n°22 – 03/6/23 – RASSEGNA DI NEWS AZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Jordi Maiso *:Capitalismo, Stato e Dissociazione: tre dimensioni centrali della società capitalista-patriarcale.
02 – Luciana Cimino*: Il doppio delle firme per la proposta di legge contro l’autonomia differenziata.
LA MOBILITAZIONE. Contro la secessione dei ricchi 105.937 «No»: parte l’iter della proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare
03 – Murat Yetkin, Yetkin Report, Turchia *: La vittoria non cancella i problemi di Erdoğan
Il presidente turco si è imposto al ballottaggio del 28 maggio, ma ora dovrà trovare il modo di arginare la crisi economica senza perdere le cruciali elezioni amministrative del 2024
04 – Sen. Francesca La Marca(pd)* : BUONA FESTA DELLA REPUBBLICA A TUTTI!
Cari connazionali, cari amici, – Il 2 giugno del 1946 fu un momento spartiacque nella storia del nostro Paese.
05 – On. Nicola Carè*: incontra con Cesa il Presidente del Parlamento bulgaro Rosen Zhelyazkov
06 – On. Nicola Care’*: Difesa, Carè incontra il Ministro della Difesa Crosetto per parlare dell’Australia
07 Pierre Haski*: TURCHIA – La rielezione di Erdoğan mostra la forza del nazionalismo turco
Il 28 maggio il secondo turno delle elezioni presidenziali in Turchia non ha riservato sorprese: il vantaggio del presidente uscente Recep Tayyip Erdoğan, già emerso al primo turno, è stato confermato.
08 – Haiti – Nessuno è al sicuro – Le bande criminali governano ormai intere zone della capitale haitiana, molti negozi hanno chiuso e le famiglie non mandano più i figli a scuola per paura che siano rapiti. La crisi sociale e politica non è mai stata così grave

 

 

01 – Jordi Maiso *:CAPITALISMO, STATO E DISSOCIAZIONE: TRE DIMENSIONI CENTRALI DELLA SOCIETÀ CAPITALISTA-PATRIARCALE. L’OBIETTIVO DEL CAPITALISMO NON È QUELLO DI SODDISFARE I BISOGNI, BENSÌ DI VALORIZZARE IL CAPITALE: LA SUA UNICA FINALITÀ È VALORIZZARE IL VALORE, E DI CONSEGUENZA FARE, COL DENARO, SEMPRE PIÙ SOLDI; ERA IN QUESTO SENSO, CHE MARX PARLAVA DEL CAPITALE COME DI UN «SOGGETTO AUTOMATICO».
Il solo scopo dell’economia capitalista è la massimizzazione del valore – nella sua forma di denaro – in quanto fine in sé: il suo obiettivo non consiste nello sviluppare le forze produttive, in modo che così si possa riuscire a dominare meglio la natura, ma si tratta piuttosto di investire 100 euro per arrivare a ottenerne 120, e poi continuare a ripetere, in un processo senza fine, tale meccanismo di valorizzazione. Di conseguenza, la sua logica è astratta e implacabile: non tiene in nessun conto quale che sia la realtà concreta del mondo sociale ed empirico in cui si svolge un simile processo, e neppure delle condizioni che lo rendono possibile. La riproduzione della realtà materiale e sociale non è affar suo, e il capitalismo non riconosce che ci possa essere alcuna restrizione alla logica della valorizzazione vista come fine in sé.

Se potesse farlo, non si impadronirebbe solamente dell’intero pianeta, ma dell’intera galassia e di tutto l’universo. Ed è in tal senso che la logica del capitalismo finisce per essere predatoria e antisociale: rispetto ai processi sociali, esso agisce come un corpo estraneo, il quale ha finito per imporsi in tutte le sfere della vita, vampirizzandole e sottomettendole all’obiettivo astratto della valorizzazione come fine in sé. Tuttavia, per poter funzionare come relazione sociale, il capitalismo non può esistere senza che si diano alcuni presupposti, senza i quali la logica della valorizzazione, da sé sola, non può produrre.

È in tal senso che il capitale è dipendente: esso non è in grado di poter reggersi da solo sulle proprie gambe. La sua logica è assolutamente anti-sociale, eppure, senza alcuni presupposti sociali l’accumulazione del capitale non può aver luogo. Storicamente, le due sfere che hanno garantito queste condizioni, sono servite a formare un quadro in cui, senza di esse, il processo astratto di valorizzazione non può funzionare. Queste due sfere sono quelle della dissociazione del valore e dello Stato. La «dissociazione del valore» fa riferimento a tutte quelle attività, forme di comportamento – pratiche sociali di cura e forme di espressione simbolica e affettiva – che non sono disciplinate dalla logica produttivistica del lavoro astratto, ma che tuttavia rendono possibile, nel capitalismo, la riproduzione della vita sociale. Si tratta di quelle attività sociali necessarie e fondamentali, che ciononostante la logica del capitalismo esclude dalla vita pubblica, svalutandole e relegandole alla vita privata, e assegnandole alle donne: cura, affetti, funzioni riproduttive. Questo non si limita solamente al lavoro domestico, o alla cura e all’assistenza nell’ambito della sfera familiare, bensì si estende a tutte le funzioni che consentono di «lubrificare» e ammorbidire il funzionamento sociale di una logica di valorizzazione del valore, che in sé è distruttiva e indifferente a qualsiasi realtà concreta. In questo, rientrano anche quelle dimensioni affettive ed emotive che il capitalismo contemporaneo ora cerca di rendere funzionali anche dal punto di vista produttivo, attraverso delle attività di management e grazie a nozioni come quella dell’«intelligenza emotiva».

Da parte loro, le sfere dello Stato e della politica hanno reso possibile il funzionamento del capitalismo in quanto relazione sociale. Assai spesso, l’attuale sinistra appare scissa e divisa, tra un’idea di Stato, il quale viene visto come sfera «repressiva», da una parte, e soggetto a una visione più «paternalistica», dall’altra. Dove la prima si riferisce, ad esempio, al fatto che, storicamente, sono sempre state le strutture dello Stato a garantire la sottomissione alle condizioni del lavoro astratto (ad esempio mettendo sotto tutela i «poveri»). La visione “paternalistica”, invece, ha più a che fare con quello che, nella retorica auto-esaltatrice del sistema, noi conosciamo come «Stato sociale». Si tratta di strutture statali che, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento (soprattutto per volontà di Otto Bismarck), e in particolare dal 1945 in poi, hanno istituzionalizzato e monetizzato tutta una serie di ambiti della vita sociale, i quali prima erano deputati alla dissociazione del valore (senza però mai superare la gerarchia nelle relazioni di genere) o alla beneficenza. In tal modo è nato lo «Stato sociale», in quanto sistema burocratizzato di ridistribuzione che offriva protezione dal carattere distruttivo e asociale delle relazioni capitalistiche primitive. Tuttavia, nel momento in cui si verifica un caso di crisi, quelle funzioni sociali che mitigano «la brutalità dei processi economici vengono de-statalizzate e demonetizzate, e vengono riconsegnate nuovamente, a un livello micro, alle donne». È questo ciò che sta accadendo oggi: le protezioni statali che dovevano proteggere la popolazione dalla cruda violenza delle leggi di mercato vengono destabilizzate, e ciò cui assistiamo è un abbandono delle funzioni di «ammortizzamento» dello Stato.

Tuttavia, per il capitalismo, la centralità dello Stato, in quanto relazione sociale, non può essere ridotta a questi ruoli repressivi o protettivi: la sua importanza è assai più fondamentale. Il carattere antisociale del capitalismo, il quale persegue la valorizzazione fine a sé stessa in un regime di concorrenza, fa sì che, a livello micro, prevalga la logica particolaristica dell’homo economicus: ciascuno cura soltanto il proprio interesse, cercando di ottenere un saldo positivo in quella che è la bilancia costi/benefici. Tuttavia, il capitalismo, come relazione sociale, ha bisogno di un attore che vada ben oltre, e superi, la lotta degli interessi particolari, adottando il punto di vista della società nel suo complesso; cosa che rende così possibile il livello macroeconomico. Si potrebbe però dire che il matrimonio felice tra vizi privati e virtù pubbliche non è poi così tanto evidente nel capitalismo. Lo Stato è quell’istanza sociale che permette di andare oltre il perseguimento di interessi particolari, in modo da rendere possibile un quadro d’azione. In tal modo, con gli strumenti del diritto e della politica, lo Stato crea il quadro funzionale necessario all’accumulazione del capitale. Innanzitutto, stabilisce le norme giuridiche che regolano i rapporti di proprietà e rendono possibile il gioco economico. Inoltre, lo Stato è responsabile della creazione e del mantenimento delle infrastrutture e dei sistemi di formazione necessari al corretto funzionamento dell’economia, la quale non può essere guidata esclusivamente da una logica orientata al profitto. D’altra parte, esso è anche responsabile della strutturazione delle relazioni monetarie e della garanzia della moneta, che amministra attraverso la banca centrale, stabilendo i tassi di interesse per rifinanziare il sistema bancario, controllando la quantità di moneta fiduciaria creata, regolando l’acquisto e la vendita di moneta in conformità con la politica monetaria, ecc.

In definitiva, lo Stato permette la costruzione della sfera dell’«economia nazionale», il mercato interno a cui la scienza del capitale (che non si presenta come scienza dell’economia mondiale, ma come «economia politica», Volkswirtschaft o, nella famosa formula di Adam Smith, come «la ricchezza delle nazioni») non si riferisce invano. Lo Stato permette quindi a un determinato territorio di agire come se fosse una «totalità interna», all’interno della quale il capitalismo può funzionare come relazione sociale. Ciò che esso garantisce, è una fragile armonia tra gli interessi particolari e quelli generali, tra homo economicus e homo politicus, tra il borghese – l’individuo privato che cerca di realizzare i propri interessi in un regime di concorrenza – e il cittadino – il soggetto astratto del diritto in relazione alla nozione di uguaglianza. Homo economicus e homo politicus sono le due metà dissociate che costituiscono l’essenza schizofrenica del capitalismo, che arriverà a funzionare nel quadro degli Stati, in modo tale che nel XIX secolo assumeranno il significato simbolico-culturale del concetto di nazione. Questa precaria armonia tra cittadino e borghese attraverso lo Stato-nazione, costituisce la sfera fondamentale del rapporto capitalistico. È questa sfera che, attraverso le sue norme giuridiche e i suoi meccanismi di ridistribuzione, filtra gli imperativi del mercato globale, dove la logica dell’homo economicus non ha alcuna forma di generalità per poterla controbilanciare. D’altra parte, queste norme e questi meccanismi permettono al mercato globale di apparire come uno spazio addomesticato: come relazioni di scambio e commercio tra nazioni sovrane distinte, con le loro «totalità interne».
*(Da Jordi Maiso : «Il nuovo volto del capitale globale. L’analisi del capitalismo globalizzato nella Critica del valore di Robert Kurz», che verrà pubblicato su Jaggernaut n° 6, secondo semestre 2023 -)

 

02 – Luciana Cimino*: IL DOPPIO DELLE FIRME PER LA PROPOSTA DI LEGGE CONTRO L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA. LA MOBILITAZIONE. CONTRO LA SECESSIONE DEI RICCHI 105.937 «NO»: PARTE L’ITER DELLA PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE DI INIZIATIVA POPOLARE

Esiste una Italia che, dal basso, si sta opponendo al Ddl Calderoli sull’autonomia. Bastava darle la parola, come ha fatto negli ultimi 8 mesi il Coordinamento per la democrazia costituzionale (Cdc), presieduto dal costituzionalista Massimo Villone, che, con l’aiuto dei sindacati Flc Cgil, Uil scuola Rua, Federazione Gilda Unams, ha raccolto 105.937 firme per presentare la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare da loro disegnata. Ne sarebbero bastate 50 mila. Alfiero Grandi ha snocciolato i numeri delle adesioni: «66 mila firme cartacee, il resto on line con tante adesioni spontanee che dimostrano che il vento della destra è forte ma c’è un vento altrettanto forte che dice no quando ha occasione di esprimersi, e noi gliela abbiamo data, abbiamo aperto un canale di mobilitazione».

«Siamo grandemente soddisfatti per avere raggiunto e largamente superato le firme necessarie in anticipo rispetto alla conclusione della campagna» hanno detto i promotori durante la presentazione dell’iniziativa ieri in Senato, con il contributo del senatore Giuseppe De Cristofaro (Alleanza Verdi Sinistra). «In commissione – racconta De Cristoforo – sulla scorta delle audizioni fatte finora mi pare che ci sia un largo elemento di dissenso, di dubbio intorno alla proposta del governo anche da parte di pezzi di mondi anche insospettabili. E c’è una larga convergenza delle forze di opposizione, che non era scontata, questo ci lascia ben sperare».
Il testo del progetto di legge, redatto da un gruppo di studiosi coordinati da Villone, già professore emerito di Diritto costituzionale nell’Università Federico II, intende modificare gli articoli 116, terzo comma, e 117, primo, secondo e terzo comma del Titolo V della Costituzione. Lo scopo è introdurre una clausola di supremazia della legge statale e spostare alcune materie di potestà legislativa concorrente verso la potestà esclusiva dello Stato. In tale modo «un’autonomia differenziata lesiva di uguaglianza e unità sarà preclusa per Costituzione» hanno spiegato dal Cdc. «Occorre tutelare l’uguaglianza dei diritti e l’unità della Repubblica, qui ci stiamo giocando 160 anni di Unità d’Italia – ha aggiunto Villone – Un paese così si sfascia pezzo per pezzo». «Il modello Calderoli – ha continuato – emargina il Parlamento, le autonomie locali, ma soprattutto non guarda a quello che la società dice: la gran parte delle opinioni sono contrarie».
Una questione sentita in particolare dal mondo della scuola dove le conseguenze dell’autonomia regionale sarebbero disastrose: dai docenti pagati in modo differente sul territorio nazionale, alle risorse dei privati, dalla possibile perdita del valore legale del titolo di studi, alla didattica divisa in 20 modelli differenti. «È un attacco frontale al diritto all’istruzione – commenta Graziamaria Pistorino, della segreteria Flc Cgil – per questo abbiamo costruito questo percorso dal basso con docenti, studenti e genitori che si oppongono alla disgregazione di questo paese». «Il numero delle firme – dice anche Francesca Ricci di Uil Scuola Rua – è il risultato straordinario del legame tra scuola, società e paese, l’istruzione non può essere costretta nei limiti dei confini regionali». A supporto dell’iniziativa anche Anpi, Arci, diverse associazioni del campo sanitario e consiglieri comunali di città non solo del Meridione.
Il comitato promotore auspica che l’iter non si perda: una volta incardinata, la proposta deve arrivare in Aula entro quattro mesi. «Abbiamo consegnato questo lavoro alla responsabilità dei parlamentari – dice ancora Pistorino – ma queste firme sono solo il primo passo di una grande mobilitazione».
*( Luciana Cimino, giornalista, vive a Roma. Ha lavorato per lunghi anni all’Unità e scritto per diversi giornali. Oggi si occupa di comunicazione e di qualità dell’informazione nella più importante agenzia italiana)

 

03 – Murat Yetkin, Yetkin Report, Turchia *: LA VITTORIA NON CANCELLA I PROBLEMI DI ERDOĞAN
IL PRESIDENTE TURCO SI È IMPOSTO AL BALLOTTAGGIO DEL 28 MAGGIO, MA ORA DOVRÀ TROVARE IL MODO DI ARGINARE LA CRISI ECONOMICA SENZA PERDERE LE CRUCIALI ELEZIONI AMMINISTRATIVE DEL 2024
Recep Tayyip Erdoğan è stato eletto presidente della repubblica per un terzo mandato. Costretto per la prima volta al ballottaggio, il leader del Partito giustizia e sviluppo (Akp) ha ottenuto il 52,1 per cento dei voti, mentre il suo sfidante Kemal Kılıçdaroğlu, del Partito repubblicano del popolo (Chp), si è fermato al 47,8 per cento. Erdoğan non avrebbe potuto candidarsi per la terza volta, ma lo ha fatto. Non avrebbe potuto usare le risorse dello stato a suo vantaggio, ma lo ha fatto. Non avrebbe dovuto ostacolare la campagna elettorale del suo rivale, ma lo ha fatto. Le elezioni non avrebbero dovuto essere solo libere, ma anche corrette, e non è stato così. Nonostante questa situazione l’opposizione ha partecipato al voto con la convinzione che avrebbe potuto sconfiggere il presidente. Senza preoccuparsi di violare i limiti imposti dalla costituzione e dai princìpi democratici, Erdoğan ha usato tutti i vantaggi offerti dalla sua posizione di potere e ha vinto. L’uomo al potere non è cambiato, ma come ha detto dopo la vittoria il leader del Partito del movimento nazionalista (Mhp) Devlet Bahçeli, principale alleato di Erdoğan, “nei prossimi giorni molte cose cambieranno. Tutto cambierà”. Se non fosse alleato dell’Akp, Bahçeli avrebbe ripetuto quello che aveva detto dopo le legislative del giugno 2015: “Queste elezioni non sono andate bene, guardiamo alle prossime”. È significativo il commento di un altro nazionalista turco, il leader del Partito della vittoria Ümit Özdağ, secondo cui Erdoğan ha ottenuto una “vittoria di Pirro”.

Circa 27 milioni di elettori vogliono che Erdoğan resti in carica, e 25 milioni hanno chiesto che se ne vada, ma molti di quelli che hanno votato per il presidente lo hanno fatto non perché pensano che le cose vadano bene, bensì perché sono convinti che solo Erdoğan possa risolvere la difficile situazione economica del paese. La divisione tra gli elettori non è ideologica né sociologica, ma puramente politica. I nazionalisti turchi e gli elettori curdi hanno giocato un ruolo importante per entrambi gli schieramenti. Inoltre sia tra i sostenitori di Erdoğan sia tra quelli di Kılıçdaroğlu c’erano persone di ogni classe sociale ed economica.
Erdoğan ha vinto, ma per lui governare sarà sempre più difficile. La questione più complicata e urgente, come ha ammesso lui stesso, sarà tirare fuori la Turchia dalla crisi economica.
Uno dei principali ostacoli al risanamento dell’economia è che per Erdoğan sarà difficile imporre le necessarie politiche di austerità prima delle elezioni amministrative che si terranno tra dieci mesi. Per mantenere l’equilibrio tra tasso di cambio, tasso di interesse e inflazione da un lato e l’assistenzialismo elettorale dall’altro basteranno gli aiuti provenienti dalla Russia e dai paesi del golfo Persico? Staremo a vedere. Non è un caso che nei discorsi tenuti dopo le elezioni Erdoğan ha specificato che il prossimo obiettivo sono le amministrative del marzo 2024. Il presidente sa che se l’Akp non riuscirà a strappare al Chp i comuni di Istanbul e Ankara il suo lavoro sarà più difficile. Perciò si è concentrato nel colpire il punto debole di Kılıçdaroğlu, cioè il fatto che gli altri partiti della coalizione di opposizione hanno ottenuto un numero sproporzionato di seggi a spese del Chp.
La sera delle elezioni Kılıçdaroğlu ha annunciato che non si dimetterà dalla guida del partito, ma dovrà affrontare le reazioni interne al Chp e non potrà rimandare a lungo il congresso. Inoltre è obbligato a non perdere le importanti amministrazioni in mano al suo partito, Ankara e Istanbul in primis. Per farlo i voti del Chp non saranno sufficienti, quindi sarà costretto a proseguire la politica delle alleanze. Ma come, e con chi? La strada di Kılıçdaroğlu si preannuncia in salita. Dopo le elezioni la sua principale alleata, la leader del Buon partito, Meral Akşe­ner, ha fatto la prima mossa, attribuendogli la responsabilità della sconfitta: “Kılıçdaroğlu l’ha chiesto, noi lo abbiamo sostenuto”.
Erdoğan ha lasciato intendere che adotterà una linea più dura in tutti gli aspetti della politica interna, dalla lotta al terrorismo all’ulteriore stretta sulla società civile. Il presidente interpreta la vittoria come un esplicito sostegno alle sue scelte politiche, ed è convinto di averla ottenuta soprattutto grazie al lavoro di tre ministri: Süleyman Soylu (esteri), Hulusi Akar (difesa) e Bekir Bozdağ (giustizia). Il loro ruolo nel far prevalere la questione della sicurezza rispetto a quella economica è stato fondamentale. Soylu e Akar potrebbero mantenere il loro posto nel nuovo governo.

LA MIOPIA DELL’OCCIDENTE
Il fatto che nel suo discorso Erdoğan abbia dato particolare risalto ai messaggi dei lea­der mondiali suggerisce che in politica estera continuerà sulla stessa linea. Tra le congratulazioni arrivate la notte delle elezioni spiccano quelle del presidente russo Vladimir Putin e quelle di Donald Trump, la cui stella sta ricominciando a brillare negli Stati Uniti, oltre a quelle del presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi.
La vittoria di Erdoğan conferma che le tendenze nazionaliste e autoritarie sono in aumento su scala globale, e diversi leader l’hanno trovata in linea con i propri interessi.
Nel prossimo futuro possiamo aspettarci relazioni più strette con la Russia e i paesi del Golfo. Erdoğan pensa che sia una via d’uscita dai problemi del paese, ma sarebbe contrario agli obiettivi della Turchia a lungo termine.
In tutta la loro miopia politica, gli Stati Uniti sono soprattutto interessati al fatto che la Turchia approvi l’ingresso della Svezia nella Nato in chiave antirussa. Se Kılıçdaroğlu avesse vinto, difficilmente avrebbe dato il via libera al vertice dell’alleanza in programma a giugno senza che la Svezia accontenti le richieste turche sulla questione dei militanti curdi. Erdoğan invece potrebbe pensare di bilanciare il suo via libera alla Svezia con un attacco alle basi dei miliziani curdi, spianando la strada a un accordo con gli Stati Uniti per l’acquisto degli aerei da combattimento F16.
Altrettanto miope è l’atteggiamento dell’Unione europea, preoccupata soprattutto che la Turchia non lasci partire i rifugiati siriani e gli altri migranti verso i suoi confini. La promessa di Kılıçdaroğlu di rimpatriare i siriani aveva infastidito i paesi europei, a cominciare dalla Germania. Ora che Erdoğan ha vinto l’Europa ha preso due piccioni con una fava, dato che potrà continuare a emarginare la Turchia con il pretesto dell’islamismo dell’Akp.
Purtroppo le preoccupazioni dell’occidente per la sorte dei detenuti per reati d’opinione come Selahattin Demirtaş e Osman Kavala sembrano essersi infrante contro la questione dei migranti e degli equilibri con la Russia. C’era da aspettarselo, ma la vittoria di Erdoğan lo ha definitivamente confermato.
Il bisogno della separazione dei poteri, di una giustizia indipendente e della libertà di espressione diventerà sempre più urgente, non solo in vista delle elezioni amministrative, ma anche perché il governo continuerà a imporre la linea dura in economia e in politica interna.
Se il 28 maggio ha creato scossoni nel fronte d’opposizione, anche dalla parte del potere saranno necessari aggiustamenti a causa del peggioramento della situazione. Ma la nuova pagina che si apre nella politica turca non è bianca. Erdoğan ha vinto sfruttando tutti i mezzi a sua disposizione ed è rimasto al potere, ma a causa della crisi economica, della polarizzazione politica e del bisogno di cambiamento nella società il suo lavoro sarà più difficile. Nelle prossime settimane ci sarà molto da discutere a proposito di cosa e come cambierà e delle lezioni da trarre dal 28 maggio.
*( Murat Yetkin è un giornalista turco. Nel 2018 ha lasciato la direzione del quotidiano Hürriyet dopo la vendita del giornale a un gruppo editoriale vicino al governo e ha fondato il sito d’informazione Yetkin Report.)

 

04 – Sen. Francesca La Marca(pd)* : BUONA FESTA DELLA REPUBBLICA A TUTTI!
CARI CONNAZIONALI, CARI AMICI, – IL 2 GIUGNO DEL 1946 FU UN MOMENTO SPARTIACQUE NELLA STORIA DEL NOSTRO PAESE.
Dopo vent’anni di dittatura fascista, il voto degli italiani poneva fine a un periodo autoritario e sanciva la nascita della Repubblica e della Costituzione, baluardo di libertà unico al mondo.
Il voto degli italiani, e per la prima volta anche delle italiane, dava finalmente vita all’Italia Repubblicana. Un’idea fino ad allora astratta ma pur sempre viva nella mente dei connazionali del passato, come per Giuseppe Mazzini e i suoi “ragazzi” della “Giovane Italia”.
Rinnovare l’amore per la nostra Repubblica significa quindi abbracciare nuovamente quegli ideali di libertà e di democrazia che resistono al tempo e agli eventi.
Con una guerra tutt’ora in corso sul suolo europeo, i valori che la nostra Repubblica sancisce devono essere tangibili e posti a fondamento della nostra democrazia perché sono quanto mai attuali.
Inoltre, in questa giornata di festa e di unità, non posso non rivolgere un pensiero a tutte le persone colpite dall’alluvione in Emilia Romagna. Queste per loro sono sicuramente settimane di dolore e di angoscia ed è per ciò che hanno bisogno di sentire ancora di più la vicinanza dei connazionali e dei valori della Festa della Repubblica.
Con questo spirito di libertà, democrazia ed inclusione, vi auguro buona Festa della Repubblica!
Viva la Repubblica Italiana!

 

05 – On. Nicola Carè*: incontra con Cesa il Presidente del Parlamento bulgaro Rosen Zhelyazkov
– Ho incontrato il Presidente del Parlamento bulgaro Rosen Zhelyazkov e l’ambasciatore della Repubblica di Bulgaria in Italia, Todor Stoyanov presso l’Ambasciata insieme al Presidente della sezione bilaterale Italia-Bulgaria, della Unione interparlamentare, Lorenzo Cesa. Abbiamo reiterato l’importanza delle relazioni strategiche tra Bulgaria e Italia per la sicurezza dell’Europa evidenziando che le relazioni tra l’Italia e la Bulgaria sono tradizionalmente buone, amichevoli e di partenariato, basate sulla comune appartenenza all’EU e alla NATO. Il legame con la Bulgaria è sincero e profondo, le attività culturali che condividiamo sono sempre di più e abbiamo discusso delle iniziative da mettere in campo nei prossimi mesi e di eventuali scambi commerciali con la Bulgaria.” Cosi’ il deputato del Pd Nicola Carè.
*(On./Hon. Nicola Carè – Camera dei Deputati – Chamber of Deputies – Commissione Difesa – Defence Committee – Circoscrizione Estero, Ripartizione Africa, Asia, Oceania e Antartide – Electoral College – Africa, Asia, Oceania and Antarctica)

06 – On. Nicola Care’*: Difesa, Carè incontra il Ministro della Difesa Crosetto per parlare dell’Australia
Ho incontrato oggi il Ministro della Difesa Guido Crosetto. È stato un incontro cordiale nel corso del quale ho esposto alcune tematiche riguardanti gli italiani all’estero, abbiamo discusso di cooperazione tra Italia e Australia per la Difesa, della visita dell’Amerigo Vespucci in Australia, e ho espresso la necessità di continuare la visita in Australia da Darwin almeno fino a Sydney, per incontrare la comunità di origine Italiana, che sarà orgogliosa di accogliere il Ministro del proprio Paese e il veliero della Marina Militare considerato la nave più bella del mondo. Ho espresso al Ministro l’importanza della sua visita istituzionale anche per rafforzare il dialogo tra i due paesi e consolidare i rapporti di interazione scientifica e tecnologica”Cosi’ in una nota il deputato del Pd Nicola Carè.
*(On./Hon. Nicola Carè PD)

 

07 Pierre Haski*: TURCHIA – LA RIELEZIONE DI ERDOĞAN MOSTRA LA FORZA DEL NAZIONALISMO TURCO – IL 28 MAGGIO IL SECONDO TURNO DELLE ELEZIONI PRESIDENZIALI IN TURCHIA NON HA RISERVATO SORPRESE: IL VANTAGGIO DEL PRESIDENTE USCENTE RECEP TAYYIP ERDOĞAN, GIÀ EMERSO AL PRIMO TURNO, È STATO CONFERMATO.
Il colpo di scena c’era stato invece il 14 maggio, con la smentita dei sondaggi e delle analisi secondo cui Erdoğan, al potere da vent’anni, sarebbe stato penalizzato dalla profonda crisi economica e dalle conseguenze del terremoto dello scorso febbraio. Niente di tutto ciò è accaduto. L’unica novità è che per la prima volta il presidente ha dovuto passare dal secondo turno, ma ha comunque staccato nettamente Kemal Kılıçdaroğlu, candidato dell’opposizione unita.
Dopo la rielezione, Erdoğan non mancherà certo di sventolare la sua vittoria democratica davanti ai critici che lo accusano di essere un autocrate. Ma in realtà in Turchia è in vigore una democrazia che di liberale ha pochissimo. Il presidente, infatti, occupa gli spazi televisivi infinitamente più dei suoi avversari, e durante i suoi comizi sono stati diffusi diversi video ingannevoli (alla fine lo stesso Erdoğan ha dovuto ammetterlo). Inoltre le carceri turche sono piene di prigionieri politici, compreso il leader di un partito d’opposizione. Per non parlare di tutte le promesse demagogiche fatte durante la campagna elettorale, diventate ormai un classico.

IMPARARE LA LEZIONE
Detto tutto questo, è innegabile che Erdoğan abbia vinto e che questa vittoria non gli potrà essere tolta. Gli insegnamenti che possiamo trarre dalle elezioni turche sono molteplici. Il primo è che effettivamente, nelle democrazie illiberali, diventa sempre più difficile battere il partito di governo in modo regolare. Non è impossibile, come dimostra la sconfitta di Bolsonaro in Brasile, ma serve una mobilitazione maggiore rispetto a quella che sarebbe sufficiente in un sistema più aperto. Le opposizioni democratiche, in questi paesi, devono imparare la lezione.
Il secondo insegnamento riguarda il peso della corrente – o meglio, della sensibilità – nazionalista, che trascende le divisioni politiche. Erdoğan e i suoi alleati hanno saputo incarnare benissimo questo approccio.
La spinta nazionalista si è rivelata più forte degli effetti dell’inflazione o della corruzione
Nel corso degli anni il presidente ha conferito alla Turchia una postura internazionale sovradimensionata, anche a rischio di inimicarsi i partner. Erdoğan ha regalato ai turchi motivi di fierezza nazionale (come il successo del drone da combattimento Bayraktar) e ha saputo ravvivare miti nazionali potenti come quello dell’impero ottomano.
Questa spinta nazionalista si è rivelata più forte degli effetti dell’inflazione o della corruzione risultata evidente dai danni del terremoto. Ma il nazionalismo ha contaminato anche il candidato dell’opposizione, che si è abbandonato a un terribile gioco al rilancio promettendo la deportazione dei quasi quattro milioni di siriani che vivono in Turchia.
Il terzo insegnamento è che nei prossimi anni bisognerà ancora fare i conti con Erdoğan, con le sue ambiguità e con la sua imprevedibilità. La presenza del presidente si fa sentire su diversi fronti. La Turchia, membro irrequieto della Nato, è l’unico paese ad aver mantenuto un legame aperto con Vladimir Putin, ed è un attore di primo piano nei conflitti regionali, come quello tra Armenia e Azerbaigian o quello interno alla Libia.
I paesi occidentali speravano di poter trattare con un leader più prevedibile. E invece dovranno convivere con Erdoğan, a cui questa vittoria conferirà un’autonomia senza precedenti.
*(Traduzione di Andrea Sparacino – Pierre Haski, France Inter, Francia da Internazionale)

 

08 – HAITI – NESSUNO È AL SICURO – LE BANDE CRIMINALI GOVERNANO ORMAI INTERE ZONE DELLA CAPITALE HAITIANA, MOLTI NEGOZI HANNO CHIUSO E LE FAMIGLIE NON MANDANO PIÙ I FIGLI A SCUOLA PER PAURA CHE SIANO RAPITI. LA CRISI SOCIALE E POLITICA NON È MAI STATA COSÌ GRAVE

Il linciaggio è avvenuto in pieno giorno e molte persone hanno applaudito. La mattina del 24 aprile nel quartiere Canapé Vert di Port-au-Prince la polizia haitiana ha fermato un autobus pieno di passeggeri che pensava appartenessero a una banda criminale. Secondo quanto mi è stato riferito, gli uomini sono stati messi faccia a terra e alcuni cittadini comuni della capitale, stanchi di anni di violenza, terrore e impotenza, hanno cominciato a picchiarli a morte. Un testimone ha detto che li hanno uccisi e poi li hanno bruciati vivi.

Quest’episodio di giustizia sommaria – tredici uomini sono stati uccisi – è la nuova normalità ad Haiti. La pericolosità era già a livelli altissimi e l’economia in crisi prima del luglio 2021, quando il presidente Jovenel Moïse è stato ucciso nella sua casa di Port-au-Prince. Quasi due anni dopo la situazione è molto peggiorata. Le bande, originariamente sostenute dall’élite imprenditoriale e politica di Haiti, si sono avvicinate alla capitale e si stanno diffondendo in tutto il paese. Questa volta hanno un programma preciso. Secondo una recente stima, le forze di polizia sono insufficienti: ci sono solo 3.500 agenti in servizio. Tra l’incapacità di reagire e la dannosa passività dei suoi “amici” internazionali, la popolazione di Haiti è al limite della sopportazione.

“Non è solo l’insicurezza, non è solo una crisi”, mi ha detto un attivista di Port-au-Prince che, come altri haitiani, ha chiesto di restare anonimo per paura di diventare bersaglio di violenze o di essere rapito. “Per la maggior parte dei cittadini la vita è diventata uno stato di terrore continuo, uno stato d’assedio”, ha aggiunto.

Il giorno del linciaggio a Canapé Vert il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha avvertito che la violenza ad Haiti “ha raggiunto livelli paragonabili a quella dei paesi in guerra” e ha chiesto il dispiegamento di una forza internazionale. L’ufficio dell’Onu per gli affari umanitari ha calcolato che la settimana prima del linciaggio erano state uccise circa settanta persone. “Alcuni criminali hanno fatto irruzione in una chiesa e portato via un parrocchiano”, ha titolato il 18 aprile il quotidiano Le Nouvelliste. Due giorni prima, un famoso produttore televisivo era stato rapito vicino a casa sua. Poi era toccato ad Harold Marzouka Jr., un uomo d’affari con legami diplomatici a Saint Kitts e Nevis, insieme a due suoi amici. Le loro auto erano state date alle fiamme. Un altro articolo riportava la notizia di una serie di omicidi avvenuti per motivi ignoti nel porto di Cap-Haïtien. Non è esagerato affermare che la situazione è disperata. Ogni haitiano oggi vive nella paura quotidiana di essere rapito, ucciso, violentato o di trovarsi per sbaglio in mezzo a una sparatoria. Chi ha qualche risparmio teme di perderlo per pagare un riscatto per sé o per i propri cari. Molte attività commerciali hanno chiuso, compresi ristoranti, negozi e banche, e l’economia informale, un tempo vivace, è paralizzata.

Secondo le Nazioni Unite, oggi circa 4,9 milioni di persone, quasi la metà della popolazione, soffrono la fame. Ospedali e scuole sono chiusi e il colera è tornato, con quasi quarantamila casi sospetti da ottobre del 2022.

DESIDERIO DI SOPRAVVIVERE
Il primo ministro ad interim, Ariel Henry, è fuori dal mondo, ed è la cosa migliore che si possa dire di lui. Alla fine di aprile, quando le bande hanno preso il controllo di due località balneari a nord di Port-au-Prince, ha detto che la soluzione è investire nel turismo. La nomina di Henry è incostituzionale e molti lo disprezzano. Probabilmente i suoi sostenitori più importanti sono nella comunità internazionale, in particolare gli Stati Uniti, che hanno appoggiato il partito Tèt kale (Phtk, Testa calva) da prima della sua fondazione ufficiale nel 2012, nonostante i dubbi sulla sua legittimità. Il governo si sta preparando alle elezioni, ma molti dubitano che saranno trasparenti.

In tanti ad Haiti sperano in un intervento armato internazionale, pur sapendo che appoggerebbe Henry e ricordando le conseguenze degli interventi precedenti. Almeno diecimila persone sono morte a causa del colera portato dai caschi blu nepalesi nell’ultima missione di pace delle Nazioni Unite. La contraddizione di sperare in un intervento straniero nonostante i disastri del passato nasce dal desiderio di sopravvivere e dall’impotenza: i cittadini non possono sfidare un leader che non è stato eletto.

Ayiti pap peri, Haiti non morirà, diventò uno slogan nel 2010, dopo che a gennaio un terremoto rase al suolo la capitale e uccise centinaia di migliaia di persone. Lo usò anche nel suo lavoro un famoso autore di graffiti, Jerry Rosembert Moïse. Nel 2021 l’artista ha lasciato Haiti sperando di tornare quando la situazione si stabilizzerà. Oggi le frasi in creolo che si ascoltano più spesso sono: Pa gen Ayiti anko o Peyi a fini: non c’è più haiti, il paese è finito.

ELEZIONI DISASTROSE
Le cause della crisi sono molte, ma gran parte della responsabilità è della comunità internazionale. Durante la guerra fredda, François Duvalier e poi il figlio ­Jean-Claude (Papa e Baby doc) governarono con il terrore. Gli Stati Uniti per lo più fecero finta di niente, perché consideravano la loro dittatura un baluardo contro il comunismo in America Latina. Nel 1991 e nel 2004 Washington appoggiò il colpo di stato contro un presidente democraticamente eletto, il socialista Jean-Bertrand Aristide. Jake Johnston, che sta scrivendo un libro su Haiti, mi ha detto: “I governi stranieri hanno svolto un ruolo determinante nella politica del paese e hanno distorto qualsiasi concetto di democrazia”. Per i politici haitiani gli altri stati, e i loro interessi, sono spesso “più importanti della popolazione stessa” per vincere le elezioni, ha aggiunto.

Secondo molti haitiani le radici della crisi attuale risalgono al 2010, un anno cominciato con il terremoto e finito con il caotico primo turno delle elezioni presidenziali. Il sisma di gennaio distrusse le case di un milione e mezzo di persone e molte infrastrutture. Con miliardi di aiuti messi a disposizione, il Core group – un’organizzazione multilaterale di ambasciatori, tra cui quelli di Stati Uniti, Canada, Francia e dell’Organizzazione degli stati americani – voleva favorire una tempestiva transizione democratica e l’insediamento di un nuovo presidente, che sarebbe stato riconoscente verso i benefattori.

Ma le elezioni furono un disastro. All’epoca vivevo a Port-au-Prince, facevo la giornalista e parlai con molte persone che non potevano votare. Il terremoto aveva seppellito i registri ufficiali, quindi molti cittadini non erano riusciti ad avere una nuova carta d’identità in tempo per lo scrutinio. I seggi elettorali erano stati cambiati senza preavviso: chi li raggiungeva non trovava il suo nome sulle liste elettorali, ma quelli dei vicini morti nel sisma.

A mezzogiorno del 28 novembre 2010 un gruppo di candidati presidenziali guidò un corteo attraverso le strade della capitale, chiedendo che le elezioni fossero annullate. Invece cominciò un caos di diplomazia, con minacce e accordi dietro le quinte che portarono all’inserimento, tra i candidati al ballottaggio, di Michel Martelly, un famoso cantante sostenitore di Trump. Gli Stati Uniti e l’Organizzazione degli stati americani sostennero Martelly e il suo partito Tèt kale.

Una volta diventato presidente, Martelly si presentò come un leader con cui gli investitori stranieri potevano collaborare. Nel frattempo, secondo inchieste indipendenti successive, lui e i suoi soci si appropriarono indebitamente di più di due miliardi di dollari di aiuti del programma venezuelano Petrocaribe, un accordo petrolifero stipulato nel 2005 tra il Venezuela di Hugo Chávez e i paesi caraibici.

Nel 2016, alla fine del suo mandato (la costituzione stabilisce che un presidente può essere rieletto per due mandati non consecutivi), Martelly nominò alla guida del Phtk Jovenel Moïse, un oscuro rappresentante dell’industria agricola, affinché facilitasse il suo ritorno al potere nel 2021. La fiducia della popolazione era così bassa che solo il 18 per cento degli aventi diritto andò a votare.

Ma Moïse non fu il vassallo obbediente che Martelly aveva sperato. Si prese tutto il potere, ritardò le elezioni amministrative e cercò di far passare un referendum costituzionale che gli avrebbe permesso di candidarsi per un secondo mandato consecutivo. Quando eliminò i sussidi per il carburante, la popolazione si sollevò e chiese al governo di spiegare come aveva speso i soldi del programma Petrocaribe. Moïse si affidava alle bande criminali per reprimere il dissenso, aprendo così un ciclo di violenza, rapimenti e massacri, quando le bande sfuggivano al suo controllo. Lo scrittore Jake Johnston mi ha detto che al culmine delle proteste contro Moïse, “quasi tutti pensavano che il presidente resisteva al potere solo grazie alla comunità internazionale”.

Quando Moïse è stato ucciso, il 7 luglio 2021, ad Haiti c’erano solo dieci parlamentari eletti, tutti senatori (non ci sono elezioni legislative dal 2019). La camera dei deputati era vuota e non c’erano sindaci né consiglieri comunali eletti in tutto il paese. Moïse aveva nominato primo ministro Henry il 5 luglio. La costituzione prevede diversi percorsi da seguire per la successione, ma la maggior parte richiede l’approvazione del parlamento. Henry non l’ha mai ottenuta, perché non c’è un parlamento che possa dargliela. Il sostegno degli Stati Uniti ha rafforzato il suo governo anche se non ha un riconoscimento costituzionale e popolare.

Un funzionario del dipartimento di stato statunitense mi ha detto che Wash­ington considerava Henry una “figura di transizione”, che avrebbe riportato Haiti sulla via della democrazia. Ma la maggior parte degli haitiani è convinta che il Phtk modificherà qualsiasi legge elettorale in suo favore.

Sostegno cinico

Fin da prima dell’omicidio di Moïse esisteva un gruppo politico alternativo con un consenso apparentemente più ampio: la commissione per una soluzione haitiana alla crisi. Nell’agosto 2021 ha presentato un progetto, l’accordo Montana per un governo di transizione e un percorso verso le elezioni. Ideato da rappresentanti della società civile, gruppi di contadini e leader religiosi, l’accordo ha quasi mille firmatari. Secondo chi ne fa parte, però, gli intermediari statunitensi hanno detto alla commissione che deve collaborare con Henry, che da parte sua ha pochi motivi per scendere a compromessi.

“Dicono che ad Haiti non si scelgono vincitori e vinti”, afferma Monique Clesca, giornalista haitiana, ex funzionaria delle Nazioni Unite e tra le ideatrici dell’accordo. “Ma Washington ha scelto un perdente, uno che favorisce le bande criminali e la corruzione. E sfortunatamente ad Haiti gli Stati Uniti sono la potenza più grande”.

Il funzionario del dipartimento di stato con cui ho parlato nega che Washington sostenga Henry: “Abbiamo sempre incoraggiato il dialogo. Abbiamo incontrato tutti, dal gruppo Montana al primo ministro”, dice.

Ma riconosce che i rapporti di base tra i due paesi, tra cui la protezione dei cittadini statunitensi, la fornitura di aiuti umanitari e di strumenti per la sicurezza, “ci impongono di collaborare con le autorità locali. Quindi dobbiamo lavorare con il governo. Alcune persone penseranno che questo equivale a sostenere Henry. Non è la nostra posizione, ma dobbiamo trattare con lui”. Clesca paragona il riconoscimento statunitense dell’autorità di Henry al cinico appoggio dato al dittatore François Duvalier, che governò con il pugno di ferro tra il 1957 e il 1971.

Un ex funzionario statunitense che si occupa di Haiti da decenni mi ha suggerito un’immagine diversa: “È come se ci fosse un movimento democratico in Ungheria e avessimo bisogno di considerare Viktor Orbán parte della soluzione”. Ogni singolo atto del Phtk – lo smantellamento della democrazia elettorale, il potenziamento delle bande, il furto di miliardi dalle casse dello stato – avrebbe dovuto spingere gli Stati Uniti a ritirare il loro sostegno, afferma l’ex funzionario.

In un ospedale di Medici senza frontiere. Port-au-Prince, 27 ottobre 2023 – Ramon Espinosa, Ap/LapresseIn un ospedale di Medici senza frontiere. Port-au-Prince, 27 ottobre 2023 (Ramon Espinosa, Ap/Lapresse)
“Se la comunità internazionale ci avesse aiutato, probabilmente avremmo evitato molti morti, rapimenti e perdite”, dice Clesca.

Per non correre pericoli

Quasi tutti a Port-au-Prince conoscono qualcuno che è stato rapito. Nel primo trimestre del 2023, il centro per l’analisi e la ricerca sui diritti umani di Haiti ha contato 389 rapimenti, con un aumento del 72 per cento rispetto allo stesso periodo del 2022 e del 173 per cento rispetto al 2021. Secondo il centro, la colpa è delle persone colpite dalle sanzioni internazionali, che usano i riscatti per compensare le loro perdite.

Amici e conoscenti che vivono ancora ad Haiti mi hanno rivelato alcune strategie per non essere rapiti. Se puoi, evita Port-au-Prince; limita i tuoi spostamenti; non uscire dopo le 18; non prendere scorciatoie; se hai un’auto, non usarla, le persone che viaggiano in macchina sono un bersaglio; per poter scappare più velocemente e dare meno nell’occhio, usa un motorino oppure vai a piedi o prendi l’autobus. Puoi ridurre i rischi, ma non eliminarli del tutto.

Un ragazzo con cui ho parlato ad agosto è stato rapito mentre viaggiava su un autobus con un’altra decina di persone durante il tragitto di novanta chilometri da Jacmel alla capitale. Lui e l’autista sono stati rilasciati dopo che un amico negli Stati Uniti ha pagato il riscatto. Ma non sa cosa sia successo agli altri passeggeri, anche se ricorda bene le grida delle donne: probabilmente cercavano di difendersi da una violenza sessuale.

Altri consigli per non correre pericoli: non andare al lavoro e non mandare i figli a scuola, se la scuola è ancora aperta. Nessun posto è sicuro, nemmeno la chiesa, e tutti sono in pericolo. Non usare i social network ed evita le riunioni su Zoom. Organizza il tuo quartiere: raccogli soldi per il commissariato locale, perché la polizia non ha più carburante, viveri e armi. Cerca fondi anche per i lampioni e assumi guardie di sicurezza private, una per ogni accesso al quartiere. Se una banda criminale disarma una delle guardie, sbarra l’accesso con un muro. Se uccidono un vigilante e la società di sicurezza annulla il contratto con il tuo quartiere, trovane un’altra. Se una banda di notte abbatte il muro e terrorizza tutti sparando, sostituisci il muro con un container. Riempi il container di sassi e mettici altri container sopra. Riempi anche quelli di sassi, poi convinci il comune a demolire un ponte lì vicino in modo che la banda non possa arrivare con mezzi pesanti e portare via i container.

Non concentrarti solo sul tuo quartiere: guarda online la mappa che mostra come le bande stanno prendendo il controllo di tutte le zone Port-au-Prince. Alla fine raggiungeranno ogni area della città.

Se ti guadagni da vivere vendendo merce o da mangiare per strada, scappa al primo segno di disordine, non perdere tempo a prendere la tua roba. Abituati a mangiare riso scondito ogni giorno, sii grato di averlo. Abituati anche a saltare i pasti e ad avere mal di testa. Festeggia se passi cinque giorni senza sentire un colpo di pistola.

Prendi in mano la situazione. Affila il tuo machete. Compra una pistola, quasi nessuno controlla i porti. Quando la polizia ferma un autobus a Canapé Vert e durante la perquisizione a bordo trova armi di grosso calibro, e gli uomini sono fatti stendere a terra e poi bruciati vivi, ti troverai ad applaudire. Sai che quegli uomini, alcuni molto giovani, non hanno avuto giustizia. Forse non avevano nessuna colpa. Ti preoccupi che ci possano essere rappresaglie, anche se non è più tempo per fare queste considerazioni.

Da sapere
La richiesta dell’Onu
◆ Il 15 maggio 2023 il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, che da mesi chiede un intervento internazionale per sostenere Haiti e aiutare il paese a combattere la violenza delle bande criminali, ha criticato la reticenza dei paesi occidentali a farsene carico. E il consiglio di sicurezza dell’Onu ha espresso la sua “inquietudine” per il deterioramento della situazione umanitaria e di sicurezza nel paese caraibico. Ad Haiti non ci sono elezioni presidenziali dal 2016. Il 7 luglio 2021 un commando armato ha ucciso il presidente Jovenel Moïse a Port-au-Prince e da allora la situazione, già critica, è precipitata. Afp

In coda per il passaporto

È difficile ritrovare nella Port-au-Prince di oggi quella che ho conosciuto qualche anno fa: dal 2007 al 2011 ho vissuto in un quartiere tranquillo a pochi passi da Canapé Vert. Allora mi limitavo a prendere le stesse precauzioni che usavo a New York se giravo da sola la notte: evitavo certe zone. Non sono mai stata minacciata. Dopo essere rientrata negli Stati Uniti, sono tornata nella capitale haitiana come giornalista e per andare a trovare degli amici, in particolare una donna che chiamerò N, e la sua famiglia.

“Ti aspettiamo”, diceva N ogni volta che mancavo dal paese per più di un anno. A novembre del 2018 ho prenotato un aereo per Haiti, ma il volo è stato cancellato pochi minuti prima dell’imbarco. Dei manifestanti avevano occupato la pista di Cap-Haïtien per protestare contro la corruzione e la riduzione dei sussidi per il carburante decisa da Moïse. Alcuni avevano chiesto le dimissioni del presidente, e lui aveva risposto reprimendo le manifestazioni. Il mio volo è stato cancellato anche i giorni successivi.

“Non venire”, ha cominciato a dirmi N. “Aspetta fino a quando la città non sarà di nuovo sicura”, ripeteva.

Da allora il paese è precipitato nel caos: ci sono stati scioperi generali, le bande armate hanno accresciuto il loro potere ed è cominciato l’esodo. L’anno scorso il cognato di N è stato rapito. Lei vendeva scarpe di seconda mano per strada, ma ora è troppo pericoloso. Ha smesso di dirmi di aspettare e ha cominciato a chiedermi aiuto per partire.

La migliore difesa contro i rapimenti è andare via. A gennaio l’amministrazione Biden ha presentato un programma umanitario che consente ai migranti provenienti da Haiti, Venezuela, Cuba e Nicaragua di rimanere negli Stati Uniti per due anni, se riescono a ottenere il passaporto e trovano un garante negli Stati Uniti. Nessuna delle due cose è facile. La diaspora haitiana negli Stati Uniti è allo stremo, dopo aver inviato le rimesse ai familiari per anni. Ma il reinsediamento negli Stati Uniti potrebbe costare a una famiglia meno di un riscatto. Anche questa è una considerazione da fare.

Ottenere i documenti necessari significa affrontare pericoli e umiliazioni. Dopo l’annuncio del programma, gli uffici per i passaporti di Haiti sono stati presi d’assalto. Il prezzo di un passaporto, con le nuove tasse stabilite da quello che N definisce un racket, è quintuplicato: oggi costa l’equivalente di 280 euro, una somma che possono permettersi in pochi. N ha ottenuto il documento dopo aver fatto per giorni lunghe code sotto il sole bollente, aver affrontato sparatorie e cariche con i gas lacrimogeni. Né lei né il marito parlano inglese. Vorrebbero chiedere a un lontano cugino che vive nel sud della Florida di fargli da garante.

La Casa Bianca considera il suo programma umanitario un successo. Gli attraversamenti illegali alla frontiera sono diminuiti. La stampa ha meno opportunità di raccontare le orribili scene di violenza suprematista bianca, come quella avvenuta a Del Rio, in Texas, nel 2021, quando gli agenti di frontiera a cavallo hanno inseguito i richiedenti asilo haitiani con le fruste. Intanto ad Haiti aumentano i professionisti in fuga. Il sito di notizie AyiboPost riferisce che i medici stanno partendo in massa; un amico che lavora per una ong ha calcolato che il suo staff si è ridotto di almeno il 10 per cento.

“La gente sta scappando”, dice H, un architetto determinato a rimanere a Port-au-Prince. “Non si può ricostruire un paese se tutti vanno via. Ma non si possono neanche incolpare le persone perché vogliono una vita migliore”. H pensa che il programma di Biden “sia stato un cattivo servizio. Se qualcuno ci volesse davvero dare una mano, ci aiuterebbe a restare nel nostro paese”.

Alla fine del 2022 Ariel Henry ha firmato un nuovo documento, l’accordo nazionale per una transizione inclusiva ed elezioni trasparenti, che prevede le elezioni politiche nel 2023 e l’insediamento di un nuovo presidente a febbraio del 2024. Quasi nessuno crede che lo scrutinio si svolgerà secondo questo calendario. Pochi appoggiano il piano di Henry, ma il problema più grande ora è la violenza. Le elezioni non possono essere libere e trasparenti se la vita quotidiana è così pericolosa. “Sarà difficile andare avanti senza affrontare il problema della sicurezza”, ha detto il 26 aprile la nuova rappresentante speciale delle Nazioni Unite per Haiti, María Isabel Salvador.

Per ristabilirla bisognerebbe dare un aiuto significativo alla polizia nazionale, ma nessun paese si è offerto di farlo. Le speranze di Washington che il Canada potesse occuparsene sono crollate alla fine di marzo. “Gli interventi che abbiamo fatto in passato non sono serviti a garantire ad Haiti una stabilità a lungo termine”, ha dichiarato il primo ministro canadese Justin Trudeau.

Ma secondo Monique Clesca, la questione dell’intervento armato è secondaria rispetto a quella più urgente della governabilità e della giustizia: “Negli ultimi undici anni il governo si è comportato come un orco, ha divorato il suo popolo. E voi volete far arrivare un esercito per dargli una mano?”. La polizia ha bisogno di aiuto, ma un intervento straniero senza un patto politico più ampio aggraverebbe i problemi del paese, afferma Clesca.

Secondo H, l’architetto che vuole rimanere ad Haiti, quest’atteggiamento è come volere apparecchiare la tavola a tutti i costi prima di dar da mangiare a un affamato. Ad Haiti, per lui, non c’è tempo per la politica. A sinistra molti sono d’accordo, anche se hanno sempre condannano l’interferenza arrogante delle potenze straniere. Ora pregano per averla. ◆bt

Pooja Bhatia è una giornalista e scrittrice. È stata corrispondente dell’Economist da Haiti, dove ha vissuto dal 2007 al 2011

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