n°19 – 13 maggio RASSEGNA DI NEWS AZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – La Senatrice La Marca (pd) incontra a Roma la vice ministra degli esteri del Costa Rica
02 – Nato, Carè (Pd): onore far parte di assemblea parlamentare
03 – Andrea Fabozzi*: -«RIFORME, UNA CONVOCAZIONE NON OPPORTUNA»
04 – Massimo Villone*: Riforme, un presidenzialismo fuori tempo e il baco delle Autonomie
RIFORME. Si avvia il secondo atto sul palcoscenico delle riforme
05 Carè(Pd): Imprese, Forum energia a Maputo occasione per imprese
06 – Lorenzo Lamperti*: I colossi della tecnologia vogliono mettere al sicuro Taiwan – Acer, Asus, Microsoft, Pegatron, che è tra i principali fornitori di Apple tracciano il ruolo di Taipei nelle catene di approvvigionamento e la riduzione dell’esposizione verso la Cina: questione di costi, non solo geopolitica.
07 – Stefano Fassina *: Le riforme sono un’occasione per ricostruire i partiti e riabilitarne il finanziamento pubblico. È urgente intervenire sul nostro impianto politico-istituzionale ma va affrontato anche il tabù all’origine della cosiddetta “seconda Repubblica”
08 – Gaetano Lamanna*:Con lo Stato fiscale, la destra costruisce il suo blocco sociale. La destra governa perché i ceti privilegiati hanno vinto «la guerra delle tasse» (titolo di un bel libro di Vincenzo Visco, edito da Laterza, che tutti dovrebbero leggere).

 

 

01 – A SENATRICE LA MARCA (PD) INCONTRA A ROMA LA VICE MINISTRA DEGLI ESTERI DEL COSTA RICA
E’ stato un incontro proficuo quello che si è svolto venerdì scorso, presso il Senato della Repubblica, fra la vice ministra degli affari bilaterali e della cooperazione internazionale del Costa Rica, Ambasciatrice Lydia Peralta Cordero, e la senatrice del PD Francesca La Marca, eletta nella circoscrizione estero, ripartizione America Settentrionale e Centrale.
« Una riunione che chiude una serie di incontri che ho portato avanti sul Costa Rica e i suoi rapporti con l’Italia. La visita della vice ministra è stata un’occasione fondamentale infatti per discutere di alcuni accordi bilaterali e anche per rafforzare gli ottimi rapporti fra l’Italia e il Costa Rica che, il prossimo anno, festeggeranno 160 anni di relazioni diplomatiche» ha dichiarato la senatrice La Marca.
L’incontro è avvenuto infatti in una settimana in cui la senatrice La Marca ha depositato al Senato un DDL riguardante accordi bilaterali fra i due paesi, ovvero l’accordo sulla cooperazione culturale, scientifica e tecnologica tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo della Repubblica di Costa Rica.
« L’accordo sulla cooperazione culturale, scientifica e tecnologica è stato solo uno dei tanti argomenti che abbiamo toccato nell’incontro. Si è discusso molto di altri accordi fra i due paesi – ha aggiunto la senatrice La Marca – come l’accordo cinematografico che permetterebbe sia ad Italia e Costa Rica di trarre giovamento, non solo artistico, ma anche economico, e di alcune tematiche che stanno a cuore alla comunità italiana in Costa Rica, che vanta quasi 9.000 iscritti AIRE, come ad esempio i passi in avanti fatti sul riconoscimento delle patenti di guida conseguite in Costa Rica»

Presente all’incontro anche la ministra consigliere Incaricata d’Affari a.i dell’Ambasciata di Costa Rica, Tamara Andrea Gomez, e il Ministro Consigliere, David Ricardo Otarola Pacheco, che hanno portato sul tavolo del dibattito anch’essi dinamiche e questioni riguardanti i due paesi.
«L’incontro con la vice ministra Lydia Peralta Cordero, che ringrazio profondamente, è stata un’occasione importante, che dobbiamo sfruttare per lavorare concretamente e congiuntamente con l’obiettivo di rafforzare le relazioni tra Italia e Costa Rica e per aiutare la comunità italiana nel paese. Una comunità più attiva e viva che mai, che ho avuto modo di conoscere nel mio ultimo viaggio in Costa Rica, e alla quale ho promesso che avrei portato le loro istanze in Parlamento » ha concluso la senatrice La Marca.

 

02 – Nato, Carè (Pd): ONORE FAR PARTE DI ASSEMBLEA PARLAMENTARE NATO
Roma, 8 mag- “SONO STATO NOMINATO NELLA DELEGAZIONE ITALIANA DELL’ASSEMBLEA PARLAMENTARE DELLA NATO CHE CONTA 274 COMPONENTI PROVENIENTI DA 31 PAESI. È un onore, un immenso privilegio e una grande responsabilità essere in questo gruppo in quanto sarò uno dei pochi parlamentari italiani deputati a questo compito. L’assemblea favorisce il dialogo parlamentare sulle principali tematiche della sicurezza e ha come obiettivo quello di facilitare la consapevolezza e la comprensione, a livello parlamentare, delle questioni chiave dell’Alleanza in materia di sicurezza e rafforzare le relazioni transatlantiche. Dal 1989 si sono andati aggiungendo alcuni nuovi e decisivi obiettivi: assistere lo sviluppo della democrazia parlamentare nell’area euroatlantica; incrementare la cooperazione con i paesi che, pur non volendo aderire all’Alleanza, sono comunque interessati a creare dei vincoli durevoli, compresi i paesi del Caucaso e della regione mediterranea; assistere lo sviluppo dei meccanismi parlamentari e delle procedure necessarie a realizzare un efficace controllo democratico sulle forze armate. Si tratta di una nomina che rappresenta molto per me e ringrazio il Partito Democratico per avermi investito di questa responsabilità. Lavorare in questo gruppo vuol dire infatti difendere l’interesse nazionale, favorire la sicurezza occidentale e il futuro dell’Europa”.
Così Nicola Carè, deputato del Pd.
*(On./Hon. Nicola Carè – Camera dei Deputati – Chamber of Deputies – IV Commissione Difesa – Defence Committee – Circoscrizione Estero, Ripartizione Africa, Asia, Oceania e Antartide – Electoral College – Africa, Asia, Oceania and Antarctica)

 

03 – Andrea Fabozzi -«RIFORME, UNA CONVOCAZIONE NON OPPORTUNA»
L’APPUNTAMENTO. PER L’EX PRESIDENTE DELLA CORTE COSTITUZIONALE GAETANO SILVESTRI È SBAGLIATO RICONOSCERE ALLA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO LA REGIA SULLE MODIFICHE ALLA COSTITUZIONE.
«Capisco le ragioni del fair play, ma all’incontro di oggi le opposizioni dovrebbero dire che la sede di queste discussioni è soltanto il parlamento»
«Riforme, una convocazione non opportuna»

L’ex presidente della Corte costituzionale Gaetano Silvestri
Professore Gaetano Silvestri, ex presidente della Corte costituzionale e dell’associazione dei costituzionalisti, che impressione le fa l’opposizione che sfila davanti alla presidente del Consiglio per parlare di riforme costituzionali?
Non sono in condizione di giudicare gli obblighi del fair play politico, ma sono affezionato alla formula di Calamandrei per la quale quando il parlamento discute di Costituzione i banchi del governo devono restare vuoti.

Qui non siamo neanche in parlamento. La riunione è convocata alla camera dei deputati, ma è solo il set di un film con la presidente del Consiglio in regia.
Questo mi conferma nell’opinione che da almeno trent’anni si discute di riforme costituzionali per non parlare dei problemi di indirizzo politico. In ogni caso, se proprio si vuole parlare di Costituzione lo si faccia almeno nella sede propria.

Quindi sbagliano le opposizioni a rispondere a questa convocazione?
Non sta a me dirlo, ma certo spero che siano consapevoli che si tratta di un appuntamento assai poco corretto ed opportuno. Se partecipano devono farlo solo per una forma di cortesia e per dire, più o meno, «di queste cose non parliamone qui ma in parlamento».

Magari con un’altra bicamerale?
Per carità. Questo paese ha già avuto i costituenti, non ci servono i ricostituenti.

Il semipresidenzialismo potrebbe funzionare in Italia?
L’elezione diretta del presidente della Repubblica ne farebbe inevitabilmente un organo di indirizzo politico, sostenuto dal consenso degli elettori. Ragione per cui sarebbe certa l’entrata in rotta di collisione con il governo. Si troverebbero in concorrenza sulla linea di indirizzo politico.

Avanza l’idea alternativa di eleggere direttamente il presidente del Consiglio, che ne pensa?
Anche questa novità sarebbe estremamente dannosa per il nostro paese. In questo caso ci troveremmo evidentemente di fronte a una forma di irrigidimento autoritario, all’accentramento dei poteri in una sola persona. Quello che Leopoldo Elia chiamava “premierato assoluto”.

Queste riforme vengono presentate come rimedio alla debolezza dei governi, lei condivide?
I governi sono deboli perché è debole il sistema politico, una debolezza che dipende dalla scomparsa dei partiti politici, oggi ridotti ad aggregazioni di fedeli attorno a capi e capetti. Il nostro sistema ha perso l’anima del potere democratico e cioè l’indirizzo politico concordato tra governo e parlamento. Senza questo indirizzo politico, che i partiti preparano, qualunque governo sarà sempre debole perché preda di gruppi che cercano di soddisfare interessi particolari.

Se non con la modifica della forma di governo, come si potrebbe recuperare quest’anima?
Intanto bisognerebbe fare finalmente la legge sui partiti politici che aspettiamo da settant’anni. Attuare l’articolo 49 della Costituzione perché diventi concreto il diritto di tutti i cittadini di «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Basta una legge ordinaria.

Quindi lei non pensa che sia necessario ricorrere alle riforme costituzionali?
No, non ce n’è bisogno. La nostra Costituzione è più che mai vitale ed è figlia della storia, non delle convenienze della politica quotidiana.

Della proposta di nuova assemblea costituente cosa pensa?
Tutto il male possibile. Le costituenti sono figlie di grandi eventi storici, come la nostra lo è della tragica e gloriosa vicenda della Resistenza. Non possiamo mica ricrearla in vitro per far partire un mulino di parole.
*( Fonte: Il Manifesto. Andrea Fabozzi è laureato in Economia e Commercio. Giornalista professionista dal 1996, ha iniziato scrivendo per il quotidiano Liberazione)

 

04 – Massimo Villone*: RIFORME, UN PRESIDENZIALISMO FUORI TEMPO E IL BACO DELLE AUTONOMIE – RIFORME. SI AVVIA IL SECONDO ATTO SUL PALCOSCENICO DELLE RIFORME. MELONI CONVOCA LE OPPOSIZIONI, NON È CHIARO SE PER SCRIVERE INSIEME IL COPIONE, O PER DIFFIDARLE AD ACCETTARE IL RUOLO DI […]

Si avvia il secondo atto sul palcoscenico delle riforme. Meloni convoca le opposizioni, non è chiaro se per scrivere insieme il copione, o per diffidarle ad accettare il ruolo di comparse. Nemmeno sappiamo se c’è, e nel caso quale sia, la proposta della destra. Unico dato è l’investitura popolare diretta. Ma di chi e per fare cosa?

In ogni caso, sarebbe una innovazione incompatibile con l’architettura fondamentale della Costituzione vigente, fondata sulla forma di governo parlamentare.

Inevitabilmente stravolgerebbe il ruolo e i poteri del presidente della Repubblica, sia che fosse il prescelto per l’unzione popolare, sia che invece lo fosse il capo del governo. Una riscrittura di tale portata da rendere insignificante la diatriba sul ricorso all’art. 138 o altri metodi. Quale che fosse la modalità prescelta, si tratterebbe in ogni caso di una successione tra ordinamenti. Una Costituzione muore, una Costituzione nuova nasce.

Può stupire che la destra sia rimasta ancorata alle vecchie bandiere. L’investitura popolare non è più sinonimo di stabilità e solidità politica e istituzionale. Nel mondo di oggi l’elezione diretta divide e contrappone, non unisce. I due modelli di riferimento – gli Usa per il presidenzialismo e la Francia per il semipresidenzialismo – lo dimostrano in questa fase storica con assoluta chiarezza.

Paradossalmente, la forma di governo parlamentare poteva avere alternative nel 1948. Oggi appare, per la sua flessibilità e adattabilità, come la scelta ottimale. Il vero punto debole del caso italiano è nell’evanescenza dei partiti, nelle pessime leggi elettorali, nelle assemblee popolate da nominati piuttosto che da eletti, da ultimo nello sciagurato taglio dei parlamentari. È un ambiente tossico per la rappresentanza politica che è il fondamento della forma di governo parlamentare. Ma questo suggerisce solo che la via giusta per migliorare la salute cagionevole della Repubblica sarebbero una buona legge elettorale e una legge sui partiti. Non quello che la destra propone.

C’è poi un punto che lascia veramente perplessi sull’investitura popolare diretta di chi governa, ed è dato dall’interazione con l’autonomia differenziata modello Calderoli. Un effetto è certo: si svuotano le stanze e le scrivanie a Palazzo Chigi e nei ministeri, a Montecitorio, a Palazzo Madama. Potremmo dire in sintesi che nel sistema politico e istituzionale il livello nazionale perde peso, quello delle autonomie locali scompare salvo qualche eccezione, mentre si gonfiano a dismisura i livelli regionali. Non è un caso, come ho scritto su queste pagine, che sostanzialmente solo il ceto politico regionale manifesta consenso o tolleranza verso l’autonomia differenziata.

Ma allora cosa resterebbe nelle mani dell’eletto dal popolo? Se ad esempio rimettiamo alle regioni ferrovie, autostrade, porti, aeroporti, quale capacità rimarrebbe a Palazzo Chigi di formulare e implementare politiche nazionali per il riequilibrio Nord-Sud o per le aree interne e quelle urbane e metropolitane? E cosa rimarrebbe del Ministero dell’istruzione se si regionalizzasse la scuola? O di quello della sanità, già quasi scomparso?

Se il modello Calderoli si realizzasse a fondo, l’unto dal popolo sovrano sarebbe nulla di più di un re travicello.
Che fare? Intanto, emendare l’AS 615 per riportare il parlamento marginalizzato da Calderoli al centro della decisione. Ma soprattutto giungere a un dibattito nell’aula del Senato sulla proposta di legge di iniziativa popolare volta alla modifica degli artt. 116.3 e 117, per cui abbiamo ampiamente superato la soglia delle 50.000 firme necessarie per la presentazione alle Camere.

La proposta riscrive il framework normativo dell’autonomia differenziata al fine di espungerne i rischi maggiori per l’eguaglianza dei diritti e l’unità della Repubblica. In quel passaggio ognuno dovrà chiarire come immagina l’Italia del futuro, assumendo piena responsabilità. La palla passa quindi alle forze politiche. Sarà in specie importante capire come Elly Schlein potrà guidare la nave nelle acque talvolta infide del Pd.

Al ministro Calderoli, che mi contesta una incoerenza al passaggio della riforma del Titolo V nel 2001, dirò solo che segnalai i miei dubbi nel partito e personalmente al mio segretario di allora (Veltroni). Non fui ascoltato. Ma Calderoli mi attribuisce con parole cortesi la medaglia di regista dell’antagonismo contro l’autonomia differenziata. Ricambio la cortesia con una battuta che uso spesso: vorrei bene avere con me un Calderoli, ma purtroppo è uno solo, e sta dalla parte sbagliata.
*( Massimo Villone è un politico e costituzionalista italiano. È professore emerito di Diritto costituzionale nell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”)

 

05 – CARÈ(PD): IMPRESE, FORUM ENERGIA A MAPUTO OCCASIONE PER IMPRESE

ROMA 9 MAG.-“HO PARTECIPATO AL FORUM SULL’ENERGIA A MAPUTO DEDICATO ALLA TRANSIZIONE ENERGETICA E ALL’INDUSTRIALIZZAZIONE DAL TITOLO “PIANO MATTEI PER L’AFRICA – IL CONTRIBUTO DELLE CAMERE DI COMMERCIO ITALIANE ALL’ESTERO”, ORGANIZZATO DALLA CAMERA DI COMMERCIO MOZAMBICO-ITALIA INSIEME CON LA CAMERA DI COMMERCIO ITALO-SUDAFRICANA E LA CAMERA DI COMMERCIO ITALIANA IN CINA, IN SINERGIA CON ASSOCAMERESTERO E CON LA COLLABORAZIONE DI TUTTE LE CAMERE DI COMMERCIO ITALIANE ALL’ESTERO DI ASIA, SUDAFRICA E OCEANIA.
Mi sono impegnato a livello istituzionale per fare in modo che le camere di commercio estere potessero ottenere finanziamenti adeguati alla promozione del made in Italy, come accaduto con l’emendamento approvato nell’ultima legge di bilancio e mi impegnerò affinché possano avere un riconoscimento sempre più ingente perché ritengo che le Camere di commercio siano dei punti di riferimento insostituibili. Il Governo italiano pensa al Piano Mattei per l’Africa ma credo che serva un contributo delle Camera in questo progetto affinché abbia davvero valore ed efficacia in quanto si dovrà tenere conto e si dovrà puntare sulle migliori pratiche sviluppate da aziende italiane. Ringrazio il Presidente della Camera del Mozambico Simone Santi, il Presidente del Sudafrica Virginio Da Molo e il Consigliere rappresentante d’area Paolo Bazzoni, presidente della Camera di Pechino e Domenico Mauriello segretario generale di Assocamere Estero per il lavoro svolto e per l’impegno”. Cosi’ Nicola Carè, deputato del Pd eletto all’estero.
*( On./Hon. Nicola Carè – Camera dei Deputati – Chamber of Deputies – IV Commissione Difesa – Defence Committee – Circoscrizione Estero, Ripartizione Africa, Asia, Oceania e Antartide – Electoral College – Africa, Asia, Oceania and Antarctica)

06 – Lorenzo Lamperti*: I colossi della tecnologia vogliono mettere al sicuro Taiwan – Acer, Asus, Microsoft, Pegatron, che è tra i principali fornitori di Apple tracciano il ruolo di Taipei nelle catene di approvvigionamento e la riduzione dell’esposizione verso la Cina: questione di costi, non solo geopolitica.

Taipei – Prima la guerra commerciale e tecnologica tra Stati Uniti e Cina. Poi la pandemia di Covid-19. Infine la guerra in Ucraina. E le rinnovate tensioni in Asia-Pacifico. Il mondo cambia rapidamente. Già epicentro di attenzioni politiche, commerciali e tecnologiche, Taiwan è uno degli snodi cruciali di questi cambiamenti. E prova ad adattarsi per far fronte a un futuro potenzialmente (ma non inevitabilmente) turbolento. Nei giorni scorsi si sono riuniti a Taipei i leader di alcuni dei principali colossi digitali e dell’elettronica locali, nell’ambito del simposio Global Supply Chain Resilience and Esg Strategies of Taiwanese Ict Industry, organizzato da Computex Taipei, importante manifestazione internazionale in programma dal 30 maggio al 2 giugno prossimi.

Dopo l’apertura di Paul Peng, presidente della Taipei Computer Association, ha preso la parola Chris Hung, vicepresidente e direttore generale del Market Intelligence & Consulting Institute (Mic), che ha tracciato un quadro generale dei cambiamenti sulle catene di approvvigionamento e le contromisure dell’industria Ict (Information & communication technology). “L’economia globale rallenterà e toccherà il punto più basso nella seconda parte del 2023, per poi risalire”, sostiene Hung, il quale sottolinea che la delocalizzazione dalla Cina è “cominciata già ben prima della guerra, ma con il conflitto in Ucraina c’è stata un’accelerazione”. Tra le cause precedenti e concomitanti alla guerra, l’aumento del controllo alle esportazioni in materia tecnologica e l’espansione delle sanzioni statunitensi alle aziende cinesi.

Una delegazione del ministero delle Imprese e del made in Italy ha parlato di semiconduttori in maniera riservata a Taipei. Ma legare la fuoriuscita o meno del governo Meloni dai progetti con la Cina non incide sui calcoli dei colossi dell’isola

LA RILOCALIZZAZIONE DALLA CINA
Secondo Hung, questo porterà i colossi dell’elettronica taiwanese a rilocalizzarsi sempre più in altri paesi e nascenti hub produttivi. Le destinazioni? India per gli iPhone, come dimostrano le recenti manovre della Foxconn, Vietnam e Messico per manifattura hi-tech, Malesia, Thailandia e la stessa Taiwan per server e data center. Nel corso del 2022 diverse multinazionali hanno aumentato la presenza a Taiwan, nonostante le intemperie geopolitiche.

Tra queste Amazon, con un nuovo centro d’innovazione a Nuova Taipei; Micron, con l’espansione del proprio stabilimento di Taoyuan; Nvidia, con una nuova base logistica a Zhongli; l’olandese Asml, con i piani di espansione dei suoi centri di Taoyuan e Tainan. Mentre Google prosegue la costruzione di un data center a Yunlin. “Il motivo principale è che Taiwan ha grandi infrastrutture, un ecosistema maturo a livello tecnologico e un ampio pool di talenti per le industrie Ict. Il tutto garantisce benefici su costi e risultati”, sostiene Hung.
Mentre il mercato dei semiconduttori è destinato a diminuire nel corso del 2023, Taiwan esplora la possibilità di diventare leader in applicazioni emergenti e creare nuovi ecosistemi produttivi, per esempio su green economy, dispositivi utili alla fabbricazione di veicoli elettrici e assistenza sanitaria smart.

IL PIANO DI APPLE PER SPOSTARSI IN INDIA
Tim Cook apre i primi due negozi nel paese asiatico e parla col premier Narendra Modi di riforme per facilitare lo spostamento delle linee produttive dalla Cina, con la quale tuttavia non vuole tagliare i ponti
Il capo di Pegatron: “La fase di transizione in India e altrove sarà lunga”
Ma sulla delocalizzazione e ristrutturazione delle catene di approvvigionamento passare dalle parole ai fatti non è immediato, come sottolinea T.H. Tung, presidente di Pegatron, uno dei principali fornitori di Apple che di recente sta ampliando la presenza in Vietnam e in India. “In particolare per l’India, la burocrazia è ancora molto lenta e le regole non sono sempre così accoglienti per le aziende internazionali. C’è poi un problema di lingua, visto che in India si parlano tante lingue diverse e i manager locali che vengono assunti non sono in grado di capire tutti i loro dipendenti. Il linguaggio e le norme sono importanti tanto quanto i costi quando si pianifica un investimento all’estero”, dice Tung.

La fase di transizione e adattamento non sarà dunque breve. “Quando entrammo nel mercato cinese il periodo transitorio fu di circa 3 anni, in India al momento mi sembra di poter dire che potrebbe essere più lungo. E nel frattempo i costi sono sconvenienti, visto che trovare i materiali necessari ad alcuni step produttivi continua a essere complicato e il packaging va per forza fatto ancora in Cina”. A contribuire al parziale spostamento delle linee produttive c’è però anche la possibilità di coltivare talenti locali. “In Cina c’è un tasso molto alto di mobilità. In paesi come Indonesia, Vietnam e Messico il tasso è molto più basso”, dice Tung. E quella dalla Cina non sarà una fuga di massa, ma un bilanciamento di una esposizione che “non conviene più mantenere così alta”.

Insomma, non ci sono solo la geopolitica e le strategie dei governi a spingere i ragionamenti delle aziende, né basta uno schiocco di dita per cambiare la situazione esistente. “Già nel 1999, quando ho iniziato a lavorare in questo settore, c’erano controlli alle esportazioni verso la Repubblica Popolare”, ricorda inoltre Tung, relativizzando in parte le tensioni odierne. “Sono cicli di maggiore apertura e maggiore chiusura, dunque non siamo impreparati. Anzi, ricordando il passato possiamo sperare che il futuro sarà luminoso”, auspica il chairman di Pegatron.

IL RE DELL’ELETTRONICA DI TAIWAN È L’UOMO CHIAVE TRA STATI UNITI E CINA
Terry Gou, patron di uno dei principali fornitori di Apple, Foxconn, prova a guadagnarsi la candidatura in vista delle elezioni presidenziali del 2024 a Taiwan. Vicino a Trump e apprezzato a Pechino, potrebbe diventare l’ago della bilancia dei rapporti tra le due potenze
Microsoft: “La nuova grande chiave di crescita? L’intelligenza artificiale”
Sean Pien, direttore generale di Microsoft Taiwan, si concentra invece sul trend di crescita della presenza del gigante statunitense a Taiwan. “Qui c’è grande potenziale”, dice Pien. “I vantaggi di Taiwan sono molteplici: la presenza di un livello di integrazione quasi unico tra software e hardware, forte supporto del governo e incentivi, la presenza di un ecosistema maturo e una cultura del lavoro contraddistinta dalla lealtà aziendale”, aggiunge.

Sui piani di Microsoft: “Nel 2020 abbiamo annunciato un grande investimento per un data center e vediamo grande sviluppo a livello locale sul fronte sanitario e su quello della sostenibilità”. Il prossimo grande driver di crescita potrebbe diventare, secondo Pien, l’intelligenza artificiale. “Taiwan può ritagliarsi un ruolo cruciale nello sviluppo delle applicazioni. Sarà la prossima grande trasformazione tecnologica mondiale”.

Tra i provider di intelligenza artificiale taiwanese figura Advantech, rappresentata dal cofondatore Chaney Ho. “Dobbiamo essere più ottimisti sul ruolo futuro di Taiwan. Le aziende locali hanno una spiccata internazionalizzazione e i nostri dispositivi sono cruciali per diverse industrie, compresa quella della difesa, a diverse latitudini. A tutti serve che sullo Stretto resti stabilità”. Tra i settori destinati a maggiore attenzione c’è quello Esg (Environment, society e governance). Tema sul quale manifestano l’intenzione di dedicarsi Tiffany Huang di Acer e TS Wu di Asus. “Quando si parla di sostenibilità vogliamo essere pragmatici ed efficaci”, dice Wu. Tratti che hanno fin qui contribuito a rendere Taiwan uno snodo fondamentale della tecnologia globale. E che gli attori locali vogliono continuare a perseguire, adattandosi a un mondo che cambia rapidamente ma senza per forza di cose politicizzare ogni mossa.
*(Fonte: Wired. Lorenzo Lamperti È giornalista e direttore dell’agenzia editoriale China Files. Vive a Taiwan.)

 

07 – Stefano Fassina *: LE RIFORME SONO UN’OCCASIONE PER RICOSTRUIRE I PARTITI E RIABILITARNE IL FINANZIAMENTO PUBBLICO. È URGENTE INTERVENIRE SUL NOSTRO IMPIANTO POLITICO-ISTITUZIONALE MA VA AFFRONTATO ANCHE IL TABÙ ALL’ORIGINE DELLA COSIDDETTA “SECONDA REPUBBLICA”

È urgente intervenire sul nostro impianto politico-istituzionale: non funziona. Sprecare anche la legislatura in corso avrebbe un costo altissimo per la residua credibilità della democrazia costituzionale e della rappresentanza politica. Perderebbero tutti, non soltanto chi si fa carico dell’iniziativa. Finora, la discussione si è concentrata sui modelli di esecutivo, quindi di rilevanza del Parlamento: rafforzamento del presidente del Consiglio; elezione diretta del Premier; elezione diretta del presidente della Repubblica. Preliminare a qualsivoglia valutazione di merito è l’obiettivo politico: ci rassegniamo alla sempre più evidente marginalità del Parlamento, oppure puntiamo a riqualificarne la centralità pur nella consapevolezza del mondo in cui siamo? Per tenere insieme società così fratturate e divise ai limiti della “irriconoscibilità” reciproca, incapaci finanche di sentirsi comunità, l’elezione diretta del vertice esecutivo aggraverebbe le difficoltà di governo, nonostante la conquistata stabilità istituzionale: le ultime vicende francesi e prima l’assalto a Capitol Hill dovrebbero insegnare qualcosa.

Tuttavia, il problema della stabilità dell’esecutivo, del primato del presidente del Consiglio nell’esecutivo, dell’efficienza del processo legislativo esiste. La funzione dell’esecutivo è stata oggettivamente potenziata dall’interdipendenza economica, dalla velocità delle interazioni digitali, dalla portata dei flussi finanziari e comunicativi mobilitati in tempo reale e, non ultimo, dai meccanismi decisionali dell’Unione europea incardinati sul Consiglio dei Capi di Stato e di governo. Il problema va affrontato. La sostanza deve diventare anche forma. Senza illusorie scorciatoie. “Il Parlamento non è un Consiglio Comunale, non può essere a traino del governo… L’elezione diretta del Premier aprirebbe la strada ad un sistema bicefalo con un premier eletto direttamente dai cittadini, con una forte legittimazione politica, e un presidente della Repubblica eletto dal Parlamento, con minore legittimità ma con forti poteri di intervento”. Sono le parole, definitive, del presidente Luciano Violante, sulla proposta di elezione diretta del presidente del Consiglio, demagogicamente battezzata dai nostri “riformisti” “Sindaco d’Italia”. Altrettanto definitive sono le valutazioni sulla pericolosità di evitare il “sistema bicefalo” con l’elezione diretta del presidente della Repubblica: “Il Presidenzialsmo essendo privo di arbitri funziona soltanto nelle società pacificate e non è il caso delle società contemporanee attraversate da conflitti profondi.”

Per affrontare il problema dell’efficacia dell’esecutivo, ma senza consolidare la marginalità del Parlamento, gli aggiustamenti sul versante istituzionale sono stati proposti e sono chiari. I principali sono due: la fiducia del Parlamento soltanto al presidente del Consiglio, al quale è affidata la nomina e la revoca di ministri, e la sfiducia costruttiva. Vanno accompagnati da altri interventi sul sistema istituzionale: la specializzazione delle Camere, con l’affidamento al Senato della rappresentanza degli enti di governo territoriale, quindi il superamento del bicameralismo perfetto, oramai rimasto soltanto virtuale, dato il consolidato ricorso al monocameralismo di fatto; la riscrittura dei regolamenti parlamentari per spostare l’epicentro della produzione legislativa nelle Commissioni permanenti e riservare l’aula ai provvedimenti di maggior portata politica (il Bilancio dello Stato, le questioni europee e internazionali; leggi elettorali; ecc).

Le riforme sul versante istituzionale ed elettorale sono, ovviamente, condizioni necessarie. Ma non sono sufficienti. Va affrontato anche il tabù all’origine della cosiddetta “Seconda Repubblica”: il partito politico organizzato in forme democratiche e il relativo finanziamento pubblico per il funzionamento della democrazia e per la funzione costituzionale del Parlamento. I padri e le madri della nostra Carta avevano ben presente il punto tanto da scolpirlo all’art 49: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Il partito politico, alimentato da un adeguato finanziamento pubblico opportunamente vincolato e verificato nel suo utilizzo (anche in questa legislatura sono state presentato Proposte di Legge interessanti), è presupposto per la qualità della democrazia. Il partito politico deve tornare a essere, nelle forme del XXI secolo, luogo di formazione e selezione delle classi dirigenti della politica. La politica, oltre a essere “la forma più alta di carità, seconda solo alla religione” (Pio XI), richiede imprescindibili professionalità. Non vuol dire che la rappresentanza politica o il funzionariato di partito deve essere una professione a vita. Chi scrive, per esperienza diretta, ritiene che avere un mestiere prima e fuori dalla politica sia irrinunciabile condizione di autonomia e libertà. Ma le competenze specialistiche richieste dalla direzione politica, dalla rappresentanza politica e dalle responsabilità istituzionali non si improvvisano. Non possono derivare da partiti personali o familiari. Neppure da una buona legge elettorale proporzionale e con le preferenze. Si costruiscono dentro comunità politiche aperte, insieme ai legami di solidarietà e al patrimonio morale di affidabilità per ridimensionare il trasformismo.

Tra le caratteristiche distintive della presidente del Consiglio pro-tempore vi è quella di essere a capo di un partito, l’unico nel nostro panorama terremotato da “Tangentopoli”, strutturato secondo le forme classiche, inclusa una precisa ideologia. Da Giorgia Meloni e da FdI, dovrebbe arrivare non soltanto disponibilità, ma interesse a mettere nell’agenda delle riforme istituzionali anche la regolazione democratica della forma partito e le norme per il finanziamento pubblico della politica. I protagonisti dell’area progressita, innanzitutto Pd e M5S, dovrebbero fare, uniti, la richiesta. Sarebbe da parte di entrambi un bel segnale di maturazione sul terreno della cultura politica. Sarebbe, soprattutto, fattore di speranza per la nostra democrazia costituzionale.
*(Stefano Fassina, è un economista e politico italiano, ex deputato della Repubblica Italiana ed ex consigliere comunale di Roma, nonché ex viceministro dell’Economia sotto il ministro Fabrizio Saccomanni nel governo Letta)

 

08 – Gaetano Lamanna*: CON LO STATO FISCALE, LA DESTRA COSTRUISCE IL SUO BLOCCO SOCIALE. LA DESTRA GOVERNA PERCHÉ I CETI PRIVILEGIATI HANNO VINTO «LA GUERRA DELLE TASSE» (TITOLO DI UN BEL LIBRO DI VINCENZO VISCO, EDITO DA LATERZA, CHE TUTTI DOVREBBERO LEGGERE).

Fedele alla promessa di «non disturbare chi crea ricchezza» Giorgia Meloni, con il decreto del 1° maggio, inaugura una sorta di «politica dei redditi» a totale carico dello Stato. Non che non sia giusto tagliare qualche punto di prelievo a lavoratori dipendenti falcidiati dall’inflazione. Non è giusto che avvenga con l’ennesimo scostamento di bilancio, debito aggiuntivo che i contribuenti di oggi e di domani dovranno restituire con gli interessi. Non c’è alcun «tesoretto» da distribuire, come impropriamente sostiene Giorgia Meloni, piuttosto si apre una falla ulteriore nel bilancio pubblico e in quello dell’Inps, che peraltro sarebbe già in dissesto se non fosse sostenuto da un trasferimento statale di 17 miliardi all’anno.
La nostra presidente si guarda bene dal chiedere un contributo fiscale maggiore a chi ha di più. Sorvola accuratamente sulle aziende (alimentari, farmaceutiche…) che gonfiano i profitti speculando sui prezzi. Solleva le imprese dalla loro responsabilità dinanzi al peggioramento delle condizioni umane e materiali di milioni di lavoratori, giovani e donne. Vara un provvedimento che ha l’evidente scopo di depotenziare la lotta per il rinnovo dei contratti scaduti, a partire da quelli del pubblico impiego e del settore terziario. Scava un fossato tra i “non protetti” e fasce di reddito medio-basse, che temono di scivolare in giù nella scala sociale a causa dell’impennata dei prezzi. Fa una scelta precisa in funzione dei meno poveri, abbandonando gli ultimi al loro destino.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:
Buona la prima. A Bologna c’è voglia di sciopero
Con il decreto lavoro, dunque, il governo di destra mette qualche soldo in più in buste paga che non superano i 35 mila euro, ma al tempo stesso taglia drasticamente il fondo per i percettori del Rdc, destruttura ancora di più i rapporti di lavoro caratterizzati da precarietà, finti tirocini e praticantati non pagati, lavori a tempo pieno spacciati per lavori part-time, forme intollerabili di discriminazione e di asservimento. Un decreto che merita una risposta politica e sociale adeguata a contrastare il disegno politico, carico di rischi per la democrazia, che lo sottende.

La destra non crede nella società del benessere, nell’allargamento dei diritti e degli spazi di partecipazione. Ha in mente piuttosto una società opulenta che incorpora i vecchi miti della tradizione nazionalista, in cui domina una élite economica allargata, l’aristocrazia del 21° secolo (ricchi signori, imprenditori, manager, amministratori delegati, detentori di rendite e patrimoni, evasori che popolano il “bel mondo” ).

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In questo schema il lavoro autonomo – privilegiato rispetto al lavoro dipendente – fa da collante a rapporti sociali che seguono una precisa gerarchia. Chi parte da un certo livello di reddito sta dentro (insider). Chi è fuori resta escluso (outsider), al massimo può raccogliere le briciole, aspirare ai voucher o a contratti capestro di 4 euro all’ora. Il tavolo delle riforme istituzionali, finalizzato a proporre l’elezione diretta di un presidente “salvatore della Patria”, getta le basi di uno Stato neo-corporativo e autoritario, garante del nuovo ordine.

Lo Stato fiscale subentra allo Stato sociale. Il fisco resta un potente strumento di consenso e di regolazione. A questo servono i condoni, gli sconti fiscali, la flat tax, la fiscalizzazione fino al 60 per cento degli oneri sociali a favore di imprenditori che assumono giovani, la detassazione fino a 3 mila euro dei premi contrattati a livello aziendale (fringe benefit). Ma anche le mance, i bonus, gli incentivi su ogni cosa.

Denaro al posto di servizi sociali efficienti. I trattamenti fiscali speciali si estendono a nuove categorie e gruppi sociali rompendo ogni barriera tra pubblico e privato. Così, agli infermieri del Servizio sanitario nazionale, che hanno stipendi sotto il 40% della media europea, invece di rinnovare il contratto, viene consentito di svolgere attività in strutture private, con conseguenti e prevedibili ricadute negative sul funzionamento delle strutture pubbliche. E molti funzionari e dirigenti, con contratto a tempo indeterminato, trovano più conveniente optare per il lavoro autonomo e, quindi usufruire della tassazione (onnicomprensiva) del 15%. La ricerca del maggior guadagno possibile con la minore imposizione fiscale diventa la bussola con cui orientarsi nel mercato del lavoro.

La destra governa perché i ceti privilegiati hanno vinto «la guerra delle tasse» (titolo di un bel libro di Vincenzo Visco, edito da Laterza, che tutti dovrebbero leggere). Non esiste più progressività nè equità nel sistema. Il fisco funziona ormai come una «sartoria» in cui le lobby, di volta in volta, confezionano gli abiti su misura per i vari gruppi sociali. Con un debito che viaggia velocemente verso i tre mila miliardi si pone un problema oggettivo di sostenibilità e, allora, la sinistra dovrà trovarsi preparata. «La guerra delle tasse» non finisce qui.
*(Fonte: Il Manifesto. Gaetano La Manna. Professore ordinario. Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche. Settore scientifico disciplinare)

 

 

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