n°37 – 16/9/23 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Andrea Fabozzi*: Il «merito» e la dignità: meglio dimettersi – L’editoriale di Andrea Fabozzi sul “caso Schillaci
02 – Sen. Francesca La Marca *: Nella giornata di lunedì 11 settembre, la senatrice La Marca ha visitato il campus dell’Università “John Cabot” nel cuore di Roma.
03 – IgNobel 2023, i vincitori dei premi più pazzi della scienza tra geologi che leccano le pietre e sessualità delle acciughe
04 – LUCA ZORLON*:Perché il governo non ha ancora deciso chi mettere alla guida del fondo nazionale per startup
05 – Achille Mbembe, Le Monde, Francia*: Le ragioni dei golpe in Africa . Nel continente sono in corso trasformazioni profonde, di cui i colpi di stato sono un sintomo. Le ex potenze coloniali non hanno più voce in capitolo, scrive il filosofo Achille Mbembe
06 – Massimiliano Cassano*: Il mercato dei crediti di carbonio è in crisi – Sempre meno aziende investono in progetti anti-deforestazione per bilanciare le proprie emissioni. E cresce una montagna di titoli “spazzatura”

 

 

01 – Andrea Fabozzi*: IL «MERITO» E LA DIGNITÀ: MEGLIO DIMETTERSI – L’EDITORIALE DI ANDREA FABOZZI SUL “CASO SCHILLACI”. CINQUE GIORNI DOPO AVER GIURATO DA MINISTRO DELLA SALUTE, ORAZIO SCHILLACI HA SCELTO L’UNIVERSITÀ ROMANA DI TOR VERGATA PER IL SUO PRIMO INTERVENTO PUBBLICO.
Scelta coerente: tra quelle mura il ministro radiologo ha costruito la sua fortuna, da professore associato a rettore dell’ateneo. Era tra amici dunque quando ha preso ufficialmente il suo primo impegno politico. «Giovani e ricerca – ha scandito – sono le due componenti alle quali darò grande attenzione». Era l’ottobre 2022.
A maggio il ministro aveva pubblicato una delle sue ultime fatiche scientifiche senza i galloni ministeriali (non che dopo la chiamata di Meloni abbia smesso di firmare ricerche a ritmo sostenuto). Si tratta proprio di una delle otto ricerche che, come abbiamo scoperto e documentato ieri, utilizza immagini al microscopio elettronico duplicate, riciclate da altri studi o addirittura ritoccate. Nel caso del 2022, due gruppi di cellule tumorali sono stati pubblicati in due diverse colorazioni così da suggerire differenti reazioni a un farmaco. Ma era la stessa immagine.
C’è da sperare che non sia questa la ricerca, dopata, alla quale il ministro vuole dare «grande attenzione». Molto attento certamente non lo è stato quando ha firmato tutti i lavori scientifici che, come ha scoperto il nostro Andrea Capocci, presentano numerose «anomalie».
La parola, «anomalie», è di Elisabeth Bik, la numero uno tra i cacciatori di frodi scientifiche: quando tanti errori si ripetono è difficile pensare a una casualità, ci ha spiegato, e si deve propendere per la volontà di ingannare chi valuta il lavoro scientifico.
Schillaci, che di queste ricerche «anomale» è stato redattore, revisore, responsabile dei dati e – in quattro casi su otto – «corresponding author», cioè l’autore di riferimento che può parlare a nome del team di ricerca, una volta esploso il caso ha spiegato che lui no, non c’entra. Scaricando la responsabilità su «chi ha fornito quelle immagini». Ma quelle immagini le ha pubblicate, e firmate, anche lui.
Ieri la storia è stata ripresa un po’ dappertutto e dopo aver dato al manifesto questa (del tutto insufficiente) spiegazione, il ministro è stato costretto ad aggiungere ancora altre parole. Ancora sbagliate: ha detto infatti che le immagini «non sono del mio laboratorio ma di altri colleghi».

OVVIAMENTE NON È QUESTO IL PUNTO.
Nelle ricerche collaborano scienziati di diverse branche, non solo di diversi laboratori ma anche di diverse università. Però la responsabilità della pubblicazione è comune ed è soprattutto della firma più autorevole. Che in tutti casi era Orazio Schillaci. Del resto si pubblica per questo: per vedersene riconosciuto il merito. Molte carriere accademiche e anche molte riviste di discutibile serietà si basano su questa ansia da pubblicazione.

TROPPO FACILE VOLTARSI DALL’ALTRA PARTE QUANDO VIENE FUORI L’INGANNO.
Il tentativo di scaricare su altri la colpa è stato così goffo che alla fine il ministro ha dovuto precisare che i suoi colleghi «non hanno fatto nulla di male» (che sia stata dunque tutta opera dell’intelligenza artificiale?). Una precisazione che in ogni caso non fa onore a chi ha promesso, al suo esordio, di voler «fare attenzione ai giovani». I giovani ricercatori sono le vittime del circuito baronale, quello per il quale il loro lavoro finisce a maggior gloria delle carriere di altri.
Dunque Schillaci stia sereno, non perda tempo nella caccia che si è scatenata al ministero a una qualche manina dietro il nostro che è solo giornalismo (peraltro abbiamo raccontato per filo e per segno come abbiamo fatto a scoprirlo).
Pensi invece, adesso che dovrebbe avere la testa per altre cose e non per continuare a produrre articoli scientifici, a come interrompere questo circuito bulimico delle vere e false riviste e delle ricerche in subappalto.
Quanto alle dimissioni è una questione di stile e di coscienza (o incoscienza). Nel resto del mondo sarebbero, e sono state, automatiche anche in casi assai meno gravi. Ma questo è il governo del Merito e non ci aspettiamo granché.
Giuseppe_Vespia. Questo è giornalismo, questo è un quotidiano democratico, questo significa essere liberati dalla tirannia della pubblicità. Certo non ci si può aspettare nulla del genere dai salotti tardoborghesi televisivi attenti esclusivamente ai bei conversari funzionali alla vendita della pubblicità. Ne’ da importanti quotidiani neoborghesi orgogliosi dei “due milioni di follower “, raccattati a suon di gattini trapperstory bisticci tra vip marziani mostri marini e stranezze varie, utili alle strategie pubblicitarie. Importante il richiamo all’ “attenzione ai giovani” sbandierata dal ministro , in un periodo in cui non si fa altro che cercare di attrarli imbonirli confortarli i giovani per potergli vendere qualcosa. Se il ministro non se la sente di dargli un esempio buono, almeno eviti di darne uno cattivo : si dimetta.
*( Fonte: Il Manifesto. Adrea Fabozzi giornalista, è il nuovo direttore del manifesto. )

 

02 – Sen. Francesca La Marca *: NELLA GIORNATA DI LUNEDÌ 11 SETTEMBRE, LA SENATRICE LA MARCA HA VISITATO IL CAMPUS DELL’UNIVERSITÀ “JOHN CABOT” NEL CUORE DI ROMA.
Accolta dal presidente dell’università, il Prof. Franco Pavoncello, e dalla consigliera Jacqueline Falk Maggi, la senatrice La Marca ha avuto così modo di visitare il Campus di questa storica istituzione d’istruzione.
« La “John Cabot University” è la più grande e importante università statunitense in Italia con attualmente tre campus operativi e presto in apertura il quarto campus nel cuore di Roma. Con quasi 2.000 studenti iscritti – italiani, statunitensi e stranieri – offre una vasta gamma di corsi in discipline come letteratura, scienze politiche, storia dell’arte e, a partire dal prossimo anno, sarà lieta di introdurre un quarto nuovo programma di master in “International Affairs”. » ha dichiarato la senatrice La Marca.
Quest’università privata nel cuore di Roma offre 14 corsi laurea (majors) e 20 specializzazioni (minors) in ambito economico, umanistico e socio-politico. È considerata una delle maggiori università americana non solo in Italia, ma anche in Europa e si appresta a festeggiare il 50° anniversario della sua nascita.
« La sua offerta didattica – ha continuato la senatrice La Marca – mette a disposizione degli studenti la possibilità di una formazione di alta qualità e di prospettiva internazionale. Un’istituzione importante per avvicinare ancora di più Stati Uniti e Italia e che ho avuto il piacere di visitare e di ammirare. »
« Sono molto entusiasta nel poter elogiare l’impegno dell’Università “John Cabot” nel promuovere l’educazione e la cultura. Ho chiaramente espresso il mio sostegno per future iniziative volte a rafforzare i legami tra l’Italia e la comunità italo-americana e a valorizzare le giovani generazioni di studenti italo-americani. » ha concluso La Marca.
*(Sen. Francesca La Marca – Ripartizione Nord e Centro America/Electoral College – North and Central America)

 

03 – IG-NOBEL 2023, I VINCITORI DEI PREMI PIÙ PAZZI DELLA SCIENZA TRA GEOLOGI CHE LECCANO LE PIETRE E SESSUALITÀ DELLE ACCIUGHE

NONCHANON
Siamo arrivati alla trentatreesima edizione. Non possono vantare la storia e il pregio dei Nobel, ma di sicuro anche loro, gli IgNobel sono destinati a una certa popolarità. Il motto rimane sempre quello: la scienza che prima fa ridere e poi pensare. Bizzarro è tutto quello che ruota intorno ai popolari premi che precedono di qualche giorno i Nobel. Per dire, quest’anno, durante la cerimonia ci sono state interessanti lecture da parte di esperti e ricercatori della durata di 24 secondi e di 7 parole. Ma a tener banco durante la cerimonia dell’Annals of Improbable Research ideata da Marc Abrahams e sono stati, soprattutto, loro, i premi. E qual è la migliore ricerca improbabile premiata nel 2023? Ve la mostriamo di seguito (spoiler, quest’anno, purtroppo, l’Italia torna a casa a mani vuote a differenza delle precedenti edizioni).

Jan Zalasiewicz arriva dalla University of Leicester, nel Regno Unito, e si incassa il premio per Polonia e Regno Unito per aver spiegato sapientemente “perché ai geologi piace leccare le rocce”. Raccontava infatti egli stesso nel 2017 in un articolo dal titolo abbastanza eloquente (Eating fossils) come leccare le rocce – ma all’occasione anche bruciarle, bollirle – fosse una parte, forse un po’ datata e non esente da rischi, di un vecchio modo di fare ricerca, uno strumento analitico scrive. Zalasiewicz ricorda come leccare una roccia consenta subito di vedere in maniera più chiara di cosa è fatta, mettendone in luce le caratteristiche, magari anche assaporandola. Lo ha fatto egli stesso, ricorda, arrivando alla scoperta di uno splendido nummulite (un protozoo fossile). Ma lo hanno fatto anche i grandi del passato, come Giovanni Arduino, il padre della stratigrafia, e, a quanto pare, anche degustatore di rocce.

LETTERATURA, VINCE L’ARTE DELLA RIPETIZIONE
Premio internazionale per la letteratura, con Chris Moulin, Nicole Bell, Merita Turunen, Arina Baharin, e Akira O’Connor che se lo aggiudicano con la seguente motivazione: “per lo studio delle sensazioni che le persone provano quando ripetono una sola parola molte, molte, molte, molte, molte, molte, molte volte”. Questo team franco-malesiano-britannico-finlandese ha infatti studiato le sensazione di alcuni partecipanti chiamati a scrivere e riscrivere determinate parole, fino al punto da trovarle strane, come mai viste o sentite (in un fenomeno chiamato, in contrapposizione al déjà vu, come jamais vu, a indicare la sensazione di estraneità di qualcosa di noto però). Un fenomeno che si ottiene, pare, dopo aver scritto la stessa parola trenta volte o per un minuto e che stimola riflessioni su ortografia e significati. E che è più frequente in chi sperimenta anche il suo opposto.

INGEGNERIA AI RAGNI ROBOT, MORTI
Si premia la necrobiotica, sì avete capito bene: come suggerisce il nome è una branca della robotica (se così potremmo dire) che utilizza parti morti di animali. In questo caso ragni: il team di Te Faye Yap, Zhen Liu, Anoop Rajappan, Trevor Shimokusu, e Daniel Preston, che arriva da India, Cina, Malesia, e Usa, si è aggiudicato il premio per aver “rianimato ragni morti come strumenti meccanici da presa”. D’altronde, spiegano, senza creare ex novo, si può sfruttare quanto presente in natura: e così, un ragno morto, con il suo fantastico sistema di locomozione, può anche diventare un abile strumento da presa, capace di acciuffare oggetti delicati e dalle strane geometrie, spiegano i ricercatori nelle presentazioni ufficiali.

Super-Smart Toilet Per La Salute Pubblica
Un unico vincitore in questa categoria è il sudcoreano Seung-min Park della Stanford University School of Medicine, premiato per lavorare da anni alla messa a punto di un wc da far impallidire i famosissimi wc tecnologi giapponesi. Cita la motivazione ufficiale: “per aver ideato la toilet di Stanford, un dispositivo che utilizza una gran varietà di tecnologie – tra cui una striscia reattiva per l’analisi delle urine, un sistema di visione artificiale per l’analisi della defecazione, un sensore per l’impronta anale abbinato a una telecamera di identificazione e un sistema di telecomunicazioni – per monitorare e analizzare rapidamente le sostanze che espellono gli esseri umani”. Park è convinto infatti che i wc digitali siano uno strumento preziosissimo per l’analisi della salute delle persone a distanza, che potrebbe essere utile persino nelle sperimentazioni cliniche. E, ovviamente, promette, anche per l’identificazione di eventuali malattie.

PREMIO DI COMUNICAZIONE PER CHI PARLA AL CONTRARIO
Ci sono persone capaci di parlare al contrario, leggendo le parole dalla coda alla testa. Sono casi senza dubbio particolari, e possono diventare oggetto di studio. Lo sono stati: il team premiato nella sezione comunicazione degli IgNobel ha infatti studiato le caratteristiche neurocognitive di due persone capaci di pronunciare le parole leggendo i fonemi al contrario. E qualche differenza, raccontano, è stata trovata in alcune regioni cerebrali, sia per quanto riguarda una maggiore connettività che materia grigia. I premiati sono María José Torres-Prioris, Diana López-Barroso, Estela Càmara, Sol Fittipaldi, Lucas Sedeño, Agustín Ibáñez, Marcelo Berthier, e Adolfo García e arrivano da Argentina, Colombia, Spagna, Usa, Cina e Cile.

LA MEDICINA AI PELI DEL NASO
Il bello degli IgNobel è che permettono di rispondere a domande che non ci saremmo forse mai fatti. Per dirne una, il numero dei peli del naso nelle narici è lo stesso? Christine Pham, Bobak Hedayati, Kiana Hashemi, Ella Csuka, Tiana Mamaghani, Margit Juhasz, Jamie Wikenheiser, e Natasha Mesinkovska sono stati premiati proprio per aver risposto a questa annosa questione, conducendo un’analisi sui cadaveri. A quanto pare sì, o meglio quasi: in media ce ne sono 120 a sinistra e 122 a destra. Lo studio però serviva soprattutto a ottenere informazioni utili per i pazienti con alopecia areata, che riportano più allergie e infezioni respiratorie associate alla perdita di peli nel naso. Il premio va a , Canada, Macedonia, Iran e Vietnam.

NUTRIZIONE “ELETTRICA”
Non fate mai quello che Homei Miyashita e Hiromi Nakamura proponevano ormai diversi anni fa. Il lavoro ripescato per la sezione nutrizione quest’anno agli IgNobel arriva direttamente dal 2011 ed esplora il mondo del gusto aumentato grazie all’elettricità. La motivazione ufficiale per il premio al Giappone cita: “per esperimenti per determinare come le bacchette e le cannucce elettrificate possono cambiare il gusto del cibo”. I ricercatori infatti spiegavano come fosse possibile utilizzare il gusto elettrico e dei sensori per aumentare l’esperienza del gusto, percependo qualcosa che sarebbe impossibile forse percepire (e magari meglio così).

PREMIO PER L’EDUCAZIONE ALLA NOIA
A scuola può capitare anche di annoiarsi. Ma lungi dall’essere un’emozione da accantonare, anche la noia va studiata. Lo hanno fatto Katy Tam, Cyanea Poon, Victoria Hui, Wijnand van Tilburg, Christy Wong, Vivian Kwong, Gigi Yuen, e Christian Chan, che sono stati premiati proprio per questo. I ricercatori hanno scoperto che anche solo aspettarsi che una lezione sarà noiosa la renderà noiosa, ma anche che se gli studenti vedono i loro insegnanti annoiati o li percepiscono come tali saranno meno motivati. Insegnanti, è il vostro momento, fate tesoro di questo IgNobel. Dividono il premio Canada, Cina, Regno Unito, Paesi Bassi, Irlanda, Usa e Giappone.

PSICOLOGIA, LE DINAMICHE DELLO SGUARDO VERSO L’ALTO
Va agli Usa e arriva niente meno che dalla fine degli anni Sessanta il lavoro che si aggiudica il premio per la psicologia. La motivazione cita: “per esperimenti su una strada cittadina per vedere quanti passanti si fermano a guardare verso l’alto quando vedono degli estranei che guardano in alto”. Quanti più lo fanno, scrivevano, tanti più si fermeranno e lo faranno. Premio a Stanley Milgram, Leonard Bickman, e Lawrence Berkowitz.

Fisica, quelle strane relazioni tra correnti e sesso delle acciughe
Ciliegina sulla torta, il premio della fisica va a un folto gruppo di ricercatori per “per aver misurato quanto la miscelazione dell’acqua dell’oceano è influenzata dall’attività sessuale delle acciughe”. Radunandosi in massa durante la stagione riproduttiva, scrivevano gli autori, possono infatti generare delle turbolenze, innescando la miscelazione delle acque, potenzialmente influenzando anche la crescita del fitoplancton. Premiati Bieito Fernández Castro, Marian Peña, Enrique Nogueira, Miguel Gilcoto, Esperanza Broullón, Antonio Comesaña, Damien Bouffard, Alberto C. Naveira Garabato, e Beatriz Mouriño-Carballido, provenienti da Spagna, Galizia, Francia, Svizzera e Regno Unito.
*( Fonte Wired: Anna Lisa Bonfranceschi giornalista)

 

04 – LUCA ZORLON*:PERCHÉ IL GOVERNO NON HA ANCORA DECISO CHI METTERE ALLA GUIDA DEL FONDO NAZIONALE PER LE STARTUP
IL MINISTRO GIORGETTI È PER LA LINEA DELLA CONTINUITÀ E VUOLE CONFERMARE L’AD DI CDP VENTURE CAPITAL, RESMINI, PER GLI OTTIMI RISULTATI. MENTRE FRATELLI D’ITALIA VUOLE LA POLTRONA. MA NON HA NOMI DA CANDIDARE. E COSÌ PROSEGUE LO STALLO

Un robot fa da guida a Palazzo Madama a Torino
E sono cinque. Cinque mesi senza un nome da mettere al timone del Fondo nazionale innovazione, nato per sostenere lo sviluppo delle startup in Italia. E non sembra che l’estate abbia portato consiglio al governo Meloni, che in altri casi, vedi l’Agenzia per la cybersicurezza nazionale, ha affidato la guida a un nome di fiducia senza pensarci due volte. L’impasse, nel caso del fondo partito nel 2020 sotto l’ombrello di Cassa depositi e prestiti (Cdp), la cassaforte che reinveste il risparmio postale, deriva dal fatto che dalle parti di Fratelli d’Italia non hanno un nome per contendere la poltrona all’attuale amministrazione delegato, Enrico Resmini. Che oltre a una strategia che nel 2023 ha portato a 3,1 miliardi di euro gli asset in gestione e al favore del mondo delle startup, ha anche l’appoggio dell’azionista di maggioranza di Cdp, il ministro dell’Economia e delle finanze, Giancarlo Giorgetti.

La benedizione del leghista è arrivata all’inizio di luglio. A margine di un evento, interpellato sul mancato rinnovo dei vertici del fondo, Giorgetti aveva auspicato “che l’amministratore delegato venga nominato il più presto possibile. Comunque al momento c’è un amministratore che sta facendo bene, non è che la società sia ferma”. Il messaggio tra le righe, come confermato da Wired da fonti vicine a Giorgetti, è quello di confermare Resmini. Il manager, prima in Vodafone e poi nella società di consulenza EY, è stato nominato a gennaio 2020. Ossia ai tempi della maggioranza giallo-rossa del governo Conte II, ossia Movimento 5 Stelle più Pd. Il Fondo nazionale innovazione è un progetto su cui avevano messo il cappello i grillini, a cominciare dall’allora ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio.

La situazione:

I traguardi economici
Lo scontro nel governo
Il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso
Il governo taglia 300 milioni di aiuti alle startup
Nel decreto sul made in Italy l’esecutivo sposta una serie di aiuti dal sostegno alle imprese innovative. Che fanno la voce grossa contro lo scippo
I traguardi economici
Al netto delle intestazioni politiche delle origini, il fondo, Cdp Venture Capital, ha saputo camminare con le proprie gambe. Lo evidenziano i numeri della società di gestione del risparmio (sgr): 3,1 miliardi di asset in gestione, un miliardo di capitale deliberato, 13 fondi attivati. E nonostante a fine marzo, con l’approvazione del bilancio 2022, il consiglio d’amministrazione sia scaduto, l’attività non si è fermata. Un esempio: tra giugno e luglio sono stati avviati due poli tecnologici. Sono Galaxia, dedicato allo spazio (30 milioni in dote), e Farming future, che destina 20 milioni alla filiera dell’agricoltura.

Tra le ultime fiche piazzate c’è anche l’investimento in Arduino, che ha consentito in pochi mesi alla società del tool open source per la prototipazione di portare a 54 milioni i finanziamenti raccolti nel round di serie B. O quello in Shop Circle, startup di ecommerce fondata da due italiani nel Regno Unito, che con un’iniezione di 120 milioni da vari sostenitori conta ora di crescere anche in madrepatria. Insomma, dal quartier generale vicino a Villa Torlonia a Roma traspare sicurezza. Tutto procede come se niente fosse. Più o meno.

Una persona con un visore
Il governo non sa chi mettere alla guida del Fondo nazionale innovazione per le startup
Da oltre due mesi i vertici di Cdp Venture Capital lavorano in proroga perché l’esecutivo non ha una persona con cui sostituirli. I curriculum al vaglio
Lo scontro nel governo
In settimana le due principali associazioni che rappresentano il mondo dell’innovazione nazionale, Innovup e Italian tech alliance, hanno denunciato lo scippo di 300 milioni di euro dal fondo per il venture capital dell’ex ministero dello Sviluppo economico, oggi delle Imprese e del made in Italy, guidato da Adolfo Urso, in quota Fratelli d’Italia. Quei soldi sarebbero finiti nella massa di risorse che Cdp Venture Capital immette sul mercato, sotto forma di investimenti diretti in startup o in liquidità affidata ad altri fondi. Il governo, invece, ha deciso di trasferirli al nascente fondo sul made in Italy, suo provvedimento bandiera. Risultato? Le startup si sono allarmate e chiedono di incontrare la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.
E poi c’è la questione governance. Sebbene l’ad di Cdp Venture Capital prosegua nel suo lavoro, benché in proroga, il mondo dell’innovazione vuole una riconferma nero su bianco. Difficile prevedere se e quando arriverà. Giorgetti, come anticipato, sarebbe per giocarsi questa carta. È l’azionista di maggioranza di Cdp. E conta sul fatto che Resmini è un nome sicuro, conosce la macchina, sa dove mettere le mani e ha portato risultati incoraggianti. Di contro, però, c’è che dovrà far digerire una manovra finanziaria con margini risicatissimi. E che nel 2024 va rinnovata la carica dell’ad di Cdp, oggi affidata a Dario Scannapieco. Accaparrarsi oggi una poltrona potrebbe costare una rinuncia domani?

Dall’altra parte, a quanto apprende Wired, c’è Fratelli d’Italia, che spingerebbe per la sostituzione. Il primo tentativo, però, non è andato a buon fine. Ad aprile il nome in pole position era quello di Stefano Donnarumma, ex ad di Terna, la società della rete elettrica. Ma quando il manager ha dovuto considerare di rinunciare alla buonuscita per regole interne (il 30% di Terna è sotto Cdp), l’opzione è sfumata. Al momento il partito di maggioranza non ha alternative e traccheggia. Ma ciò non vuol dire che non sia interessato alla partita, anzi. La poltrona del Fondo nazionale innovazione fa gola, perché deve spendere 550 milioni dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). E i 200 che il governo gli affiderebbe per far crescere il settore dell’intelligenza artificiale con un nascente veicolo dedicato. Troppi soldi per rinunciare a dire la propria.
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05 – Achille Mbembe, Le Monde, Francia*: LE RAGIONI DEI GOLPE IN AFRICA . NEL CONTINENTE SONO IN CORSO TRASFORMAZIONI PROFONDE, DI CUI I COLPI DI STATO SONO UN SINTOMO. LE EX POTENZE COLONIALI NON HANNO PIÙ VOCE IN CAPITOLO, SCRIVE IL FILOSOFO ACHILLE MBEMBE
Le prese di potere militari nelle ex colonie francesi in Africa sono il sintomo di trasformazioni profonde che si è cercato a lungo di nascondere, ma la cui improvvisa accelerazione sta cogliendo di sorpresa molti osservatori distratti. Si potrebbe sostenere che sono gli ultimi sussulti nella lenta agonia del modello francese di decolonizzazione incompiuta. In realtà queste lotte sono portate avanti da forze in gran parte interne e annunciano l’inevitabile fine di un ciclo cominciato dopo la seconda guerra mondiale e durato quasi un secolo.
Certo, ci sono ancora basi militari francesi in Senegal, Costa d’Avorio, Gabon, Ciad e Gibuti. Il franco cfa non è stato abolito e l’Agence française du développement è ancora quella di un tempo. Nel frattempo i centri culturali francesi hanno solo cambiato nome. Nonostante la presenza di questi residui del passato, la Francia non decide più tutto quello che succede nei vecchi possedimenti coloniali. La maggior parte di questi strumenti e molti altri sono diventati obsoleti. Forse è arrivato il momento di sbarazzarsene, e di farlo nel migliore dei modi. Così la frattura si sanerebbe. Messi di fronte alle loro responsabilità, gli africani non avrebbero più scuse. La decolonizzazione sarebbe completa e, soprattutto, certificata.

LA STABILITÀ E LA SICUREZZA NON SI OTTERRANNO CON GLI INTERVENTI MILITARI

UN RUOLO SECONDARIO
Dall’inizio di questo secolo la stretta di Parigi sulle sue ex colonie si è molto allentata, a volte contro la sua volontà. In questo momento storico la Francia ha un ruolo secondario. Non perché sia stata spodestata dalla Russia o dalla Cina – due spauracchi che i nemici e i critici locali di Parigi sanno come agitare per tenerla in scacco – ma perché, in un movimento inedito e rischioso di ricentramento su se stessa, di cui molti faticano a cogliere la portata, l’Africa è entrata in un nuovo ciclo storico.

Mosso da forze essenzialmente locali, il continente si sta ripiegando su se stesso. Per comprendere le spinte profonde alla base di questa svolta, le lotte multiformi che l’accompagnano e le sue conseguenze a lungo termine, dobbiamo cambiare griglia analitica e partire da nuove premesse. Soprattutto, dobbiamo prendere sul serio la percezione che le società africane hanno della loro storia. Il continente sta sperimentando molte trasformazioni simultanee. Sono di diversa portata, ma interessano tutti i livelli della società e si traducono in rotture a catena. Con l’affermarsi di sistemi politici multipartitici, sono tornate in primo piano le poste in gioco collettive, mentre emergono nuove forme di disuguaglianza e conflitto, in particolare tra i generi e le generazioni.

MOVIMENTO DI FONDO
L’ingresso nello spazio pubblico delle persone nate negli anni novanta e all’inizio dei duemila, cresciute in tempi di crisi economica senza precedenti, è stato un evento cruciale. Ha coinciso con il risveglio tecnologico del continente, la maggiore influenza delle diaspore, l’accelerazione dei processi di creatività artistica e culturale, l’intensificarsi della mobilità e della circolazione internazionale, e la ricerca incessante di modelli di sviluppo alternativi ispirati alla ricchezza delle tradizioni locali. Le sfide demografiche, socioculturali, economiche e politiche sono ormai intrecciate, come dimostrano la contestazione delle forme politico-istituzionali emerse negli anni novanta, i cambiamenti dei modelli di autorità nelle famiglie, la rivolta silenziosa delle donne e l’aggravarsi dei conflitti generazionali.

Su questo movimento profondo si è innestata l’ascesa del neosovranismo, una versione impoverita e adulterata del panafricanismo. In un contesto di caos ideologico, disorientamento morale e crisi di significato, il neosovranismo non è una visione politica coerente ma una grande chimera. Per i suoi sostenitori serve soprattutto a creare fermento in una comunità emotiva e immaginaria, ed è questo che gli conferisce tutta la sua forza e il suo carico di tossicità.

Le sue truppe sono reclutate principalmente tra i giovani africani attivi sui social network. Ma anche nell’immenso serbatoio delle diaspore. Questi ragazzi e ragazze, spesso poco integrati nei paesi dove sono cresciuti e trattati come cittadini di seconda classe, paragonano le loro esperienze alle grandi lotte dei panafricanisti del dopoguerra contro il colonialismo e la segregazione razziale. Tuttavia, il neosovranismo non è la stessa cosa.

Non abbiamo ancora sufficientemente sottolineato quanto l’anticolonialismo e il panafricanismo abbiano contribuito al consolidamento di tre grandi pilastri della coscienza moderna: la democrazia, i diritti umani e l’idea di una giustizia universale. Il neosovranismo, però, rompe con questi tre elementi fondamentali. In primo luogo, rifugiandosi dietro il presunto carattere primordiale delle razze, i suoi sostenitori rifiutano il concetto di comunità umana universale. Individuano un capro espiatorio, che eleggono a nemico assoluto, contro il quale tutto è lecito. Così, i neo sovranisti sostengono che l’Africa si emanciperà definitivamente solo cacciando dal continente le vecchie potenze coloniali, a partire dalla Francia, anche a costo di sostituirle con la Russia e la Cina.

Ossessionati dall’odio per lo straniero e affascinati dal suo potere materiale, si oppongono alla democrazia, che considerano un cavallo di Troia dell’ingerenza internazionale. Preferiscono il culto degli uomini forti, sostenitori del maschilismo e detrattori dell’omosessualità. Da qui deriva un’indulgenza verso i colpi di stato dei militari e la riaffermazione della forza come mezzo legittimo di esercizio del potere.

Questi sconvolgimenti si spiegano con la debolezza delle organizzazioni della società civile e dei corpi intermedi, in un contesto d’intensificazione delle lotte per i mezzi di sussistenza e di un intreccio di conflitti tra classi, generi e generazioni. Come effetto perverso dei lunghi anni di glaciazione autoritaria, in molti campi della vita sociale e culturale si sono diffuse delle logiche informali. Il carisma individuale e la ricchezza vengono prima del lavoro lento e paziente di costruzione delle istituzioni, mentre si affermano concezioni dell’impegno politico basate sugli scambi di favore e i clientelismi.

Di fronte a tante crisi, la democrazia rappresentativa non sembra più in grado di assicurare i grandi cambiamenti a cui aspirano le nuove generazioni. I ripetuti brogli hanno reso le elezioni una causa di conflitti violenti. Le esperienze democratiche recenti hanno fatto poco per arginare la corruzione. Anzi, l’hanno alimentata e usata per legittimare la presenza al potere delle élite responsabili dell’attuale stallo. In una situazione simile i colpi di stato sembrano essere l’unico modo per realizzare il cambiamento, per garantire una forma di alternanza ai vertici dello stato e per accelerare la transizione generazionale.

Molti ragazzi e ragazze, disorientati e senza futuro, si sentono bloccati in una condizione che può essere cambiata solo con la violenza e l’azione diretta. Questo desiderio di violenza catartica si fa strada in un momento di grave stagnazione intellettuale delle élite politiche ed economiche e, più in generale, delle classi medie e dei professionisti. A questo si aggiungono gli effetti dell’intontimento di massa provocato dai social network. Nella maggior parte dei paesi, i mezzi d’informazione e i dibattiti pubblici sono colonizzati dai rappresentanti di una generazione colpita da un analfabetismo funzionale, conseguenza di decenni di scarsi investimenti nell’istruzione e in altri settori.

MERCATI DELLA VIOLENZA
L’Africa francofona è stata ignorata, se non addirittura abbandonata, dalle grandi fondazioni private internazionali, che dagli anni novanta contribuiscono al consolidamento delle società civili nel continente. Questi finanziamenti a sostegno della democrazia non sono forse andati in gran parte all’Africa anglofona?

In tutti i paesi del continente, verso la fine del ventesimo secolo e l’inizio del ventunesimo, c’è stata una crescita della predazione e dell’estrazione. Le zone che sfuggono al controllo degli stati si sono moltiplicate e abbiamo assistito a una corsa sfrenata alla privatizzazione delle risorse del suolo e del sottosuolo. Sono emersi grandi mercati regionali della violenza, che hanno attirato tanti sfruttatori, dalle multinazionali alle compagnie di sicurezza private. Quello che fanno è fornire protezione in cambio dell’accesso privilegiato a risorse rare. Grazie a queste nuove forme di baratto, le classi dirigenti africane sono state in grado di esercitare la loro influenza sullo stato, di controllare le principali aree estrattive, di militarizzare gli scambi e di rafforzare i loro legami con le reti internazionali della finanza e del profitto.

Il prezzo di questa nuova fase nella storia dell’accumulazione privata nel continente è stata la brutalizzazione e il declassamento di interi settori della società e l’instaurazione di un regime d’isolamento più insidioso di quello coloniale. Le vittime sono condannate a migrazioni pericolose.

Alla generazione sacrificata del periodo dei programmi di aggiustamento strutturale (1985-2000) se n’è aggiunta un’altra, bloccata all’interno da una gerontocrazia avida, e all’esterno dalle politiche europee contro l’immigrazione e da una gestione arcaica delle frontiere ereditata dalla colonizzazione. I bambini soldato delle guerre di predazione del passato sono stati sostituiti dalle folle di adolescenti, che oggi non esitano ad acclamare i golpisti o partecipano alle rivolte urbane e ai successivi saccheggi.

L’Africa è a un bivio, soprattutto perché a valle del neosovranismo si aprono diverse strade senza uscita. Il mercato religioso si è ampliato. È in corso una lotta spietata tra diversi modelli di verità. Secondo alcuni, come i sostenitori del kemetismo, la salvezza è nel passato, nell’antico Egitto. Per altri, la soluzione è il culto dell’imprenditorialità e la sfrenata glorificazione dell’individuo. In un contesto di povertà, precarietà e lotta per la sopravvivenza, continua ad affermarsi una cultura edonistica basata sulla corruzione e sull’ostentazione, sull’accaparramento e sullo sperpero spettacolare della ricchezza.

In contrapposizione a queste strade senza uscita e al feticismo delle elezioni, dobbiamo scommettere su una democrazia sostanziale, che dovrà essere costruita passo dopo passo, riaffermando il pensiero intellettuale, riabilitando la voglia di scrivere la propria storia invece di avere nuovi padroni, e affidandosi all’intelligenza collettiva degli uomini e delle donne africane. Questa intelligenza va risvegliata, alimentata e sostenuta. Così potranno emergere nuovi orizzonti di significato, perché la democrazia in questa fase ha senso solo se mira a uno scopo più alto, che è la rigenerazione e la cura di tutto ciò che è vita. Non vuol dire solo alleggerire i debiti, aumentare le quote di mercato, costruire dighe, ponti, scuole, centri sanitari e pozzi o finanziare progetti, ma creare un movimento di base a lungo termine sostenuto da nuove coalizioni sociali, intellettuali e culturali.

RITAGLIARSI UN POSTO
La Francia può avere un posto in questo progetto, a condizione che abbandoni gli orpelli del passato e le sue illusioni di grandezza. Per questo deve ricostruire da capo i suoi strumenti diplomatici. Deve anche abbandonare una visione obsoleta della pace, della sicurezza e della stabilità. Per quanto importante, la lotta contro i gruppi jihadisti non può costituire l’unico bastione per la sicurezza in Africa. Né può essere vista solo attraverso la lente degli interessi europei, cioè la protezione delle frontiere esterne dell’Unione europea.

La stabilità e la sicurezza non si otterranno con gli interventi militari, sostenendo i tiranni o imponendo sanzioni inopportune, il cui unico effetto è ferire popolazioni già in ginocchio, ma consolidando la democrazia. Questo deve farci interrogare sul significato e sugli scopi della presenza militare francese in Africa. È giunto il momento di metterla in discussione, perché è quello che fanno le nuove generazioni di africani.

La strategia attuale non sarà sufficiente. Lasciare il Mali per il Burkina Faso, poi il Burkina Faso per il Niger e infine il Ciad, senza esaminare i ripetuti fallimenti francesi e la sconfitta morale e intellettuale subita da Parigi in Africa, è un rimedio poco efficace. La ragione militare e la ragione civile hanno sempre avuto difficoltà a coesistere nel continente. A lungo termine, la stabilità richiederà l’effettiva smilitarizzazione di tutti i settori della vita politica, economica e sociale. Questo significa affrontare di petto i movimenti profondi che alimentano le forze del caos e incoraggiano le fratture violente.

Il 30 agosto 2023 in Gabon un colpo di stato ha messo fine al governo del presidente Ali Bongo Ondimba e a 56 anni di dominio della sua famiglia sul paese dell’Africa centrale. I militari hanno preso il potere subito dopo l’annuncio dei risultati delle elezioni del 26 agosto, che davano per vincente il presidente uscente. Ali Bongo aveva preso il posto del padre Omar dopo la sua morte nel 2009. L’Unione africana ha condannato il golpe e sospeso il paese dall’organizzazione. Nella capitale Libreville, invece, parte della popolazione è scesa in piazza per festeggiare i militari. Il Gabon è un paese produttore di petrolio. Di questa ricchezza ha beneficiato l’élite al potere, ma non la popolazione di 2,4 milioni di abitanti. Più di un terzo dei gabonesi vive in povertà. Il paese è stato spesso definito una “cleptocrazia”, un governo fondato sul furto e la corruzione, e uno degli esempi più eclatanti della Françafrique, il sistema politico-finanziario che ha permesso a Parigi di mantenere il controllo sulle ex colonie.
Il 4 settembre il generale Brice Clotaire Oligui Nguema ha prestato giuramento come presidente durante il periodo di transizione. Alla cerimonia erano presenti alcuni rappresentanti dell’opposizione, ma non Albert Ondo Ossa, il candidato che afferma di aver vinto le ultime elezioni. Nguema non ha annunciato una data per il ritorno a un governo civile, perché prima dovrà essere adottata una nuova costituzione.
*(Fonte: Le Monde. Achille Mbembe è uno storico e filosofo camerunese, considerato uno dei più importanti teorici del post colonialismo. In Italia sta per uscire il suo ultimo libro, Brutalismo (Marietti 1820).

 

06 – Massimiliano Cassano*: IL MERCATO DEI CREDITI DI CARBONIO È IN CRISI – SEMPRE MENO AZIENDE INVESTONO IN PROGETTI ANTI-DEFORESTAZIONE PER BILANCIARE LE PROPRIE EMISSIONI. E CRESCE UNA MONTAGNA DI TITOLI “SPAZZATURA”

La crescente sfiducia delle aziende verso i progetti di preservazione delle foreste volti a limitare l’aumento della temperatura globale e prevenire le conseguenze più estreme del cambiamento climatico ha fatto crollare il mercato dei crediti di carbonio. Nato durante la Cop 19 di Varsavia (la conferenza sul clima delle Nazioni Unite) dieci anni fa, lo schema Redd+ (acronimo di Reducing emissions from deforestation and forest degradation in developing countries, riduzione delle emissioni dalla deforestazione e degradazione delle foreste nei paesi in via di sviluppo), in virtù del quale le aziende possono acquistare titoli volontari di compensazione delle emissioni inquinanti investendo in programmi anti-deforestazione per contrastare i gas serra che generano, vede per la prima volta in sette anni una contrazione. Secondo i numeri diffusi da Ecosystem Marketplace, organizzazione senza scopo di lucro con sede a Washington che monitora la trasparenza dei programmi di sostenibilità delle società americane, nei primi sei mesi del 2023 il mercato ha subito una battuta d’arresto pari al 8%. Secondo i dati di Bloomberg Nef, un centro studi, si tratta invece del 6%.

Certamente sulla decisione degli imprenditori di cercare altri modi di mostrare il lato “green” del proprio marchio ha inciso lo scandalo che a inizio anno ha investito Verra, l’ente non profit incaricato di certificare la qualità dei programmi di produzione dei crediti di carbonio. Un’indagine durata nove mesi, pubblicata il 18 gennaio dalle testate The Guardian, Die Zeit e SourceMaterial, ha rilevato che il 94% dalla compensazione di emissioni legate alla foresta pluviale fornite da Verra – che rappresentavano circa il 40% dei crediti globali approvati dall’organizzazione – erano senza alcun valore. I diversi progetti di protezione delle foreste, in sostanza, non avevano prodotto i risparmi sulle emissioni promessi.

IL DECLINO DEI “CREDITI SPAZZATURA”
L’inchiesta ha anche scoperto che la superficie boschiva sotto minaccia di deforestazione secondo i calcoli di Verra è stata sovrastimata in media del 400%. Dati avallati anche da uno studio pubblicato successivamente su Science. Inoltre, in alcuni casi i programmi hanno portato violazione dei diritti umani o semplicemente “spostato” la deforestazione in altri luoghi meno controllati. In uno dei siti del progetto Verra in Perù, i residenti si sono lamentati di essere stati sfrattati con la forza dalle loro case, che sono state poi demolite. Questa inaffidabilità del meccanismo sta generando un enorme quantità di “crediti spazzatura”, pari alle emissioni annue del Giappone, che nessuno intende più acquistare. Il declino è anche una brutta notizia per le nazioni più povere che contano molto sul flusso di capitali che le multinazionali forniti per finanziare progetti di mitigazione del clima.

Il Kenya, per esempio, sta cercando di diventare un hub per il commercio di compensazioni di carbonio che si basa principalmente su progetti come la piantumazione di alberi. “Un certo numero di studi negativi sui crediti di carbonio hanno causato abbastanza preoccupazione da indurre alcune aziende a sospendere gli acquisti e ad attendere maggiori indicazioni su quale tipo di crediti dovrebbero acquistare”, ha affermato su Reuters Stephen Donofrio, amministratore delegato di Ecosystem Marketplace. “Le aziende – ha però aggiunto – si stanno muovendo nella giusta direzione, nel senso che cresce la preferenza per crediti di qualità superiore e più costosi”. Come quelli legati alla decarbonizzazione della propria filiera interna.

Una via alternativa
Due colossi come Nestlé e Gucci sono state tra le prime aziende a diminuire l’acquisizione di questo tipo di titoli. La maison fiorentina ha cancellato dal suo sito la dichiarazione di carbon neutral, e, come riporta Reuters, secondo un suo portavoce la società “sta rivedendo la sua strategia climatica e i suoi impegni con l’obiettivo di ottenere l’impatto complessivo migliore”. Mentre la multinazionale alimentare fa sapere in una nota: “Ci stiamo allontanando dall’investimento in compensazioni di carbonio per i nostri marchi, per investire in programmi e pratiche che aiutano a ridurre le emissioni di gas serra nella nostra catena di fornitura”. Anche la compagnia aerea low cost EasyJet, che aveva acquistato compensazioni per la protezione delle foreste certificate da Verra, ha fatto sapere di aver tagliato gli investimenti in crediti di carbonio per concentrarsi sulla riduzione delle emissioni derivanti dai voli.

Sulla vicenda si stanno muovendo anche le istituzioni, preoccupate che questi programmi inaffidabili possano vanificare gli investimenti green delle aziende e rallentare la lotta al cambiamento climatico. Le Nazioni Unite e la Voluntary carbon markets integrity initiative (Vcmi), un’alleanza per certificare i crediti di carbonio, hanno suggerito alle società di non fare eccessivo affidamento su questo tipo di crediti, mentre il Parlamento europeo prevede di vietare l’uso di certificazioni di sostenibilità basate esclusivamente su indicazioni ambientali generiche a partire dal prossimo anno.

 

 

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