nell’alleanza dei Brics, l’associazione dei Paesi in via di sviluppo in fase di allargamento, che si è data come obiettivo quello di sostituire dollari ed euro nelle transazioni interne al blocco, favorendo lo scambio delle rispettive valute per rafforzarne il ruolo. L’anno scorso, dopo diversi mesi di negoziati tra i cinque membri (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) l’invito a farne parte è stato esteso ad altri sei Paesi, come l’Iran ben felice di aderire. Ma qualcosa è andato storto: l’Argentina, dopo l’elezione del turboliberista amico di Washington Javier Milei, si è subito chiamata fuori. Mentre l’Arabia Saudita sta tuttora temporeggiando e ufficialmente non ha ancora ratificato l’adesione. Molti osservatori vedono nel rinvio di Riad la volontà di non deludere lo storico alleato americano. Ciò non toglie che l’anno scorso la Banca centrale cinese (Pboc) ha firmato con la Banca centrale dell’Arabia Saudita un accordo di currency swap del valore di 50 miliardi di yuan o di 26 miliardi di rial. Si tratta di quasi sette miliardi di dollari americani. L’intesa ha una durata di tre anni, rinnovabile alla scadenza su “esplicito mutuo consenso”, e punta a “rafforzare la cooperazione finanziaria tra i due Paesi, ad espandere l’uso delle valute locali e a promuovere il commercio e gli investimenti”. La mossa, secondo gli osservatori, rientra negli sforzi di Pechino per fare meno uso del dollaro e di aiutare l’internazionalizzazione del renminbi, anche nei mercati energetici.
Infatti, come ricorda l’Atlantic Council, il commercio tra Russia e Cina rappresenta solo il 27% dell’aumento degli accordi commerciali in renminbi cinesi. Il restante 70% è probabilmente costituito da scambi denominati in yuan con i vicini di Pechino, principalmente in Asia, ma anche Argentina, Brasile e paesi del Golfo. Da mesi l’Arabia Saudita ha cominciato a vendere il petrolio in yuan. Tuttavia, al di là della minaccia di sanzioni su Pechino, lo spostamento verso la valuta cinese è motivato anche da ragioni economiche.
L’aumento dei tassi portato avanti negli ultimi due anni dalla Federal Reserve e dalla Banca Centrale Europea ha reso molto più costose le rispettive valute e molto più impervio l’accesso al credito. Succede quindi che “per la prima volta in quasi 20 anni è sostanzialmente più economico stipulare prestiti a breve termine in yuan piuttosto che in dollari”. E questo sta spingendo “le aziende, in particolare quelle che interagiscono con individui e aziende cinesi alle due estremità della transazione, verso un debito denominato in renminbi per il finanziamento commerciale al fine di trarre maggiori profitti”.
L’apprezzamento del dollaro e dell’euro ha orientato l’attenzione dei mercati globali verso asset denominati in queste valute, assorbendo gran parte delle disponibilità di finanziamento che è così venuta a mancare proprio ai mercati emergenti. Di qui l’orientamento verso nuove valute, in testa lo yuan cinese, per i prestiti a breve termine necessari in primis al finanziamento di operazioni commerciali che praticavano tassi più contenuti, perché più contenuta è stata l’inflazione nella Repubblica Popolare.
Indebitarsi in yuan, ugualmente, ha indotto le aziende a impegnarsi con l’infrastruttura finanziaria cinese lanciata da Pechino nel 2015, il sistema di pagamento interbancario transfrontaliero (CIPS) per collegare e controllare le proprie tubature nel sistema finanziario globale. “Dal 2015 il sistema di pagamenti cinese è cresciuto rapidamente, attestandosi da poco più di 480 miliardi di yuan (75 miliardi di dollari) nel quarto trimestre del 2015 a 33,4 trilioni (4,6 trilioni di dollari) nel terzo trimestre del 2023. Sebbene la crescita dell’utilizzo del CIPS sia stata sostanzialmente stabile sin dal suo inizio, sembra registrare sostanziali picchi in seguito alla contrazione della disponibilità di prestiti in dollari”, scrive l’Ac.
La Cina da tempo sta cercando di affermare il ruolo della sua moneta a livello internazionale e per quanto scalzare il dominio delle valute occidentali possa apparire una missione proibitiva, la storia recente insegna come la determinazione dell’amministrazione cinese possa portare a risultati inizialmente insperati. Come la gestione centralizzata degli obiettivi strategici possa muovere insieme i fili della geopolitica, del commercio e della finanza è dimostrato dal progetto cinese della Nuova Via della Seta lanciata nel 2013 dal presidente Xi Jinping. Pechino ha prestato attraverso le sue istituzioni finanziarie 1.340 miliardi di dollari ai Paesi in via di sviluppo aderenti alla Belt and Road Initiative nel periodo tra il 2000 e il 2021. Oggi la Repubblica Popolare si è affermata come il più grande prestatore bilaterale al mondo, ma ha nel tempo modificato la sua postura, spostandosi dalle infrastrutture ai prestiti di salvataggio. Quando venne lanciata la Bri, le grandi banche cinesi politicamente indirizzate dal Partito Comunista avevano erogato in tutto più della metà dei prestiti necessari alla messa a terra delle opere infrastrutturali nei Paesi asiatici e africani aderenti all’iniziativa. Ma la loro quota ha iniziato a diminuire dal 2015, fino a toccare il 22% del 2021, per lasciare il posto alla Banca centrale cinese (Pboc) e all’Amministrazione statale dei cambi (Safe), che gestisce le riserve di valuta estera del Dragone. Questo perché dal finanziamento dei cantieri Pechino ha iniziato a orientare il focus sui piani di salvataggio di quelle stesse economie in via di sviluppo entrate in difficoltà. Tendendo quella che molti hanno definito la “trappola del debito”, la Cina è passata dall’essere finanziatore a esattore. Quello che rileva, però, è che quasi tutti i prestiti forniti dalla Cina ai Paesi in difficoltà sono denominati in yuan, che nel 2020 ha superato il dollaro.
Il biglietto verde sta perdendo terreno da tempo anche come valuta di riserva globale. Le riserve monetarie globali, che nel 1970 erano costituite per l’80% da dollari, oggi vedono la moneta statunitense al 60%. L’euro ormai costituisce il 20% delle riserve globali, della “tenuta” di sterlina e yen, che hanno conservato il loro peso, e dell’ingresso in classifica dello yuan, la valuta cinese.
Sebbene si sia ancora lontani dalla detronizzazione del dollaro, lo yuan è la valuta più quotata per lanciare la sfida. L’euro in questo senso è candidato a giocare un ruolo secondario, col rischio di essere esposto a una crescente marginalità a causa delle storiche inefficienze dell’architettura europea. La mancanza di un unico mercato dei capitali, di un’unione bancaria e di un debito comune e strumenti di condivisione come gli eurobond riflettono l’assenza di una totale fiducia all’interno dell’Unione, che a sua volta si riflette all’esterno. Questo perché l’affermazione della valuta va di pari passo con quella della sua economia.
Disporre di una moneta scambiata sui mercati internazionali è una forma di protezione e garanzia per l’emittente. Come ha ricordato Panetta, un Paese o una regione che emette una valuta internazionale non ha bisogno di ricorrere ad altre valute per effettuare pagamenti e operazioni finanziari. Pertanto è “meno esposto alle pressioni di carattere finanziario provenienti da altre nazioni, incluse quelle ostili”. In questo modo ha tra le mani uno strumento cruciale di autonomia strategica, come “una polizza assicurativa, apparentemente inutile in condizioni normali ma estremamente preziosa quando emergono tensioni internazionali. I paesi che emettono una valuta internazionale possono far leva sul proprio potere finanziario per incidere sugli sviluppi geopolitici a livello globale”. Tuttavia, tale potere “va tuttavia utilizzato con saggezza, in quanto i rapporti internazionali sono parte di un “gioco ripetuto”: l’utilizzo di una valuta a mo’ di arma potrebbe ridurne l’attrattività e stimolare l’uso di monete alternative”, ha avvertito il Governatore di Bankitalia.
Al discorso del Governatore fa da sfondo la politica monetaria della Bce che, sulla falsariga della Federal Reserve, ha deciso di spingere verso l’alto i tassi portandoli al massimo storico per contrastare un’inflazione d’offerta, e non di domanda. Seppur pagando un conto salato, dopo che l’Ue è riuscita a sostituire le forniture di metano russo, l’indice dei prezzi è iniziato a calare rapidamente di pari passo con i costi di approvvigionamento del gas, tornati sotto controllo. Di questo ha dovuto prenderne atto anche la presidente della Bce Christine Lagarde, ora tirata per la giacca dai mercati per dare il via al taglio dei tassi e superare le resistenze dei Governatori del Nord Europa. Un ritardo nella riduzione del costo del denaro non giustificata da esigenze economiche reali da parte di Fed e Bce rischierebbe di rivelarsi un assist per la Cina, che vedrebbe lo yuan cinese a tassi di interesse più accessibili e quindi più spendibile per il finanziamento delle operazioni commerciali. Contribuendo così involontariamente alla strategia di Pechino, quella di fare della sua valuta un’arma geopolitica da utilizzare all’occorrenza. Come una materia prima.
*(Claudio Paudice – Giornalista economico di HuffPost, si occupa di economia, supply chain, energia, materie prime e altro)

 

04 – Alfiero Grandi. LA DESTRA VUOLE FARE A PEZZI L’ITALIA, BISOGNA FARE DI TUTTO PER FERMARE L’AUTONOMIA REGIONALE DIFFERENZIATA APPROVATA AL SENATO (da STRISCIAROSSA.IT)

Alle “trombe” della maggioranza di destra, che ha approvato il ddl Calderoli al Senato, occorre rispondere con una dura opposizione alla Camera e se necessario con le “campane” del referendum per abrogare il ddl Calderoli. Era prevedibile, dopo il patto tra Salvini e Meloni sull’approvazione dell’autonomia regionale differenziata e del premierato, che accadesse, ma l’Italia e la sua democrazia pagheranno un prezzo pesante se questi due obiettivi diventeranno realtà.
I numeri in Parlamento, purtroppo, consentono alla maggioranza di procedere. Solo le sue contraddizioni, che non sono poche, danno la possibilità di bloccare questa deriva scellerata. Il senatore Balboni, presidente della Commissione affari costituzionali, meloniano doc, ha mostrato quanto forti siano le contraddizioni di Fdi affermando che era ed è contrario al titolo V, ma che ora non vuole modificarlo perché approvato da un referendum popolare in cui lui era minoranza. Si tratta di una evidente contraddizione logica come ha replicato meritoriamente con forza il senatore De Cristofaro.

DOPO IL SÌ DEL SENATO, BISOGNA BATTERSI ALLA CAMERA
Ora il disegno di legge Calderoli passerà alla Camera e questa è l’occasione per una opposizione senza quartiere. Non si tratta di un passaggio formale. Occorre rilanciare l’iniziativa per tentare di bloccare l’approvazione definitiva di un provvedimento sbagliato e regressivo: basterebbe anche un solo emendamento per rinviarlo al Senato. La maggioranza proverà a forzare la mano, subendo il ricatto della Lega, e non si può escludere che ricorra perfino al voto di fiducia. Parte dell’informazione sembra dare per scontata l’approvazione, vedremo, per ora non è ancora così. MA DARE PER SCONTATO È UN

MODO PER SCORAGGIARE IL MOVIMENTO CONTRO CHE È MOLTO CRESCIUTO E PUÒ ANCORA ESTENDERSI.
Per questo è necessario continuare ad informare e favorire la mobilitazione e la battaglia politica per fare conoscere i pesantissimi rischi se questa proposta diventasse legge dello Stato, per fare crescere la consapevolezza che occorre bloccarla. Non si tratta solo del fondamentale pericolo che a una parte decisiva dei cittadini e delle Regioni vengano ridotti i diritti e le strutture per garantirli, ma di un colpo all’Italia tutta, compresa quella parte a cui è stato raccontato che la devoluzione dei poteri porterebbe loro vantaggi. In realtà l’Italia intera risentirebbe pesantemente di un dualismo crescente. Diventerebbe meno giusta, meno solidale e meno concorrenziale per la frammentazione delle norme per le imprese che ne limiterebbero e intralcerebbero la concorrenzialità.
Qualche dubbio è penetrato in una parte della maggioranza, tanto da spingerla a tentare di correre ai ripari facendo approvare emendamenti al testo iniziale che cercano di evitare un aggravamento delle divaricazioni già esistenti tra Regioni e tra aree del paese. Peccato che siano norme mal scritte e inefficaci. Alcuni concetti inseriti non saranno efficaci e non realizzeranno gli obiettivi dichiarati. Infatti, questa è una legge ordinaria che non può impedire che una legge successiva – come sono quelle rafforzate che dovrebbero approvare le intese tra regione e governo – cambi le carte in tavola, sostituendole o derogando. È lo strumento scelto per mettere precisi confini all’autonomia che è sbagliato e insufficiente.
L’unico modo per garantire che le regole siano in grado di vincolare qualunque legge consiste nell’inserirle in Costituzione, come del resto abbiamo tentato con la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare. Ma i “preoccupati” della maggioranza non hanno avuto il coraggio di fare la scelta di inserire le modifiche nel titolo V della Costituzione, in particolare negli articoli 116 e 117 come noi abbiamo proposto, che oggi hanno formulazioni ambigue o sbagliate, che hanno permesso a Calderoli di dare sue interpretazioni, fino a contraddire i principi fondamentali della Costituzione che sono incompatibili con una legge che potrebbe rendere impossibile per i cittadini avere gli stessi diritti in ogni parte del nostro paese e finendo con il mettere in crisi la stessa unità nazionale.

È IL MOMENTO DI MODIFICARE IL TITOLO V DELLA COSTITUZIONE
A questo scopo era stata presentata la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per modificare gli articoli 116 e 117 che la maggioranza al Senato si è rifiutata di fare discutere prima del ddl Calderoli, come logica e razionalità avrebbero consigliato e poi ha bocciato, facendo un clamoroso autogoal. Se parte della maggioranza, segnatamente Fratelli d’Italia, voleva impedire scivolamenti pericolosi negli effetti del ddl Calderoli avrebbe dovuto lei stessa proporre modifiche al titolo V inserendo alcuni vincoli che a quel punto avrebbero condizionato senza possibilità di deroga. Ad esempio il vincolo inserito nel ddl per le Regioni che chiedono più poteri, e soprattutto più soldi: che le stesse risorse debbono andare a tutte le altre è modificabile da leggi successive. In Costituzione sarebbe un vincolo reale, in una legge ordinaria può essere aggirato.
È importante che i senatori dell’opposizione abbiano denunciato questo rischio, richiamando il disegno di legge di iniziativa popolare, ma non sono stati ascoltati dalla maggioranza che ha fatto del patto per la devoluzione di poteri alle regioni, tra Fratelli d’Italia e Lega, un punto (per ora) intangibile.
Il fatto politico nuovo è che la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare ha ricevuto il sostegno dell’opposizione. I 106.000 firmatari del ddl costituzionale popolare possono essere soddisfatti di avere contribuito a individuare nella modifica del titolo V un obiettivo necessario. Questo risultato non era scontato, ed è importante perché porta oggi tutta l’opposizione alla consapevolezza che il titolo V del 2001 va superato in alcune parti per bloccare scivolamenti pericolosi come avviene con il ddl Calderoli. Ci sono, insomma, le condizioni politiche e sociali per arrivare alla richiesta di abrogare questo scempio, se diventerà legge, con referendum popolare. Oggi occorre rilanciare le modifiche al ddl Calderoli alla Camera e spingere l’opposizione parlamentare a fare crescere la sua pressione sulla maggioranza mettendo in luce i rischi e i pericoli di questa scelta.

IL GRANDE TRUCCO NELLA DISTRIBUZIONE DELLE RISORSE
Il trucco nella legge c’è ed è relativamente semplice. Riguarda non solo i poteri ma le risorse che Regioni come Lombardia e Veneto vogliono trattenere in misura maggiore dal prelievo fiscale. È del tutto evidente che se i quattrini da impiegare per riequilibrare le differenze tra le Regioni non possono crescere come afferma il ddl Calderoli è ad alcune di loro – Lombardia e Veneto anzitutto – verranno dati maggiori poteri e risorse, con la motivazione che lo stato già impiega quelle risorse per gli scopi indicati, le altre rimarranno con quello che hanno attualmente, cioè sotto le macerie finanziarie della spesa storica. In questo modo la distanza tra le regioni crescerebbe perchè quelle che non hanno risorse da trattenere hanno bisogno di un intervento di solidarietà nazionale con fondi che vengono esclusi in radice proprio dal ddl che dovrebbe prevedere le risorse necessarie.
Quindi il trucco per dare soldi ad alcune Regioni e ad altre no c’è, ma si tenta di nasconderlo. Perché una parte della maggioranza ha accettato questa via, rischiando di compromettere – ad esempio – l’istruzione pubblica nazionale che è un punto fermo dei diritti insieme della coesione sociale? Perché la contropartita è l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, a cui tanto tiene Giorgia Meloni (questo è il vero scambio) che la vede come l’inizio di un cambiamento profondo della nostra Repubblica e della nostra Costituzione, da cui dovrebbe emergere come figura pigliatutto il capo del governo, riducendo drasticamente i poteri del Presidente della Repubblica e il ruolo fondamentale del Parlamento, costretto ad approvare le decisioni del governo o ad andare a casa.
Si tratta di un accentramento di poteri nelle mani del capo del governo mai visto e le “api operaie” (i parlamentari attuali della maggioranza) stanno già portando il loro contributo per accrescerne i poteri – come con il ddl Calderoli – prima ancora che sia approvata la modifica costituzionale del premierato. Vittima di tutto questo è l’Italia che verrà azzoppata da 2 modifiche sbagliate e controproducenti delle istituzioni del nostro paese. Poteri maggiori ad alcune Regioni concepite come traino, mentre le altre saranno lasciate al loro destino, e accentramento nelle mani del Presidente del Consiglio, riducendo drasticamente i poteri di indirizzo e controllo del Parlamento sul Governo e sul suo capo.
Un’altra Repubblica? Non solo. Un’altra Costituzione, superando quella democratica del 1948 basata sulla divisione dei poteri, nata dalla Resistenza che ha cacciato il fascismo e ridato dignità all’Italia.
*(Fonte. Strisciarossa. Alfiero Grandi, giornalista)

 

05 – Pierre Haski*: GEOPOLITICA. TUTTE LE POTENZE DEL MONDO CORTEGGIANO L’AFRICA. LA SETTIMANA SCORSA IL MINISTRO DEGLI ESTERI CINESE WANG YI HA DEDICATO ALL’AFRICA IL SUO PRIMO VIAGGIO DELL’ANNO, COME SUCCEDE REGOLARMENTE DA TRE DECENNI.
È con questa costanza e gli enormi investimenti che la Cina è diventata il primo partner del continente.
Questa settimana è il turno del segretario di stato di Washington, Antony Blinken. Nel suo giro del continente ha fatto almeno una tappa in comune con il suo omologo cinese: Abidjan, in Costa d’Avorio. Non è un caso. Gli Stati Uniti, infatti, hanno ridato slancio alla diplomazia e alla cooperazione con l’Africa dopo anni di negligenza che hanno favorito l’ascesa di Pechino.
Il 24 gennaio il presidente del Ciad Mahamat Idriss Déby – con indosso un boubou bianco, un abito tradizionale – era a Mosca, al fianco del presidente russo Vladimir Putin. Un incontro significativo: in Ciad, dove si trovano delle truppe francesi, il presidente Emmanuel Macron aveva partecipato ai funerali del padre di Déby, ucciso in combattimento nel 2021, appoggiando una successione ereditaria discutibile. La visita in Russia può dunque sembrare sorprendente, soprattutto considerando che alle Nazioni Unite il Ciad aveva condannato l’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca.
È sbagliato vedere in ogni contatto o visita un segnale di allineamento, anche se a volte – com’è successo in Sahel – è proprio quello il caso. Resta il fatto che l’Africa, come ha sottolineato su France24 Antoine Glaser, esperto del continente, “ha il mondo intero nella sua sala d’attesa”.
Russi, cinesi, statunitensi, europei ma anche indiani, turchi, iraniani, brasiliani, coreani e giapponesi. Tutte le potenze, grandi e medie, corteggiano l’Africa alla ricerca d’influenza, nuovi mercati o minerali rari. I motivi sono molti, ma il continente africano, malgrado i suoi immensi problemi di sviluppo, le sue guerre e i suoi generali golpisti, è ormai imprescindibile.
Questa tendenza precede lo scoppio della guerra in Ucraina, ma è da allora che si è manifestata chiaramente l’emancipazione dei paesi africani rispetto alle alleanze tradizionali, una tendenza oggi sempre più netta. Il ruolo senza precedenti del Sudafrica nella denuncia di Israele davanti alla Corte internazionale di giustizia è l’ennesimo segno di questa nuova realtà.
La Francia, un tempo superpotenza in Africa, oggi paga il prezzo di non aver capito in tempo questa aspirazione verso il multi allineamento, concetto attualmente preferito al non allineamento del passato.
La Francia è emarginata perché ha continuato a comportarsi da tutrice di un’Africa da cui le sue aziende si erano allontanate da tempo e in cui la sua presenza più visibile era quella militare. Que
*Fonte: Internazionale. Pierre Haski, giornalista, France Inter, Francia)

 

06 – Annalisa Camilli*: MIGRANTI. COSA PREVEDE L’ACCORDO CON L’ALBANIA SUI MIGRANTI.
IL 24 GENNAIO LA CAMERA DEI DEPUTATI HA APPROVATO IL DISEGNO DI LEGGE SULLA RATIFICA ED ESECUZIONE DEL PROTOCOLLO D’INTESA TRA ITALIA E ALBANIA SUI MIGRANTI CON 155 VOTI A FAVORE, 115 CONTRARI E DUE ASTENSIONI.
L’accordo, che è stato firmato il 6 novembre 2023 da Roma e Tirana sulla base di un vecchio trattato di collaborazione tra i due paesi, prevede la costruzione di due centri per il rimpatrio dei migranti – gestiti e controllati dall’Italia in territorio albanese – per l’esame accelerato delle domande di asilo dei richiedenti asilo. Una parte dei migranti soccorsi in mare da navi militari italiane sarà trasferita in Albania, un paese non europeo, considerato sicuro dall’Italia. Ora il disegno di legge passa all’esame del senato.
Il protocollo d’intesa è stato sospeso temporaneamente da Tirana il 13 dicembre 2023, in attesa che la corte costituzionale del paese stabilisca in maniera precauzionale e preventiva se è in linea con le sue leggi. Il ricorso è stato presentato da trenta deputati albanesi, che contestano la legittimità dell’accordo voluto dal primo ministro Edi Rama.
In Italia, durante le audizioni formali e informali davanti alle commissioni affari costituzionali ed esteri della camera dell’8, 9, 10 e 11 gennaio, diversi esperti hanno confermato che l’accordo potrebbe essere inattuabile e avere dei profili d’illegittimità. Satvinder Juss, professore di legge del King’s college di Londra, nel Regno Unito, ha sostenuto che “negli ultimi tempi ci sono stati tre tentativi che non sono andati a buon fine: l’accordo tra Tunisia e Italia sui migranti, quello tra il Regno Unito con il Ruanda e quello della Danimarca con il Ruanda. Tutti e tre sono stati bloccati. Poi c’è anche la Grecia che ha provato a fare un accordo sempre con l’Albania, ma anche in questo caso non ha funzionato”. Secondo Juss 28 giorni sono pochi per esaminare una domanda d’asilo in Albania, che tra l’altro è ancora un paese di emigrazione, cioè da cui molte persone se ne vanno, anche per sfuggire ad alcune forme di persecuzione.
Juss si è occupato in particolare dell’accordo tra Ruanda e Regno Unito, che è stato bocciato dalla corte suprema britannica: “Non basta dire che l’Italia supervisionerà tutto il meccanismo o che il diritto dell’Unione europea ne garantirà la legittimità, perché l’Albania è un paese extraeuropeo e non applica il diritto dell’Unione”. Juss dice che in Albania ci sono rischi di violazioni dei diritti umani ènon basta accontentarsi che un paese dia rassicurazioni”.
Secondo Alfonso Celotto, professore di diritto costituzionale all’università di Roma Tre, “l’accordo con l’Albania rischia di restringere le tutele e creare discriminazioni. Il migrante che finisce in Albania potrebbe avere un diverso trattamento rispetto a quello che arriva in Italia”. Questo sarebbe in contrasto con la costituzione, con il diritto internazionale e con quello europeo. “Ci sono dei punti poco chiari nell’accordo, per esempio quali sono i tempi di trattenimento in Albania? I provvedimenti dove sono impugnabili? In Albania o in Italia?”, si è chiesto Celotto durante le audizioni. “In Albania l’accordo è stato sospeso in via preventiva dalla corte costituzionale”, ha ricordato Celotto. Se l’alto tribunale albanese dovesse bloccare l’accordo bisognerà fare marcia indietro, ha specificato Juss in un secondo intervento alle commissioni della camera.
Chiara Favilli, professoressa di diritto dell’Unione europea all’università di Firenze, tra gli esperti sentiti in audizione, ha sottolineato che “esiste un precedente: la proposta della Francia nel 2017 di costruire dei centri di sbarco dei migranti in territorio extraeuropeo”, proposta che però nel 2018 è stata ritenuta irrealizzabile dalla Commissione europea. “Quello che è impossibile è garantire gli stessi standard di protezione previsti negli stati dell’Unione europea, soprattutto per quanto riguarda l’asilo”, ha affermato Favilli.
“La nave militare italiana in alto mare è qualificata come territorio dello stato italiano, ma potrebbe non essere un luogo idoneo per esaminare le domande d’asilo”, ha aggiunto l’esperta. “Il capitano della nave però è obbligato a rispettare il principio di non respingimento (articolo 33 della convenzione di Ginevra sui rifugiati) e il diritto internazionale, e perciò deve portare chi soccorre in un paese considerato sicuro, in cui le persone non rischino d’incorrere in violazioni dei loro diritti”.
Mario Savino, professore di diritto amministrativo dell’università della Tuscia, ha detto invece che non vede il pericolo di respingimento dei richiedenti asilo che saranno portati in Albania via mare “in dei centri controllati dall’Italia”.
Secondo Amnesty International l’accordo tra Italia e Albania si colloca all’interno di una tendenza internazionale “di esternalizzazione del controllo delle frontiere e del trattamento delle richieste di asilo”. Per l’organizzazione “la sua attuazione avrebbe un impatto negativo su una serie di diritti umani, compresi i diritti alla vita e all’integrità fisica delle persone soccorse in mare e i diritti alla libertà personale e all’asilo delle persone trasferite in Albania”.
Per l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) il protocollo prevede “norme incerte e illegittime”, che di fatto sono in contrasto con la costituzione italiana. I punti critici sono diversi: “Prevedere con legge ordinaria o con un accordo internazionale, un’autorizzazione al governo o alle forze armate a prendere una persona che si trova già nel territorio italiano (nave italiana e/o militare) e invece di concludere le operazioni di soccorso trasportarla in un paese terzo allo scopo d’impedirne l’ingresso nel territorio configura una sorta di deportazione degli stranieri, vietata dalle norme europee e internazionali ed è del tutto estraneo allo spirito e alla lettera delle norme costituzionali”
*(Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale)

 

07 – Mao Valpiana *: BRUNO SEGRE, 105 ANNI DI VITA DA «ANTIFASCISTA, QUINDI PACIFISTA» IL LUTTO. MORIRE PROPRIO IL GIORNO DELLA MEMORIA È STATO L’ULTIMO GENIALE COLPO DI TEATRO.

IL SUO SPICCATO UMORISMO EBRAICO ERA UN ALTRO SEGNO DELLA SUA GRANDE INTELLIGENZA; NON C’ERA INTERVENTO IN
Morire proprio il Giorno della Memoria è stato l’ultimo geniale colpo di teatro. Il suo spiccato umorismo ebraico era un altro segno della sua grande intelligenza; non c’era intervento in cui non raccontasse aneddoti spassosissimi: «Sono morto almeno 5 volte. Le prime in gioventù, condannato alla fucilazione, poi durante la resistenza, e infine un anno fa quando i giornali mi diedero per defunto, per una omonimia»: anche in quest’occasione lui si fece quattro risate e ogni volta riprendeva la contagiosa voglia di vivere e di lottare.

CLASSE 1918, è nato da famiglia piemontese ebrea liberale. Bruno Segre ha studiato all’Università di Torino, allievo di Einaudi. Con le leggi razziali gli viene impedito di esercitare la professione forense. Già nel 1942, viene arrestato per “disfattismo politico”, anche per i suoi articoli antirazzisti sulla stampa dei circoli liberali torinesi. Passa tre mesi nelle carceri Nuove ed è lì conosce il meglio dell’antifascismo es incomincia a farsi conoscere (ne scriverà nel libro Quelli di via Asti. Memorie di un detenuto nelle carceri fasciste). Poi dal 1943 si dà alla macchia ed entra nelle brigate di “Giustizia e Libertà”, con il nome partigiano di Elio, agendo soprattutto nel cuneese; raccontava che un repubblichino gli sparò al cuore e solo il portasigarette nel taschino lo salvò, deviando il colpo.

DOPO LA LIBERAZIONE inizia la professione di avvocato. Fu proprio Aldo Capitini a chiedergli di assumere la difesa di Pietro Pinna, il primo obiettori di coscienza politico italiano. Da lì la sua lunga carriera di avvocato «sempre dalla parte giusta», storico difensore dei Testimoni di Geova, lui laico fino al midollo: «Ho difeso centinaia di obiettori in tutti i Tribunali Militari d’Italia: mi convinsi che la nonviolenza è forza non debolezza».

NEL 1949 FONDA il giornale L’Incontro, che dirige, finanzia e diffonde ininterrottamente per settanta anni. Abbraccia le battaglie per i diritti civili dal divorzio alla laicità della scuola; promuove la campagna anticoncordataria e per il fine vita, come presidente dell’Associazione Nazionale Libero Pensiero “Giordano Bruno”. Nella sua vita lunga 105 anni, è stato avvocato, giornalista, intellettuale, politico, militante e rappresentante istituzionale socialista (rompendo con il partito all’avvento di Craxi). Ma è il pacifismo che lo assorbe negli ultimi anni di vita: «Sono sempre stato antifascista e quindi pacifista: da ragazzo fui cacciato dall’aula scolastica perché mi dichiaravo contro la guerra in Etiopia». E contro le guerre di oggi, dall’Ucraina alla Palestina, si è speso fino all’ultimo. Questa volta è morto davvero, ma mai riposo fu più meritato.
* (Presidente del Movimento Nonviolento)

 

08 – Andrea Colombo*: QUELL’ONDA CHE TRAVOLSE I PARTITI NOVECENTESCHI. 1994-2024. L’ESORDIO CAOTICO E PLASTIFICATO ALLA FIERA DI ROMA
A qualcuno dei più attempati, nella sagra nostalgica organizzata da quel che resta della balena azzurra, saranno venuti i lucciconi ricordando quella prima convention di Forza Italia alla Fiera di Roma, il 6 febbraio 1994, giorno del battesimo ufficiale. In realtà fu un mezzo disastro. I cronisti da soli quasi straripavano, l’organizzazione non aveva idea di come gestire un evento di massa, faceva acqua da tutte le parti. Nonostante il caos le fattezze del partito «finto», «plastificato», «creato in laboratorio» erano nitide. C’era l’inno aziendale, «È Forza Italia, per essere liberi», col «dottore», Berlusconi Silvio, che invitava dal palco la platea a cantare più forte. C’era «il kit del candidato» e bastava quello a sganasciarsi. C’erano i politici arruolati di fresco, da Antonio Martino a Giuliano Urbani, tutti bei nomi ma senza radici né uno straccio di consenso popolare.
Quell’esordio accidentato finì di convincere i leader politici dell’epoca di aver poco da temere, nonostante tutto, dall’arrivo dell’intruso. Avevano cominciato a tirare il fiato già il giorno del videomessaggio inviato alle tv, il 26 gennaio, quello della «discesa in campo»: «L’Italia è il Paese che amo». L’industrialotto si muoveva nell’agone politico come in un mercato pubblicitario, più che il leader faceva il testimonial di un prodotto di là da venire. Nessun rapporto con la realtà sociale, nessun “territorio” al quale rivolgersi, nessuna rappresentanza di interessi sociali. Solo la faccia tosta, quella effettivamente impareggiabile, di chiedere consensi in nome della propria biografia, del proprio successo imprenditoriale.

ACHILLE OCCHETTO: «CI SONO DEI MOMENTI STORICI IN CUI IL “CONTRO” CONTIENE DELLE POTENZIALITÀ»
I partiti rivali, il Ppi, già Dc, di Mino Martinazzoli e il Pds, ex Pci, di Achille Occhetto, la presero tanto sottogamba da non considerare neppure la possibilità di allearsi per fronteggiare quel polo di destra tanto abborracciato da dover fingere di essere due: uno, quello «della Libertà», a nord con la Lega, l’altro, quello «del Buongoverno», a Sud con il Msi in procinto di diventare An. Col senno di poi è facile accusare quel ceto politico democristiano o ex comunista di miopia e incapacità di comprendere la realtà. Prima di giudicare bisogna però immedesimarsi: era un ceto politico che veniva dalla lunga esperienza dei partiti politici novecenteschi, non poteva sapere che quella gloriosa storia era arrivata al capolinea. Berlusconi cavalcava, a fiuto e senza neppure esserne davvero consapevole, un’onda montante, il declino dei modelli di politica e di partito del Novecento.
Oggi è luogo comune scoprire che c’è qualcosa e spesso molto di Silvio Berlusconi in tutti i leader politici italiani, e rintracciare dunque nel Cavaliere l’origine di numerosi guasti. In realtà quella degenerazione si sarebbe compiuta con lui o senza di lui e non solo in Italia, tanto che oggi nel mondo la figliolanza politica, da Trump a Macron per citare solo due casi tra i più vistosi, è innumerevole. L’identificazione secca del partito col capo, lo sganciamento di quasi tutti i partiti da ogni vera rappresentanza sociale, la metamorfosi della ricerca del consenso da proposta politica a pura faccenda mediatica: Berlusconi è stato il risultato di questo processo, trent’anni fa nascente, oggi pienamente dispiegato, e almeno da alcuni punti di vista non il peggiore possibile.
Berlusconi si era deciso, forse rassegnato, a «scendere in campo» per difendere i propri affari e poi per difendere sé stesso da una chilometrica fila di processi: la sua lunga centralità nella politica italiana non poteva che inquinare l’inquinabile. Ma di tendenze davvero autoritarie, di tentazioni semidittatoriali non ne nutriva. Anche per questo è stato capace di essere per oltre vent’anni il leader non di un partito vorace e prepotente ma di una coalizione che governava non senza generosità con gli alleati, per quanto minori fossero. Voleva essere un sovrano, e a modo suo lo è stato, non un caudillo o un ducetto, cosa che purtroppo non si può dire per buona parte dei suoi eredi o imitatori, in Italia e fuori. Forse per questo anche chi lo aveva ferocemente osteggiato nell’epoca del trionfo, qualche segreta e inconfessabile nostalgia la avverte.
*(Andrea Colombo, Giornalista, scrive su il manifesto)

 

09 – MILEI SE NE FREGA. L’ARGENTINA IN PIAZZA, IL PRESIDENTE MANDA A CASA 5 MILA STATALI
Il presidente anarco-capitalista arrivato alla Casa Rosada non sembra esser rimasto sorpreso o intimidito dalle manifestazioni che si sono moltiplicate non solo a Buenos Aires, ma anche nelle altre grandi città. “Il decreto è a favore del popolo”
Migliaia di manifestanti, ordinatamente in fila, sui due marciapiedi dell’Avenida 9 de Julio. Tra i due cortei, migliaia di agenti e, nelle corsie centrali, il traffico che continua a scorrere come se nulla fosse nella luminosa notte di Buenos Aires. È il 20 dicembre, ventiduesimo anniversario del cacerolazo – la pratica di scendere in strada con pentole e padelle su cui sbattere posate e mattarelli – che fece scappare in elicottero il presidente del desastre, Fernando De La Rua, condannando la nazione a bancarotta certa

 

 

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