n°45 – 11/11/23 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Nato, Carè ( Pd): in Turchia, la spinta di Roma per Mediterraneo e Medio Oriente
02 – Estero, Carè*(Pd): Al Sound of Italy a Perth per ringraziare la comunità
03 – Difesa, Carè(Pd): il Giorno dell’Unità Nazionale e Giornata delle Forze Armate a Perth
04 – Difesa, Carè(pd): A Sydney per Indo Pacific
05 – Sen. Francesca La Marca*: La Sen. La Marca incontra il Presidente Balboni per sollecitare la riapertura dei termini per il riacquisto della cittadinanza italiana
06 – Brevi dal mondo(*)
07 – Cecilia Guera ( Pd) *: lo sgravio per le «bimamme» passa da 3 a 1 anno ,
Figuraccia del governo: dopo cinque giorni dal deposito in Senato, il governo si accorge che la decontribuzione per le assunzioni non aveva copertura
08 – Massimo Villone*: La terza Repubblica tra autocrazia e trovate vintage – GOVERNO. Perché, poi, rafforzare il governo? È già largamente dominus dell’agenda parlamentare per i tempi e i contenuti
09 – Alberto Negri*: Lo shock della nuova mappa dell’energia. Se la graduale normalizzazione del ruolo di Israele nella regione poteva far pensare a una semplificazione della mappa energetica e politica del Medio Oriente, ignorando del tutto la questione palestinese, adesso la guerra con Hamas e la minaccia di un conflitto regionale hanno rimescolato tutte le carte
10 – Paolo Mossetti*: POLITICA – Tra un anno gli Stati Uniti vanno alle elezioni: che cosa ci aspetta – La sfida tra Trump e Biden. La polarizzazione del dibattito pubblico.
12 – Andrea Carugati*: Perché il premierato di Meloni non può andare giù a Mattarella. COSTITUZIONE. Il nodo non è (solo) la riduzione delle prerogative del Quirinale, ma la concentrazione dei poteri e lo svuotamento del Parlamento.
13 – Palestina, Libano, Ucraina: così le guerre ridisegnano le rotte dei migranti.

 

 

01 – Carè *( Pd): NATO, IN TURCHIA, LA SPINTA DI ROMA PER MEDITERRANEO E MEDIO ORIENTE
Roma 4 Nov.-“ Ho partecipato in Turchia all’incontro del Gruppo speciale Mediterraneo e Medio Oriente dell’Assemblea parlamentare della Nato che si incontra due volte l’anno per affrontare temi prettamente politici e tutto ciò che riguarda i rapporti commerciali, le esplorazioni di gas, la possibilità di partenariati dal punto di vista strategico ed energetico. Ho avuto modo di incontrare il Vice-Ministro dell’Energia e Risorse Naturali della Turchia Ahmet Berat Conkar e il presidente Gutierrez (parlamentare spagnolo) presidente del GSM. Al convegno si è discusso della sicurezza energetica della Turchia e delle strategie economiche e sostenibilità energetica di regione geografica. L’incontro ha avuto come obiettivo affrontare le questioni politiche, sociali ed economiche di una vasta area che va dal Marocco alla penisola arabica, toccando macro questioni strategiche come quelle che investono i Paesi Nato, il Medio Oriente, il nord Africa. In questo senso il contributo della delegazione italiana è stato significativo, dal momento che si è concretizzato nel voler far pesare il ruolo politico dell’Italia in un momento come quello attuale, soprattutto su un tema (il Mediterraneo) che è legato a doppia mandata alla strategia del governo per quanto riguarda il Piano Mattei e tutto ciò che incarna il Nord Africa, sia per Roma che per Bruxelles. Ho incontrato il presidente della Turkish Aerospace Industries e il parlamentare Mehmet Ali Çelebi, membro della Grande Assemblea della Turchia, il contrammiraglio Rear Admiral della Marina Militare della Turchia Rafet Oktar alla riunione per la presentazione della Marina Militare della Turchia ad Istanbul, l’ambasciatore italiano in Turchia Giorgio Marrapodi. ”Così Nicola Carè, deputato del Pd eletto all’estero, componente della commissione difesa e della delegazione parlamentare italiana della NATO.
*(On./Hon. Nicola Carè – Camera dei Deputati – Chamber of Deputies – IV Commissione Difesa – Defence Committee – Circoscrizione Estero, Ripartizione Africa, Asia, Oceania e Antartid)

 

02 – Estero, Carè*(Pd): Al Sound of Italy a Perth per ringraziare la comunità
Roma 7 Nov.-“Non potevo mancare alla seconda edizione di Sound of Italy a Perth il festival della canzone italiana organizzato da Over 50 Australia Incorporated. Ho voluto essere presente per testimoniare la mia vicinanza alla comunità e ringraziarli perché manifestazioni come queste contribuiscono a promuovere e valorizzare la ricca cultura italiana, attraverso la musica e il canto nell’Australia occidentale. Un sentito ringraziamento al Presidente Giovanni Calabro, a Nicola Comito vicepresidente, a Joe Coltrona, a Carlo Di Risio, a Gabriele Monti, Dino Vescovo e al Direttore Musicale Mr. Sammy Pizzata che sotto il patrocinio del Consolato Italiano e agli sponsor per aver regalato ad oltre seicento persone uni spettacolo meraviglioso.”Cosi’ Nicola Carè, deputato Pd eletto all’estero.
*(On./Hon. Nicola Carè – Camera dei Deputati – Chamber of Deputies)

 

03 – Difesa, Carè(Pd): il Giorno dell’Unità Nazionale e Giornata delle Forze Armate a Perth
Ho partecipato a Perth alla celebrazione della giornata dell’Unità Nazionale e la Giornata delle Forze Armate, presso il Monumento del Soldato Italiano con Vittorio Petriconi presidente dell’associazione Marinai di Perth, il console reggente Emilio Sessa, il presidente del Comites Dino Vescovo, Francesco Carozzo dell’arma dei carabinieri distaccato a Perth e con l’associazione Alpini a Perth. Ci tenevo ad essere presente, da uomo, da emigrato, da Italiano, da deputato della Repubblica e da componete della commissione difesa, per testimoniare il riconoscimento dell’Italia. Il 4 novembre l’Italia ricorda l’Armistizio di Villa Giusti che consentì agli italiani di rientrare nei territori di Trento e Trieste, e portare a compimento il processo di unificazione nazionale iniziato in epoca risorgimentale, e terminava la Prima Guerra Mondiale. Per onorare i sacrifici dei soldati caduti a difesa della Patria il 4 novembre 1921 ebbe luogo la tumulazione del “Milite Ignoto”, nel Sacello dell’Altare della Patria a Roma. Con il Regio decreto n.1354 del 23 ottobre 1922, il 4 Novembre fu dichiarato Festa nazionale. Celebrare il 4 novembre non è solamente la rievocazione delle gesta di quanti hanno offerto la vita per realizzare e difendere l’Unità d’Italia, per il bene della collettività nazionale e del Paese ma è anche il riconoscimento dell’impegno di tutti voi che servite la Repubblica nelle Forze Armate. Il ricordo dei caduti rappresenta un momento di riflessione per tutti, soprattutto oggi che stiamo vivendo momenti difficili nel mondo.
Cosi Nicola Carè Deputato del Pd eletto all’estero, componente della commissione difesa e dell’assemblea parlamentare Nato.
*(On./Hon. Nicola Carè – Camera dei Deputati – Chamber of Deputies)

 

04 – Difesa, Carè(pd): A Sydney per Indo Pacific
Roma Nov.-“Ho partecipato all’edizione 2023 di Indo Pacific, una manifestazione internazionale che si svolge a cadenza biennale a Sydney, presso l’International Convention Center, specificamente dedicata all’industria della difesa navale e del commercio marittimo e considerata la più importante in Australia per la nautica militare ed i sistemi da difesa. L’evento, organizzato dall’Industry Defence & Security Australia, divisione no-profit di AMDA-Aerospace Maritime & Defence Foundation of Australia, conta sul supporto di tutte le entità governative australiane: in particolare, della Marina Militare (Royal Australian Navy), del Ministero della Difesa, del Ministero dell’Industria e del Dipartimento degli acquisti per la Difesa oltre che del Governo del New South Wales, dove ha luogo. Ogni edizione conta sulla presenza media di oltre 20.000 visitatori, più di 600 aziende espositrici provenienti da varie nazioni e circa 200 delegazioni governative e militari provenienti in prevalenza dai Paesi limitrofi. Ho partecipato insieme all’Ambasciatore d’Italia a Canberra, Paolo Crudele, al Console Generale d’Italia a Sydney, Andrea De Felip ,al Presidente della Camera di Commercio di Sydney Fabio Grassia e al segretario generale Rachele Grassi, accompagnati dalla Direttrice dell’Ufficio, Simona Bernardini, due delegazioni ufficiali della Difesa e della Marina Militare italiana coordinate dall’ Addetto militare italiano a Canberra, Marco Bertoli, con il Generale di brigata Luca Piperni e il colonnello Salvatore Trincone vicedirettore del 3° dipartimento “politiche industriali e relazioni internazionali”. Sono state avviate azioni di comunicazione a sostegno della presenza italiana e favorito il match-making tra i rappresentanti delle aziende italiane presenti e le delegazioni estere in visita, in collaborazione con l’Addetto militare italiano a Canberra. Per affrontare i rischi strategici attuali, si raccomanda un cambiamento nella struttura delle forze armate Australiane. Si enfatizza la necessità di un processo di acquisizione di capacità più efficiente e di bilanciare l’industria australiana con l’acquisizione tempestiva di attrezzature e tecnologie provenienti dall’estero.” Cosi Nicola Carè, deputato del Pd eletto all’estero, componente della Commissione difesa e dell’assemblea parlamentare Nato.
*(On./Hon. Nicola Carè – Camera dei Deputati – Chamber of Deputies)

 

05 – Sen. Francesca La Marca*: La Sen. La Marca incontra il Presidente Balboni per sollecitare la riapertura dei termini per il riacquisto della cittadinanza italiana

Nella giornata di oggi, la Senatrice La Marca ha incontrato il Presidente della 1ª Commissione permanente Affari Costituzionali del Senato, Sen. Alberto Balboni, per sollecitare la calendarizzazione in Commissione dell’esame del disegno di legge a sua prima firma che prevede la riapertura dei termini per il riacquisto della cittadinanza italiana per chi l’ha persa dopo la naturalizzazione e la diminuzione del costo da sostenere per la pratica.
Nel corso dell’incontro, tenutosi nell’ufficio del Presidente Balboni, la Senatrice La Marca ha tenuto a ribadire l’urgenza di avviare l’esame del provvedimento per dare finalmente risposta alle tante persone residenti all’estero, ma nate e cresciute in Italia, che hanno diritto alla cittadinanza italiana.

Il Presidente Balboni, comprendendo le richieste della Senatrice e riconoscendo l’importanza della questione, ha rassicurato la stessa della calendarizzazione in commissione del “ddl La Marca” nei primi mesi dell’anno nuovo.

“Ringrazio il Presidente Balboni per il tempo che ha voluto concedermi e per la sensibilità dimostrata nell’incontro di oggi. Auspico che si mantenga l’impegno preso, affinché dopo troppi anni, si permetta finalmente a centinaia di migliaia di persone nate in Italia e residenti all’estero di riacquistare la loro cittadinanza italiana, riaffermando un diritto per troppo tempo negato.” Così la Senatrice La Marca a margine dell’incontro.
*(Sen. Francesca La Marca – 3ª Commissione – Affari Esteri e Difesa – Electoral College – North and Central America)

 

06 – Brevi dal mondo(*)

INTANTO SUL FRONTE BIRMANO – Mentre gli occhi del mondo sono puntati sul Medio Oriente e nemmeno la guerra in Ucraina è più argomento da prima pagina, almeno in questo spazio sembra il caso di ricordare un altro fronte caldo, dove i civili, bambini compresi, sono presi di mira dai bombardamenti di un esercito senza scrupoli, che dall’aprile 2022 al luglio 2023 ha raso al suolo 1.355 villaggi e più di 75mila edifici, incluse le strutture per la conservazione dei prodotti alimentari, del bestiame e delle sementi. Il risultato è una crisi umanitaria con due milioni di sfollati e cinque milioni di bambini in stato di bisogno. Stiamo citando i dati dell’Onu sulla guerra civile in Birmania riportati in un rapporto appena pubblicato dall’associazione Italia-Birmania insieme, nata nella fase di transizione democratica in cui il paese asiatico sembrava instradato in un percorso virtuoso e impegnata ora, dopo il golpe militare del febbraio 2021, a sostegno dell’opposizione alla nuova giunta.
Uomini del battaglione Naypidaw delle Forze di difesa del popolo, braccio armato del Governo di unità nazionale, in esilio, formato dopo il golpe del febbraio 2021 dai parlamentari eletti democraticamente, si addestrano nello stato Karen, Birmania, maggio 2023.
La Birmania è precipitata in un conflitto in cui migliaia di civili si sono dati alla macchia e hanno imbracciato le armi per la prima volta, addestrati dai gruppi armati degli stati etnici alla periferia del paese. La particolarità della guerra civile in corso è che ha investito l’intero paese, incluse le principali città e, soprattutto, la zona centrale della Birmania, solitamente tranquilla e abitata dalla maggioranza bamar, l’etnia a cui tradizionalmente è legato l’esercito. Le atrocità commesse dai militari contro i civili (e in modo particolare contro i rohingya, la minoranza musulmana non ufficialmente riconosciuta) sono oggetto d’indagini alla Corte internazionale di giustizia, alla Corte penale internazionale e presso altri tribunali per sospetti genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Nel frattempo la comunità internazionale, troppo impegnata sugli altri fronti, latita.
Della guerra in corso in Birmania non si parla e intanto l’esercito, stando alle parole dell’alto commissario Onu per i diritti umani Volker Turk, “fa affidamento sull’accesso alla valuta estera per l’acquisto di materiali militari, servizi di supporto e carburante per l’aviazione”. In seguito al golpe del 2021 l’Unione europea ha rafforzato le sanzioni già esistenti contro i militari. Eppure, e questo è l’oggetto del rapporto di Italia-Birmania insieme, da trent’anni un’azienda italiana, la Danieli spa, “leader mondiale nella produzione di impianti siderurgici con sede a Buttrio (Udine)”, lavora indisturbata nel paese asiatico facendo affari con l’esercito che l’ha governato per buona parte degli ultimi sessant’anni. Indisturbata e in sordina, se è vero, come denuncia il documento, che la Birmania non compare nella mappa dei paesi asiatici in cui il gruppo è attivo.
Il problema è che “molte delle attività di Danieli violano diversi capitoli delle linee guida Ocse sulle multinazionali, a partire da quelli relativi diritti umani, impatti ambientali, trasparenza, coinvolgimento delle parti interessate, nonché dei principi guida su business e diritti umani, in relazione ai quali Danieli non ha adottato alcuna misura per mitigare gli impatti di tali violazioni. Anche le misure restrittive approvate dalla Ue nel corso della precedente dittatura e dal colpo di stato del febbraio 2021 potrebbero essere state violate o vi possono essere state deroghe da parte dalle autorità italiane, che hanno permesso a Danieli di continuare a operare in Birmania con imprese di proprietà della giunta militare”. Nel rapporto si chiede all’azienda trasparenza e alle autorità italiane d’indagare su come sia possibile che il gruppo abbia potuto fare affari per decenni con i regimi dittatoriali che si sono susseguiti fino a oggi.
LA LEZIONE DI PECHINO – Oggi il primo ministro australiano Anthony Albanese arriva in Cina, dove domenica interverrà alla fiera dell’import di Shanghai. L’ultima volta che un suo omologo era stato in Cina era il 2016. Poi uno iato in cui i rapporti tra i due paesi sono via via sprofondati fino ad arrivare ai ferri corti in una guerra commerciale impari e insostenibile per Canberra (nel 2016 il 40 per cento delle esportazioni australiane era diretto in Cina). Lunedì Albanese incontrerà il presidente Xi Jinping, celebrando così il ripristino dei buoni rapporti con Pechino, ma non è così scontato che gli scambi commerciali torneranno ai livelli precedenti alla crisi, scrive il Guardian. Secondo Nikkei Asia, che ha ricostruito in modo dettagliato la crisi e il riavvicinamento tra Cina e Australia, questa vicenda è la dimostrazione che Xi Jinping non intende sacrificare l’economia alla politica. “La rottura e la successiva ripresa dei legami bilaterali con la Cina”, commenta il settimanale economico giapponese, “hanno dimostrato al mondo cosa succede quando una superpotenza emergente come Pechino decide di dare una lezione a una media potenza allineata agli Stati Uniti nell’Asia-Pacifico”.
Il Mondo è il podcast quotidiano di Internazionale, dal lunedì al venerdì, tutte le mattine dalle 6.30. Qui ci sono tutte le puntate della settimana.
◆ Il 1 novembre è scaduto l’ultimatum che le autorità pachistane avevano dato agli immigrati senza documenti, una misura in sostanza rivolta a 1,7 milioni di profughi afgani presenti in Pakistan, dove molti sono nati e cresciuti. In circa 150mila hanno varcato la frontiera con l’Afghanistan per evitare l’arresto o la deportazione. Tra loro anche duemila afgani che nei vent’anni di presenza occidentale nel loro paese avevano collaborato con le autorità britanniche e dall’agosto 2021 sono in Pakistan in attesa di essere accolti da Londra.
◆ In Bangladesh le manifestazioni guidate dall’opposizione per chiedere le dimissioni della prima ministra Sheik Hasina in vista delle elezioni legislative di gennaio sono sfociate nella violenza e due persone sono morte. Nel frattempo hanno scioperato gli operai del tessile, in gran parte donne, chiedendo l’aumento del salario minimo.
◆ Due mesi dopo l’inizio del rilascio dell’acqua della centrale nucleare giapponese di Fukushima nell’oceano Pacifico, l’Aiea, l’agenzia dell’Onu per l’energia atomica, ha pubblicato il suo rapporto. Le operazioni, dice l’Aiea, procedono senza intoppi tecnici.
◆ Le autorità del governo di Bangkok hanno incontrato esponenti di Hamas in Iran per negoziare il rilascio dei 23 cittadini tailandesi presi in ostaggio il 7 ottobre in Israele. Per ora non hanno trovato un accordo.
◆ Di cosa parliamo quando parliamo di scontro tra la Cina e l’occidente e di ambizioni egemoniche di Pechino? Prima di tutto di mondi valoriali diversi, ognuno dei quali si crede superiore all’altro. Maurizio Scarpari, sinologo ed ex docente di lingua cinese classica a Ca’ Foscari, ripercorre la strada fatta dalla Cina da Deng Xiaoping a oggi e spiega l’apparato ideologico che Xi Jinping contrappone a quello delle democrazie liberali occidentali. Mirando a riportare La Cina al centro, titolo del suo ultimo libro appena uscito per il Mulino.
*(ndr)

 

07 – L Cecilia Guera ( Pd) *: LO SGRAVIO PER LE «BIMAMME» PASSA DA 3 A 1 ANNO – LEGGE DI BILANCIO. FIGURACCIA DEL GOVERNO: DOPO CINQUE GIORNI DAL DEPOSITO IN SENATO, IL GOVERNO SI ACCORGE CHE LA DECONTRIBUZIONE PER LE ASSUNZIONI NON AVEVA COPERTURA

«Errata corrige». A cinque giorni dall’invio in parlamento del testo della legge di Bilancio, il governo si è accorto di una svista. Passa da 3 a un solo anno il periodo di decontribuzione per le mamme lavoratrici con due figli che Meloni e Giorgetti avevano sbandierato come una «vera svolta sociale».

L’«errata corrige» è stata inviata al Senato sul comma 2 dell’articolo 37 che prevede lo sgravio contributivo (al 100% fino a 3mila euro e fino al decimo anno di età del figlio più piccolo) per le assunzioni a tempo indeterminato (non domestico) per mamme lavoratrici con due figli sia solo fino al 31 dicembre 2024 e non fino al 2026.

*(Cecilia Guera ( Pd) commenta: «Era già poco più che uno spot, ora è una farsa».)

 

08 – Massimo Villone*: LA TERZA REPUBBLICA TRA AUTOCRAZIA E TROVATE VINTAGE – GOVERNO. PERCHÉ, POI, RAFFORZARE IL GOVERNO? È GIÀ LARGAMENTE DOMINUS DELL’AGENDA PARLAMENTARE PER I TEMPI E I CONTENUTI

La «madre di tutte le riforme» ha finalmente visto la luce. Ma porterebbe una notte fonda sulla Repubblica. È una riforma pensata male e scritta peggio. Sostanziale azzeramento dei poteri del capo dello stato per quanto riguarda la vita del governo e lo scioglimento anticipato.

Rapporto fiduciario, ridotto a vuoto simulacro in cui si realizza una presa d’atto automatica e coatta dell’esito elettorale. I fan affermano che la riforma restituisce potere agli elettori. Ma paradossalmente li riconosce come cittadini il solo giorno del voto, e li rende sudditi e subalterni per i successivi cinque anni.

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Una presidente estranea alla Costituzione
Uno sfascio. Per fortuna concede qualche momento di ilarità. Meloni celebra la terza Repubblica del futuro tornando a meccanismi vintage. Si prevede infatti (art. 4) che il premier eletto possa essere sostituito da altro «parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia».

È una costituzionalizzazione del «patto della staffetta». Correva l’anno 1986. Craxi si dimise il 27 giugno e fu nuovamente nominato con l’impegno a dimettersi per cedere Palazzo Chigi a un democristiano nel marzo 1987. Avrebbe dovuto essere Andreotti. Non funzionò, e fu mare grosso nella politica italiana, fino alla mancata fiducia al VI governo Fanfani e allo scioglimento del 1987.

Il patto della staffetta non fu una best practice della politica italiana. Tuttavia, è probabile che con la riforma proposta diventi clausola di stile, esplicita o implicita, negli accordi, quanto meno nel caso – assai probabile – di governi di coalizione. L’azionabilità della clausola sarebbe data dallo scioglimento anticipato sostanzialmente nelle mani di ciascuno dei partner. Se la riforma fosse oggi vigente, vedremmo o no un match Salvini vs Meloni? Si dissolvono gli obiettivi di stabilità, governabilità, efficienza. Ancor peggio considerando che il «tutti a casa» sarebbe consentito anche a piccoli manipoli di guastatori parlamentari per un personale tornaconto, o per equilibri interni di partito.

Perché, poi, rafforzare il governo? È già largamente dominus dell’agenda parlamentare per i tempi e i contenuti. Il profluvio di decreti-legge è ininterrotto, il superamento della navetta con l’approvazione in una camera con presa d’atto senza emendamenti nell’altra è consolidata, la tempistica dei lavori è decisa secondo le esigenze della maggioranza. All’opposizione può essere impedito l’ostruzionismo, a partire dagli emendamenti.

Non c’è da rafforzare alcunché. Quanto all’efficienza della decisione, lentezze e ritardi derivano da contorsioni e turbolenze interni alla maggioranza, come ad esempio è accaduto per la legge di bilancio. O quando accade che il Consiglio dei ministri approvi «salvo intese», deliberando quindi su una scatola almeno in parte vuota. Essendo questa la vera causa di fragilità e ingovernabilità, niente della riforma proposta pone rimedio.

Il segno qualificante della radicale e stravolgente innovazione che si vuole introdurre può essere ricondotto allo scivolamento verso forme di autocrazia di cui si discute negli studi sulla crisi delle democrazie nell’attuale momento storico. Una direzione che nella riforma proposta trova il suggello ultimo nella costituzionalizzazione di un sistema elettorale maggioritario con premio addirittura definito numericamente.
La maggioranza ha investito molto su questa riforma, che dovrebbe secondo Meloni andare «di pari passo» con l’autonomia differenziata. Non ci sarà un ravvedimento operoso. È allora essenziale rendere chiaro fin d’ora che si punta a un referendum proposto da un quinto dei parlamentari ai sensi dell’art. 138 della Costituzione. La coalizione di governo non ha i due terzi dei voti che impedirebbero il pronunciamento popolare. E la prevedibile accusa di essere responsabili di avere tolto la parola al popolo può essere un deterrente per i pellegrini che volessero prestare qualche voto alla maggioranza.
Cambiare si può e si deve, ma tenendo ben fermo l’obiettivo di attuare pienamente la Costituzione che la destra vorrebbe rottamare e consegnare alla storia. Già due volte il popolo italiano l’ha difesa con successo, e siamo orgogliosi di aver fatto allora la nostra parte. Siamo di nuovo pronti. Il messaggio alla destra è: chi tocca la Costituzione può solo farsi male.
*( Massimo Villone è un politico e costituzionalista italiano. È professore emerito di Diritto costituzionale nell’Università degli Studi di Napoli “Federico II)

 

09 – Alberto Negri*: LO SHOCK DELLA NUOVA MAPPA DELL’ENERGIA . SE LA GRADUALE NORMALIZZAZIONE DEL RUOLO DI ISRAELE NELLA REGIONE POTEVA FAR PENSARE A UNA SEMPLIFICAZIONE DELLA MAPPA ENERGETICA E POLITICA DEL MEDIO ORIENTE, IGNORANDO DEL TUTTO LA QUESTIONE PALESTINESE, ADESSO LA GUERRA CON HAMAS E LA MINACCIA DI UN CONFLITTO REGIONALE HANNO RIMESCOLATO TUTTE LE CARTE
Con la guerra di Gaza vedremo un altro shock petrolifero come nel 1973? Nel suo lungo discorso dal Libano il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha evitato di aprire la guerra con Israele ma ne ha evocata una economica. Per fermare la strage nella Striscia. «Non chiediamo le vostre armi, non i vostri missili… non voglio dare dei traditori a nessuno, ma dobbiamo inchiodare tutti alle loro responsabilità».
Dagli stati petroliferi Hezbollah vuole una mano per chiudere i rubinetti di Tel Aviv, come ha chiesto l’Alto consiglio di Stato della Libia con sede a Tripoli (preceduto dai rappresentanti della Cirenaica) «per tagliare i legami con i Paesi che sostengono l’entità sionista bloccando l’export di gas e petrolio». Nasrallah punta a scuotere Egitto, Arabia saudita e le monarchie del Golfo, che hanno rapporti con Israele per escluderlo dai rifornimenti energetici.
Un appello al boicottaggio quello del leader sciita che viene proprio dal Libano dove Hezbollah come membro del governo ha accettato di fatto nel 2022 l’accordo mediato dagli Stati uniti per la demarcazione del confine marittimo tra Israele e Libano (tecnicamente in guerra dal 1948) e lo sfruttamento del gas dei giacimenti sottomarini di Karish e Qana. Un’intesa che Nasrallah aveva presentato «non come il risultato della generosità di Usa e Israele ma della forza del Libano», Paese che versa in una crisi economica disastrosa.
Cosa aveva significato la guerra dello Yom Kippur il cui trentennale è coinciso con il massacro di Hamas ? L’embargo imposto dai Paesi arabi esportatori di petrolio dopo la crisi del 1973 aveva trasformato tutti gli equilibri e le dottrine geopolitiche, una tendenza che si era poi rafforzata con la rivoluzione khomeinista in Iran nel 1979, annus horribilis di Washington con la perdita di Teheran come alleato, seguita a fine anno all’invasione sovietica dell’Afghanistan. Da allora gli Usa si erano lanciati militarmente per decenni nelle guerre del Golfo e del Medio Oriente per disimpegnarsi poi con il disastroso ritiro da Kabul nel 2021.

Se la graduale normalizzazione del ruolo di Israele nella regione, voluta con il Patto di Abramo sponsorizzato dagli Usa, poteva far pensare a una semplificazione della mappa energetica e politica del Medio Oriente, ignorando del tutto la questione palestinese, adesso la guerra con Hamas e la minaccia di un conflitto regionale hanno rimescolato tutte le carte. Anche per l’Italia e per quel vago Piano Mattei delineato confusamente – e soprattutto senza risorse – da questo governo.

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Piano Mattei, c’è il decreto ma non i soldi
L’Italia ha aperto due dossier cruciali con la Tunisia (migrazioni) e l’Algeria (gas), che hanno dichiarato il loro sostegno alla causa palestinese e a Hamas. Anzi, la Tunisia intende approvare una legge che renderà illegale ogni rapporto economico con Israele. Anche l’Algeria ha assunto una posizione apertamente filo-Hamas: Algeri con il 40% è il nostro principale fornitore di gas e la Sonatrach è un socio strategico dell’Eni. Insieme alle posizioni dei libici, il quadro dei nostri principali partner del Mediterraneo appare alquanto problematico per il governo di Roma, astenuto all’Onu sulla risoluzione, votata da Francia e Spagna, che chiedeva una tregua a Gaza. E queste sono cose che sulla Sponda Sud si notano…
Cinquant’anni dopo la guerra del Kippur, l’insicurezza energetica per gli stati importatori di gas e petrolio è di nuovo all’ordine del giorno, a maggior ragione dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Ma la vulnerabilità di Israele – come sottolinea Helene Thompson, docente di Cambridge su Le Grand Continent – non si ripeterà come fu nel 1973. Grazie ai giacimenti offshore di Leviathan, Tamar e Karish, Israele è autosufficiente per il gas, anche se lo sfruttamento del giacimento di Tamar è stato sospeso il giorno dopo l’attacco di Hamas. Più della metà delle importazioni israeliane di petrolio proviene dall’Azerbaigian, in cambio di consistenti esportazioni militari che, insieme a quelle turche e italiane, sono servite a Baku per cacciare gli armeni dal Nagorno Karabakh.
Israele ha inoltre stretto importanti partnership energetiche con diversi Stati arabi. Ha iniziato a esportare gas in Giordania nel 2017 e in Egitto nel 2020. In seguito agli accordi di Abramo – che hanno normalizzato le relazioni con Emirati, Bahrein, Marocco e Sudan – ha concordato una strategia energetica con gli Emirati che consente alla monarchia del Golfo di vendere petrolio attraverso l’oleodotto Eilat-Ashkelon. Uno dei fondi sovrani di Abu Dhabi detiene una partecipazione del 22% nel giacimento di gas Tamar.
Ironia della sorte ora è l’Iran che con Hezbollah, in nome della solidarietà islamica, chiede agli stati arabi di imporre sanzioni petrolifere a Israele, anche se lo Stato ebraico si rifornisce fuori dal Medio Oriente. Ma una guerra tra Iran e Israele cambierebbe di nuovo le carte in tavola per tutti.
Il fatto che la Cina, che ha sostituito gli Usa come maggiore importatore di petrolio al mondo, dipenda dall’Iran rende difficile per Washington rafforzare, o solo applicare rigorosamente, le sanzioni esistenti contro Teheran senza provocare un confronto con Pechino. Diversi stati europei, tra cui Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia, dipendono per il gas liquido dal Qatar, sostenitore di Hamas e grande investitore in Europa nell’immobiliare e nel calcio. Forse non ci sarà uno shock energetico come nel 1973 ma si apre una un’epoca di paradossi e compromessi impensabile 50 anni fa.
*(Alberto Negri è giornalista inviato speciale del “Sole 24 Ore”, per il quale da oltre trent’anni viaggia come corrispondente di guerra in Medio Oriente, Balcani, Africa, Asia centrale.)

 

10 – Paolo Mossetti*: POLITICA – TRA UN ANNO GLI STATI UNITI VANNO ALLE ELEZIONI: CHE COSA CI ASPETTA – LA SFIDA TRA TRUMP E BIDEN. LA POLARIZZAZIONE DEL DIBATTITO PUBBLICO.
La variabile guerra in Medio Oriente. E i pericoli dell’intelligenza artificiale
Domenica segna l’inizio dell’anno delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, che si concluderà a Washington il 5 novembre 2024. Una cosa è già chiara: la gara sarà quasi certamente decisa da un pugno di votanti, negli Stati molto incerti per entrambi i partiti. E questi Stati sono sempre ormai di meno. Non più di sette o otto e forse anche solo quattro, gli swing states nei quali sia i democratici che i republicani possono realisticamente sperare di vincere, secondo vari analisti sentiti da Cnn: non è mai successo che così poche persone abbiano avuto un così grande impatto nel futuro della politica statunitense.

IL GRANDE PIANO DEGLI STATI UNITI SULL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE
L’ordine esecutivo firmato dal presidente Biden potenzia l’utilizzo di AI da parte del governo federale, ma impone regole più rigorose per prevenire minacce alla sicurezza nazionale
In casa DEM
Tra i democratici, come da tradizione, la palla è in mano al presidente in carica, Joe Biden, che ha annunciato la sua candidatura per la rielezione in aprile, in coppia con la vice Kamala Harris. Due i problemi principali: l’età avanzata (avrà 82 anni nel 2024) e uno dei vicepresidenti più impopolari della storia. La candidatura è praticamente scontata: le uniche sfide sono rappresentate da Marianne Williamson e Dean Phillips, impalpabili nei sondaggi.
L’unico competitor di un qualche rilievo è stato, per qualche mese, Robert Kennedy Jr, storico sebbene eccentrico volto dei dem, appartenente all’ultima dinastia davvero rispettata trasversalmente nella politica americana. Avvocato, ambientalista, negli ultimi anni si è spostato da posizioni tutto sommato moderate all’anti-vaccinismo spinto, con una predilezione per teorie del complotto riguardanti l’hi-tech, l’Ucraina e la Cina, raccogliendo molte simpatie sui social dai più disaffezionati. Il mese scorso ha annunciato la sua candidatura come indipendente e si è spostato sempre più a destra promettendo la difesa del porto d’armi, della libertà d’impresa e d’Israele. Non è ancora chiaro a chi ruberà i voti, ma molti elettori di destra disillusi con i partiti tradizionali potrebbero dargli una chance.

Un video autentico sul conflitto postato da Donald Trump Jr. è stato segnalato come falso dalle Community notes della piattaforma, che non sembrano funzionare come previsto
Il fronte repubblicano
Tra i repubblicani, l’ex presidente Donald Trump è saldamente in testa, davanti agli altri 8 candidati in corsa (dopo il ritiro del suo ex vicepresidente Mike Pence a fine ottobre), raccogliendo tra il 55 per cento e il 70 per cento dei sondaggi tra chi vota Gop. Il governatore del Texas, Ron De Santis, resta un lontano secondo, danneggiato da una comunicazione impacciata. C’è un punto interrogativo grosso come una casa: Trump sarà processato oppure no per il suoi presunti illeciti durante la campagna elettorale del 2020?

Lo show giudiziario inizierà il 4 marzo 2024, un giorno prima del “super martedì” nelle primarie presidenziali repubblicane. Tuttavia, neppure quattro incriminazioni e due procedimenti di destituzione potrebbero fermare il trionfo della campagna di Trump. Intanto Trump ha segnato una vittoria alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti. I membri repubblicani gli sono stati fedeli e hanno eletto Mike Johnson, un ultra-conservatore omofobo, come loro speaker. La sua elezione significa un alleato di Trump – uno che aveva votato per non certificare la vittoria di Biden nel 2020 – in una posizione chiave. È il segno che i Gop ormai sono ancora saldamente in mano all’ex tycoon, che la corrente nazional-populista è ancora la più forte, e che allo status quo ex ante non si torna.
Attualmente, insomma, sembra proprio che il confronto elettorale futuro vedrà contrapposti due ex presidenti, Trump e Biden. Il primo, riesca o meno a vincere, fa già parte di un club ristretto di ex presidenti che hanno inseguito un secondo mandato non consecutivo dopo aver già essere stato già sconfitti nella rielezione. L’ultimo che ci è riuscito è Groover Cleveland nel 1892.

IL FISCHIO D’INIZIO
L’inizio ufficiale della campagna presidenziale è fissato per il 15 gennaio, con il celebre caucus (riunione dei sostenitori politici) dell’Iowa. Nonostante l’aggregatore di dati di sondaggi Real Clear Politics mostri attualmente una prevalenza di indicazioni favorevoli a Trump in numerose simulazioni, è fondamentale notare che questi sondaggi preliminari richiedono cautela. In un clima di evidente polarizzazione politica, dove ogni fronte elettorale si rifugia nei suoi pregiudizi, un dato significativo è il crescente numero di Stati in cui uno dei due partiti principali si è ormai radicato da tempo. Dal 2008 al 2020 ben 40 dei 50 Stati, ovvero l’80%, ha votato nello stesso modo in quattro elezioni presidenziali consecutive, secondo l’emittente Abc. E se è abbastanza sorprendente che solo 10 Stati abbiano cambiato partito dal 2008, molti di questi non sono più considerati decisivi: Indiana, Iowa, Ohio e la Florida, un tempo roccaforti democratiche, sono ormai saldamente in mano a Trump.
Anche l’Onu crea il suo comitato di esperti sull’intelligenza artificiale
Sono 39, da padre Paolo Benanti alla responsabile tecnologica di OpenAI, Mira Murati. Ma trovare una strada comune non sarà facile

I TEMI
La guerra tra Israele e Hamas avrà con tutta probabilità un impatto sul voto: Biden ha fatto capire più volte che non è il momento per una tregua a Gaza, suscitando rabbia tra i dem liberali al Congresso, così come tra i giovani elettori, specialmente musulmani e arabo-americani. Secondo alcuni strateghi questo potrebbe giocare un brutto scherzo per la rielezione di Biden, che dovrà contendere a Trump stati ad alta densità di musulmani come il Michigan.
E infine si dovrà tenere conto dell’impatto della tecnologia. Rispetto a quattro anni fa, Facebook e Instagram hanno perso centralità a favore di TikTok. Mentre Twitter, comprato da Elon Musk e trasformato in X, resta un’arena privilegiata per la disinformazione, con il proprietario schierato esplicitamente per i repubblicani (prima con Trump, poi con De Santis, ma pure con grandi simpatie per Kennedy).
Non mancherà di fare la sua parte l’intelligenza artificiale: all’inizio dell’anno, su Twitter è circolato un video falso che sembrava mostrare il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, mentre annunciava di aver reintrodotto la leva obbligatoria e di voler mandare gli americani a combattere in Ucraina. Nella campagna da governatore di De Santis, invece, si è visto un video dove il suo principale rivale a destra, Trump, abbracciava il virologo Anthony Fauci, odiatissimo dalla destra liberista. In ogni caso sarà meglio non trovare nelle colpe della tecnologia, o nella cosiddetta disinformazione, una scusa pronta per quella che sarà una competizione anche e soprattutto ideologica.
*( Paolo Mossetti. Antropologo economico, scrittore e giornalista che collabora da anni con testate italiane e internazionali.)

 

11 – Sebastiano Canetta*: Il VIAGGIO IN ITALIA STA PER FINIRE – GOETHE-INSTITUT . LA VALANGA DI TAGLI HA GIÀ PROVOCATO LA CHIUSURA DI 9 SEDI STORICHE, TRA CUI TORINO, GENOVA E TRIESTE. MALUMORI ALL’INTERNO DEL GOVERNO SCHOLZ. PROTESTE ANCHE IN FRANCIA

Intitolato all’«ultimo uomo universale», da 73 anni è sinonimo della cultura tedesca nel mondo. Ma è anche lo strumento geopolitico che dopo la Seconda guerra mondiale ha permesso, più di qualunque altro, di cambiare completamente l’immagine della Germania uscita incenerita dal nazismo e non ancora sui binari della Locomotiva economica d’Europa. Non a caso l’ex cancelliere Willy Brandt lo considerava come la più chiave più efficace per aprire le porte alla sua Ostpolitik della distensione con i comunisti, perfino più dei miliardi di marchi prestati “a babbo morto” ai cugini della Ddr.

Insomma fin dalla sua fondazione nel 1951 il Goethe-Institut ha rappresentato la principale proiezione della Repubblica federale all’estero grazie alla presenza di un network ultra-capillare basato su 158 sedi in 99 Paesi e con oltre 1.000 partnership attive. Finché il governo Scholz ha deciso, per l’appunto, che tutto ciò appartiene al passato prossimo alla luce della sua «riforma» per aggiornare il «bacino di utenza» dell’ente culturale destinato a essere «riorientato altrove».

CON QUESTE PAROLE a Berlino traducono ufficialmente la valanga di tagli al Goethe-Institut che ha già provocato la chiusura di 9 sedi storiche, tra cui Torino, Genova e Trieste, con il «ridimensionamento» di Napoli, ma anche Bordeaux, Strasburgo e Lille, mentre l’ufficio in Israele e le attività a Ramallah (co-gestite con la Francia) chiudono i battenti causa guerra in corso.

A far fede, però, come sempre è solo il bilancio federale nelle mani del ministro delle Finanze, Christian Lindner, leader dei liberali: il finanziamento annuo per l’ente – già passato da 250 milioni di euro del 2021 a 239 del 2023 – il prossimo anno sarà ridotto di ulteriori 24 milioni. Come operazione di rilancio appare come minimo singolare. Per le identiche esigenze delle forze armate il governo Scholz ha stanziato 100 miliardi e per la svolta energetica voluta dal vice-cancelliere Robert Habeck dei Verdi esattamente il doppio.

«UNA RIFORMA dell’istituto per poter stare al passo coi tempi certamente si rende necessaria» specifica Claudia Roth, ministra della Cultura dei Verdi ed ex vicepresidente del Bundestag, quasi fosse d’accordo con la decisione del governo di cui fa parte. Invece è il primo segno della crepa politica che corre per tre quarti della coalizione Semaforo. «Di conseguenza bisognerebbe aumentare i fondi, non diminuirli» è la seconda parte del ragionamento di Roth in grado di mandare in tilt anzitutto il suo partito. Chi ha formalmente apposto la firma sotto ai tagli per il Goethe-Institut (ma anche per la Fondazione Humboldt, altra storica istituzione culturale) è la collega ministra degli Esteri, Annalena Baerbock, co-leader dei Verdi.
Analogo paradosso in campo socialdemocratico. La presidente Spd della commissione Cultura del Bundestag, Katrin Budde, ha espresso pubblicamente la «forte preoccupazione per i continui tagli ai fondi per il Goethe-Institut» imposti dal “suo” cancelliere con tanto di plauso della Cdu, egualmente favorevole all’austerity culturale. Forse le distinzioni, certamente autentiche, rappresentano il minimo sindacale per i due partiti progressisti del governo Scholz. In cui si comincia davvero ad avvertire il crescente clamore delle proteste in Italia e soprattutto in Francia dove il mondo della cultura si è ribellato in massa al taglio del ponte culturale fra i due Paesi messo in piedi – come ricordano a Parigi – per assicurare la Pace in Europa.
ALL’ATTENZIONE DI BERLINO il pesante appello contro la chiusura delle sedi francesi e il licenziamento dei 130 dipendenti lanciato dall’unione delle associazioni franco-tedesche d’Europa (Vdfg) sottoscritto già da oltre 45 istituzioni e quasi 500 personalità culturali.
La presidente del Goethe-Institut, Carola Lenz, non può fare altro che prendere atto della scure governativa. Ma quando l’autorevole sociologa dell’Università “Johannes Gutenberg” di Magonza si è insediata alla guida dell’ente a novembre 2020 non immaginava certo di dover aggiornare in questo modo la vocazione dell’istituto erede della prestigiosa Accademia tedesca del 1925.
SULLA CARTA il Goethe-Institut rimane pienamente autonomo come prevede l’accordo-quadro con il ministero degli Esteri in vigore dal 1976, tuttavia le sue attività, dai corsi di tedesco a cui si iscrivono circa 230mila partecipanti all’anno alle centinaia di esposizioni e alle conferenze, dipendono direttamente dai fondi statali. In più il governo può mettere il veto a qualunque evento internazionale o sospendere i dipendenti per «comportamenti politicamente dannosi».
La richiesta del governo Scholz alla professoressa Lenz è chiara: meno attività negli Stati in cui la presenza tedesca è consolidata e più attenzione a Est Europa, America e Africa. Viene da qui la “riforma” del Goethe-Institut che gli scrittori di “Pen-Berlino” non esitano a definire «politicamente miope».
*( Sebastiano Canetta, BERLINO – è un giornalista free-lance che ha svolto inchieste nel Nord-Est e in Medio Oriente)

 

12 – Andrea Carugati*: PERCHÉ IL PREMIERATO DI MELONI NON PUÒ ANDARE GIÙ A MATTARELLA. COSTITUZIONE. IL NODO NON È (SOLO) LA RIDUZIONE DELLE PREROGATIVE DEL QUIRINALE, MA LA CONCENTRAZIONE DEI POTERI E LO SVUOTAMENTO DEL PARLAMENTO
Dopo il varo da parte del governo del disegno di legge costituzionale per l’elezione diretta del premier, molti osservatori hanno alzato lo sguardo verso il Quirinale per tentare di sondarne gli umori. Tra le principali riforme costituzionali approvate (e poi bocciate dai referendum), da quella di Berlusconi e Bossi nel 2006 e a quella di Renzi nel 2016, questa targata Meloni è senza dubbio quella che incide maggiormente sui poteri del Capo dello Stato.
Lo fa in modo indiretto, cambiando radicalmente gli articoli che riguardano la formazione dei governi. Non è un caso che Meloni e la ministra Casellati si siano prodigate a ribadire che i poteri del Colle non vengono intaccati. Proprio perché non è vero. Meloni ha voluto aggiungere anche che ci sono state delle «interlocuzioni» con gli uffici del Quirinale, «come avviene per tutti i provvedimenti».
UNA FRASE CHE QUALCUNO ha voluto interpretare come una collaborazione alla stesura del testo, o addirittura come una condivisione. Su questo punto dal Colle è subito filtrata una chiara smentita: il presidente è stato sì informato dei vari passaggi, ma la riforma non ha ricevuto nessun avallo. E del resto il Capo dello Stato non interviene sui disegni di legge.
Lo stesso spirito accompagnerà la firma del ddl: un «atto dovuto» non certo una «condivisione del testo». Anche durante il lungo iter parlamentare, il Colle resterà in silenzio. Anche se fosse contrario, non si esprimerebbe. «Per farlo dovrebbe prima dire “domani mi dimetto”, in modo da affrontare una questione che non lo riguarda più», ha notato Giuliano Amato.
CHI CONOSCE IL PENSIERO di Mattarella sulle funzioni del Parlamento può però affermare che questa riforma, che contiene addirittura una previsione costituzionale sul premio di maggioranza al 55% da assegnare alle liste collegate al premier eletto, è quanto di più distante dalla tradizione cattolico democratica in cui il presidente si è formato. Anche per quanto riguarda il principio di rappresentatività.
Quando nel 1993, dopo il referendum che vide stravincere il sistema maggioritario, toccò a Mattarella l’incarico di relatore della nuova legge elettorale, l’allora deputato Dc si impegnò per evitare che il nuovo sistema distorcesse in modo eccessivo il rapporto tra voti e seggi, introducendo la quota del 25% di deputati e senatori eletti con il proporzionale.
C’è nel suo pensiero una lunga tradizione parlamentarista, che esalta la possibilità che sia il Parlamento il luogo in cui si formano le maggioranze di governo, senza che la Costituzione fissi con rigidità quali strade siano percorribili. C’è in quella cultura popolare anche una forte sfiducia verso le scorciatoie populiste e l’accentramento dei poteri in un’unica carica. Tanto più nella figura di un premier eletto che, a differenza dei presidenti americani e francesi, non avrebbe nelle Camere un bilanciamento dei poteri, ma una maggioranza blindata per via costituzionale.
A DIFFERENZA DI QUANTO affermavano alcuni esponenti di centrodestra, le norme transitorie del ddl prevedono che la riforma entri in vigore al primo scioglimento delle camere dopo l’approvazione: dunque nel 2027, quando Mattarella sarà ancora in carica, e non alla fine del suo mandato nel 2029. Già si rincorrono ipotesi su possibili dimissioni del Capo dello Stato dopo l’eventuale sì al referendum, come gesto di galateo istituzionale ma anche per non restare al suo posto «con le mani legate», come ha osservato il costituzionalista Francesco Clementi.
Si tratta, appunto, di scenari ipotetici. Su un punto invece non ci sono dubbi: questa riforma è uno schiaffo al Capo dello Stato non (solo) perché ne limita i poteri in caso di crisi di governo, ma perché contraddice la sua cultura istituzionale, in tutti i suoi pilastri.

 

13 – PALESTINA, LIBANO, UCRAINA: COSÌ LE GUERRE RIDISEGNANO LE ROTTE DEI MIGRANTI
Immigranti non arrivano più solo da Libia, Tunisia, Egitto, Bangladesh, Sudan, Pakistan. Le nuove rotte sono il frutto di una nuova situazione geopolitica globale che spinge le persone a partire per fuggire dai conflitti.
A Lampedusa, nei giorni scorsi, tra i tanti immigrati giunti sull’isola, sono arrivati anche diversi palestinesi, in fuga dalle bombe israeliane lanciate nei raid di risposta all’attacco di Hamas. Molta gente tenta il tutto per tutto pur di arrivare in Italia. L’Egitto ha chiuso le frontiere, ma questo non impedisce di trovare vie alternative, soprattutto attraverso il mare. Un’altra situazione che a breve potrebbe portarci altri clandestini è quella che si sta verificando in Libano, dove la grave crisi economica, ormai in atto dal 2019, costituisce un serio rischio per eventuali nuove rotte. Inoltre, la povertà che molte persone stanno sperimentando, si sta portando dietro anche l’accrescere di atti criminali, corruzione, estorsione, sciacallaggio. Il fatto che pure il Libano sia un territorio ai confini con Israele, viste anche le forti tensioni con Hezbollah, è anch’esso motivo che sta invogliando molta gente a prendere il mare. Chi può permetterselo vola verso Paesi quali gli Emirati arabi o l’Arabia Saudita. Gli altri preferiscono spostarsi verso l’Africa e poi prendere i barconi verso l’Italia o la Grecia. Infine, la rotta balcanica, usata soprattutto dai siriani, afghani, turchi, pakistani. Il governo italiano di recente ha bloccato il confine con la Slovenia, potenziando i controlli con militari sul campo, proprio per evitare l’afflusso anche dal Nord. Un altro fenomeno sta interessando le migrazioni verso il nostro Paese: quello dei disertori ucraini che fuggono dalla guerra con la Russia. In Italia ve ne sarebbero diversi. Al 27 ottobre di quest’anno l’Italia ha accolto 142.384 immigrati. La maggior parte di loro resta in Italia o si sposta verso l’Europa. A fronte di un così alto numero di arrivi, i rimpatri sono davvero pochissimi. A settembre, da inizio anno

Dal 2017 a oggi l’Europa ha stanziato 57,2 milioni di euro per la “Gestione integrata delle frontiere e della migrazione in Libia”. Soldi che sono serviti per addestrare la Guardia costiera, consegnare motovedette, realizzare il nuovo centro di coordinamento e controllo di Tripoli. Soldi che, però, al momento non sembrano aver ottenuto lo scopo di fermare i migranti. In ogni caso, l’Ue ha finanziato le Ong (in generale, non solo per progetti umanitari legati alla Libia) in questo anno, per 17,5 miliardi di euro. Soldi che, però, allo stato attuale vengono impiegati per i luoghi in cui ci sono emergenze diverse, soprattutto quelle legate ai conflitti, come Ucraina, Afghanistan, Israele, Gaza. La Libia, invece, non è più considerata come contesto umanitario per cui le Ong umanitarie che finora vi hanno lavorato, seppur con grande difficoltà, non possono più farlo, non avendo un mandato di sviluppo. L’impegno di queste realtà dipende spesso dagli interessi politici e non è più interesse di nessuno investire per aiutare la popolazione libica, ma solo in progetti volti a bloccare eventuali partenze. L’unico banco possibile di discussione, a parte quello delle rotte migratorie, rimane quello legato alla produzione di petrolio, anch’essa in forte calo. Restano, come dicevamo, le Organizzazioni non governative che, con il loro operato, vanno invece contro alle decisioni istituzionali. Insomma, Ue e Stati membri finanziano progetti volti al blocco delle partenze e loro continuano a piazzarsi di fronte alle coste libiche e tunisine per recuperare i migranti a bordo dei barchini condotti dagli scafisti. Traghettamenti veri e propri, spesso mascherati da salvataggi. Ad oggi, nonostante le numerose inchieste portate avanti dalle varie Procure italiane, soprattutto del Sud, non si è mai realmente dimostrata la correlazione tra Ong e partenze. Ma il forte dubbio che i trafficanti di esseri umani facciano prendere il largo ai barconi tracciando la presenza delle loro navi attraverso le app che oggi ci mostrano i transiti, è molto forte. Peraltro, queste Organizzazioni umanitarie vengono spesso finanziate, oltre che dagli Stati, come nel caso della Germania che ha causato tante polemiche, anche dalle Regioni, dai Comuni, da fondazioni europee e d’oltreoceano che sborsano centinaia di migliaia di euro in nome dell’accoglienza. Molte delle navi di queste Ong hanno già subito diversi fermi amministrativi, da parte della Guardia costiera, per irregolarità riscontrate a bordo nel corso degli anni. Ciò nonostante, non si fermano e continuano ad operare nel cuore del Mediterraneo. Le altre, quelle che dalla Libia se ne stanno venendo via per mancanza di fondi e che con i migranti non hanno mai potuto lavorare, hanno spesso portato avanti il loro impegno sotto silenzio, senza che nessuno sapesse il grande sforzo che stavano compiendo in quel Paese, dove l’aiuto alla popolazione, spesso e volentieri, ha voluto anche dire stabilità. E stabilità significa, inutile dirlo, anche meno partenze.

LAMPEDUSA, L’ASSEDIO SILENTE E GLI SBARCHI RECORD,
Lampedusa, l’isola assediata che da trent’anni, come raccontano i residenti, deve subire l’invasione dei migranti clandestini che arrivano sui barconi da Libia, Tunisia, Egitto. A ottobre ne sono approdati a migliaia, come previsto anche dai servizi di Intelligence che già da settembre avevano pronosticato la partenza di almeno 11mila immigrati. Il record di sbarchi si è registrato tra il 28 e il 29 ottobre, con l’arrivo di 19 imbarcazioni con a bordo un totale di 851 persone, recuperate alla deriva da Guardia costiera e Guardia di Finanza. Un vero e proprio esodo di clandestini provenienti da Bangladesh, Eritrea, Etiopia, Egitto, Libia, Sudan, Pakistan, Palestina, Tunisia. Una situazione che sta mettendo alla prova gli isolani. Il sindaco Filippo Mannino e il vicesindaco Attilio Lucia, che da tempo chiedono interventi al governo utili a bloccare l’immigrazione incontrollata, a più riprese hanno parlato di “sacrificio insostenibile”. L’esecutivo ha stanziato 45 milioni di euro da destinare all’isola per lavori di ammodernamento delle strade, fognature e quant’altro, ma sono un contentino se paragonati a ciò che i residenti devono sopportare. Peraltro, gli hotel durante l’estate sono stati riempiti dai numerosi rappresentanti delle Forze dell’ordine dirottati sull’isola da altri servizi. Agenti tolti alle squadre mobili, alla scientifica, ai reparti celeri per andarsi a occupare di identificazione dei migranti e accoglienza. Molti di loro, carabinieri, poliziotti, finanzieri, ce lo hanno confessato senza peli sulla lingua: «Non ne possiamo più. Rischiamo ogni giorno aggressioni e malattie perché molta di questa gente arriva con problemi di salute. Ci sono stati casi di tubercolosi e scabbia. Ci tolgono ad altri compiti e questo mette a rischio la sicurezza nazionale e della gente. Sembra che esista solo l’immigrazione». L’esasperazione a Lampedusa è a livelli mai visti. Ormai, si attende solo il maltempo in modo di poter avere un po’ di respiro dagli sbarchi.

 

 

 

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