n°38 – 23/9/23 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Sen. Francesca La Marca *: La Senatrice La Marca deposita un’interrogazione sul malfunzionamento dei portali “Fast.it” e “Pren@tami”.
02 – Con il governo Meloni sempre più decreti e meno leggi ordinarie. Il governo continua a fare massiccio uso dei decreti legge, anche al di fuori delle situazioni urgenti o emergenziali. Questo comporta problemi anche per l’attività del parlamento
03 – On. Nicola Carè* ( Pd): CAVO DRAGONE orgoglio per il paese.
04 – Andrea Capocci *: Pubblica o muori, sperando che nessuno controlli – INCHIESTA. Ricerche facili, come il rettore di Stanford. Che si è dimesso – Pubblica o muori, sperando che nessuno controlli
05 – Andrea Fabozzi*: Cinque giorni dopo aver giurato da ministro della Salute, Orazio Schillaci ha scelto l’Università romana di Tor Vergata per il suo primo intervento pubblico.
06 – Cos’è il Copasir, comitato parlamentare per la sicurezza della repubblica. È un organo bicamerale il cui compito è quello di verificare che le attività dell’apparato di intelligence si svolgano nel pieno rispetto della costituzione e delle leggi, oltre che nell’esclusivo interesse nazionale. (*)
07 – Massimiliano Cassano *: Non siamo sulla buona strada per rispettare l’accordo di Parigi sul clima . Il primo bilancio delle azioni fissate dagli impegni del 2015 mostra che siamo ancora lontani dagli obiettivi prefissati.

 

01 – Sen. Francesca La Marca *: LA SENATRICE LA MARCA DEPOSITA UN’INTERROGAZIONE SUL MALFUNZIONAMENTO DEI PORTALI “Fast.it” e “Pren@tami”.
Chiedere al Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale se è a conoscenza del malfunzionamento dei portali “Fast.it” e “Prenot@mi” e dei disagi che tale malfunzionamento comporta ai cittadini italiani residenti all’estero. Questo è il fulcro centrale dell’interrogazione parlamentare, depositata quest’oggi dalla senatrice La Marca.
« I servizi telematici che “Fast.it” mette a disposizione degli utenti sono innumerevoli fra cui quello di trovare il proprio Consolato di competenza oppure l’intera rete consolare. Inoltre, offre servizi di assistenza ai connazionali in difficoltà e informazioni sugli organismi rappresentativi degli italiani all’estero. A questo servizio ne va aggiunto un altro di fondamentale importanza per gli italiani residenti all’estero, ovvero il servizio “Prenot@mi”, che ha lo scopo di prenotare appuntamenti per i servizi consolari come rilascio di passaporti, carte d’identità, atti notarili, visti e cittadinanza. Ad entrambi però le critiche non sono mancate. »
« Nelle ultime settimane mi sono giunte numerose lamentele relative al malfunzionamento del portale “Fast.it” e del servizio “Prenot@mi”. Spesso, infatti, le pagine di accesso dei portali non rispondono o risultano sovraccariche di richieste, impedendo così addirittura il login agli utenti che non possono usufruire di conseguenza dei servizi disponibili oppure comunicare la loro difficoltà al Consolato di riferimento. » ha dichiarato la senatrice La Marca.
L’interrogazione parlamentare segue numerosi segnali di allarme provenienti da cittadini e utenti dei servizi erogati da questi portali digitali, che negli ultimi mesi hanno sperimentato notevoli difficoltà di accesso, inefficienze e interruzioni di servizio.
« Il disagio è grave e comporta un cortocircuito nel meccanismo che alimenta il Ministero. Infatti – ha continuato la La Marca – molti italiani residenti all’estero si sentono abbandonati nella richiesta di attuazione anche dei più basilari diritti. Questo comporta un allontanamento dei cittadini dalle istituzioni italiani operanti sul territorio. »
La senatrice La Marca, forte del suo impegno a favore della trasparenza, della digitalizzazione dei servizi pubblici e della tutela dei diritti dei cittadini, ha deciso di agire con tempestività al fine di chiarire la natura e l’entità dei problemi riscontrati, nonché di individuare le misure necessarie per risolverli.
« Mi aspetto sicuramente una risposta soddisfacente e una soluzione di rapida esecuzione, perché le problematiche che si riscontrano sono gravi e vanno a ledere alcuni dei diritti fondamentali dei cittadini residenti all’estero. »
*(Sen. Francesca La Marca – PD, Ripartizione Nord e Centro America/Electoral College – North and Central America)

 

02 – CON IL GOVERNO MELONI SEMPRE PIÙ DECRETI E MENO LEGGI ORDINARIE. IL GOVERNO CONTINUA A FARE MASSICCIO USO DEI DECRETI LEGGE, ANCHE AL DI FUORI DELLE SITUAZIONI URGENTI O EMERGENZIALI. QUESTO COMPORTA PROBLEMI ANCHE PER L’ATTIVITÀ DEL PARLAMENTO.(*)

Il governo Meloni ha deliberato 39 decreti legge in 11 mesi. Di cui 3 solamente nel corso dell’ultimo consiglio dei ministri.
L’attuale esecutivo è primo per numero medio di decreti legge pubblicati al mese (3,6). Seguono i governi Draghi (3,2) e Conte II (3,18).
Il 55,8% delle leggi approvate durante l’attuale legislatura sono conversioni di decreti. È il dato più alto degli ultimi anni.
Dei 39 decreti emanati, 11 sono omnibus. Cioè affrontano contemporaneamente temi diversi, anche molto distanti tra loro.
Il parlamento non è riuscito a convertire in tempo 4 decreti legge del governo Meloni. Ma ne ha fatti salvi gli effetti con leggi successive.
In un recente consiglio dei ministri il governo Meloni ha approvato ben 3 distinti decreti legge (Dl) in una sola seduta. Peraltro uno di questi è stato successivamente modificato per aggiungere nuove misure di contrasto all’immigrazione. Questi passaggi riportano in auge il tema dell’eccessivo uso di questo strumento rispetto alle leggi ordinarie, divenute nel tempo sempre più marginali, almeno in termini quantitativi.
Una dinamica in corso da molto tempo ma che con l’esecutivo attualmente in carica sta raggiungendo livelli particolarmente significativi. Se da un lato le emergenze da affrontare non sono mancate negli ultimi mesi, dall’altro occorre sottolineare che in alcune circostanze il ricorso al decreto poteva essere evitato. Anche per favorire un maggiore coinvolgimento delle camere e un dibattito più ampio.
I decreti legge nascevano per risolvere situazioni straordinarie e urgenti, ma sempre più spesso sono utilizzati per implementare l’agenda di governo e bypassare il dibattito parlamentare. Vai a “Che cosa sono i decreti legge”
La proliferazione eccessiva di decreti legge produce anche degli effetti collaterali. Dovendo essere convertiti in legge entro 60 giorni dalla loro pubblicazione infatti, questi atti acquisiscono normalmente la priorità nella definizione dei lavori del parlamento. Che quindi avrà pochissimo tempo per occuparsi di altro.

Inoltre la pubblicazione di più Dl in un periodo di tempo limitato può comunque comportare il rischio che le camere non riescano a discuterli e convertirli in tempo. Cosa che con il governo Meloni è già avvenuta 4 volte in meno di un anno.

I numeri del governo Meloni e il confronto con i suoi predecessori
Facendo un confronto in valori assoluti, possiamo osservare che l’attuale esecutivo presenta numeri ancora relativamente ridotti rispetto a buona parte dei suoi predecessori. In circa 11 mesi infatti il governo Meloni ha deliberato 39 decreti legge collocandosi al sesto posto tra gli esecutivi delle ultime 4 legislature. Ai primi posti della graduatoria troviamo invece i governi Berlusconi IV (80), Draghi (64) e Renzi (56). È significativo comunque osservare che il governo Meloni ha già sopravanzato il primo esecutivo guidato da Giuseppe Conte (26) e quello di Paolo Gentiloni (20), nonostante questi ultimi fossero rimasti in carica per più tempo (rispettivamente 15 e 17 mesi).

IL GOVERNO MELONI È PRIMO PER NUMERO MEDIO DI DL PUBBLICATI AL MESE.
Ovviamente questi dati sono influenzati dal periodo più o meno lungo in cui i vari governi sono rimasti alla guida del paese. Per questo un buon modo per fare un confronto è quello di valutare il dato medio di pubblicazioni mensili. Da questo punto di vista il governo Meloni si trova al primo posto con 3,55 Dl pubblicati in media ogni mese. Seguono i governi Draghi (3,2), Conte II (3,18) e Letta (2,78).

Come si può notare quindi, dal 2008 a oggi, solo 3 esecutivi su 9 hanno pubblicato in media più di 3 decreti legge al mese. Il secondo esecutivo Conte e quello guidato da Mario Draghi però hanno dovuto fronteggiare le fasi più concitate della pandemia. Cosa che invece ha riguardato l’attuale governo in misura estremamente limitata.

Per il governo Meloni oltre 3,5 decreti legge pubblicati al mese
Il numero totale di decreti legge pubblicati e la media di quanti ne sono stati emanati al mese dagli esecutivi delle ultime 4 legislature (2008-2023)
Il governo Meloni è entrato ufficialmente in carica il 22 ottobre del 2022, per questo motivo è stato arrotondato a 11 mesi il periodo di attività dell’attuale esecutivo.

Come rovescio della medaglia, il massiccio ricorso ai Dl ha comportato un progressivo arretramento delle leggi ordinarie il cui peso in termini numerici è divenuto sempre meno rilevante. Nel corso dell’attuale legislatura, le leggi approvate definitivamente sono 52 e oltre la metà di queste norme è costituita da conversioni di decreti. Parliamo del 55,8%. Si tratta del dato percentuale più elevato se si confrontano i valori dei governi delle ultime 4 legislature. Al secondo posto troviamo infatti il governo Letta (52,4%) e al terzo il Conte II (34,7%).

Nella XIX legislatura il 56% delle leggi è costituito da conversioni
La tipologia di leggi approvate dai governi delle ultime legislature (2008-2023)
L’incidenza dei decreti legge tiene conto esclusivamente di quelli che sono già stati convertiti in legge dal parlamento. Nella categoria “Altro” rientrano le ratifiche di trattati internazionali, le leggi costituzionali e quelle legate al bilancio dello stato. Le percentuali sono calcolate sulla base del governo in carica al momento dell’approvazione definitiva dei disegni di legge.
In questo contesto risulta evidente come il ruolo delle leggi ordinarie (al netto delle ratifiche di trattati internazionali) sia particolarmente ridimensionato. Parliamo, per la XIX legislatura, di appena 10 leggi approvate, pari a circa il 19,2% del totale. I già citati esecutivi Letta (16,7%) e Conte II (9,18%) sono gli unici che presentano una percentuale più bassa.

Alcuni aspetti critici
Un primo elemento critico riguarda il fatto che i decreti legge emanati affrontano congiuntamente temi anche molto diversi tra loro. Si tratta dei cosiddetti “atti omnibus”. Questa pratica, molto comune anche prima dell’avvento del governo Meloni, è impropria quando parliamo dei decreti legge. Ciò perché il contenuto di questi ultimi, in base a quanto previsto dall’articolo 12 della legge 400/1988 e ribadito dalla sentenza 22/2012 della corte costituzionale, dovrebbe essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo. Ciò non sempre è avvenuto anche per quanto riguarda i Dl del governo Meloni.
Per fare alcuni esempi, secondo il comitato per la legislazione della camera il decreto legge 105/2023 risulta essere riconducibile a ben 10 distinte finalità. Tra cui interventi volti a velocizzare i processi, contrastare gli incendi boschivi, per il recupero dalle tossicodipendenze, la riorganizzazione del ministero della cultura e la revisione di alcune norme in tema di Covid-19. Un caso simile riguarda il decreto legge 75/2023 che introduce con un solo provvedimento norme in ambito agricolo, sportivo, del mondo del lavoro oltre che per quanto riguarda l’organizzazione del giubileo del 2025.

11 SU 39 I DECRETI LEGGE OMNIBUS EMANATI DAL GOVERNO MELONI.

Un secondo elemento che vale la pena evidenziare riguarda il fatto che non sempre i decreti legge vengono utilizzati per affrontare situazioni di emergenza. Spesso i governi infatti inseriscono in questi atti misure con cui puntano a dare attuazione al proprio programma, indipendentemente dalla loro effettiva urgenza.
Solo per fare qualche esempio, possiamo citare il Dl 35/2023 dedicato al ponte sullo stretto di Messina e il 48/2023, il famoso “decreto lavoro” pubblicato simbolicamente nel giorno della festa del primo maggio.

IL TEMA DEI DECRETI LEGGE NON CONVERTITI
Un’ultima criticità legata all’uso eccessivo dei decreti legge riguarda il fatto che, dovendone affrontare molti allo stesso tempo, il parlamento non sempre riesce a convertirli tutti entro i 60 giorni previsti. Questo comporta non pochi problemi. La mancata conversione in legge di un decreto infatti determina l’annullamento degli effetti giuridici da esso prodotti fin dal momento della sua entrata in vigore.

4 I DECRETI LEGGE EMANATI DAL GOVERNO MELONI E NON CONVERTITI IN TEMPO DAL PARLAMENTO.

Per ovviare a questo problema, spesso il parlamento negli ultimi anni ha adottato la prassi di abrogare i Dl prima che questi decadano ma di farne salvi gli effetti da questo determinati. Ciò avviene praticamente con l’introduzione di uno specifico articolo all’interno della legge di conversione di un altro decreto. Tutti i Dl del governo Meloni non convertiti in tempo hanno avuto questo trattamento. Nello specifico:
il Dl 179/2022 che conteneva misure per limitare l’aumento del costo del carburante ma anche per finanziare la ricostruzione dopo l’alluvione che ha colpito le Marche è stato abrogato e recuperato dalla legge 6/2023 che però riguardava la conversione del decreto aiuti quater;
Il Dl 4/2023 che conteneva norme in ambito sanitario è stato recuperato dalla legge 14/2023 che riguardava il decreto milleproroghe del 2022;
Il cosiddetto decreto rigassificatori (che conteneva misure anche in altri ambiti) è stato abrogato dalla legge 95/2023 relativa alla conversione del decreto 57/2023 che conteneva norme in materia di enti locali e attuazione del piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr);
il decreto per la ricostruzione dell’Emilia Romagna, i cui effetti sono stati fatti salvi dalla legge 100/2023 che prevedeva la conversione del Dl 61/2023, sempre relativo all’evento alluvionale ma contenente solo le misure più urgenti e immediate.
Si tratta di una pratica non del tutto illegittima. Infatti l’articolo 77 della costituzione prevede che le camere possano regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti. Tuttavia questa prassi evidenzia certamente una ulteriore criticità.
*(fonte: Openpolis)

 

03 – On. Nicola Carè* ( Pd): CAVO DRAGONE ORGOGLIO PER IL PAESE.
Roma, 18 sett. -“Soddisfazione e gioia per la nomina dell’Ammiraglio Cavo Dragone a capo del Comitato Militare della NATO. È un orgoglio per la nostra nazionale, avere un Italiano a capo della NATO. Meritato riconoscimento per le sue capacità. All’Ammiraglio Cavo Dragone i miei complimenti e gli auguri di buon lavoro”. Così Nicola Carè, deputato e componente della commissione difesa.
*(On./Hon. Nicola Carè – Camera dei Deputati – Chamber of Deputies . IV Commissione Difesa – Defence Committee – Circoscrizione Estero, Ripartizione Africa, Asia, Oceania e Antartide)

 

04 – Andrea Capocci *: PUBBLICA O MUORI, SPERANDO CHE NESSUNO CONTROLLI – INCHIESTA. RICERCHE FACILI, COME IL RETTORE DI STANFORD. CHE SI È DIMESSO – PUBBLICA O MUORI, SPERANDO CHE NESSUNO CONTROLLI
Ci sono diverse ombre sulla produzione scientifica del ministro della salute Orazio Schillaci, l’ex-rettore dell’università di Tor Vergata chiamato da Giorgia Meloni a garantire la competenza alla compagine di governo.
Sono almeno otto le pubblicazioni scientifiche firmate dal ministro tra il 2018 e il 2022 nel campo dell’oncologia caratterizzate da anomalie evidenti. Si tratta di immagini di cellule esaminate al microscopio elettronico e «riciclate» in diverse pubblicazioni scientifiche internazionali per illustrare esperimenti diversi da quelli in cui erano state ottenute in origine.

Immagini truccate e ricerche riciclate. A firmarle è Schillaci
La duplicazione delle immagini per illustrare esperimenti mai realizzati è una delle manipolazioni più frequenti nei casi dimostrati di frode scientifica. Ma, è bene sottolinearlo, al momento è impossibile stabilire le eventuali responsabilità dirette del ministro in queste pubblicazioni sospette.
Certamente, nel suo ruolo di supervisore, toccava a lui vigilare sulla correttezza degli studi realizzati – anche con la sua firma – dal suo gruppo di ricerca. Dunque farebbe bene a chiarire i contorni della vicenda, ammesso che la guida del ministero gliene lasci il tempo.
Per la verità, Schillaci ha dimostrato un notevole talento per il multi-tasking. Pur svolgendo incarichi gravosi come quello di preside della facoltà di medicina, di rettore, di presidente della fondazione Policlinico di Tor Vergata e adesso di ministro, Schillaci non ha mai smesso di guidare il suo laboratorio universitario.

Tutte le anomalie delle ricerche di Schillaci
La lista delle sue pubblicazioni negli ultimi anni è eloquente: secondo la banca dati Google Scholar risulta autore, insieme ai suoi collaboratori, di ben 44 pubblicazioni scientifiche nel 2019, l’anno in cui è diventato Rettore. Ha firmato altre 40 ricerche nel 2020, 30 nel 2021, 40 nel 2022 e una trentina (finora) nel 2023, interamente trascorso al governo: una ricerca ogni nove giorni, ferie e Consigli dei ministri inclusi, per un totale di oltre quattrocento pubblicazioni scientifiche nel suo invidiabile curriculum.
Tuttavia, dirigere un laboratorio universitario mentre si è indaffarati in tutt’altro rende difficile vigilare su errori o manipolazioni delle ricerche dei propri collaboratori. Il ministro però non può chiamarsi fuori nei casi contestati: in cinque casi su otto dichiara di essere stato il «supervisore», l’«ideatore», il «convalidatore» delle ricerche e di aver partecipato alla stesura delle pubblicazioni.

In quattro studi è anche il «corresponding author», generalmente il più esperto incaricato di spiegare i contenuti della ricerca ai colleghi o ai media. Solo in due pubblicazioni non viene specificato il contributo individuale degli autori alla ricerca.
Non si tratta di studi di poco conto: il Ministero dell’università e della ricerca ha appena dichiarato «di interesse nazionale» – con relativo finanziamento – un progetto di ricerca relativo agli stessi argomenti degli studi «sospetti» coordinato da Manuel Scimeca, uno dei collaboratori e co-autori delle ricerche di Schillaci.
Secondo le regole della comunità scientifica, indipendentemente dal ruolo, l’autore di una ricerca se ne assume integralmente la responsabilità, specie se si tratta del più alto in grado. È un principio stabilito ufficialmente dal Comitato internazionale degli editori di riviste mediche, che riunisce le principali testate accademiche internazionali del settore: ogni autore di uno studio è tenuto a garantire che «eventuali questioni relative all’accuratezza e alla regolarità di ogni parte della ricerca siano state adeguatamente affrontate e risolte».
La norma mira a responsabilizzare chi firma una ricerca scientifica, magari senza avervi contribuito come capita spesso nei baronati universitari. Secondo una pratica deleteria quanto diffusa, infatti, i docenti più potenti si arrogano il diritto di firmare ogni studio prodotto dal proprio gruppo di ricerca, prendendosene i meriti anche senza avervi contribuito.
Non è l’unico aspetto tossico del clima che si respira in molti laboratori universitari. Anche il dogma publish or perish, cioè «pubblica o muori», spinge i giovani ricercatori in condizioni contrattuali precarie a cercare scorciatoie pur di allungare il proprio curriculum e procurarsi nuovi finanziamenti.

Elisabeth Bik: «Diversi articoli con lo stesso tipo di errore: è un’anomalia»
Sono i motivi per cui chi guida un gruppo di ricerca importante e numeroso deve farsi carico di errori e frodi commessi dai collaboratori. Gli esempi non mancano e riguardano anche premi Nobel e mostri sacri specialisti del doppio lavoro: poche settimane fa lo stimatissimo neuroscienziato e rettore della Stanford University Mark Tessier-Lavigne ha dovuto rassegnare le dimissioni a causa di quattro ricerche, anche in questo caso immagini, truccate realizzate dal suo team – probabilmente a sua insaputa – presso l’azienda privata Genentech, di cui Tessier-Lavigne era sia direttore delle ricerche che vicepresidente. Commentando le dimissioni, il direttore della rivista Science Holden Thorp ha denunciato la tendenza di molti scienziati a mantenere posizioni di responsabilità sia in ambito accademico che in campo amministrativo, politico o imprenditoriale.
LA REDAZIONE CONSIGLIA:
Stanford, si dimette il rettore dopo le accuse di frode degli studenti
L’accumulo delle cariche secondo Thorp spiegherebbe molte degenerazioni odierne della comunità scientifica. «A nessuno piace veder smettere di crescere la propria produttività scientifica – ha scritto – e per uno scienziato è difficile rinunciare alla ricerca che si ama e in cui ci si identifica. Ma un incarico amministrativo di alto profilo è già abbastanza impegnativo di per sé».
Ogni ruolo di vertice richiede dunque una scelta netta tra la scienza e il potere. Forse è giunto il momento che anche Schillaci faccia la sua
*(Fonte: Il Manifesto. Andrea Capocci, è attualmente assegnista di ricerca al dipartimento di Fisica dell’Università la Sapienza di Roma. Collabora con il quotidiano “Il Manifesto” e con la rivista “Le Scienze”. È autore di “Networkology”)

 

05 – Andrea Fabozzi*: CINQUE GIORNI DOPO AVER GIURATO DA MINISTRO DELLA SALUTE, ORAZIO SCHILLACI HA SCELTO L’UNIVERSITÀ ROMANA DI TOR VERGATA PER IL SUO PRIMO INTERVENTO PUBBLICO. SCELTA COERENTE: TRA QUELLE MURA IL MINISTRO RADIOLOGO HA COSTRUITO LA SUA FORTUNA, DA PROFESSORE ASSOCIATO A RETTORE DELL’ATENEO. ERA TRA AMICI DUNQUE QUANDO HA PRESO UFFICIALMENTE IL SUO PRIMO IMPEGNO POLITICO. «GIOVANI E RICERCA – HA SCANDITO – SONO LE DUE COMPONENTI ALLE QUALI DARÒ GRANDE ATTENZIONE». ERA L’OTTOBRE 2022.

A maggio il ministro aveva pubblicato una delle sue ultime fatiche scientifiche senza i galloni ministeriali (non che dopo la chiamata di Meloni abbia smesso di firmare ricerche a ritmo sostenuto). Si tratta proprio di una delle otto ricerche che, come abbiamo scoperto e documentato ieri, utilizza immagini al microscopio elettronico duplicate, riciclate da altri studi o addirittura ritoccate. Nel caso del 2022, due gruppi di cellule tumorali sono stati pubblicati in due diverse colorazioni così da suggerire differenti reazioni a un farmaco. Ma era la stessa immagine.
C’è da sperare che non sia questa la ricerca, dopata, alla quale il ministro vuole dare «grande attenzione». Molto attento certamente non lo è stato quando ha firmato tutti i lavori scientifici che, come ha scoperto il nostro Andrea Capocci, presentano numerose «anomalie».
La parola, «anomalie», è di Elisabeth Bik, la numero uno tra i cacciatori di frodi scientifiche: quando tanti errori si ripetono è difficile pensare a una casualità, ci ha spiegato, e si deve propendere per la volontà di ingannare chi valuta il lavoro scientifico.
Schillaci, che di queste ricerche «anomale» è stato redattore, revisore, responsabile dei dati e – in quattro casi su otto – «corresponding author», cioè l’autore di riferimento che può parlare a nome del team di ricerca, una volta esploso il caso ha spiegato che lui no, non c’entra. Scaricando la responsabilità su «chi ha fornito quelle immagini». Ma quelle immagini le ha pubblicate, e firmate, anche lui.
La storia è stata ripresa un po’ dappertutto e dopo aver dato al manifesto questa (del tutto insufficiente) spiegazione, il ministro è stato costretto ad aggiungere ancora altre parole. Ancora sbagliate: ha detto infatti che le immagini «non sono del mio laboratorio ma di altri colleghi».

OVVIAMENTE NON È QUESTO IL PUNTO.

Nelle ricerche collaborano scienziati di diverse branche, non solo di diversi laboratori ma anche di diverse università. Però la responsabilità della pubblicazione è comune ed è soprattutto della firma più autorevole. Che in tutti casi era Orazio Schillaci. Del resto si pubblica per questo: per vedersene riconosciuto il merito. Molte carriere accademiche e anche molte riviste di discutibile serietà si basano su questa ansia da pubblicazione.

TROPPO FACILE VOLTARSI DALL’ALTRA PARTE QUANDO VIENE FUORI L’INGANNO.

Il tentativo di scaricare su altri la colpa è stato così goffo che alla fine il ministro ha dovuto precisare che i suoi colleghi «non hanno fatto nulla di male» (che sia stata dunque tutta opera dell’intelligenza artificiale?). Una precisazione che in ogni caso non fa onore a chi ha promesso, al suo esordio, di voler «fare attenzione ai giovani». I giovani ricercatori sono le vittime del circuito baronale, quello per il quale il loro lavoro finisce a maggior gloria delle carriere di altri.

Dunque Schillaci stia sereno, non perda tempo nella caccia che si è scatenata al ministero a una qualche manina dietro il nostro che è solo giornalismo (peraltro abbiamo raccontato per filo e per segno come abbiamo fatto a scoprirlo).
Pensi invece, adesso che dovrebbe avere la testa per altre cose e non per continuare a produrre articoli scientifici, a come interrompere questo circuito bulimico delle vere e false riviste e delle ricerche in subappalto.
Quanto alle dimissioni è una questione di stile e di coscienza (o incoscienza). Nel resto del mondo sarebbero, e sono state, automatiche anche in casi assai meno gravi. Ma questo è il governo del Merito e non ci aspettiamo granché.
*( Fonte: Il Manifesto. Andrea Fabozzi, è il nuovo direttore del manifesto. L’assemblea dei soci della cooperativa, che riunisce sia il corpo giornalistico che i poligrafici, ha così eletto al primo scrutinio il successore di Norma Rangeri, che in un editoriale del 25 giugno aveva salutato i lettor

 

06 – COS’È IL COPASIR, COMITATO PARLAMENTARE PER LA SICUREZZA DELLA REPUBBLICA
È UN ORGANO BICAMERALE IL CUI COMPITO È QUELLO DI VERIFICARE CHE LE ATTIVITÀ DELL’APPARATO DI INTELLIGENCE SI SVOLGANO NEL PIENO RISPETTO DELLA COSTITUZIONE E DELLE LEGGI, OLTRE CHE NELL’ESCLUSIVO INTERESSE NAZIONALE.
Definizione
Il comitato parlamentare per la sicurezza della repubblica (Copasir) è un organo bicamerale a cui è attribuito il compito di verificare che le attività del nostro apparato di intelligence si svolgano nel pieno rispetto della costituzione e delle leggi, oltre che nell’esclusivo interesse del paese.
Per poter assolvere a questo compito, la legge attribuisce al Copasir ampi poteri di controllo e funzioni consultive. L’organo svolge frequenti audizioni con il presidente del consiglio dei ministri, l’autorità delegata (se presente), i ministri facenti parte del comitato interministeriale per la difesa della repubblica (Cisr) oltre che dei vertici di tutte le agenzie che compongono il sistema di informazione per la sicurezza della repubblica. Il Copasir può inoltre richiedere al presidente del consiglio l’apertura di inchieste interne e può acquisire documenti sia dal sistema di intelligence che dall’autorità giudiziaria.
Il Copasir gode di ampi e incisivi poteri di controllo e di funzioni consultive.
Il comitato inoltre è chiamato ad esprimere un parere (obbligatorio anche se non vincolante) sui progetti di riforma che riguardano il settore dei servizi di intelligence. Inoltre deve essere tempestivamente informato sulle nomine – che competono al presidente del consiglio dei ministri – dei direttori e vice direttori generali dell’agenzia informazioni e sicurezza esterna (Aise), dell’agenzia informazioni e sicurezza interna (Aisi) e del dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis).

IL SISTEMA DI INTELLIGENCE.
L’attuale composizione del comitato è definita dall’articolo 30 della legge 124/2007 che prevede la presenza di 5 deputati e 5 senatori. La norma richiede inoltre la rappresentanza paritaria degli esponenti della maggioranza e dell’opposizione “tenendo conto della specificità dei compiti del comitato”. L’organo è guidato da un ufficio di presidenza composto da un presidente, un vice e un segretario, tutti eletti dai membri del comitato a scrutinio segreto. In base alle norme vigenti la presidenza dell’organo spetta all’opposizione.
Dati
Per la delicatezza dei temi affrontati, generalmente le sedute del Copasir sono secretate a meno che lo stesso comitato non decida diversamente. Tuttavia è possibile farsi un’idea sull’attività di quest’organo dall’elenco dei documenti approvati e dai temi stabiliti nell’ordine del giorno delle sedute.
Tra le 12 relazioni adottate dal comitato nel corso della scorsa legislatura ad esempio se ne trova una relativa al Covid-19, una sulla guerra in Ucraina e una sulla sicurezza informatica. D’altronde in quella fase era in corso l’istituzione della nuova agenzia per la cybersicurezza nazionale.
Se si osservano invece le audizioni emerge come le figure più ascoltate dall’organo siano i vertici delle agenzie di intelligence (197 audizioni tra la XVI e la XVIII legislatura). Al secondo posto altri funzionari dello stato con responsabilità in ambito di siucurezza (97 audizioni). Si tratta tra gli altri del capo della polizia, del capo dell’amministrazione penitenziaria, dei capi di stato maggiore o di procuratori della repubblica.

LE AUDIZIONI DEL COPASIR NELLE ULTIME TRE LEGISLATURE
Le figure ascoltate in audizione dal comitato parlamentare per la sicurezza della repubblica nel corso della XVI, XVII e XVIII legislatura
Nelle audizioni del Copasir sono intervenuti non solo i vertici dello stato ma anche quelli di grandi aziende.
Ma sono molte anche le audizioni in cui sono ascoltati i vertici aziendali di società sia completamente private che a partecipazione statale la cui attività coinvolge in qualche misura la sicurezza dello stato (79 audizioni). Sono molti anche i membri del governo auditi dal Copasir (124), che siano ministri, sottosegretari (72) o il presidente del consiglio, direttamente o per tramite dell’autorità delegata (52).
Nel corso delle ultime 3 legislature arrivate a conclusione, le sedute dell’organo sono state complessivamente 788. È interessante notare che la XVII legislatura (2013-2018) è quella in cui l’attività del comitato è stata più intensa, almeno in termini quantitativi. In quella fase infatti le sedute sono state circa 370, contro le circa 185 del periodo precedente. Anche nella XVIII legislatura le sedute sono state meno (234) ma con una tendenza in crescita.
Le sedute del Copasir tra 2008 e 2022
Le sedute del comitato parlamentare per la sicurezza della repubblica nel corso della XVI, XVII e XVIII legislatura
Un altro elemento interessante da analizzare è il fatto che negli anni in cui il parlamento viene rinnovato generalmente l’attività dell’organo tende a diminuire. Nel 2008, 2013 e 2018 infatti le sedute sono sempre state meno di 30. Un dato che tuttavia non è stato confermato nel 2022. Forse perché in maniera del tutto inusuale le elezioni parlamentari 2022 si sono svolte a fine settembre invece che in primavera, dando al Copasir la possibilità di sfruttare a pieno il primo semestre dell’anno.

Analisi
La citata legge del 2007 ha concentrato nelle mani del presidente del consiglio la gestione dell’apparato di intelligence italiano. Palazzo Chigi infatti non solo nomina i vertici del dipartimento di informazioni per la sicurezza della repubblica e delle due agenzie collegate (Aisi e Aise) ma ne indirizza anche l’attività.
“1. Al Presidente del Consiglio dei ministri sono attribuiti, in via esclusiva:
a) l’alta direzione e la responsabilità generale della politica dell’informazione per la sicurezza, nell’interesse e per la difesa della Repubblica e delle istituzioni democratiche poste dalla Costituzione a suo fondamento; […]
e) la nomina e la revoca dei direttori e dei vice direttori dei servizi di informazione per la sicurezza; “
– L. 124/2007

Data la delicatezza della materia però la prassi vuole che il presidente del consiglio ceda questo incarico a un sottosegretario che se ne occupi a tempo pieno. Si parla in questi casi di autorità delegata. Solo due presidenti del consiglio dal 2007 ad oggi hanno deciso di non avvalersi di questa figura: Paolo Gentiloni e Giuseppe Conte (salvo poi cedere alle pressioni e nominare, nell’ultima parte del mandato, l’ambasciatore Pietro Benassi).
I presidenti del consiglio successivi sono invece tornati a nominare un’autorità delegata. Ma mentre Mario Draghi ha affidato l’incarico a un professionista del settore (l’ex capo della polizia Franco Gabrielli), Giorgia Meloni ha invece nominato Alfredo Mantovano, ovvero il sottosegretario alla presidenza del consiglio con funzione di segretario del consiglio medesimo. Si tratta della prima volta che un presidente del consiglio fa una scelta di questo tipo, concentrando ancora più potere nelle mani di una figura già molto importante nell’esecutivo. Ma d’altronde, prima che la maggioranza la modificasse, era la stessa legge 124 del 2007 a vietare che all’autorità delegata venisse conferito qualsiasi altro incarico.

Il Copasir deve compensare gli ampi poteri del presidente del consiglio dei ministri in tema di intelligence.
Il ruolo preponderante della presidenza del consiglio nella gestione dei servizi di intelligence ha spinto il legislatore a introdurre un organismo di controllo parlamentare con ampi poteri e mezzi per svolgere una concreta opera di sorveglianza e controllo. Inoltre è stato anche previsto che le forze di maggioranza e opposizione debbano essere rappresentate in misura paritaria e che la presidenza spetti a un esponente dei gruppi che non sostengono l’esecutivo. Questa previsione, tornata pienamente operativa nel corso dell’attuale legislatura, aveva incontrato qualche difficoltà negli scorsi anni.
Infatti con la nascita del governo Draghi il presidente dell’organo Raffaele Volpi, della Lega, non poteva più essere considerato un esponente di opposizione. Stando alla lettera della norma dunque Fratelli d’Italia, che rappresentava l’unico gruppo parlamentare di opposizione, avrebbe dovuto ottenere sia la presidenza dell’organo che la metà dei suoi componenti, da condividere magari con qualche parlamentare del gruppo misto. Un cortocircuito che, nelle particolari condizioni di un governo di unità nazionale, potrebbero dare una rappresentanza eccessiva a forze politiche minoritarie in parlamento. In quell’occasione in effetti si optò per una via di mezzo. La presidenza infatti è stata assegnata ad Adolfo Urso, di Fratelli d’Italia, ma la composizione dell’organo è rimasta invariata. Comitato parlamentare per la sicurezza della repubblica.
(Fonte: Open polis)

 

07 – Massimiliano Cassano *: NON SIAMO SULLA BUONA STRADA PER RISPETTARE L’ACCORDO DI PARIGI SUL CLIMA. IL PRIMO BILANCIO DELLE AZIONI FISSATE DAGLI IMPEGNI DEL 2015 MOSTRA CHE SIAMO ANCORA LONTANI DAGLI OBIETTIVI PREFISSATI

Quando nel 2015 i 195 Paesi riunitisi per la Cop21, la conferenza del clima delle Nazioni Unite, in Francia sottoscrissero l’Accordo di Parigi – tutt’ora il principale trattato internazionale per la riduzione di emissioni di gas serra – fu stabilita anche la necessità di fissare degli step intermedi nei quali fare il punto della situazione e correggere il tiro, qualora si fosse reso necessario. Quel momento è arrivato, ed è coinciso con la pubblicazione del rapporto Technical dialogue of the first global stocktake pubblicato dalla United Nations frame work convention on climate change (Unfccc), il gruppo che funge guardiano per conto dell’Onu sulle interferenze antropiche dannose per il clima globale. Secondo gli esperti “la finestra di opportunità per garantire un futuro vivibile e sostenibile per tutti si sta rapidamente chiudendo”.

Il bilancio, che si tiene ogni cinque anni, è iniziato con una fase di raccolta dati nel 2021, analizzando un’ampia gamma di input provenienti da organismi internazionali e parti interessate. Tra il 2022 e il 2023 si è svolto in tre incontri un dialogo tecnico presieduto da due co-facilitatori voluti dalla segreteria delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, Farhan Akhtar e Harald Winkler, nominati rispettivamente dai Paesi sviluppati e da quelli in via di sviluppo. Il Global Stocktake riassume 17 risultati chiave delle deliberazioni tecniche di questi colloqui sullo stato di attuazione dell’Accordo di Parigi e sui suoi obiettivi a lungo termine: il testo impegnava tutti i Paesi a limitare l’aumento della temperatura il più vicino possibile a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, ed è emerso che in tutti gli ambiti, dalla mitigazione degli impatti dei cambiamenti climatici alla gestione delle perdite e dei danni, “c’è ancora molto da fare”.

COSA C’È ANCORA DA FARE
A differenza di altri rapporti delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che hanno lo scopo di essere informativi ed evitano di fornire raccomandazioni politiche, questo bilancio è esplicitamente teso a spronare i Paesi ad agire. Simon Stiell, segretario esecutivo dell’Unfccc, ha esortato i governi a “studiare attentamente i risultati del rapporto e, in ultima analisi, a comprendere cosa significa per loro e l’azione ambiziosa che devono intraprendere in seguito”. L’opportunità di riflettere su quanto emerso si presenterà presto: tra novembre e dicembre si terrà la Cop28 di Dubai, organizzata tra lo scetticismo generale dell’aver scelto come Paese ospitante gli Emirati Arabi Uniti, che basano la propria economia sull’esportazione di petrolio.

Sultan Ahmed Al Jaber, il controverso presidente designato della conferenza sul clima ormai alle porte, ha già fatto suoi alcuni spunti contenuti nel Global Stock take, sottolineando ad esempio la necessità di ridurre le emissioni del 43% entro il 2030. Tra le sue raccomandazioni, il rapporto chiede senza mezzi termini “l’eliminazione graduale di tutti i combustibili fossili” e una “de carbonizzazione radicale di tutti i settori dell’economia”, oltre allo stop alla deforestazione entro la fine del decennio con conseguente inversione di tendenza. Secondo la valutazione, sarebbero necessarie più di 20 giga tonnellate di ulteriori riduzioni di CO2 in questo decennio – e l’azzeramento globale delle emissioni nette entro il 2050 – per raggiungere gli obiettivi fissati nel 2015.

UN APPROCCIO GLOBALIZZATO
Carbone, petrolio e gas naturale devono quindi scomparire, un concetto che viene ribadito con una nettezza linguistica non propria delle risoluzioni usuali sul clima: nelle precedenti conferenze infatti i Paesi si sono spesso battuti su ogni parola che riguardasse i combustibili fossili, spesso accordandosi su espressioni annacquate come “transizione energetica”. L’Unfccc si aspetta una produzione del 99% dell’elettricità a zero emissioni entro metà secolo: questo sarà possibile solo se ci sarà una inversione di rotta degli investimenti pubblici, ad oggi ancora destina miliardi di dollari ogni anno alle lobby del fossile, e se si affronterà la vicenda rifondando l’architettura finanziaria internazionale costruita nello scorso secolo.
All’inizio di questo mese, un rappresentante delle Nazioni Unite per il clima ha ribadito in occasione del primo vertice africano sul clima l’appello rivolto alle nazioni più ricche affinché mantengano la loro promessa di destinare 100 miliardi di dollari all’anno ai Paesi più poveri per contribuire ad affrontare il cambiamento climatico. Un approccio globalizzato rappresenta la sola via per superare la minaccia comune, ma nel 2020 sono stati concessi a queste nazioni “solo” 83 miliardi di dollari in finanziamenti per l’ambiente, sì in aumento del 4% rispetto all’anno precedente ma ancora al di sotto dell’obiettivo fissato dagli accordi presi alla Cop15 di Copenaghen del 2009.
*(Fonte: wired. Massimiliano Cassano, giornalista professionista.)

 

 

 

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