n°35 – 2/9/23 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

00 – Andrea Colombo*: SETTEMBRE GRIGIO. L’Istat riduce di un altro decimale le previsioni sulla crescita. Siamo in «prerecessione» Cala il Pil, frenano gli occupati. Doccia fredda sulla manovra
01 – Laura Carrer*: La gig economy non è un settore per donne.
02 – Alessandra Gualtieri*: Calo fiducia consumatori e imprese ad agosto 2023: analisi Istat
Secondo l’Istat, ad agosto 2023 si registra un calo della fiducia sia tra i consumatori che tra le imprese: ecco l’analisi delle dinamiche in dettaglio.
03 – Pierre Bréchon *: EUROPA -Come sta la democrazia in Europa
04 – Andrea Pipino*: Everest
05 – Bruno Cartosio*: Washington 1963. Il desiderio del sogno e la realtà dell’incubo – 60 ANNI DI «I HAVE A DREAM» . Il sermone durò mezz’ora, la parte più celebre recitata a braccio «Questo è un inizio», esordì Martin Luther King Jr. Non era vero.
06 – Jill Lepore*: Christian Dellavedova – Cosa resta dei primi passi sulla Luna – Le orme sono ancora lì, l’impronta a righe degli stivali di Neil Armstrong incrostata di polvere.
07 – Pierre Haski*: il ruolo dell’Africa nei nuovi equilibri mondiali . Il continente africano, con i suoi 54 stati, è al centro dell’attuale processo di ricomposizione del mondo.
08 – Mappe del potere – Ancora poche le donne alla guida delle principali città italiane
In Italia solo 9 donne ricoprono la carica di sindaco di un comune capoluogo. Nelle giunte e nei consigli la quota femminile è più elevata solo per gli incarichi per cui sono previste norme sull’equilibrio di genere. Regole che però possono talvolta essere aggirate.
09 – Matt Simon*: l’estate nera del clima.
10 – Nel mondo.

 

00 – Andrea Colombo*: SETTEMBRE GRIGIO. L’ISTAT RIDUCE DI UN ALTRO DECIMALE LE PREVISIONI SULLA CRESCITA. SIAMO IN «PRERECESSIONE» CALA IL PIL, FRENANO GLI OCCUPATI. DOCCIA FREDDA SULLA MANOVRA

LE STIME SUL PIL DEL 31 LUGLIO ERANO STATE UNA DOCCIA FREDDA: UN MESE DOPO È DIVENTATA GELIDA. IL CALO DEL PIL NEL SECONDO TRIMESTRE RISPETTO A QUELLO PRECEDENTE ERA ALLORA DELLO 0,3%. LE STIME ISTAT DICONO ORA CHE LA DISCESA SARÀ DI UN DECIMALE IN PIÙ: -0,4%. È UN SEGNALE PESANTE DA TUTTI I PUNTI DI VISTA. DICE CHE LA MARCIA DEL GOVERNO È MOLTO MENO TRIONFALE DI QUANTO LA PREMIER STESSA PENSASSE, SMONTA LA SUA PROPAGANDA, SOPRATTUTTO PROSCIUGA ULTERIORMENTE LE CASSE IN VISTA DI UNA MANOVRA CHE DA DIFFICILE SI STA FACENDO PROIBITIVA. QUEL DECIMALE IN MENO IMPLICA INFATTI UNA ULTERIORE FLESSIONE DELLE STIME SUL PIL ANNUO. A LUGLIO ERA PREVISTO UN AUMENTO DELLO 0,8% INVECE CHE DELL’1% COME FISSATO NEL BILANCIO. ORA SCENDE AL +0,7%. SIGNIFICA CHE UNA MANOVRA GIÀ COSTRETTA A MISURARSI CON RISORSE MOLTE SCARSE SI VEDE SOTTRARRE ULTERIORI FONDI E NON È DETTO CHE LE COSE NON PEGGIORINO NEL SECONDO SEMESTRE.

IL DATO DISAGGREGATO dice infatti che la flessione è dovuta quasi per intero al calo della domanda interna, in particolare a quello dei consumi privati. La crisi e l’impennata dei prezzi, come prevedibile, spingono le famiglie a comprare il meno possibile. È vero che nel terzo trimestre i consumi estivi, tradizionalmente più alti del solito, potrebbero alzare un po’ la stima ma è anche vero che l’impatto del prezzo della benzina ha colpito più duramente proprio in estate. Da Cernobbio arrivano previsioni diverse ma nessuna troppo ottimista. Emma Marcegaglia è convinta che la recessione possa essere evitata ma non si nasconde che «il rallentamento è significativo», Illy teme che «si possa arrivare al segno meno». La formula «fase prerecessiva» inizia a circolare un po’ ovunque.

Il poco consolante dato va sommato a quello del giorno precedente sull’occupazione, sin qui il principale vanto del governo. La flessione da luglio ad agosto è stata robusta: sono rimaste senza lavoro 73mila persone. Nel complesso il bilancio del governo resta lontano dal rosso. Rispetto al luglio 2022 ci sono 362mila occupati in più con una prevalenza, in controtendenza con il passato, dei contratti a tempo indeterminato. Rimane un dato brillante nonostante la controtendenza emersa in quest’ultimo mese ma un calo di 73mila unità è troppo robusto per non destare comunque allarme. Tanto più che l’impatto della recessione in Germania, della frenata in tutta l’area Ocse del peggioramento in corso della situazione dell’economia cinese deve ancora arrivare.

UN DATO CONSOLANTE, sulla carta, c’è: l’inflazione scende in un mese di quattro decimali, dal 5,9% al 5,3%. È una consolazione più apparente che reale. Il calo dell’inflazione, a fronte del continuo rialzo dei tassi della Bce, è più modesto del previsto e nel settore alimentare, quello nel quale i rincari sono più direttamente avvertiti e colpiscono maggiormente i settori più poveri, l’inflazione è quasi doppia. Sta al 9,6% e se è vero che c’è anche qui una discesa rispetto al 10,2% di luglio è anche vero che quando si passa ai prodotti più consumati, dunque quelli che più direttamente incidono sui conti delle famiglie, la marcia risulta invertita. Qui i prezzi salgono e l’inflazione passa dal 5,5% al 7%.

L’EUROPA nel complesso sta appena un po’ meglio quanto a inflazione, in media al 5,3%, e le stime dei vari Pil nazionali sono un florilegio di stime inquietanti.
Il quadro mette la Bce di fronte a un dilemma: la situazione sconsolante dei vari Pil potrebbe infatti convincere la Banca a tornare sulla decisione di alzare ancora i tassi. Se invece deciderà di insistere nella scelta di abbattere l’inflazione costi quel che costi la minaccia di recessione, anche in Italia, diventerà più incombente.
Il commento più caustico, dall’opposizione, è quello di Conte che accusa la premier di essere stata «con il cappello in mano di fronte ai falchi dell’austerità» e di «raccogliere quel che ha seminato». Per il Pd parla il responsabile dell’economia Misiani e chiede che la prossima manovra «faccia i conti con la realtà concentrando le risorse dove servono». Il problema è che le risorse sono quelle che sono e non ci si può fare molto. Ma chiedere al Pd anche solo un sussurro contro austerità e rigore è chiedere troppo.
°(Fonte: Il Manifesto. Andrea Colombo è un giornalista, scrittore e commentatore politico italiano.)

 

01 – Laura Carrer*: LA GIG ECONOMY NON È UN SETTORE PER DONNE. QUANDO SI TRATTA DI ATTIRARE NUOVI LAVORATORI O, IN GENERALE, DI PROMUOVERE IL PROPRIO BUSINESS, UNO DEGLI ELEMENTI CHE LE PIATTAFORME TECNOLOGICHE DEL FOOD DELIVERY SPINGONO MAGGIORMENTE È QUELLO DELL’AUTONOMIA.
Rider, driver o freelance che ogni giorno svolgono mansioni di consegna o “micro lavoro”, sono spinti a percepire come positiva la flessibilità e la precarietà del settore dando fiducia alle piattaforme tecnologiche. Almeno fino a quando non si rendono conto che la cosiddetta flexicurity, ovvero l’insieme di politiche liberali del lavoro che abbina la flessibilità lavorativa agli ammortizzatori sociali dei lavoratori dipendenti, si concretizza in realtà in precarietà.
Pochi o nessun ammortizzatore sociale, pochi guadagni non prevedibili. In questa situazione, le donne sono una delle categorie più svantaggiate in tutto il mondo. Eppure in alcuni stati come il Pakistan le piattaforme tecnologiche hanno pubblicizzato per anni la figura delle donne come lavoratrici incluse nel settore gig economy, anche se la realtà dice il contrario.

In un recente articolo Rest of the World ha raccolto la storia di una madre single pakistana che in poco tempo è passata dall’essere un volto di marketing per l’azienda Careem (simile alla statunitense Uber, dalla quale è stata rilevata nel 2020 per 3,1 miliardi di dollari) a non avere più lavoro. Per diversi anni le piattaforme hanno investito molto sulla pubblicità inclusiva e su un rapporto di lavoro migliore per le donne, anche se la pratica si è poi rivelata lontana da quella auspicata nelle campagne di marketing.

AAMIR QURESHI/AFP via Getty Images

Per aumentare le flotte dei conducenti, le aziende hanno attirato donne promuovendo diversi tipi di incentivi: pagamenti mensili garantiti, ore di lavoro più brevi, servizi di assistenza dedicati alle esigenze femminili. Le donne infatti vivono costantemente, in tutti i settori lavorativi, la necessità di accedere a tutele diverse e specifiche, di bilanciare la competizione lavorativa con gli uomini e quella derivante dal lavoro di cura quotidiano non retribuito.
La start up tecnologica Careem, che ha sede a Dubai, è una delle più celebri e con maggior successo in Medio Oriente. Il Pakistan rappresenta una grossa fetta di mercato della compagnia emiratina. Dal 2016 permette anche alle donne di essere driver, e dal 2018 è sbarcata anche in Arabia Saudita a seguito dell’introduzione del diritto di guidare anche per le donne.
Gli incentivi preannunciati per la componente femminile della propria flotta non sono però arrivati: come raccontato dalla donna intervistata da Rest of the World, lo stipendio è addirittura stato abbassato da 72.000 a 60.000.
Molte parole e pochi fatti quindi. Un portavoce di Careem ha giustificato il fatto dicendo che non ci sarebbero state iscrizioni al programma per donne proposto dalla compagnia, anche se le driver raccontano una storia diversa. A questa situazione già disastrata per le donne del food delivery si aggiunge anche un altro problema, quello delle molestie. Nello svolgimento di questo lavoro è normale essere soggette a molestie verbali, cat calling o subire traumi emotivi da parte di clienti o anche semplicemente da uomini incontrati per strada. Le donne pakistane diventano rider o driver non per scelta, ma perché per loro è l’ultima spiaggia.
( Laura Carrer, giornalista freelance e ricercatrice. Scrive di sorveglianza di stato, tecnologia all’intersezione con i diritti umani, piattaforme tecnologiche e spazio urbano su IrpiMedia, Wired, Il Post, Il Manifesto e altri.)

 

02 – Alessandra Gualtieri*: CALO FIDUCIA CONSUMATORI E IMPRESE AD AGOSTO 2023: ANALISI ISTAT – SECONDO L’ISTAT, AD AGOSTO 2023 SI REGISTRA UN CALO DELLA FIDUCIA SIA TRA I CONSUMATORI CHE TRA LE IMPRESE: ECCO L’ANALISI DELLE DINAMICHE IN DETTAGLIO.

L’ultimo report dell’Istat mostra una leggera flessione nell’indice di fiducia dei consumatori ad Agosto 2023. Se precedentemente l’indice era a 106,7, ora si attesta a 106,5.
Ancora più significativa è la caduta dell’indice composito del clima di fiducia delle imprese, sceso da 108,9 a 106,8.

FIDUCIA IN CALO TRA TUTTE LE IMPRESE
DINAMICHE NEGATIVE NELLE COMPONENTI DEGLI INDICI
FIDUCIA DEI CONSUMATORI A UN BIVIO
IL COMMENTO ISTAT

Fiducia in calo tra tutte le imprese
Per quanto riguarda la fiducia nelle imprese, i dati Istat mostrano una riduzione dell’indice in tutti i settori esaminati. Nell’industria manifatturiera e nelle costruzioni si registra un calo dell’indice di fiducia, rispettivamente da 99,1 a 97,8 e da 166,5 a 160,2. Anche nel settore dei servizi si osserva una perdita di fiducia, con l’indice che scende da 111,0 a 108,8 nel commercio al dettaglio e da 105,5 a 103,6 nei servizi di mercato.
Dinamiche negative nelle componenti degli indici
Per quanto riguarda le componenti degli indici di fiducia, in manifattura si nota un peggioramento dei giudizi sugli ordini e delle aspettative sul livello di produzione. Anche le costruzioni e i servizi di mercato registrano dinamiche negative.
Fiducia dei consumatori a un bivio
L’analisi del clima di fiducia dei consumatori mostra alcuni segnali contrastanti.
Da un lato si registra un calo del clima economico (da 123,4 a 121,5) e del clima futuro (da 115,0 a 114,1). D’altra parte, il clima personale e quello corrente hanno mostrato un leggero miglioramento, passando rispettivamente da 101,1 a 101,5 e da 101,0 a 101,4.
Il commento Istat
In conclusione, ad agosto la fiducia delle imprese ha subito un calo in tutti i settori economici analizzati, con un indice che ha toccato il valore più basso da novembre 2022. La fiducia dei consumatori ha mostrato una lieve flessione, anche se rimane ancora sopra la media del periodo gennaio-luglio 2023.
In particolare, si evidenzia un netto peggioramento delle opinioni sulla situazione economica generale e una diminuzione delle aspettative sulla disoccupazione.
Al contrario, c’è un miglioramento delle valutazioni sulla situazione economica personale.
*(Alessandra Gualtieri – Managing Editor, PMI.it – Responsabile editoriale del portale PMI.it (ICT e Business per le piccole e medie imprese), mi occupo da anni di Internet, Comunicazione e Information …)

 

03 – Pierre Bréchon *: EUROPA -COME STA LA DEMOCRAZIA IN EUROPA?IN FRANCIA, DOPO IL 2022, IL RICORSO SEMPRE PIÙ FREQUENTE ALL’ARTICOLO 49 COMMA 3 DELLA COSTITUZIONE CHE CONSENTE AL GOVERNO DI CHIEDERE LA FIDUCIA PER FAR APPROVARE LEGGI CONTESTATE HA SPINTO MOLTI FRANCESI A RITENERE CHE IL LORO SISTEMA POLITICO SIA POCO DEMOCRATICO.
Inoltre negli ultimi vent’anni in diversi paesi europei si sono affermati sistemi politici più o meno autoritari, come in Polonia e in Ungheria, mentre i partiti politici della destra radicale sono sempre più presenti nel paesaggio politico di quasi tutti gli stati del continente.
In questo contesto le élite politiche, a cominciare da quelle parlamentari, sono diventate un bersaglio costante delle critiche: la società civile le accusa di essere corrotte, lontane dalla popolazione, incapaci di comprenderne i bisogni e di introdurre leggi efficaci. Molti paesi, tra cui la Francia, hanno vissuto rivolte giovanili che esprimono un malessere sociale, per non parlare degli attentati terroristici che contribuiscono a indebolire le società europee. Le democrazie del vecchio continente, insomma, appaiono in crisi. Al di là degli eventi su cui i mezzi d’informazione concentrano la loro attenzione, in che stato sono i valori degli europei e in particolare il loro attaccamento alla democrazia?

VALORI IN TRASFORMAZIONE
I paesi dell’Unione europea sono un numero significativo e sono tenuti a rispettare i princìpi fondamentali enunciati nei trattati comunitari. L’articolo 2 del Trattato sull’Unione europea stabilisce che “l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.
È un bel programma, ma i sondaggi condotti tra i cittadini in Europa indicano che questi ultimi sono molto lontani dall’essere individui virtuosi che sostengono i valori fondativi fissati nei trattati, come dimostra lo studio che abbiamo svolto, “Gli europei e i loro valori. Tra individualismo e individualizzazione”. Lo studio è basato sull’analisi dei risultati del programma European Values Studies (Evs), una grande ricerca effettuata ogni nove anni per analizzare le trasformazioni dei valori nelle diverse aree del continente (quasi 60mila intervistati in 34 paesi tra il 2017 e il 2020)
Contrariamente a quanto pensano in molti, i dati rivelano che i valori di solidarietà stanno crescendo (lentamente) nonostante le tentazioni di una svolta individualista. I desideri di autonomia e di libera scelta si affermano con forza in ambito familiare e politico, ma anche nei rapporti di lavoro e perfino nel contesto religioso.
Meno evidente è l’attaccamento degli europei alla democrazia, elemento cruciale di questo articolo. Sono molte le domande che permettono di valutare questo fenomeno. Certo, quasi tutti gli europei si dichiarano sostenitori del sistema democratico e il 75 per cento degli intervistati ritiene importante vivere in un paese organizzato su queste basi. Inoltre il 57 per cento vorrebbe avere la possibilità di esprimere di più i loro bisogno al lavoro e nell’ambiente quotidiano. Le aspettative di democrazia, dunque, sono elevate. Ma allo stesso tempo dominano le critiche e l’insoddisfazione. Solo un terzo degli europei pensa che il proprio paese sia governato democraticamente, mentre appena il 20 per cento è soddisfatto dal funzionamento del sistema politico. È il segnale di una crisi di rappresentanza.

IN TOTALE COLORO CHE APPREZZANO LA DEMOCRAZIA E RESPINGONO GLI ALTRI SISTEMI SONO SOLO IL 38 PER CENTO
L’entusiasmo apparente degli europei nei confronti del sistema democratico va fortemente relativizzato. Per molti, infatti, non è una scelta esclusiva. Il 52 per cento degli intervistati accetterebbe un governo di esperti che potesse prendere tutte le decisioni, mentre il 32 per cento vede di buon occhio un leader autoritario. Il 14 per cento sarebbe addirittura disposto a sostenere un regime militare. In totale i “democratici esclusivi”, quelli che apprezzano la democrazia e respingono gli altri sistemi, sono solo il 38 per cento. In una consistente parte della popolazione i valori democratici non sono dunque profondamente ancorati, e quando si presenta una crisi politica può emergere con forza la tentazione di incoraggiare un sistema antidemocratico.

PIÙ O MENO ATTACCATI ALLA DEMOCRAZIA
Se molti europei apprezzano la democrazia, non tutti ne hanno la stessa concezione. Le caratteristiche centrali della democrazia rappresentativa (elezioni libere, diritti civili, uguaglianza tra uomini e donne) sono ritenute imprescindibili dalla maggioranza della popolazione. Ma c’è anche chi si concentra su aspetti economici e considera come elementi essenziali della democrazia i sussidi di disoccupazione, la redistribuzione del reddito attraverso le imposte e la lotta alla diseguaglianza dei redditi. Queste aspettative economiche sono più forti nell’Europa del sud e in Russia.
Infine lo studio ha valutato tre caratteristiche solitamente considerate non democratiche: l’obbedienza a chi governa, il potere nelle mani dell’esercito e l’influenza politica delle istituzioni religiose. Questi valori non sono generalmente considerati essenziali in democrazia, eppure l’obbedienza nei confronti di chi governa è ritenuta una caratteristica importante della democrazia dal 57 per cento dei russi e dal 45 per cento degli europei del sud. Va ricordato che l’obbedienza a priori al governo non permette di criticare né di protestare, in contrasto con uno dei diritti fondamentali democratici.

Coloro per cui la democrazia è irrinunciabile sono nettamente più numerosi nei paesi nordici e in Europa occidentale e meridionale rispetto ai paesi dell’est e soprattutto a quelli che sono entrati nell’Unione europea all’inizio degli anni duemila. L’attaccamento irrinunciabile alla democrazia non sembra aver subìto variazioni significative negli ultimi vent’anni.
La democrazia appare solida in Repubblica Ceca, Lituania ed Estonia, mentre è più fragile in Croazia e Romania (dove i democratici esclusivi sono rispettivamente il 10 e l’8 per cento). Questa realtà solleva parecchi interrogativi, considerando il fatto che si tratta di due paesi dell’Ue che dunque dovrebbero rispettarne i valori.
In Europa occidentale i tedeschi e gli svizzeri sono nettamente più legati al sistema democratico rispetto ai francesi, che non superano la media europea nella fedeltà esclusiva alla democrazia. L’89 per cento dei francesi ritiene che la democrazia sia un buon sistema, ma il 48 per cento dice lo stesso di un governo di esperti, il 23 per cento del potere autoritario di un uomo forte e il 13 per cento di un governo militare.
In Russia, nel contesto dominato da Vladimir Putin, i risultati dello studio possono sorprendere. Nel paese le persone che respingono sistemi alternativi alla democrazia sono il 41 per cento della popolazione, un livello comparabile a quello di altri paesi europei, tra cui la Francia (40 per cento). L’81 per cento dei russi considera la democrazia come un buon sistema, mentre il 32 per cento accetterebbe il governo di un leader autoritario e il 19 quello dei militari. Il livello del sostegno a un regime di esperti, invece, è particolarmente basso rispetto a molti paesi (38 per cento), un elemento che testimonia la forte sfiducia nei confronti dei tecnocrati dell’entourage presidenziale, ritenuti responsabili di tutto ciò che va male in Russia.
Complessivamente, in molti paesi dell’Unione europea la democrazia è più fragile di quanto si creda. I leader politici e quelli della società civile dovrebbero riflettere sul modo di rafforzare il legame tra i cittadini e il sistema democratico. In un contesto dove gli eletti vengono spesso criticati aspramente, le democrazie hanno bisogno di ritrovare legittimità.
*( Fonte: Internazionale. Pierre Bréchon, The Conversation, Francia – Traduzione di Andrea Sparacino)

 

04 – Andrea Pipino*: EVEREST È IL NUOVO NUMERO DI INTERNAZIONALE STORIA E RACCONTA LE SPEDIZIONI PER CONQUISTARE LA VETTA DELL’HIMALAYA ATTRAVERSO LA STAMPA DELL’EPOCA. SI PUÒ COMPRARE IN EDICOLA E ONLINE, OPPURE IN DIGITALE SULL’APP DI INTERNAZIONALE.
“Non sono molte le avventure moderne, almeno tra quelle pacifiche, ad aver conquistato lo status di allegorie. […] Una è stata l’impresa definitiva dell’esplorazione umana: l’arrivo dell’Apollo 11 sulla Luna. L’altra, la prima ascensione del monte Everest”, ha scritto Jan Morris, che raccontò per il Times di Londra la conquista della vetta più alta del mondo, il 29 maggio 1953. E in effetti in quell’impresa s’intrecciano suggestioni, temi e questioni di natura diversissima.
Per gli esploratori del primo novecento il picco dell’Himalaya era l’ultimo grande traguardo rimasto sulla Terra. “Perché è lì”, rispose George Mallory a chi nel 1924, prima della spedizione in cui sarebbe morto, gli chiese perché fosse così determinato a scalare l’Everest. Tre parole che distillano l’essenza dell’alpinismo: la sfida con se stessi, con le montagne, con la morte.
Nella scalata del 1953 c’è però anche molto altro. L’ostinazione con cui i britannici inseguono l’impresa per più di trent’anni è infatti in qualche modo eredità del conflitto militare e diplomatico combattuto tra le grandi potenze in Asia centrale lungo tutto l’ottocento, ed è alimentata dalla curiosità e dal coraggio di tanti esploratori, forse gli ultimi protagonisti di quel “grande gioco”. La conquista della vetta è anche uno dei sussulti finali dell’impero, sei anni dopo la perdita dei possedimenti indiani e tre anni prima della crisi di Suez, che segnerà il declino definitivo delle ambizioni di Londra di rimanere una potenza globale.
Ma la conquista dell’Everest riguarda soprattutto l’Asia, che proprio in quegli anni si stava liberando del dominio coloniale e stava ricostruendo identità nazionali il più possibile distanti dai modelli britannici. Su questo processo la missione del 1953 avrebbe avuto un’influenza non trascurabile. Ma non è ancora tutto: l’apertura di una via per la vetta solleva anche problemi ambientali, trasforma le pratiche dell’alpinismo e crea un nuovo rapporto con l’universo culturale e religioso dell’Himalaya. Insomma, parlando della scalata di Tenzing e Hillary si riflette necessariamente su colonialismo, politica, economia, geopolitica, antropologia, ecologia.
In Everest questi temi sono organizzati in tre sezioni, lungo un filo cronologico. La prima racconta le nove spedizioni organizzate tra il 1921 e il 1952, che aprono la strada alla scalata del 1953. Alla quale è invece dedicata la seconda sezione, con un lungo resoconto sul campo e i ritratti dei suoi due protagonisti. Nella terza parte si riflette sulle conseguenze della conquista dell’Everest con la consapevolezza – ambientale, culturale, politica – maturata negli ultimi decenni. Il tutto serve a fornire un quadro il più possibile ampio dell’impresa del 1953.
Ma di certo non basta a spiegare il dilemma più affascinante dell’alpinismo: da dove viene quel fuoco che spinge uomini e donne a rischiare la vita per raggiungere il punto più alto di una montagna e avvicinarsi un po’ di più al cielo.
*( Andrea Pipino, giornalista di Internazionale)

 

05 – Bruno Cartosio*: WASHINGTON 1963. IL DESIDERIO DEL SOGNO E LA REALTÀ DELL’INCUBO – 60 ANNI DI «I HAVE A DREAM» . IL SERMONE DURÒ MEZZ’ORA, LA PARTE PIÙ CELEBRE RECITATA A BRACCIO «QUESTO È UN INIZIO», ESORDÌ MARTIN LUTHER KING JR. NON ERA VERO
Il 28 agosto 1963, Martin Luther King accompagnò i neri americani agli sportelli della «banca della giustizia» per richiedere il pagamento della cambiale scaduta che gli Stati uniti avevano rilasciato al suo popolo. E che fino a quel momento avevano solamente fatto finto di pagare, rilasciando sempre «assegni scoperti». I neri avevano ragione nel pretendere che gli Stati uniti rispettassero gli alti principi che loro stessi si erano dati. E immaginando che un giorno fossero stati capaci di farlo, diventava possibile «sognare» un mondo di uguaglianza e di libertà per tutti. Fratelli.

QUEL GIORNO King fu l’ultimo a prendere la parola, introdotto dall’anziano ex sindacalista nero A. Philip Randolph come «la guida morale del nostro paese». Parlò come tale. La costruzione retorica del suo discorso fu perfetta. L’iniziale denuncia della vergogna storica del razzismo e delle infinite inadempienze del potere dovevano sollecitare l’indignazione morale dei presenti, ma anche aprire infine i varchi alla speranza, con la prefigurazione di che cosa sarebbe potuto essere un futuro di armonia tra le razze, invece che di prevaricazione e oppressione. Le reiterazione del «sogno», in crescendo, con le diverse immagini che di volta in volta dovevano illustrarlo e renderlo desiderabile, fu il culmine del discorso. Fino alla liberatoria e profetica invocazione finale: «Che la libertà risuoni dal fianco di ogni montagna. E se facciamo che la libertà risuoni, se facciamo che risuoni da ogni villaggio e ogni borgo, da ogni stato e ogni città, riusciremo ad avvicinare il giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, protestanti e cattolici saranno capaci di prendersi per mano e cantare le parole del vecchio spiritual nero, ‘Liberi infine!, liberi infine, grazie a Dio onnipotente, siamo liberi infine!’».
Il sermone durò meno di mezz’ora. King pose molta cura nel prepararlo, nel dosarne le parole e costruirne la linea. A un certo punto ne abbandonò la lettura, si è detto, ed è certamente vero che Mahalia Jackson, dietro di lui, a un certo punto lo incitò: «Martin, digli di quel sogno!». King andò a braccio, non per la foga, ma perché sapeva a memoria quello che voleva dire; lo aveva già detto altre volte. E Mahalia lo richiamò al «sogno» perché ne conosceva sia i contenuti, sia l’efficacia: King aveva già impiegato quello stratagemma retorico poche settimane prima a Detroit, in un’altra manifestazione con più di centomila partecipanti.
King due anni dopo
Ho continuato a pensare che le attuali istituzioni si potessero riformare, un piccolo mutamento qui e uno là. Ora la penso in modo del tutto diverso
Questo «millenovecentosessanta tre è un inizio», disse King nelle battute iniziali. Non era vero, naturalmente. Il movimento di cui lui stesso era testimone vivente era in atto da quasi dieci anni. E ne era testimone anche A. Philip Randolph, il sindacalista che nel 1941 aveva chiamato a una Marcia su Washington dei lavoratori neri che Roosevelt aveva evitato soltanto emettendo un Ordine esecutivo con cui bandiva le discriminazioni basate «sulla razza, sul credo, sul colore, sull’origine nazionale» negli impieghi pubblici e nelle industrie impegnate nella produzione bellica. Allora e nel dopoguerra la segregazione razziale e le discriminazioni nei luoghi di lavoro non cessarono, nella realtà. Nel 1963, la grande manifestazione «per la libertà e il lavoro» diceva che era necessario un nuovo inizio.
DUE ANNI PIÙ TARDI, dopo l’assassinio di Malcolm X a febbraio e dopo la rivolta nera di Watts a Los Angeles, King riconobbe che il sogno si era trasformato in «un incubo». Diede ancora momentaneamente fiducia a Lyndon Johnson per le sue politiche sociali, ma dopo i loro fallimenti e dopo l’inizio dell’escalation in Vietnam fu costretto ad ammettere di avere sbagliato: «Ho continuato a pensare che le attuali istituzioni si potessero riformare, un piccolo mutamento qui, un piccolo mutamento là. Ora la penso in un modo del tutto diverso. Credo che si debba avere una ricostruzione dell’intera società, una rivoluzione di valori», con una «ridistribuzione radicale del potere economico e politico» e una «ricostruzione radicale» della società. Malcolm X si era avvicinato a King, e l’ultimo King si era avvicinato all’ultimo Malcolm. Ma ormai era tardi. Aveva contro i grandi media e Washington. Non era più riconosciuto come guida morale della sua gente, e dopo le rivolte del 1967 il suo ruolo politico era contestato da altri protagonisti, da altre forze.
Tuttavia, la rabbia per il suo assassinio nel 1968 scatenò l’ultima grande sollevazione nera in tutto il paese. Nel 2018, a cinquant’anni da allora, i lavoratori della McDonald’s di Memphis, dove fu ucciso dopo aver partecipato allo sciopero dei netturbini, scesero in sciopero proprio il 4 aprile per ricordare il suo impegno per la «giustizia economica e razziale». E ora, a sessant’anni di distanza, nonostante i mutamenti legislativi conquistati dal movimento per i diritti civili, la temporanea presenza di un afroamericano alla Casa Bianca ha avuto ancora il potere di risvegliare il razzismo che sembrava dormiente nelle istituzioni e nella società.
Nessuno parlò di sogno realizzato quando fu eletto Obama. Anzi, come scrisse Kareem Abdul-Jabbar dopo l’assassinio poliziesco di George Floyd, il 25 maggio 2021, negli Stati Uniti il razzismo è dappertutto, è come «il pulviscolo atmosferico». E come decenni prima, gli eredi di Martin e Malcolm sono stati costretti a un altro nuovo inizio, tornando nelle strade a gridare che le vite nere contano.
*( Fonte : Internazionale – Il Manifesto. Bruno Cartosio (1943) insegna Storia dell’America del Nord all’Università di Bergamo. Si occupa da anni di storia sociale e culturale degli Stati Uniti. Ha fondato e diretto “Ácoma. Rivista Internazionale di Studi Nordamericani”.)

 

06 – Jill Lepore*: Christian Dellavedova – COSA RESTA DEI PRIMI PASSI SULLA LUNA – LE ORME SONO ANCORA LÌ, L’IMPRONTA A RIGHE DEGLI STIVALI DI NEIL ARMSTRONG INCROSTATA DI POLVERE.
Non c’è atmosfera sulla Luna, non c’è vento e non c’è acqua. Le impronte non vengono spazzate via e non c’è nessuno che le calpesti. Micrometeoriti velocissimi, particelle in miniatura che viaggiano a più di cinquantamila chilometri all’ora, bombardano continuamente la superficie della Luna, ma sono così infinitesimali che erodono le cose al ritmo più o meno inavvertibile di 0,1 centimetri ogni milione di anni. Perciò, se non saranno colpite da una meteora sprofondando in un cratere, queste impronte dureranno per decine di milioni di anni.

Quest’estate ricorre mezzo secolo da quando Armstrong fece la prima passeggiata lunare della storia, anche se a livello cosmologico è passato appena uno schioccare di dita. “L’uomo è sulla Luna!”, gridò Walter Cronkite al telegiornale della Cbs, senza fiato, mentre il mondo osservava rapito. I ragazzi lontani da casa nei campi estivi marciarono dalle loro tende nel folto dei boschi fino alle sale mensa per crollare seduti davanti al piccolo schermo, mentre gli istruttori armeggiavano con le antenne portatili. “È un piccolo passo per un uomo”, fu la frase immortale pronunciata da Armstrong mentre scendeva dalla scaletta del modulo lunare il 20 luglio 1969, “ma un balzo gigantesco per l’umanità”. E poi posò il suo stivale grigio e bianco nella polvere e lasciò quella prima impronta.

Cosa resta davvero di quel momento? A cosa serviva la missione? E cosa si lasciava dietro, qui sulla Terra? Cinquant’anni dopo, inondazioni rese più frequenti dal cambiamento climatico hanno cominciato a portare via la base da cui fu lanciato l’Apollo 11, il Kennedy space center in Florida (la Nasa ha spedito della sabbia per cercare di puntellare le dune devastate), mentre uragani aggravati dall’innalzamento del livello dei mari minacciano il centro di controllo della missione Apollo 11, il Johnson space center in Texas. Houston, abbiamo un problema.
Molta della bellezza, della meraviglia e dell’estatico sgomento della spedizione sulla Luna si ricordano soprattutto guardando le fotografie scattate dagli astronauti statunitensi con speciali macchine svedesi, le Hasselblad, usate per la prima volta nel 1962 sul Mercury 8, che aveva la missione di orbitare intorno alla Terra. Come spiega la fotografa e curatrice Deborah Ireland in Hasselblad and the Moon landing (Ammonite 2019), i tre astronauti dell’Apollo 11 Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins dovevano dividersi due Hasselblad. “Accidenti, ridammi la macchina fotografica”, disse Aldrin mentre si avvicinavano alla Luna. L’immagine iconica della singola impronta mostra l’orma dello stivale di Aldrin, non di Armstrong, e fu Aldrin a scattare la foto di Armstrong che aveva appena piantato la bandiera degli Stati Uniti, accanto alla base che chiamarono Tranquillity. Collins rimase sul modulo di comando e servizio, in orbita. “Che stai facendo, Mike? Cosa fotografi?”, chiese Armstrong a Collins durante il viaggio di ritorno sulla Terra, mentre continuavano a osservare la superficie lunare. “Oh, non lo so”, rispose Collins. “Sto solo sprecando pellicola, probabilmente”. Non fu sprecata. Le foto rimangono straordinarie.
Eppure, prima del luglio 1969, molti critici pensavano che l’intero programma fosse uno spreco. Prima dell’allunaggio non ci fu mai un momento in cui l’opinione pubblica statunitense appoggiasse la missione, racconta Roger D. Launius, storico della Nasa in pensione, nel suo Apollo’s legacy: perspectives on the Moon landings (Smithsonian 2019). Costò 25,4 miliardi di dollari (180 miliardi di dollari di oggi) e negli anni sessanta era la maggiore voce di spesa del governo statunitense, fatta eccezione per la guerra in Vietnam. Malgrado l’indiscutibile ingegno di tecnici e scienziati e l’intrepido coraggio degli astronauti, quelli che criticavano la missione continuavano a definirla uno spreco.
Ma dopo lo strabiliante trionfo dell’allunaggio, con conseguente dilagare della moda dei moon boot, sia l’indifferenza generale sia lo scetticismo furono dimenticati. Li hanno dimenticati anche alcuni di questi nuovi libri, che sono per lo più celebrativi.
“Fino a quando sulla Terra prevarranno il razzismo, la povertà, la fame e la guerra, noi come paese civile avremo fallito
“L’uomo è sempre andato dove è stato capace di andare”, disse Collins in una sessione congiunta del congresso degli Stati Uniti nel settembre 1969, e sono le parole con cui James Donovan sceglie di concludere Shoot for the Moon: the space race and the extraordinary voyage of Apollo 11 (Little, Brown 2019). I primi libri di Donovan sono fanfaronesche ricostruzioni della battaglia di Alamo, The blood of heroes, e dell’ultima resistenza di Custer, A terrible glory, in cui gli uomini trionfano perfino quando sono sconfitti. Questa è anche la sua idea dell’Apollo, una posizione che non lascia spazio, per esempio, alle donne. “Se credete che andare sulla Luna sia difficile, provate a restare a casa”, disse Barbara Cernan, moglie di Gene Cernan, che faceva parte dell’equipaggio dell’Apollo 10 ed era il comandante dell’Apollo 17. Potete leggere di lei in The astronauts’ wives club di Lily Koppel (Hachette 2013), ma non la troverete nella ricostruzione di Donovan. Non troverete una sola parola neppure sulla pilota Jerrie Cobb, detentrice di numerosi record, che nel 1961 diventò la prima di 13 donne a qualificarsi per diventare astronauta. La Nasa si rifiutò di farle volare, come ha spiegato Martha Ackmann in The Mercury 13 (Random House 2004). Cobb dette battaglia. “Cerchiamo solo un posto nel futuro spaziale del nostro paese, senza discriminazioni”, dichiarò davanti a una commissione d’indagine del congresso, nel 1962. Nel 1998, quando aveva 67 anni, disse: “Darei la vita per volare nello spazio, la darei veramente”. È morta nella primavera scorsa a 88 anni. Sulla Luna le sue impronte non ci sono.
L’allunaggio è una questione di memoria pubblica, il che è un altro modo per dire che è storia dibattuta. Nel 1971 Michael Collins diventò il direttore del National air museum della Smithsonian institution. È lui a scrivere l’introduzione di Apollo to the Moon: a history in 50 objects (National Geographic 2018), a cura di Teasel Muir-Harmony. La raccolta comprende un manufatto ottenuto in prestito dallo Smithsonian museum of african-american history: una lattina ricoperta da una foto del reverendo Martin Luther King e di Ralph Abernathy, suo successore alla guida della Southern christian leadership conference (Sclc). La Sclc usava questo tipo di lattine per raccogliere donazioni durante le sue iniziative, come quella promossa da Abernathy al Kennedy space center il 15 luglio 1969, il giorno prima del lancio dell’Apollo 11. Abernathy aveva un cartello con la scritta: “12 dollari al giorno per nutrire un astronauta. Noi potremmo nutrire un bambino affamato con 8”.
Muir-Harmony cita le parole di Abernathy, che avrebbe detto: “Alla vigilia della più nobile avventura dell’uomo, sono profondamente commosso dai traguardi raggiunti dal nostro paese nello spazio”, ma curiosamente taglia la parte significativa di quel discorso, che potete sentire pronunciare da Abernathy nelle scene iniziali di un ambizioso ed emozionante documentario in tre parti della Pbs/American Experience, Chasing the Moon, uscito insieme al libro che lo accompagna, Chasing the Moon: the people, the politics, and the promise that launched America into the space age (Ballantine 2019), del regista del film, Robert Stone, e di uno dei suoi produttori, Alan Andres. “A partire da oggi possiamo andare su Marte, su Giove e perfino nei cieli al di là”, disse Abernathy, “ma fino a quando sulla Terra prevarranno il razzismo, la povertà, la fame e la guerra, noi come paese civile avremo fallito”. Seguendo questo criterio, gli ultimi cinquant’anni di storia sono stati un susseguirsi di sconfitte.
In American moonshot: John F. Kennedy and the great space race (HarperCollins 2019), il migliore dei nuovi studi sulla missione americana nello spazio, ricco di ricerche e rivelazioni, lo storico Douglas Brinkley esamina attentamente questo e altri attacchi lanciati dagli attivisti dei diritti civili, come Whitney Young della National urban league. “Portare due uomini sulla Luna costerà 35 miliardi di dollari”, protestò Young. “Ne basterebbero dieci quest’anno per portare ogni povero del paese sopra la soglia ufficiale di povertà. C’è qualcosa di sbagliato da qualche parte”. Ma Brinkley conclude che, da un punto di vista puramente economico, la missione valeva quei soldi, visto che i suoi benefici si sono estesi a questioni di salute pubblica. “La tecnologia che gli Stati Uniti hanno ricavato dagli investimenti federali negli equipaggiamenti spaziali (ricognizione satellitare, attrezzature biomediche, materiali leggeri, sistemi di purificazione dell’acqua, migliori sistemi informatici e un sistema globale di ricerca e soccorso) ha più che compensato le spese”.
– Christian Dellavedova
In One giant leap: the impossible mission that flew us to the Moon (Simon & Schuster 2019) Charles Fish-man suggerisce che le critiche al programma furono dimenticate perché nell’estate del 1969 quasi dalla sera alla mattina l’Apollo diventò un simbolo dell’esatto contrario del Vietnam: l’Apollo era il paese nella sua versione migliore, il Vietnam nella peggiore. Fishman non è particolarmente interessato a questo aspetto; gran parte del suo libro, invece, è una lunga argomentazione a favore della tesi che la missione meritava di essere realizzata, per ragioni che lasceranno perplessi molti lettori. “La corsa alla Luna non ha inaugurato l’era spaziale”, insiste, “ha inaugurato l’era digitale”. E sottolinea, in particolare, lo sviluppo dei circuiti integrati e l’elaborazione dei dati in tempo reale.
Ma c’è qualcos’altro, qualcosa di più importante di cui Fishman attribuisce il merito alla conquista della Luna: “Nel 1961, quando ebbe inizio la corsa alla Luna, nella cultura popolare non c’era nessuna percezione della tecnologia come di una forza nella vita quotidiana dei consumatori, a differenza di oggi”. Il suo argomento sembra funzionare così: l’Apollo non ci ha portato su Marte, o almeno non ancora, però ci ha portato Alexa! La contro argomentazione potrebbe funzionare così: il mio paese è andato sulla Luna e tutto quello che ci ho guadagnato è questo schifoso stato di polizia.
La corsa alla Luna cominciò come una corsa alla Casa Bianca. Il 4 ottobre 1957, l’Unione Sovietica lanciò in orbita il primo satellite, lo Sputnik. L’opinione pubblica statunitense fu presa dal panico e i democratici decisero di usare questo panico a scopi politici. “La gente presto immaginerà un russo seduto sullo Sputnik con un binocolo che legge la posta alle sue spalle”, scrisse il 17 ottobre a Lyndon Johnson, candidato democratico alla vicepresidenza, il suo stratega George Reedy. “È una questione che, se gestita correttamente, potrebbe mettere al tappeto i repubblicani, unire il Partito democratico e farti eleggere presidente”. Ancora prima dello Sputnik, il senatore del Massachusetts John Fitzgerald Kennedy aveva ripetutamente attaccato il presidente Eisenhower accusandolo di non destinare finanziamenti adeguati al programma missilistico, che secondo lui aveva causato un ritardo degli Stati Uniti rispetto all’Unione Sovietica nella corsa agli armamenti e quello che Kennedy definì “un gap missilistico”. Nel novembre 1957, Johnson, in quanto leader della maggioranza, aprì le audizioni del senato sul ritardo degli Stati Uniti e ammonì il paese: “Presto i russi ci lanceranno bombe dallo spazio come bambini che lanciano pietre sulle automobili dai cavalcavia delle autostrade”.
La scrittrice e ambientalista Rachel Carson osservava con sgomento la creazione di questo “universo dell’era spaziale”. Gli uomini fantasticavano sulla “conquista dello spazio” da prima di H.G. Wells, come lei sapeva benissimo. “Prima dello Sputnik era facile liquidare tutto come fantascienza”, scrisse alla donna che amava, Dorothy Freeman, nel febbraio 1958. “Ora i progetti più inverosimili sembrano traguardi perfettamente raggiungibili. E sembra davvero possibile che l’uomo – per quanto psicologicamente poco preparato – prenda nelle sue mani molte delle funzioni di Dio”. Le audizioni di Johnson incoraggiarono Carson a scrivere un libro che per lungo tempo chiamò L’uomo contro la Terra, ma che alla fine fu pubblicato nel 1962 con il titolo Primavera silenziosa (Feltrinelli 2016).
Nel 1958, in Vita activa. La condizione umana (Bompiani 2017), Hannah Arendt descriveva il lancio dello Sputnik come un avvenimento della storia umana “secondo a nessun altro per importanza, neppure alla scissione dell’atomo”. Come Carson, Arendt non celebrava questi sviluppi, descritti dalla stampa dell’epoca come il primo “passo verso la fuga dalla prigionia degli uomini sulla Terra”. Una fuga? “Nessuno nella storia dell’umanità ha mai concepito la Terra come una prigione per gli uomini o ha dimostrato un tale desiderio di andarsene letteralmente da qui alla Luna”, scriveva Arendt, lamentando gli albori di un’epoca in cui la Terra veniva sentita come una prigione e lo spazio era l’ennesimo luogo da conquistare.
Il programma fu lanciato nell’ambito di una competizione tra partiti, ma fu ovviamente anche un fronte della guerra fredda
Nel 1958, l’anno in cui Carson cominciò a scrivere Primavera silenziosa e Arendt pubblicò Vita activa, il presidente Dwight Eisenhower fondò la Nasa, con la significativa e importante accortezza d’istituirla come ente civile.
In un discorso d’addio pronunciato il 17 gennaio 1961, tre giorni prima dell’insediamento di Kennedy, Eisenhower deplorava la corsa agli armamenti e accusava quello che definì “il complesso militare-industriale”. Il 12 aprile 1961, quando Kennedy non aveva ancora finito di sistemarsi nello studio ovale, i sovietici mandarono un uomo nello spazio, Jurij Gagarin. Cinque giorni dopo, Kennedy faceva i conti con la prima crisi della sua presidenza: la pasticciata invasione della baia dei Porci cubana, a sua volta un fallimento dell’intelligence e della tecnologia. A una conferenza stampa, un giornalista gli chiese: “Signor presidente, non crede che dovremmo cercare di arrivare sulla Luna prima dei russi?”. Il 5 maggio Alan Shepard diventò il primo americano a volare nello spazio, in una missione nota come Freedom 7. Il 25 maggio, in un messaggio al congresso, Kennedy si avvicinò a una decisione: “Questo paese dovrebbe impegnarsi a raggiungere l’obiettivo, entro la fine del decennio, di far atterrare un uomo sulla Luna e riportarlo sulla Terra sano e salvo”.
Kennedy aveva fatto campagna elettorale promettendo una nuova frontiera, e intendeva essere di parola. “‘Perché la Luna?’, chiedono alcuni”, disse in un emozionante discorso alla Rice University, a Houston, il 12 settembre 1962. “Siamo salpati in questo nuovo mare perché ci sono nuovi saperi da acquisire e nuovi diritti da conquistare, e devono essere conquistati e usati per il progresso di tutti”.
Ma se il programma fu lanciato nell’ambito di una competizione tra partiti, fu ovviamente anche un fronte della guerra fredda. Nel suo …The heavens and the Earth: a Political History of the space age (Basic Books 1985) Walter A. McDougall, storico della University of Pennsylvania sostiene che il passaggio da Eisenhower a Kennedy, all’indomani dello Sputnik, cambiò la natura stessa della guerra fredda. “Se fino ad allora era stata una lotta militare e politica in cui gli Stati Uniti dovevano solo dare aiuto e conforto ai loro alleati sulle linee del fronte”, ha scritto McDougall, “la guerra fredda ora diventava totale, una competizione per la lealtà e la fiducia di tutti i popoli combattuta in ogni campo del progresso sociale, in cui i manuali di scienza e l’armonia razziale erano strumenti di politica estera quanto i missili e le spie”.
Per McDougall, un conservatore, la corsa alla Luna guidata dai democratici fu un passo sulla “strada della servitù”. “Formare x migliaia di ingegneri, raggiungere la Luna entro il 19xx, posizionare x missili nei silos a prescindere dal dispiegamento sovietico, pianificare una crescita economica dell’x per cento senza disoccupazione e senza inflazione, questi non erano incarichi assegnati da una società libera ma i dettami di un’economia di comando”.
Le persone attirate da questo argomento spesso lo sono anche dallo studio di Wernher von Braun, l’ex nazista ed ex ufficiale delle Ss che diresse il programma missilistico statunitense. Durante la seconda guerra mondiale, von Braun aveva presieduto alla produzione del missile tedesco V-2 (La “V” stava per Vergeltung, vendetta) in un impianto costruito all’interno del campo di concentramento di Mittelbau-Dora, dove i missili venivano montati dai detenuti. Diventare cittadino statunitense non sembrò diminuire lo zelo di von Braun per uno sviluppo tecnologico senza freni. “Non sentivamo nessuno scrupolo morale per il possibile abuso futuro della nostra creatura”, disse al New Yorker nel 1951. “Se non lo avessi fatto io lo avrebbe fatto qualcun altro” (la sua amoralità è al centro di una canzone registrata nel 1965 da Tom Lehrer: “Non dire che è ipocrita / di’ piuttosto che è apolitico / ‘Quando i missili sono in aria, a chi importa dove vengono giù? Questo non è di mia competenza’, dice Wernher von Braun”).
Le conseguenze apparentemente impreviste dello sviluppo di tecnologie che avrebbero portato l’uomo sulla Luna non erano la maggiore preoccupazione dell’amministrazione Kennedy, soprattutto perché molte di quelle conseguenze furono intenzionali: i missili possono portare anche le armi, e tutto quello che abbiamo imparato dalla missione sulla Luna ha avuto applicazioni militari, anche se la Nasa era un’agenzia civile. Se non erano allarmate dalle implicazioni della conquista dello spazio o dal futuro della guerra, le amministrazioni Kennedy e Johnson erano molto preoccupate dal movimento per i diritti civili. Edward R. Murrow, che aveva lasciato la Cbs per un incarico nell’amministrazione Kennedy, sollecitò il presidente a mettere un astronauta nero nella missione sulla Luna: “Non vedo nessun motivo per cui i nostri sforzi nello spazio esterno debbano riflettere così fedelmente la discriminazione che esiste su questo pianeta minore”.
Fu quindi reclutato Edward Dwight, che diventò il primo pilota nero dell’aviazione a essere addestrato nell’Aerospace research pilot school della base aerea Edwards. Ma, come ci racconta in Chasing the Moon, fu quasi costretto ad andarsene dal suo comandante, Chuck Yeager, che dette ordine alle altre reclute di non rivolgergli la parola. Nel frattempo, come racconta Brinkley, la Casa Bianca usò il programma spaziale per cercare di promuovere lo sviluppo economico del sud, soprattutto dopo l’arrivo di Johnson alla presidenza. “La Casa Bianca stava lavorando sodo per cambiare il vecchio sud”, scrive Brinkley, “anche usando la Nasa per portare posti di lavoro high-tech e un modo di pensare futuristico in regioni arretrate e lente ad abbandonare pregiudizi violenti e controproducenti”.

Nella misura in cui fu un progetto progressista con un grande intervento governativo, il programma spaziale non sopravvisse alla svolta conservatrice della politica statunitense. “Molti problemi cruciali di questo pianeta esigono un’alta priorità in termini di attenzione e di risorse”, disse Richard Nixon nel 1970 quando, da presidente, respinse la raccomandazione della Nasa di costruire una stazione sulla Luna da usare come base per l’esplorazione di Marte. Nella misura in cui fu un’altra battaglia della guerra fredda, il programma spaziale sopravvive solo nelle fantasie di Donald Trump, con la sua proposta di una forza armata spaziale. E se il programma spaziale implicava un ripudio dell’umanità stessa, l’eredità dell’Apollo è Alexa, e ci perseguita tutti.
Un piccolo passo per un uomo, un balzo gigantesco per l’umanità. Quello che ci ha lasciato la spedizione sulla Luna è la meraviglia della scoperta, la gioia della conoscenza, non l’eccezionalità dei macchinari ma la saggezza della bellezza e il potere dell’umiltà. Una sola immagine, la foto della Terra dallo spazio scattata da William Anders dall’Apollo 8 nel 1968, è diventata l’icona dell’intero movimento ambientalista. Le persone che hanno visto la Terra dallo spazio, non in fotografia ma nella vita reale, ripetono più o meno tutte la stessa cosa. “Basta passare anche poco tempo a contemplare la Terra dall’orbita, e i nazionalismi più radicati cominciano a erodersi”: così l’astronomo statunitense Carl Sagan una volta descrisse il fenomeno. “Sembrano gli scontri degli acari su una prugna”.
Questa esperienza, questa sensazione di trascendenza è così universale tra la minuscola manciata di persone che hanno avuto occasione di provarla che gli scienziati le hanno dato un nome. Si chiama effetto veduta d’insieme. Hai una sensazione d’interezza. I fiumi sembrano sangue. “La Terra è come una cosa vivente e vibrante”, ha pensato l’astronauta cinese Yang Liu vedendola. Colse Alan Shepard di sorpresa. “Se qualcuno prima del volo mi avesse chiesto ‘Ti lascerai prendere dall’emozione guardando la Terra dalla Luna?’, avrei risposto ‘No, assolutamente no’. Eppure, la prima volta che ho guardato la Terra dalla Luna ho pianto”. Il cosmonauta russo Jurij Artjushkin l’ha espresso così: “Non è importante in quale mare o lago osservi una chiazza d’inquinamento o nella foresta di quale paese scoppia un incendio o in quale continente si forma un uragano. Stai facendo la guardia a tutta la nostra Terra”.
Tutto questo è bellissimo. Ma ecco l’intoppo. Sono passati cinquant’anni. Il livello delle acque sta salendo. La Terra ha bisogno di essere protetta, e non solo da chi l’ha vista dallo spazio. Per salvare il pianeta non occorre una nuova corsa alla Luna, o su Marte, ma alla Casa Bianca, mettendo un piede davanti all’altro.
*(Jill Lepore, The New York Times – Traduzione di Giuseppina Cavallo – Questo articolo è stato pubblicato il 19 luglio 2019 sul numero 1316 di Internazionale)

 

07 – Pierre Haski*: IL RUOLO DELL’AFRICA NEI NUOVI EQUILIBRI MONDIALI . IL CONTINENTE AFRICANO, CON I SUOI 54 STATI, È AL CENTRO DELL’ATTUALE PROCESSO DI RICOMPOSIZIONE DEL MONDO: È CORTEGGIATO PER LE SUE MATERIE PRIME, È DIVENTATO UNO DEI TERRENI PRIVILEGIATI DELLE BATTAGLIE PER IL CONTROLLO DELLE SFERE D’INFLUENZA E I SUOI VOTI ALL’ONU SONO MOLTO AMBITI.
La Francia è stata scossa nel suo “giardino privato” dell’Africa francofona. Il 28 agosto il presidente Emmanuel Macron ha parlato con fermezza della crisi scoppiata con il golpe militare in Niger, ma questa è solo una delle manifestazioni del grande gioco al centro del quale si trova l’Africa.
Il 29 agosto il ministro degli esteri ucraino Dmytro Kuleba sarà a Parigi, ospite d’onore della conferenza annuale degli ambasciatori francesi. Kuleba partecipa a una riunione senza precedenti con tutti gli ambasciatori francesi in Africa, il cui obiettivo è aiutare l’Ucraina a far sentire le proprie ragioni nel continente e convincerla ad abbandonare un attendismo che avvantaggia la Russia.

RIPETUTI COLPI DI SCENA
È un approccio eccezionale che illustra bene la difficoltà di trattare con un’Africa che vuole emanciparsi dalla tutela dei vecchi colonizzatori, anche a rischio di sacrificare la sovranità di uno stato.
È una difficoltà che la Francia conosce bene. Nel suo discorso davanti agli ambasciatori riuniti a Parigi, Macron ha criticato “l’alleanza barocca degli pseudo panafricanisti e dei nuovi imperialisti”. “È una follia!”, ha esclamato il presidente.
I GOLPE CHE SI SUSSEGUONO NEL SAHEL SPINGONO LA FRANCIA SULLA DIFENSIVA
Non è detto che questa indignazione produca risultati positivi, perché la Francia è in difficoltà. Dopo la sua elezione nel 2017, Macron aveva cercato di creare un nuovo rapporto con il continente africano, “senza paternalismo né debolezza”, come ha ribadito il 28 agosto. Ma il presidente deve fare i conti con il malfunzionamento delle strutture statali nel Sahel, che si rivolta contro il vecchio colonizzatore. Il rinnovamento della politica africana della Francia è messo in scacco dai colpi di scena che si susseguono uno dopo l’altro.
I golpe a ripetizione in Sahel, infatti, spingono la Francia sulla difensiva. La posizione di principio difesa da Macron, che si è rifiutato di ritirare l’ambasciatore francese dalla capitale nigerina, Niamey, nonostante le pressioni della giunta, si scontra con opinioni africane arroventate.
Parigi si rifugia dietro la Comunità degli stati dell’Africa occidentale, la Cedeao, i cui dirigenti temono un’epidemia di colpi di stato. Ma non è scontato che la Cedeao abbia i mezzi per ristabilire l’ordine costituzionale in Niger. Di sicuro un intervento armato sarebbe una catastrofe.
Questa impasse, di cui vuole approfittare una potenza in cerca di influenza come la Russia, contribuisce al degrado dell’ordine mondiale. Come sottolineava il 28 agosto Macron, la situazione “crea il rischio di un indebolimento dell’occidente e in particolare della nostra Europa. Dobbiamo essere lucidi senza essere troppo pessimisti”.
La guerra in Ucraina è evidentemente l’argomento che determina i nuovi rapporti di forza. Ma in questo conflitto dall’impatto globale l’Africa ha un grande peso. Una rottura non è nell’interesse né della Francia né dell’Europa e nemmeno dell’Africa, in cerca di alleati per portare avanti il proprio sviluppo. Di sicuro evitarla è una priorità.
(Pierre Haski, France Inter, giornalista. Traduzione di Andrea Sparacino)

 

08 – Mappe del potere – ANCORA POCHE LE DONNE ALLA GUIDA DELLE PRINCIPALI CITTÀ ITALIANE – IN ITALIA SOLO 9 DONNE RICOPRONO LA CARICA DI SINDACO DI UN COMUNE CAPOLUOGO. NELLE GIUNTE E NEI CONSIGLI LA QUOTA FEMMINILE È PIÙ ELEVATA SOLO PER GLI INCARICHI PER CUI SONO PREVISTE NORME SULL’EQUILIBRIO DI GENERE. REGOLE CHE PERÒ POSSONO TALVOLTA ESSERE AGGIRATE.(*)

• LE DONNE CHE RICOPRONO IL RUOLO DI SINDACO IN UN COMUNE CAPOLUOGO SONO L’8,4%.
• LE DONNE CHE RICOPRONO IL RUOLO DI ASSESSORE SONO IL 44,2%, DI VICESINDACO IL 34,9%.
• IN 31 GIUNTE COMUNALI LA QUOTA DI DONNE È MAGGIORE DEL 40% MA SOLO IN 4 CASI VIENE SUPERATO IL 50%.
• IN 19 COMUNI LE DONNE IN GIUNTA SONO MENO DEL 40%.
La nascita del primo governo guidato da una donna ha rappresentato senza dubbio un elemento di grande novità nel panorama politico italiano. Per quanto importante però questo singolo incarico non è sufficiente a bilanciare lo squilibrio di genere che caratterizza la politica italiana a tutti i livelli: parlamento, regioni e comuni.
Per quanto riguarda questi ultimi, le recenti elezioni amministrative hanno visto una crescita di donne elette come prime cittadine delle principali città italiane (da 7 a 9). Parliamo comunque di numeri bassissimi, considerando gli oltre cento capoluoghi di provincia nel paese. A questo si aggiunge che, con la fine del mandato della sindaca di Ancona Valeria Mancinelli, oggi nessuna donna guida un capoluogo di regione.

8,4% LA QUOTA DI DONNE A RICOPRIRE LA CARICA DI SINDACO IN UN COMUNE CAPOLUOGO.

Norme sulla disparità di genere e libertà di voto
In Italia gli incarichi politici nelle amministrazioni locali sono sottoposti a una serie di norme a tutela dell’equilibrio di genere.
Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.
– Costituzione italiana, articolo 51
In attuazione dell’articolo 51 della costituzione sono intervenute nel tempo alcune leggi (in particolare il testo unico sugli enti locali e la legge Delrio) che tuttavia hanno dovuto bilanciare questo principio con la libertà di voto. Per i consiglio comunali quindi, non potendo incidere sugli eletti, si è intervenuti sulle candidature prevedendo che in ciascuna lista elettorale nessun genere può essere rappresentato per oltre i due terzi. Inoltre è stata inclusa la possibilità di inserire due voti di preferenza che, se espressi entrambi, devono differire per genere del candidato (doppia preferenza di genere).
La legge elettorale utilizzata per eleggere i sindaci e i consiglieri comunali è la stessa in quasi tutta Italia. Nelle regioni a statuto speciale i sistemi elettorali sono di solito molto simili, pur esprimendo talvolta alcune specificità. Vai a “Come funziona la legge elettorale nei comuni”
Com’è ovvio una disciplina di questo tipo non può riguardare l’elezione a una carica monocratica, come quella del sindaco. La legge però, come vedremo meglio in seguito, è intervenuta sulla composizione della giunta comunale, prevedendo che nessun genere possa essere rappresentato in misura inferiore al 40%, almeno nelle regioni a statuto ordinario.

LA DISTRIBUZIONE DI GENERE NEGLI INCARICHI
A dimostrazione dell’efficacia, almeno parziale, delle norme sull’equilibrio di genere è possibile osservare come siano proprio gli incarichi su cui intervengono queste regole quelli su cui si registra la maggiore presenza femminile.
Le donne assessore nei comuni capoluogo sono infatti il 44,5%. Sono meno le vicesindache (35,8%) e, a maggior ragione, le sindache (8,4%). L’incarico di vertice delle amministrazioni comunali in effetti è anche quello in cui, complessivamente, le donne trovano minore rappresentanza.

LE DONNE NELLE GIUNTE DEI COMUNI CAPOLUOGO NEL 2023
LA QUOTA DI DONNE CHE RICOPRONO I RUOLI DI SINDACO, VICESINDACO, ASSESSORE, PRESIDENTE DEL CONSIGLIO COMUNALE O CONSIGLIERE IN UN COMUNE CAPOLUOGO DI PROVINCIA

IN ITALIA I COMUNI CAPOLUOGO DI PROVINCIA SOLO 109 (VISTO CHE NELLA PROVINCIA DI BARLETTA ANDRIA E TRANI TUTTE E TRE LE CITTÀ SONO CONSIDERATE CAPOLUOGO).
Le percentuali relative al ruolo di sindaco però si riferiscono ai 107 comuni in cui al momento qualcuno ricopre questo incarico. Il comune di Foggia infatti è attualmente commissariato mentre in quello di Reggio di Calabria il sindaco risulta sospeso ed è attualmente in carica il vicesindaco facente funzioni. I vicesindaci invece risultano essere 106 visto il commissariamento di Foggia e il mancato conferimento di un incarico di questo tipo nei comuni di Andria e Trapani. Sono 107 infine i presidenti del consiglio comunale sempre a causa del commissariamento di Foggia oltre che della mancata elezione di un nuovo presidente del consiglio comunale di Potenza.
Discorso analogo vale anche per gli incarichi in consiglio comunale. Sono infatti il 32,5% le donne che ricoprono il ruolo di consigliere semplice o di vicepresidente del consiglio comunale. Un dato ancora non sufficiente per parlare di un effettivo equilibrio di genere ma decisamente più elevato di quello delle donne che presiedono i consigli comunali (14%).

LE GIUNTE COMUNALI E I REQUISITI DI LEGGE
Come abbiamo visto la legge prevede che nelle giunte comunali il genere meno rappresentato costituisca almeno il 40%.
In 32 dei 107 comuni considerati la quota di donne in giunta supera il 40%. Tra questi 9 si trovano in una situazione di parità (50%) mentre in 4 giunte il numero di donne supera quello degli uomini. Si tratta di Pavia, Rovigo, Vibo Valentia (in cui sono presenti 5 donne e 4 uomini) e Modena (6 donne e 4 uomini). In altri 56 comuni invece il numero di donne in giunta arriva esattamente al 40%.
Il rispetto dell’equilibrio di genere nelle giunte comunali nel 2023
Nelle giunte comunali il genere meno rappresentato dovrebbe costituire almeno il 40%, ma questo limite non viene sempre rispettato

IN ITALIA I COMUNI CAPOLUOGO DI PROVINCIA SOLO 109 (VISTO CHE NELLA PROVINCIA DI BARLETTA ANDRIA E TRANI TUTTE E TRE LE CITTÀ SONO CONSIDERATE CAPOLUOGO).
Dato che il comune di Foggia risulta attualmente commissariato e il sindaco di Reggio Calabria è attualmente sospeso dall’incarico, i comuni considerati sono 107. Per “soglia Delrio” si intende la quota minima di rappresentanza di entrambi i generi in giunta come definita dalla legge 56/2014 e interpretata dalla giurisprudenza del consiglio di stato. Detta soglia tuttavia non è necessariamente vincolante per i comuni appartenenti a regioni a statuto speciale.
*(FONTE: openpolis – aggiornamento: martedì 22 Agosto 2023)

 

09 – Matt Simon*: L’ESTATE NERA DEL CLIMA. DAGLI INCENDI DI MAUI ALLE ALTISSIME TEMPERATURE OCEANICHE, IL CAMBIAMENTO CLIMATICO STA LASCIANDO UN SEGNO INNEGABILE SUL NOSTRO PIANETA
Con il rapido aumento delle temperature globali, l’umanità sta assistendo a un numero sempre maggiore di eventi climatici disastrosi contro cui gli scienziati ci avevano messo in guardia: ondate di calore più violente, incendi più intensi e piogge più pesanti. Gli eventi estremi degli ultimi mesi sono solo un’anticipazione delle sempre più gravi devastazioni a cui andremo incontro se non riduciamo drasticamente le emissioni di anidride carbonica (CO2).
“Abbiamo avuto senza dubbio grandi [eventi] estremi in diversi parti del mondo – spiega lo scienziato del clima Zeke Hausfather, del gruppo di ricerca Berkeley Earth –. Le temperature globali e quelle della superficie marina, in particolare nella regione dell’Atlantico settentrionale, sono state fuori scala. Il ghiaccio marino antartico è stato eccezionalmente basso. Se mi aveste chiesto cosa mi sarei aspettato di vedere quest’estate, non avrei detto questa concomitanza di estremi”.
Cosa ha reso quest’estate così negativa? Innanzitutto, lo strato di base di riscaldamento globale rende il caldo estivo estremo più comune e più grave di quanto sarebbe normalmente. Inoltre, quest’estate l’Oceano Pacifico è passato dalle acque più fredde di La Niña a quelle più calde di El Niño, che influenzano il clima di tutto il pianeta.
Gli scienziati stanno anche cercando di capire se il ruolo della polvere del Sahara, che normalmente soffia sull’Oceano Atlantico durante l’estate. Ma nel 2023 questa polvere è diminuita, consentendo all’energia solare di riscaldare maggiormente l’acqua. Le nuove norme sul trasporto marittimo poi hanno ridotto le emissioni di zolfo, un fattore questo potrebbe aver ripulito l’aria. “Per districare tutte le cause specifiche degli eventi estremi a cui stiamo assistendo quest’estate ai ricercatori servirà un po’ di tempo”, dice Hausfather.

1. TEMPERATURE RECORD IN TUTTO IL MONDO
Secondo la Nasa, questo giugno è stato il più caldo mai registrato. Poi è arrivato luglio, che non solo è stato il luglio più caldo, ma anche il mese più caldo da quando sono iniziate le rilevazioni nel 1880. “Quello a cui stiamo assistendo non è che solo quest’anno sono stati battuti dei record, ma che questi eventi da record si verificano più frequentemente, che è quello che secondo le ricerche dovremmo aspettarci accada in risposta ai cambiamenti climatici antropogenici in alcune regioni”, spiega Tiffany Shaw, scienziata del clima dell’Università di Chicago.
Nella mappa qui sopra, la National oceanic and atmospheric administration (Noaa) statunitense mostra il caldo implacabile che ha colpito il mondo a luglio. Il rosso più scuro – intorno al Messico e all’America centrale, al Canada settentrionale e all’Alaska, e all’Africa equatoriale – mostra le aree che hanno registrato temperature record a luglio. Il rosso più chiaro indica che un’area è stata molto più calda della media, mentre il rosso tenue segnala che la zona in questione è stata semplicemente più calda della media. Secondo il Noaa, meno dell’1 per cento della superficie mondiale ha registrato un freddo record a luglio.

2. LE TEMPERATURE GLOBALI DI LUGLIO FINO AL 2023
In questo grafico del Berkeley Earth vediamo un altro modo di guardare alle temperature anomale di luglio. La temperatura media globale di luglio ha superato di 1,54 gradi Celsius la media tra il 1850 e il 1900, l’intervallo usato come riferimento per il periodo preindustriale.
Quando le trattative verso l’Accordo sul clima di Parigi hanno stabilito che l’umanità avrebbe cercato di limitare l’aumento delle temperature a 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali, so trattava di temperature già sostenute. In altre parole, questo luglio potrebbe aver superato di 1,54 gradi le temperature preindustriali, ma nel complesso il mondo si è riscaldato di ulteriori 1,1 gradi.
Ma come si può vedere nel grafico del Berkeley Earth, la temperatura di luglio 2023 (quella più a destra) è balzata molto al di sopra degli anni precedenti, battendo il record precedente di 0,26 gradi, raggiunto a luglio 2019. Quindi, mentre l’obiettivo dell’Accordo di Parigi non è stato ancora superato in termini di medie registrate su molti anni, il rapporto del Berkeley Earth conclude che “anomalie isolate al di sopra di 1,5° C sono un segno che la Terra si sta avvicinando a questo limite”.

3. LE CUPOLE DI CALORE SOPRA GLI STATI UNITI
A luglio, una “cupola di calore” si è posata sulla zona meridionale e occidentale degli Stati Uniti. È un buon esempio di come il caldo estremo possa raggiungere dei picchi. In questa mappa del Servizio meteorologico nazionale statunitense relativa al 13 luglio, le aree soggette a segnalazioni di calore eccessivo sono quelle in viola. Un mese dopo, un’altra cupola di calore ha colpito gli Stati Uniti centrali, con Lawrence, in Kansas, che ha registrato un indice di calore – che considera sia la temperatura che l’umidità – di circa 134 gradi Fahrenheit, equivalenti a 56 gradi Celsius.
Le cupole di calore sono mostri che si autoalimentano, grazie alla loro tendenza ad autoalimentarsi. Si formano quando l’aria scende dalle alte quote, riscaldandosi notevolmente prima di toccare il suolo. Con il passare dei giorni, l’umidità evapora dal paesaggio, aumentando ulteriormente le temperature. Una cupola di calore impedisce anche la formazione di nuvole, e fa quindi sì l’energia solare continui a colpire il suolo con forza.

4. LE INSOSTENIBILI TEMPERATURE REGISTRATE A PHOENIX
Per tutto il mese di luglio, la città di Phoenix, in Arizona, ha bruciato sotto un caldo implacabile, con temperature superiori ai 43 gradi per 31 giorni di fila (che hanno superato il precedente record di 18 giorni). Nell’animazione della Nasa che trovate qui sopra, il rosso intenso indica le temperature della superficie terrestre fino a 102 gradi Fahrenheit (circa 38 gradi Celsius). Si noti come tra il 2 e il 19 luglio Phoenix sia progressivamente più calda.
Ma se le massime hanno superato i 43 gradi, perché le temperature superficiali sono inferiori? Il motivo è che le letture sono state effettuate tra le 2 e le 3 del mattino. È un esempio tanto limpido quanto impressionante dell’effetto isola di calore: nelle città strade ed edifici assorbono calore durante il giorno per poi liberarlo lentamente di notte. Quando le persone non hanno la possibilità di trovare refrigerio di notte, il caldo prolungato ha un impatto enorme sul corpo umano.

5. L’INCENDIO CHE HA DEVASTATO LAHAINA, A MAUI
L’8 agosto, l’incendio più letale nella storia moderna degli Stati Uniti ha devastato la città costiera di Lahaina, a Maui, spinto da venti a quasi cento chilometri orari che si sono riversati come una valanga sul fianco di una montagna. Il numero dei morti è salito a 115 persone e i soccorritori squadre stanno ancora cercando superstiti tra le ceneri. La mappa mostra le “firme” gialle a infrarossi degli incendi attivi l’8 agosto.
I cambiamenti climatici rendono di anno in anno più intensi gli incendi, poiché le temperature atmosferiche più alte risucchiano l’umidità dal paesaggio, trasformando la vegetazione morta in cenere. Maui e le altre isole hawaiane sono infestate da erbe invasive, che crescono rapidamente durante la stagione delle piogge per poi disidratarsi durante la stagione secca. Questo effetto acceleratore ha contribuito a distruggere Lahaina, una città su un’isola tropicale che prima dell’arrivo dell’uomo assisteva solo di rado a incendi.

6. IL FUMO DEGLI INCENDI CANADESI NEGLI STATI UNITI ORIENTALI
Proprio come le isole tropicali delle Hawaii, la costa orientale americana non è esattamente famosa per i suoi incendi (al contrario della west coast). Quest’anno però la sponda atlantica degli Stati Uniti ha indubbiamente risentito degli effetti collaterali delle fiamme in Canada, che hanno causato evacuazioni di massa e stanno diventando più difficili che mai da combattere. La mappa animata che potete vedere sopra risale al 28 giugno e mostra come il fumo si sia propagato a sud negli stati del Midwest e in quelli orientali, fino alla Georgia (il rosso indica il fumo più denso vicino alla superficie).
In quei giorni, quasi un terzo della popolazione statunitense era in stato dall’allerta per la qualità dell’aria: il fumo degli incendi è dannoso per i polmoni di chiunque, ma è particolarmente pericoloso per chi soffre di problemi respiratori come l’asma.

7. LA PERDITA DI GHIACCIO MARINO IN ANTARTIDE
La situazione in Antartide è preoccupante. Questo grafico mostra l’estensione del ghiaccio marino che galleggia intorno al continente: la linea che indica il 2023 è quella rossa, mentre gli le altre sono relative agli anni dal 1979.(per “estensione” si intente l’area occupata dal ghiaccio marino, che i ricercatori misurano in milioni di chilometri quadrati).
Tutto ciò che è al di sopra della linea grigia orizzontale indica valori superiori alla media, mentre tutto ciò che si trova al di sotto è inferiore alla media. Come si evince dal grafico, quindi, il 2023 è molto al di sotto della media, con una perdita di ghiaccio marino antartico che attualmente ammonta a oltre 2 milioni di chilometri quadrati .
Gli scienziati stanno ancora cercando di capire se si tratta di un evento passeggero o se invece stiamo assistendo a un mutamento fondamentale nelle dinamiche del ghiaccio marino dell’Antartide. “Credo che si tratti di una combinazione di fattori atmosferici e oceanici di difficile comprensione, sia che si tratti di variabilità climatica naturale che di cambiamenti climatici – afferma lo scienziato del clima Zachary Labe dell’Università di Princeton e del Noaa, che ha creato il grafico –. L’anomalia nell’evento estremo è davvero sorprendente. È davvero strana. Ma rimangono ancora molti interrogativi sulle cause specifiche”.
La buona notizia è che dal momento che il ghiaccio marino dell’Antartide galleggia già sulla superficie dell’acqua, il suo scioglimento non porterebbe a un aumento del livello del mare. La cattiva è che il ghiaccio marino contribuisce a proteggere le enormi lastre di ghiaccio del continente dal vento e dalle onde, impedendo la loro rotturo. Se il ghiacciaio Thwaites, soprannominato eloquentemente il ghiacciaio dell’apocalisse, si deteriorasse completamente trascinando nell’oceano il ghiaccio che lo circonda sulla terraferma, il livello del mare aumenterebbe di 3 metri.

8. L’IMPENNATA NELLE TEMPERATURE DELLA SUPERFICIE MARINA
Da marzo le temperature globali della superficie del mare aumentano di pari passo con la diminuzione del ghiaccio marino antartico, e oggi sono molto al di sopra della norma. La linea nera continua del grafico qui sopra mostra la situazione relativa al 2023, mentre gli anni precedenti sono indica dagli altri colori. La linea arancione corrisponde al 2022 (va sottolineato che quella rappresentata dal grafico è una media delle temperature superficiali del mare a livello mondiale. Alcune aree sono ancora più calde.
Storicamente gli oceani hanno assorbito circa il 90 per cento del calore in eccesso che gli esseri umani hanno immesso nell’atmosfera, e ora stiamo osservando le devastanti conseguenze di questo fenomeno. A luglio, le temperature al largo della Florida hanno raggiunto i 38 gradi, causando lo sbiancamento di massa dei coralli. Gli scienziati sono anche preoccupati dal fatto che le temperature elevate della superficie del mare stanno influenzando il plancton che è alla base del sistema alimentare dell’oceano.
A questo va aggiunto che quando gli oceani si riscaldano, l’acqua più calda si espande: circa la metà dell’innalzamento del livello del mare deriva infatti da questa espansione termica, mentre l’altra metà è da ascrivere allo scioglimento dei ghiacci.

9. LA SITUAZIONE NELL’ATLANTICO SETTENTRIONALE
Questo grafico si concentra sulle temperature dell’Atlantico settentrionale. Il calore in eccesso qui è particolarmente preoccupante perché le acque calde alimentano gli uragani. In questa zona dell’oceano si profila un’interessante battaglia: El Niño si sta rafforzando nel Pacifico, dando origine a una variazione improvvisa nell’intensità e nella direzione del vento – un fenomeno noto come wind shear – che potrebbe contrastare lo sviluppo degli uragani. All’inizio del mese, però, il Noaa ha fornito un aggiornamento, affermando che nell’Atlantico gli effetti di El Niño potrebbero non manifestarsi in tempo per contenere gli uragani. Ora c’è il 60 per cento di possibilità di una stagione degli uragani fuori dalla norma.
Le acque calde di El Niño potrebbero anche aver contribuito a rafforzare l’uragano Hilary, che si è formato nel Pacifico orientale e ha marciato verso nord, approdando in Messico e nella California meridionale sotto forma di tempesta tropicale nei giorni scorsi. La tempesta ha scaricato una quantità d’acqua sorprendente, causando gravi inondazioni e colate di detriti.

10. LA SCHEGGIA IMPAZZITA: EL NIÑO
Guardando all’anno prossimo, El Niño (raffigurato qui sopra come la macchia rossa al largo della costa occidentale del Sud America) potrebbe far salire ulteriormente temperature, con potenziali conseguenze economiche globali pari a migliaia di miliardi di dollari. Storicamente, c’è stato un ritardo di circa tre mesi tra il picco di El Niño e la risposta delle temperature superficiali. “In generale ci aspettiamo che gli effetti maggiori del Niño si facciano sentire nel 2024 piuttosto che nel 2023 – dice Hausfather di Berkeley Earth –. Il 2023, a conti fatti, sarà probabilmente l’anno più caldo mai registrato, ma non con un margine enorme rispetto al 2016 e al 2020. Almeno al momento, sembra che il 2024 sia sulla buona strada per far segnare il vero record in termini di temperature annuali”
*( Matt Simon: biologo e giornalista del WIRED.)

 

10 – Nel mondo

Gabon
I militari che hanno deposto il presidente uscente Ali Bongo Ondimba hanno nominato come leader il capo della guardia repubblicana, il generale Brice Oligui Nguema. Intanto il 31 agosto il rappresentante degli affari esteri dell’Unione europea, Josep Borrell, ha sottolineato la differenza con il colpo di stato in Niger, sottolineando che in Gabon la deposizione di Bongo è seguita a elezioni segnate da “irregolarità”.

Sudafrica
Almeno 63 persone sono morte in un incendio che ha devastato un edificio di cinque piani nel centro di Johannesburg. Altre 43 persone hanno riportato ferite minori. L’incendio, scoppiato la sera del 30 agosto in un palazzo occupato nel centro della città, è stato spento e i vigili del fuoco cercano altre vittime. Le cause della tragedia non sono ancora note.

Regno Unito
Il segretario alla difesa Ben Wallace, che ha svolto un ruolo chiave nel sostenere l’Ucraina di fronte all’invasione russa, ha rassegnato il 31 agosto le sue dimissioni. Wallace, 53 anni, aveva manifestato in estate l’intenzione di ritirarsi dalla vita politica dopo nove anni di governo, di cui quattro come ministro della difesa.

Stati Uniti
Il 30 agosto l’amministrazione Biden ha annunciato di aver approvato un aiuto militare a Taiwan nell’ambito del programma Foreign military financing (Fmf), normalmente utilizzato per gli stati sovrani. Il dipartimento di stato ha notificato al congresso un pacchetto di 80 milioni di dollari in fondi Fmf a sostegno di Taipei.

Cina
Un ex cantante di Hong Kong diventato attivista per la democrazia è stato condannato il 31 agosto a 26 mesi di carcere dopo essersi dichiarato colpevole di sedizione e riciclaggio di denaro. Tommy Yuen, della boy band E-Kids, aveva partecipato alle manifestazioni del 2019 represse da Pechino, che da allora ha imposto una legge sulla sicurezza nazionale.

Tecnologia
Il gigante tecnologico cinese ha annunciato il 31 agosto di aver rilasciato al pubblico il suo chatbot Ernie, la risposta cinese a ChatGpt. Le azioni di Baidu a Hong Kong sono salite di oltre il 3 per cento negli scambi mattutini. Baidu aveva rilasciato il bot il 16 marzo, ma l’accesso iniziale era limitato ai partner commerciali dell’azienda e alle persone che si erano iscritte a una lista d’attesa. Il software per il momento si rivolge principalmente al mercato cinese. Funziona soprattutto in mandarino, ma include anche domande in inglese.

Messico
La coalizione d’opposizione ha nominato una senatrice di origini indigene come sua candidata alle elezioni presidenziali del 2024. Xóchitl Gálvez è un’ingegnera informatica e imprenditrice di 60 anni. La sua nomina aumenta la prospettiva di una presidente donna, visto che l’ex sindaca di Città del Messico Claudia Sheinbaum è considerata la candidata favorita del partito di sinistra Morena. Gálvez è sostenuta da una coalizione di tre partiti, tra cui il Partito rivoluzionario istituzionale, che ha dominato la politica del paese fino al 2000.
*( Fonte, Internazionale)

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