n°12 – 25/03/2023. RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Alessandro Portelli*: italiani e non, il revisionismo di Giorgia meloni – fosse ardeatine. Giorgio leone Blumstein era nato nel 1895 a Leopoli, città dell’ucraina. È morto il 24 marzo 1944., ammazzato alle fosse ardeatine. Non l’hanno ucciso perché era italiano. Non era italiano. […] italiani e non, il revisionismo di Giorgia Meloni.
02 – Stefano Fassina*: La seconda sinistra – Qualche mese fa, all’avvio del percorso congressuale del Pd, Luca Ricolfi rimarcò su La Repubblica “l’assoluta necessità, se si desidera non perdere il contatto con gli strati popolari, di prenderne sul serio il tradizionalismo e le domande di protezione.
03 – Mario Pierro*: La Fed continua nell’ostinato tentativo di creare una recessione – STATI UNITI. I tassi d’interesse aumentano ancora dello 0.25%.
04 – Francesca Leoci*: Lotta ai cambiamenti climatici, Onu: “Se agiamo ora siamo ancora in tempo” – La situazione climatica – Come contrastare il cambiamento climatico?
05 – Ancora pochi stranieri nelle università italiane – Europa – Negli anni la mobilità studentesca è gradualmente aumentata in Europa. L’Italia costituisce però un’eccezione: gli universitari stranieri sono in calo dal 2018 e nel 2020 costituiscono meno del 3% del totale
06 – Franco Milanesi*: Rudi Dutschke.
07 – Per mezzo grado in più Secondo molti scienziati l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi è ormai irraggiungibile. Altri avvertono che abbandonarlo sarebbe un colpo fatale alla lotta per il clima
08 – Cos’è il green deal europeo – Si tratta dell’insieme di strategie e piani d’azione proposti e adottati dalla commissione europea per ridurre le emissioni di gas serra del 55% entro il 2030 e raggiungere la neutralità climatica entro il 2050

 

01 – Alessandro Portelli*: ITALIANI E NON, IL REVISIONISMO DI GIORGIA MELONI – FOSSE ARDEATINE. GIORGIO LEONE BLUMSTEIN ERA NATO NEL 1895 A LEOPOLI, CITTÀ DELL’UCRAINA. È MORTO IL 24 MARZO 1944., AMMAZZATO ALLE FOSSE ARDEATINE. NON L’HANNO UCCISO PERCHÉ ERA ITALIANO. NON ERA ITALIANO. […] ITALIANI E NON, IL REVISIONISMO DI Giorgia Meloni

Giorgio Leone Blumstein era nato nel 1895 a Leopoli, città dell’Ucraina. È morto il 24 marzo 1944., ammazzato alle Fosse Ardeatine. Non l’hanno ucciso perché era italiano. Non era italiano. L’hanno ucciso perché era ebreo.

Blumstein non è un caso isolato. Gli stranieri uccisi alle Fosse Ardeatine sono una dozzina. Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni (così vuole essere chiamata) vanta giustamente la sua origine alla Garbatella, quartiere popolare di Roma. La Garbatella è direttamente contigua alle Fosse Ardeatine. Chi è cresciuto lì non può non aver sentito parlare di che cosa è successo.

Le sue sorprendenti parole non sono frutto di ignoranza ma di inconfessata e tracotante vergogna. Non fu ucciso perché era italiano neanche il generale Simone Simoni, cacciato da Mussolini perché si era permesso di dubitare dell’inevitabile vittoria delle armate nazifasciste. Non fu ucciso perché era italiano Celestino Frasca, colpevole soltanto di essersi trovato vicino via Rasella dopo l’azione partigiana. Non fu ucciso perché era italiano Bruno Bucci, colpevole di avere nascosto sotto il letto una copia di un giornale antifascista. Non è stato ucciso perché era italiano Pilo Albertelli, professore di filosofia, colpevole di avere combattuto anche con le armi contro i tedeschi occupanti e i loro servitori fascisti.

Come scrisse a suo tempo Vittorio Foa, sono stati uccisi per quello che erano, per dove si trovavano, per quello che avevano fatto: «Si uccidevano gli ebrei perché erano ebrei, non per quello che pensavano e facevano; si uccidevano gli antifascisti per quello che pensavano e facevano; si uccidevano uomini che non c’entravano per niente solo perché erano dei numeri da completare per eseguire l’ordine». In tribunale, Herbert Kappler, che aveva diretto il massacro, spiegò che secondo lui includere gli ebrei era stata una buona idea perché «se non avessi messo gli ebrei avrei dovuto aggiungere altre persone la cui colpevolezza era meno chiara»: in altre parole, gli ebrei erano colpevoli per definizione; gli altri (italiani o meno) no.

Infatti il comunicato tedesco affisso dopo la strage spiegava perché li avevano uccisi: non perché erano italiani ma perché ai loro occhi erano tutti «comunisti badogliani».

Quando l’italiano Guido Buffarini Guidi, ministro degli interni di quella che si era chiamata Repubblica sociale italiana, consegna ai nazisti la lista di una cinquantina di italiani da uccidere, non lo fa perché erano italiani. Lo fa precisamente perché, agli occhi del suo regime, erano tutto il contrario: nemici della patria, letteralmente «anti-italiani». Perché gli italiani non erano, non sono mai stati, una cosa sola. In un certo senso, questo tema degli «italiani vittime della barbarie tedesca», che risuona nei commenti odierni alla malaugurata uscita di Giorgia Meloni, rinvia a una narrazione della Resistenza, a lungo anche da parte antifascista, che ha cancellato le divisioni fra gli italiani (tanto che quando Claudio Pavone ricominciò a parlare di guerra civile molti furono come minimo disorientati).

Raccontare la Resistenza come sollevamento unitario di tutto il popolo italiano contro l’invasione nazista, o l’invasione nazista come crimine contro gli italiani in quanto tali significa assumere il popolo, o adesso «la nazione», come un tutto unitario, indistinto. La guerra civile significa invece che «il popolo», «il paese», «la nazione» sono entità conflittuali e divise – e continuano ad esserlo.

Quella di Giorgia Meloni è una reazione istintiva che maschera una sorta di afasia, ma che anche evoca l’ invereconda e ipocrita par condicio dell’anti-antifascismo contemporaneo, e ribadisce quel senso di vittimismo che accompagna tante narrazioni del nazionalismo italiano che si adopera a resuscitare (non a caso applica pedissequamente alle Fosse Ardeatine il mantra di destra sulle foibe – che come sappiamo non funziona davvero neanche per quel crimine lì). Ma le sue parole sono comunque preziose: ci aiutano a capire che le Fosse Ardeatine sono ancora una memoria insopportabile e vergognosa per gli eredi dei carnefici. Per generazioni, hanno sparso menzogne cercando di infangare i partigiani e giustificare i nazisti; adesso Meloni prova maldestramente a disinnescarla in nome dello ius sanguinis della nazione.

Il giornale clandestino trovato sotto il letto dagli assassini di Bruno Bucci si chiamava “Italia Libera”. Perché è vero, di Italia si trattava; ma l’aggettivo non è meno importante del nome – di che Italia parliamo? È vero, i partigiani e gli antifascisti erano italiani; i partigiani si definivano «patrioti» ben prima che di questa parola si impadronissero i fratelli d’Italia. Ma l’Italia che volevano, la patria a cui appartenevano, era un’altra.
*(Fonte: Il Manifesto. Alessandro Portelli, è un critico musicale e storico italiano. È stato professore ordinario di letteratura angloamericana)

 

02 – Stefano Fassina*: LA SECONDA SINISTRA – QUALCHE MESE FA, ALL’AVVIO DEL PERCORSO CONGRESSUALE DEL PD, LUCA RICOLFI RIMARCÒ SU LA REPUBBLICA “L’ASSOLUTA NECESSITÀ, SE SI DESIDERA NON PERDERE IL CONTATTO CON GLI STRATI POPOLARI, DI PRENDERNE SUL SERIO IL TRADIZIONALISMO E LE DOMANDE DI PROTEZIONE.
” Il suo appello cadde nel vuoto, nonostante l’elezione di Elly Schlei a segretaria del Pd sia avvenuta in un’altra fase storica rispetto alla stagione di nascita del suo partito e de L’Ulivo. Era la stagione, peraltro già allora al tramonto, della “fine della storia e l’ultimo uomo”, chiusa almeno dal 2016 con la Brexit e l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca. Ora, siamo in una fase di de-globalizzazione, a causa dell’insostenibilità sociale, ambientale, spirituale e geo-politica dell’impianto neo-liberista. Prima il Covid e, poi, la guerra in Ucraina ne sono conseguenza. Al tempo stesso, accelerano la scomposizione dei mercati globali. La divergenza strategica tra “nuova” e “vecchia Europa”, esplicita in reazione all’invasione russa, strappa il velo dei sogni sull’impraticabilità degli Stati Uniti d’Europa. Tutto cambia. Pertanto, il punto sollevato da Ricolfi rimane decisivo. Quindi, ha scritto magistralmente Carlo Galli qualche giorno fa sempre su La Repubblica, “Una politica progressista può e deve far pace con la nazione, con l’obiettivo di dare, attraverso la nazione, autocoscienza storica e civile al popolo.”
A tal fine, data la rigidità di strutture e sovrastrutture, sarebbe utile riconoscere la necessità di due sinistre (utilizzo il termine “sinistra” in senso davvero ampio), definite da due paradigmi culturali distinti, ma complementari e sinergici. La “prima sinistra” o, meglio, centrosinistra c’è. È erede delle sinistre storiche, sebbene dopo il ‘68 si sia riprodotta in radicale discontinuità di cultura politica con le sue origini. Si è consolidata dopo ‘89 e il ‘92. Il suo paradigma, cosmopolita, no border, federalista per l’Ue e transumanista sul versante dei diritti civili, è stato nutrito dalla “liberazione” dei movimenti di capitali, servizi, merci e persone e dall’onnipotenza della tecnica. È sotteso all’area ricompresa da +Europa, Pd, Verdi e, in molti aspetti, sinistre radicali da un lato ed Terzo polo dall’altro. È un insieme politico con consolidati riferimenti sociali: concentrati sui settori ad elevata scolarizzazione, prevalentemente benestanti e residenti nelle parti migliori delle aree urbane.
Va, invece, costruita la “seconda sinistra”. Non partiamo da zero. In Italia, ha una presenza embrionale, istintiva e contrastata nel M5S. Altrove, è meglio definita sul piano teorico e, a parte in Germania dove Sahra Wagenknecht è assediata nella Linke, vive legittimamente con maggiore o minore consistenza elettorale. In Francia, è forte con il movimento di Jean Luc Melenchon. È minoranza nel Regno Unito, con il Blue Labour e la componente di Jeremy Corbin. Cresce dall’altra parte dell’Atlantico con le truppe di Bernie Sanders e le misure da “America first” di Biden.

La “SECONDA SINISTRA” si dovrebbe strutturare intorno ad un paradigma inter-nazionalista, dove Nazione e Patria sono parole recuperate nel senso scritto nella nostra Costituzione ed illustrato da Carlo Galli nel testo richiamato: luoghi di appartenenza imprescindibili della persona-comunità, diversificati, aperti e solidali. Sono le basi per fermare l’autonomia differenziata e per cooperare con le altre Nazioni e le altre Patrie ad ognuna delle quali “appartiene” uno specifico popolo di un continente plurale, irriducibile ad un unico popolo europeo, obiettivo dei Federalisti. Qui, il riferimento da coltivare è la “Democracy” assente dal dibattito politico italiano, soffocato nella morsa “europeisti” e “sovranisti”. Nelle relazioni con gli Stati Uniti e la Nato, la seconda sinistra persegue, con ostinata autonomia, un l’atlantismo adulto, realista, per un ordine internazionale multipolare e multilaterale. Sul versante economico, riconosce il “contro limite” sociale incardinato nella nostra Carta, sovraordinato, come sancito anche dalla Corte Costituzionale, alle norme dell’UE. Quindi, è “no Bolkestein”, discute il primato politico della BCE ed esige filtri sociali e ambientali alle dogane. RdC e salario minimo sono ultime trincee, ma l’obiettivo rimane la piena e buona occupazione. Per le migrazioni, oltre al sacro dovere di salvare le vite, connette l’accoglienza alla capacità di integrazione e riapre il libro della cooperazione internazionale per promuovere il diritto a non emigrare. Per la conversione ecologica, le valutazioni di impatto ambientale misurano anche l’impatto sociale. L’antifascismo è praticato come denominatore comune della politica, non conforto identitario e illusoria scorciatoia per conquistare la maggioranza. Infine, il cammino dei diritti civili parte dall’autodeterminazione della persona e in particolare della donna, ma segue la rotta umanista segnata da argini invalicabili: no all’acquisto della vita su un catalogo dopo aver affittato una madre; no al disconoscimento sessuale dell’umano, nel pieno rispetto e protezione per le persone omosessuali o transessuali e per le loro unioni. Qui, il femminismo non si ferma alle pari opportunità di genere, ma è riconoscimento del potenziale femminile per scardinare il dominio dell’economico e le connesse gerarchie di potere.
In conclusione, la sfida di fronte alle leadership dell’area progressista è avviare la “seconda sinistra”, non competere per il primato nelle ZTL. È l’unica strada per ritrovare connessione sentimentale con le periferie sociali, rispondere alle loro domande di protezione economica ed identitaria e allargarne la rappresentanza. Così, insieme, le due sinistre possono superare le destre.’
*( Stefano Fassina è un economista e politico italiano, ex deputato della Repubblica Italiana ed ex consigliere comunale di Roma, nonché ex viceministro dell’Economia sotto il ministro Fabrizio Saccomanni nel governo Letta)

 

03 – MARIO PIERRO*: LA FED CONTINUA NELL’OSTINATO TENTATIVO DI CREARE UNA RECESSIONE – STATI UNITI. I TASSI D’INTERESSE AUMENTANO ANCORA DELLO 0.25%.
LA FEDERAL RESERVE HA AUMENTATO IERI I TASSI DI INTERESSE DI UN QUARTO DI PUNTO, CERCANDO DI BILANCIARE DUE PROBLEMI CONTRASTANTI: IL RISCHIO CHE L’INFLAZIONE POSSA RESTARE ALTA E LA MINACCIA CHE L’AUMENTO DEI COSTI DI PRESTITO POSSA ALIMENTARE LE TURBOLENZE NEL SISTEMA BANCARIO. LA BANCA CENTRALE STATUNITENSE HA INOLTRE PREVISTO UN ULTERIORE AUMENTO DEI TASSI NEL 2023, QUANDO DOVREBBE ARRIVARE AL 5,1% NEL 2023. ENTRO QUEST’ANNO CIÒ COMPORTERÀ UN ALTRO AUMENTO, DUNQUE. I TASSI DOVREBBERO INIZIARE A SCENDERE LEGGERMENTE NEL 2024, MA MENO DI QUANTO PREVISTO.

Questo significa che l’inflazione negli Usa è particolarmente ostinata e che, in fondo, le decisioni della Fed soddisfano a malapena, o per nulla, gli obiettivi stabiliti dai banchieri centrali. Intanto il mercato del lavoro resta forte in questo paese. E questo, paradossalmente, non è una buona notizia per la Fed secondo la quale invece il lavoro dovrebbe rallentare mentre la disoccupazione dovrebbe crescere. Sono i costi sociali necessari di una strategia che tende dichiaratamente a fare pagare ai lavoratori e a chi ha contratto un mutuo il costo per riportare l’inflazione sotto controllo. Un costo doppio, perché l’inflazione già mangia i salari di suo. Gli effetti di questa strategia si stanno già allargando ai fallimenti bancari delle ultime settimane che hanno evidenziato il rischio dell’instabilità finanziaria.

Ciò rallenterà i prestiti e gli investimenti, aumentando il rischio di recessione. Prospettiva non ignota alla stessa Fed che, nelle dichiarazioni ieri, si è detta sensibile ai rischi dei prezzi, consapevole del fatto che una crisi del sistema bancario potrebbe pesare sulla crescita. «L’entità di questi effetti è incerta» è stato detto. Dall’anno scorso la Fed ha effettuato quattro aumenti consecutivi dei tassi di tre quarti di punto, poi ha rallentato a mezzo punto a dicembre, a un quarto di punto a febbraio.

«L’inflazione però rimane troppo alta e senza stabilità dei prezzi l’economia non funziona – ha detto il presidente della Fed Jerome Powell – Il Pil Usa è cresciuto sotto trend e le spese dei consumi forse sono legate a temi meteorologici. I tassi più alti pesano sugli investimenti delle aziende. Ci aspettiamo una crescita moderata, +0,4% quest’anno e +1,2% nel 2024. Vediamo comunque rischi al ribasso per il Pil».
*(Mario Pierro – Artista della fotografia italiana)

 

04 – Francesca Leoci*: LOTTA AI CAMBIAMENTI CLIMATICI, ONU: “SE AGIAMO ORA SIAMO ANCORA IN TEMPO” – LA SITUAZIONE CLIMATICA – COME CONTRASTARE IL CAMBIAMENTO CLIMATICO? – NONOSTANTE ALA SITUAZIONE SIA GRAVE, CI SONO DIVERSI MODI PER ADATTARSI AI CAMBIAMENTI CLIMATICI CAUSATI DALL’UOMO.
Le emissioni di gas serra alimentate dai combustibili fossili, sono la causa del riscaldamento globale che sta portando a un deterioramento sempre più rapido di tutto l’ecosistema. Ma non è troppo tardi, non se si agirà entro questo decennio. Come prevenire la catastrofe? La soluzione risiede nelle abitudini dell’essere umano.

Come viene frequentemente discusso anche a livello europeo, è essenziale cessare (o almeno ridurre) l’utilizzo di combustibili fossili. L’Onu, nel rapporto di Sintesi dell’Ipcc, afferma che restano “divari tra le emissioni previste dalle politiche in atto e gli impegni assunti a livello nazionale” mentre “i flussi finanziari non raggiungono i livelli necessari”
E poi ancora: “Ci sono opzioni multiple, fattibili ed efficaci per ridurre le emissioni di gas serra e adattarsi ai cambiamenti climatici causati dall’uomo, e sono disponibili ora. Ma c’è l’urgenza di intraprendere azioni più ambiziose e lo mostra come, se agiamo ora, possiamo ancora essere in grado di garantire un futuro vivibile e sostenibile per tutti”.
LA SITUAZIONE CLIMATICA
A partire dal 2021, la scienza ha dichiarato che il riscaldamento globale che si sta verificando è causato principalmente dalle attività umane. Molte delle principali organizzazioni scientifiche mondiali hanno affermato che il cambiamento climatico è reale e le sue conseguenze sono già visibili, tra cui l’innalzamento del livello del mare, l’aumento della frequenza e della gravità degli eventi meteorologici estremi e i cambiamenti negli ecosistemi e nel comportamento della fauna selvatica.
Diverse le iniziative da parte di governi, aziende e individui in tutto il mondo, volte a mitigare il riscaldamento globale riducendo le emissioni di gas serra, promuovendo fonti di energia rinnovabile e adottando pratiche sostenibili.

Tuttavia, il ritmo dell’azione rimane lento e insufficiente per raggiungere gli obiettivi fissati dall’accordo di Parigi, che mira a limitare questo fenomeno ben al di sotto dei 2 gradi Celsius rispetto ai livelli preindustriali. Ad oggi la realtà sulla gravità del riscaldamento globale non è cambiata, ed è ancora necessaria un’azione urgente per affrontare questo problema critico.

COME CONTRASTARE IL CAMBIAMENTO CLIMATICO?
Esistono molteplici opzioni fattibili ed efficaci per ridurre le emissioni di gas serra. Alcune delle opzioni più significative sono: la promozione dell’uso di fonti di energia rinnovabile come l’energia solare, eolica, idroelettrica e geotermica; il miglioramento dell’efficienza energetica negli edifici, nei trasporti e nell’industria; la cattura delle emissioni di anidride carbonica dalle centrali elettriche e da altri processi industriali e il loro stoccaggio in formazioni geologiche, come i giacimenti esauriti di petrolio e gas.

Inoltre è possibile ridurre le emissioni da deforestazione e degrado forestale, e adottare pratiche agricole sostenibili, come la riduzione della lavorazione del terreno, l’uso di fertilizzanti organici e la semina di colture di copertura.

E’ possibile promuovere l’uso di veicoli elettrici, trasporti pubblici e andare in bicicletta o a piedi. Si parla anche di progettazione di edifici ecologici, integrando caratteristiche di progettazione sostenibile; migliorare i processi industriali; adottare semplici cambiamenti nel comportamento quotidiano, come la riduzione del consumo di carne, la riduzione degli sprechi e l’utilizzo di elettrodomestici ad alta efficienza energetica.
*(Fonte: NewsMondo)

 

05 – ANCORA POCHI STRANIERI NELLE UNIVERSITÀ ITALIANE – EUROPA – NEGLI ANNI LA MOBILITÀ STUDENTESCA È GRADUALMENTE AUMENTATA IN EUROPA. L’ITALIA COSTITUISCE PERÒ UN’ECCEZIONE: GLI UNIVERSITARI STRANIERI SONO IN CALO DAL 2018 E NEL 2020 COSTITUISCONO MENO DEL 3% DEL TOTALE.(*)

La pandemia ha avuto un impatto sulla mobilità studentesca, che però ancora non è quantificabile attraverso i dati.
La Germania è il paese che ospita più universitari stranieri: circa 369mila nel 2020.
L’Italia è la penultima in Europa (dopo la Grecia) per quota sul totale: 2,88%.
Tra 2018 e 2019 il numero di studenti stranieri in Italia si è quasi dimezzato.
La mobilità è uno dei punti cardinali su cui è costruita l’Unione europea e uno dei suoi ambiti di applicazione è l’istruzione. Programmi come l’Erasmus+ servono proprio a favorire lo spostamento di studenti universitari tra i vari paesi dell’Unione. Con comprovati effetti anche sulla qualità del loro futuro impiego.

Il numero di studenti che si spostano all’interno dell’Ue e di quelli provenienti da paesi non-Ue che si iscrivono nelle università europee è in graduale aumento da anni. Un fenomeno che facilita apertura e internazionalizzazione e che permette agli studenti stessi di sviluppare competenze professionali, sociali e interculturali.

INSIEME ALLA GRECIA, L’ITALIA È L’ULTIMA PER RAPPORTO TRA STUDENTI INTERNAZIONALI E STUDENTI DOMESTICI, OLTRE CHE IL PAESE DOVE IL NUMERO DI STUDENTI PROVENIENTI DALL’ESTERO HA REGISTRATO IL CALO PIÙ PRONUNCIATO. IN PARTICOLARE NEL PASSAGGIO TRA 2018 E 2019.

CHI E QUANTI SONO GLI STUDENTI INTERNAZIONALI IN EUROPA
Quando si parla di studenti internazionali, c’è una differenza tra chi completa il ciclo di istruzione all’estero (degree mobility) e chi invece si reca in un altro paese per un breve periodo di tempo, soltanto per conseguire dei crediti (credit mobility). Come evidenzia l’Ocse però sta diventando gradualmente più difficile mantenere questa distinzione per via dell’incidenza di programmi non classificabili in questo senso, come le doppie lauree. In questo approfondimento facciamo riferimento agli studenti iscritti al ciclo terziario in un paese diverso da quello del loro diploma. Escludendo quindi gli studenti Erasmus.

LA PANDEMIA HA AVUTO UN IMPATTO, TUTTAVIA ANCORA DIFFICILE DA QUANTIFICARE.
Nel 2020 rientrava in tale categoria quasi 1 milione e mezzo di persone. Circa 616mila erano studenti del ciclo triennale, 659mila di quello magistrale e poco più di 151mila dottorandi. In soltanto 6 stati le cifre del 2020 risultavano inferiori rispetto a quelle del 2019: Croazia, Irlanda, Lituania, Finlandia, Danimarca e Grecia. Non tanto perché la pandemia non abbia avuto un impatto, ma perché, come riporta anche l’Ocse, i dati sul 2020 corrispondono perlopiù all’anno accademico 2019-2020.
Il dato sugli studenti stranieri ha registrato un aumento graduale nel corso dell’ultimo decennio, soprattutto in alcuni paesi dell’Unione. Prima tra tutti la Croazia che aveva appena 500 studenti di nazionalità straniera nel 2013 e ben 4.768 nel 2020 (+854%). Anche Cipro, Malta e Portogallo hanno registrato aumenti significativi, superiori al 200%. Seguono due paesi baltici (Estonia e Lettonia), la Slovenia e la Polonia, dove il numero di studenti stranieri è più che raddoppiato rispetto al 2013.

L’Italia invece è, insieme alla Grecia, l’unico paese europeo in cui questi valori sono in diminuzione. Rispetto al 2013 quando si contavano nel nostro paese quasi 83mila studenti stranieri, nel 2020 erano meno di 59mila. Un calo quindi del 29%, più marcato anche rispetto a quello greco (-19%).

LA MOBILITÀ NELL’ISTRUZIONE TERZIARIA EUROPEA
Vediamo come si presenta la situazione nel 2020, un anno particolare per via dell’arrivo della pandemia e che tuttavia ha visto una notevole mobilità all’interno del settore terziario. I paesi dell’Ue si differenziano ampiamente per il numero di studenti stranieri che ospitano. La prima in questo senso è la Germania, la quota più elevata in rapporto alla popolazione studentesca totale.

368.717 GLI STUDENTI STRANIERI ISCRITTI ALLE UNIVERSITÀ TEDESCHE NEL 2020.
La Germania è il paese Ue con più studenti stranieri
Le persone straniere iscritte al ciclo di educazione terziaria nei paesi Ue, in numeri assoluti e in rapporto al numero totale di studenti (2020)
DA SAPERE
I dati si riferiscono al numero di studenti stranieri registrati nel sistema di educazione terziaria in termini assoluti e al loro rapporto percentuale con il totale di studenti del paese ospitante. Sono compresi tutti i gradi dell’istruzione terziaria, il ciclo triennale, quello magistrale e il dottorato.

Per numero di studenti stranieri in termini assoluti, alla Germania segue la Francia con più di 252mila. Se consideriamo però tale dato in rapporto al numero di studenti totale, il record è detenuto dal Lussemburgo, dove quasi la metà degli iscritti è di nazionalità straniera. Da questo punto di vista l’Italia è penultima in Europa, con un dato (2,88%) superiore soltanto a quello greco (2,80%).

L’area di provenienza più frequente per gli studenti stranieri in Ue è l’Europa stessa, con oltre 652mila studenti nel 2020. Seguono l’Asia (359mila) e l’Africa (216mila). Più contenute le cifre nel caso degli studenti provenienti da Caraibi, centro e sud America (107mila), dal nord America (31mila) e dall’Oceania (poco più di 3mila).

Per quanto riguarda l’Italia, il gruppo con la maggiore incidenza è invece quello asiatico (26.130, per il 45% del totale). Seguito da quello degli europei (21.016 per il 36%).

Come accennato, nel corso dell’ultimo decennio nel nostro paese il numero degli studenti di nazionalità straniera è, a differenza di tutti gli altri paesi Ue esclusa la Grecia, diminuito.

Dal 2018 cala drasticamente il numero di studenti stranieri in Italia – Le persone straniere iscritte al ciclo di educazione terziaria in Italia (2013-2020)
DA SAPERE
Sono compresi tutti i gradi dell’istruzione terziaria, il ciclo triennale, quello magistrale e il dottorato.

Dal 2013 il numero di studenti stranieri iscritti all’università in Italia era andato gradualmente aumentando fino a raggiungere il picco nel 2018 (quasi 107mila). Nel 2019 però la cifra si è praticamente dimezzata, per ragioni che non siamo riusciti a ricostruire, e nel 2020 si è registrata solo una debole crescita.

Per quanto riguarda invece gli italiani che vanno a studiare in altri paesi dell’Unione europea, questi sono stati poco meno di 52mila nel 2020.
51.748 gli studenti italiani iscritti all’università in altri paesi Ue nel 2020.
Le mete più popolari erano Germania (10.820), Austria (9.185) e Francia (8.428).Germania, Unione europea
*( FONTE: elaborazione openpolis su dati Eurostat )

 

06 – Franco Milanesi*: RUDI DUTSCHKE – A PARTIRE DAL 1966 SUI GIORNALI DI AXEL SPRINGER, IN PARTICOLARE SUL POPOLARISSIMO BILD, VENNERO PUBBLICATI DIVERSI ARTICOLI IN CUI IL MOVIMENTO STUDENTESCO, CHE SI STAVA SVILUPPANDO IN GERMANIA A PARTIRE DALLA FREIE UNIVERSITÄT DI BERLINO, VENIVA DESCRITTO COME LA TESTA DI PONTE DEL COMUNISMO SOVIETICO NELL’OCCIDENTE LIBERALE. Il giornale invitava il governo federale a prendere provvedimenti repressivi verso gli studenti e i leader di quella che veniva descritta come una sorta di rivolta antioccidentale. Nel clima infiammato da questa campagna di stampa, il 2 giugno 1967, mentre migliaia di giovani manifestavano a Berlino Ovest contro la visita di stato dello Scià dell’Iran, un giovane studente di letteratura tedesca, Benno Ohnesorg, veniva colpito a morte da una pallottola sparata dalla polizia. Dopo questo assassinio la radicalizzazione del movimento studentesco crebbe progressivamente e la contrapposizione tra i giornali di Springer e la SDS (Sozialistische Deutscher Studentenbund), la lega tedesca degli studenti socialisti, si fece sempre più aspra. A capo della SDS era Rudi Dutschke, leader e intellettuale di riferimento della sinistra studentesca. Nato nel 1940 nella DDR era stato costretto, a causa del suo rifiuto a prestare servizio militare, a spostarsi nella Germania Ovest pochi giorni prima della costruzione del muro di Berlino nell’estate del 1961[1].

Dutschke aderisce a Subversive Action, un piccolo gruppo che a sua volta derivava dal una cellula militante bavarese aderente all’internazionale situazionista. Nel clima vivace di Berlino Ovest il ventenne Rudi frequenta la Freie Universität seguendo prevalentemente i corsi di sociologia, legge Sartre e Heidegger (mostrando di apprezzare soprattutto la fenomenologia esistenziale di Essere e tempo), percorre i sentieri di Karl Barth e di altri teologi (era stato anche membro della gioventù evangelica nella DDR) e si immerge in Marx e nella tradizione marxista, Lukács, Bloch, i francofortesi, autori che segnano in profondità la sua formazione culturale all’origine di uno sguardo politico capace di immergersi nella vita con una non ordinaria pluralità di chiavi di lettura.

Nel clima della guerra fredda, Dutschke articola la critica ai tre macrosistemi dominanti (liberismo, comunismo autoritario, socialdemocrazia) sviluppandola lungo un’unica articolazione teorica, intesa come parte di una pratica che si sviluppa dentro le organizzazioni, nelle università, nel rapporto con le altre forze politiche.

La critica alla SPD e più in generale alla socialdemocrazia è netta. I partiti socialdemocratici «non pongono in discussione il quadro dei rapporti capitalistico-borghesi, ma si battono unicamente per la loro quota di prodotto sociale»[2]. La logica redistributiva perseguita dalla SPD presuppone pertanto i rapporti dati e li consolida in misura della consequenzialità tra concessioni «compatibili» e riduzione del conflitto. Il dispositivo economico liberista, potenziato dalla ripresa del dopoguerra, può pertanto essere inceppato attivando un conflitto di classe che oltre la prospettiva redistributiva perseguita dai sindacati e dai partiti parlamentari abbia come obiettivo proprio quella incompatibilità tra richieste salariali e accumulazione capitalistica.

L’azione extraparlamentare che spinge verso tale strategia ha di fronte a sé il blocco dei partiti, compreso quello comunista, che hanno scelto il pieno rispetto delle regole formali della democrazia borghese. Verso questo fronte della conservazione si devono attivare forme di lotta articolate: critica ideologico-culturale al sistema e alla sua gabbia egemonica; creazione di un immaginario antropologico alternativo, solidale, libertario e non mercificato; pensiero strategico per attivare dentro le istituzioni un antagonismo rivoluzionario tale da conquistare, passo dopo passo, la macchina economico-statuale che sostiene il sistema capitalistico.

«Se all’interno dei partiti comunisti, all’interno del campo rivoluzionario non divengono già visibili momenti della controsocietà, della nuova società, degli uomini nuovi con nuovi bisogni e nuovi interessi, allora la differenza tra PC e PSD è soltanto una differenza quantitativa e irrilevante, irrilevante nel senso della trasformazione sociale in direzione della democrazia diretta, in direzione del socialismo come possibilità e capacità degli uomini di svilupparsi al massimo sul piano creativo e in ultima istanza di divenire uomini nuovi»[3].

La critica al riformismo si sviluppa all’interno di un’analisi del capitalismo novecentesco che presenta momenti di straordinaria profondità anticipando, in piena fase fordista, alcune letture che si svilupperanno in campo marxista soprattutto a partire dalle faglie di crisi del tardo Novecento. Dutschke insiste sulla presenza di un «piano politico del capitale» e utilizzando le categorie operaiste – pur diversamente articolate nel lessico neomarxista di Dutschke – constata come la classe dei capitalisti sia, dai suoi esordi storici, organicamente articolata dentro lo Stato, i partiti, le strutture sociali di potere, l’esercito, le burocrazie aziendali e istituzionali. «Attraverso lo stato, il tardo-capitalismo regola in misura sempre crescente il processo economico, in cui lo stato interviene direttamente in quanto potenza economica (distribuzione del credito, sviluppo delle infrastrutture ecc.)»[4] tanto che «lo scopo dello statalismo non è la nazionalizzazione dei mezzi di produzione, bensì la direzione statale del capitalismo privato»[5]. Lo Stato è la struttura portante di questo progetto in cui esso «assume sempre più chiaramente una funzione di equilibrio tra le frizioni e contraddizioni esistenti, di autonomia per la conservazione del sistema»[6]. A partire da questo saldo controllo socio politico (istituzioni, produzione, riproduzione) può svilupparsi il progetto egemonico borghese penetrando dentro le masse con le procedure parlamentari, con l’etica del lavoro, l’adattamento, la passività, il consumo, lo svago, le illusioni riformistiche.

Il concetto di «lunga marcia dentro le istituzioni», spesso frainteso, muove, con grande realismo, da questo scenario. Esso indica la strategia di una lunga marcia (l’evocazione maoista non è certo casuale) verso la conquista degli istituti della rappresentanza democratico-borghese. Si obietterò, non a torto, che Dutschke esprime in tutte le occasioni una forte diffidenza se non un a parto disprezzo verso i partiti, lo Stato, il Parlamento. «Il Parlamento è un momento diretto nell’assoggettamento funzionale delle masse tenute nell’incoscienza, e dev’essere perciò da noi rifiutato in ogni caso»[7], l’assemblea dei rappresentanti è infatti un sistema in cui ogni opposizione di classe è ingessata nelle regole di un «confronto» che mira a rappresentare gli interessi dei gruppi dominanti. Il Parlamento non è più il luogo di decisioni politiche che vengono prese tra i vari gruppi di interesse: «Possiamo intendere la democrazia borghese nella sua forma tardo-capitalistica come democrazia d’interessi, in cui i singoli gruppi d’interesse s’incontrano alla Borsa della politica, concludono compromessi, compromessi retti da punti di vista politici; i singoli gruppi d’interesse ricevono una determinata quota del prodotto sociale lordo»[8].

Ma se è questo Parlamento che Dutschke rigetta – quello del sistema partitico legato all’alternanza di potere e non di sistema – «marciare» al suo interno significa innanzi tutto stravolgerne la funzione, il senso, il ruolo in una sorta di détournement situazionista poiché l’istituzione non è radicalmente altro dal movimento. Essa può esserne (anzi, deve esserne) la condensazione non cristallizzata, il momento organizzativo-operativo del flusso di potenza, potere e creatività che esprime il movimento stesso. L’istituzione può infatti diventare il luogo in cui il conflitto politico permane nel suo ruolo. Marcia – lunga, cioè non predefinita nel suo termine temporale – dentro le istituzioni non è affatto una formula omologabile all’opzione riformista. È il rivoluzionamento del presente con la piena consapevolezza di esservi dentro. L’attività extraparlamentare si sviluppa in questa direzione. Essa non è solo un agire frontalmente verso gli istituti dello Stato borghese ma è in quanto tale già prefigurazione rivoluzionaria nel momento in cui si è in grado di svilupparvi controsocietà. Conta, in altre parole, come si agisce, ci si muove, si opera dentro le istituzioni, con quale prospettiva, con quale capacità di condurvi lotta egemonica e tattica di conquista di massa.

«Se le masse sul piano della coscienza sono divenute extraparlamentari, vale a dire se nella coscienza si collocano già all’esterno del tardo capitalismo, allora la crisi del sistema è profonda, allora diviene possibile minare in misura sempre crescente le diverse istituzioni e i diversi ambienti dell’apparato»[9]. Ha scritto Giovanni De Luna: «La “lunga marcia attraverso le istituzioni” – forse la più incisiva istanza di trasformazione avanzata allora dal movimento, così come era stata elaborata dagli studenti tedeschi e in particolare dal loro leader Rudi Dutschke – si nutriva proprio di un’analisi attenta dell’operato concreto delle istituzioni statali e, in questo senso, si differenziava nettamente sia dalle teorizzazioni marxiste-leniniste sul peso dell’avanguardia esterna nell’organizzazione del movimento operaio, sia da quelle operaiste che contrapponevano la lotta contro lo sfruttamento a quella contro l’autoritarismo, la fabbrica contro l’università»[10].

La rivoluzione vive nel proprio essere, nel farsi, nell’accadere giorno per giorno. Sarà un processo lento – «il nostro cammino sarà assai lungo»[11] – e in parte imprevedibile ma, afferma Dutschke ricordando Shakespeare «essere pronti è tutto»[12].

La marcia nelle istituzioni, proposta nella fase crescente del movimento, appare dunque tanto come un’assunzione di realismo e responsabilità politica quanto come tattica innovativa, perché assume operativamente le istanze rivoluzionarie che si stavano sviluppando sul terreno del conflitto anticapitalistico e antiautoritario.

Dutschke, com’è noto, muove la sua azione politica dentro l’università, il luogo della forza lavoro in formazione. La storia della ricostruzione in Germania e lo straordinario decollo tecnico-industriale ed economico si spiegano, egli afferma, con un investimento massiccio sulla formazione in un quadro strategico di messa a sistema delle intelligenze produttive. «La scientificizzazione del processo produttivo provoca necessariamente una stretta relazione tra gli interessi dominanti della società e la formazione universitaria»[13]. Sono gli stessi concetti che circolano in quei mesi nelle università di Trento e Torino. La lotta antiautoritaria che si è sviluppata nelle aule, la presa di coscienza, la formazione di un’alternativa non solo economica ma di sistema che tracima dalla struttura scolastica invadendo l’intero terreno sociale: «La via per divenire rivoluzionari conduce dalle università direttamente alle istituzioni, per collaborare con alla loro distruzione, per far sorgere nuovi gruppi di salariati, di operai, di contadini, ecc.»[14]. Di nuovo, dentro e contro, poiché la figura dello studente matura a partire dal proprio processo culturale e formativo una volontà di azione verso l’oltre lo stato di cose presente. Senza, per altro, negarsi come tale. L’incontro con la classe operaia significa fondere due diversità potenziando la comune strategia. Ha osservato Peppino Ortoleva che «la proposta di “andata al popolo” e di “negazione del proprio ruolo di studenti” avanzata dai gruppi di ispirazione marxista leninista sarebbe apparsa ovunque più rassicurante, più facilmente praticabile, in fondo più generosa, che il tentativo articolato di tenere in vita la tensione fra particolarità e generalità proposto ad esempio da Dutschke con il progetto della “lunga marcia”»[15]. La «politicizzazione dell’Università come punto di partenza della politicizzazione e quindi del mutamento della società»[16] è il compito attuale del movimento. Non è, quella studentesca, un’avanguardia nel senso leniniano. Essa non si pone a capo del processo trasformativo dentro un’organizzazione. Essa, al più, è un «diffusore» della coscienza anticapitalistica. «La nostra prospettiva di rivoluzionare l’ordine esistente consiste unicamente nella nostra capacità di rendere coscienti minoranze sempre più consistenti»[17] per cui bisogna «mobilitare in senso antiautoritario una base relativamente vasta di studenti» e poi puntare a un «allargamento del campo antiautoritario all’area extra-universitaria» poiché «senza un allargamento dei movimenti sovvertitori all’interno della società, non potremmo che naufragare. L’unità degli operai, impiegati, scolari, contadini e studenti rappresenterà da noi il presupposto decisivo per la rivoluzione globale»[18]. Non c’è pertanto in Dutschke alcuna enfasi operaista. L’attenzione ai ceti medi, alle lavoratrici femminili è nel segno di una ricomposizione complessiva del fronte antiautoritario. «Non esiste più nessun ambito che nella fase di rivoluzione culturale del nostro movimento abbia l’esclusivo privilegio di esprimere gli interessi del movimento complessivo. Il movimento di tiepida opposizione è morto»[19]. Certo, la classe operaia resta il cardine di questo movimento antagonista ed è questo il motivo della sottolineatura non solo del permanere delle contraddizioni oggettive ma anche della funzione che possono svolgere piccoli conflitti come la riduzione dell’orario a parità di salario, in ragione dell’aumento vertiginoso della produttività. Ma permane all’interno di una composizione in cui nessuna forza assume a priori (cioè a partire da una centralità derivata da argomentazioni teoriche) un ruolo centrale. Ciò attirò presto le critiche degli operaisti e già nel febbraio del 1969 su «Contropiano» Francesco Dal Co rilevava il «limite fondamentale» di Dutschke nella «riduzione continua della presenza di classe, in seno allo sviluppo capitalistico, a un ruolo statico e oggettivo di “mera forza-lavoro”, condizione questa che difficilmente permette di cogliere il significato strutturale, il ruolo eversivo e dinamico ricoperto dalla classe operaia dentro il capitale»[20] cioè, secondo la prospettiva operaista, l’autonomia e la «precedenza» dell’azione di classe rispetto alla risposta del capitale. Ciò priva l’analisi di Dutschke, per Dal Co, di qualsiasi «prospettiva politica» pur riconoscendo negli scritti del leader studentesco tedesco una specifica attenzione all’egemonia del capitale sul corpo sociale, sottomesso «interamente al contesto complessivo della repressione, che trova più clamorosa e funzionale espressione nella quotidiana mobilitazione dell’intera società contro l’idea della liberazione dal lavoro»[21].

Dutschke ribadisce in varie occasioni la posizione centrale della classe operaia non trasformabile però in una priorità ontologica. «Non esiste un ruolo oggettivistico, preciso dei movimenti operai nelle metropoli, all’interno della totalità imperialistica; esiste una totalità imperialistica che ha temporalmente trasferito gli stessi movimenti operai in una componente integrale del sistema e che tenta di farli permanere in questo stato»[22]. Anzi, il rischio è sempre quello di «assolutizzare in modo metafisico il “proletariato” o “le masse”, di non comprendere la concreta e difficile dialettica tra i gruppi coscienti, radicali e minoritari, e le grandi masse»[23].

Per Dutschke, lettore di Lukács, la classe è una realtà dinamica che prende forma solo nella lotta. La trasformazione delle masse salariate in classe rivoluzionaria è la meta e la tendenza del processo rivoluzionaria, non il suo punto di partenza. Torna il tema, affatto centrale, della coscienza non come dato sovrastrutturale ma come processo materiale ed esistenziale. Essa non proviene né dal partito né dalle avanguardie di classe. È nella mescola da agire «diffuso» della mobilitazione, conflitti in atto, visione strategica che essa si forma e si consolida intaccando quella «coscienza socialdemocratica» che l’organizzazione capitalistica del mondo della vita ha saputo diffondere integrando in sé il sociale in tutte le sue espressioni. Questo è il «lavoro politico»: creare controistituzioni, controinformazione, nuclei autonomi. Da ciò si intuisce la «necessità di una prolungata rivoluzione culturale proprio nei paesi capitalistici sviluppati dell’Europa centrale, come condizione per la possibilità di una trasformazione rivoluzionaria della società»[24]. Questo è il ruolo del movimento studentesco: farsi possibile innesco di un processo di consapevolezza («presa di coscienza») verso la creazione di quell’uomo nuovo. Come dire: prima l’assunzione critica di un distacco soggettivo dall’orizzonte borghese; in concomitanza, l’azione collettiva rivoluzionaria. «Noi non siamo organizzati in un partito, siamo soltanto il nucleo organizzativo di un campo antiautoritario costituito da organizzazioni autonome. Nella fabbrica o nella scuola, nella scuola professionale o nell’università, nella chiesa o nel sindacato, in tutti questi ambiti si costituiscono organizzazioni autonome radicali che non accettano più l’integrazione della propria istituzione nel sistema»[25]. «I rivoluzionari permanenti – scrive Dutschke – continueranno l’infiltrazione in nuove istituzioni questa è la lunga marcia attraverso le istituzioni»[26] cioè «attività permanente nelle istituzioni d’importanza vitale per la rivoluzione (fabbriche, settori burocratici specializzati, aziende agricole, esercito»[27].

A partire dall’Università l’antagonismo anticapitalistico sviluppa appieno le proprie potenzialità proprio per l’imprevedibilità del suo darsi. «Una dialettica rivoluzionaria dei giusti passaggi deve concepire la “lunga marcia attraverso le istituzioni” come un’attività critico-pratica in tutti i campi sociali; essa ha per meta l’approfondimento critico-sovversivo delle contraddizioni, che è divenuto possibile in tutte le istituzioni interessate all’organizzazione della vita quotidiana, non esiste più nessun ambito sociale che nella fase di rivoluzione culturale del nostro movimento abbia l’esclusivo privilegio di esprimere gli interessi del movimento complessivo»[28].

L’antiautoritarismo va letto in questa chiave classista, di diffusione capillare del conflitto dentro le forme istituite del sociale. «La forma dell’organizzazione autonoma agisce nelle sfere in cui vivono gli uomini che non accettano più le regole del gioco. Ciò significa che in ogni istituzione, dalla fabbrica all’università, dalla scuola alla chiesa, possono costituirsi organizzazioni autonome, possono formarsi avanguardie autonominatesi, che, senza essere costrette ad assoggettarsi alla pretesa monopolistica di un partito, possono intraprendere la lotta antiautoritaria all’interno della loro sfera specifica. A mio avviso, oggi, la lotta antiautoritaria è tendenzialmente una lotta rivoluzionaria e, quindi, una lotta socialista, poiché tutte le istituzioni del tardo capitalismo sono in sé autoritarie»[29].

Nessuna «istituzione» è inattaccabile e indicazioni di grande interesse riguardano proprio le forze armate. «Andate nell’esercito, lavorateci, formatevi, create confusione nell’esercito, sviluppate la lotta antiautoritaria al suo interno, conducetevi un’azione sovversiva, lavorate per una strategia rivoluzionaria, il che può anche significare imparare a conoscere i mezzi e i metodi in vigore nell’esercito che sono necessari per la presa rivoluzionaria del potere»[30]. Così come nella burocrazia e nella magistratura, «frazioni essenziali dell’apparato», non inespugnabili ma fortini in cui si possono produrre nuclei di coscienza alternativa che ne rovescino il segno e la funzione in direzione antisistema.

Il successo del processo rivoluzionario dipenderà tanto dai rapporti di forza interni quanto dalle lotte del Terzo mondo che in una realtà globale assumeranno un peso rilevante sia in funzione della creazione di un immaginario alternativo nei paesi occidentali (torna il tema dell’antropologia politica) sia per il disequilibrio dei rapporti interstatuali, preludio e accompagnamento del disordine interno. In Dutschke questa alleanza è ribadita più volte: solo incrinando il sistema imperiale americano incardinato sull’Alleanza atlantica: «La Nato è un elemento integrante della teoria e della prassi dell’imperialismo globale nella sua forma dominante, nella forma dell’imperialismo statunitense»[31] solo con una «coerente connessione rivoluzionaria globale in forma di strategia»[32] le lotte in Occidente usciranno dai limiti asfittici del riformismo. La funzione della lotta coloniale è dunque per Dutschke fondamentale nell’innesto di un processo trasformativo. La formazione culturale di Rudi, come accadde per milioni di studenti da Berkley a Torino a Parigi verso la metà degli anni Sessanta, sovrappone Marx e Fanon, analisi di classe a livello nazionale e studio del neocapitalismo globalista. Il Vietnam è l’innesco di buona parte delle proteste studentesche ma manifestazione e scontri si svolgono in Germania anche in occasione della visita di Ciombe, primo ministro congolese e dello scià di Persi Reza Pahlavi e frequenti sono i riferimenti alle lotte del MIR in Perù, ai vietcong, a Cuba, ai diversi focolai anticapitalistici e antimperialisti. Sono, questi, «momenti di lotta sociale contro la nostra oligarchia dominante»[33].

Ed è proprio lungo la prospettiva terzomondialista che si sviluppa la critica al blocco sovietico. Vi è, da un lato, un posizionamento sostanzialmente libertario di Dutschke che lo porta a rigettare tanto le repressioni interne, l’annientamento del dissenso, il conformismo culturale che degli stati del cosiddetto socialismo reale. Ma è soprattutto la prospettiva internazionalista che smentisce il carattere originario dell’URSS incapace di fornire un appoggio ai movimenti di liberazione dall’imperialismo USA, come in America Latina e di rispondere in modo autenticamente «sovversivo-rivoluzionario» alle istanze di antimperialistiche che provengono dall’intero mondo. Ciò significa non tanto fornire appoggio militare quanto trarre esempio dalle (poche) esperienza socialiste consolidatesi fuori dall’Europa. Cuba, Cina, Vietnam sono laboratori in cui l’alternativa di sistema, pur tra mille difficoltà, si è radicata e diffusa proprio in ragione del fatto che «socialismo non può voler dire raggiungere e sorpassare il capitalismo nel senso limitato e ottuso dell’efficienza della produzione materiale»[34] come al contrario sta accadendo in URSS. La rivoluzione è un problema internazionale che deve rendere «possibile l’evoluzione creativa degli individui»[35], mentre «il neocapitalismo e il socialismo statale autoritario (stalinismo) che contiene in sé pochi elementi comunisti, cooperano contro il comunismo rivoluzionario he deve abbattere ambedue i sistemi. I comunisti finora esistono soltanto in Cina, a Cuba e nel Vietnam»[36].

Dunque, in Europa, i popoli che si sono ribellati allo stalinismo e che hanno insanguinato le strade di Berlino e Budapest invocando «la forma umana del socialismo»[37] prefigurano una «democrazia operaia come potere immediato dei produttori»[38].

Per il movimento anticapitalista occidentale la rivoluzione è dunque un percorso verso un rovesciamento di sistema in cui la violenza contro gli umani non è contemplata nella misura della possibilità che ancora offrono gli ordinamenti liberali di conquistare il potere. Ciò significa che «nessuno può escludere fin da ora l’insorgere della violenza all’interno del processo di trasformazione» poiché «la violenza è costituens del dominio e quindi anche la nostra risposta deve prevedere il ricorso a una violenza dimostrativa e provocatoria. La forma di questa controviolenza verrà determinata dal tipo di conflitto»[39], cioè «l’intensità di questa violenza dipende effettivamente dalla controrivoluzione»[40] che il potere scatenerà di fronte al diffondersi tra le masse di una coscienza e di una volontà di rovesciamento del dominio. Brandt, il primo ministro della Repubblica, è «una maschera», destituibile e verso cui un attentato sarebbe «sbagliato, disumano e controrivoluzionario»[41].

Dutschke insieme a Hans-Jürgen Krahl aveva stilato un «documento dell’organizzazione» in cui si indicava la strategia metropolitana – coerente con la «teoria del focolaio» di Guevara – di una «guerriglia di sabotaggio e di rifiuto» complementare e sinergica con la più violenta «guerriglia rurale» che si stava sviluppando nel Terzo Mondo[42]. A tal fine deve essere praticato un «rifiuto organizzato» cioè disobbedienza e illegalità di massa, autoriduzione delle bollette, richieste «incompatibili» degli operai con «rivendicazioni offensive». Ne consegue una presa di consapevolezza dell’autonomizzazione delle masse, cioè di una riappropriazione sociale del politico, sforzo costituente verso nuove organizzazioni e istituzioni non burocratiche e non autoritarie, sperimentazione di forme di relazionalità aperta, creativa e anche gioiosa in cui alla fine lo stesso Parlamento risulterebbe superfluo in una realtà di autorganizzazione del sociale.

La prospettiva luxemburghiana restituisce una nuova realtà in cui «le assemblee dei Consigli di tutti i settori della vita sociale (sia delle aziende, sia delle scuole, delle università, delle amministrazioni, ecc.) potrebbe essere una cinghia di trasmissione strategica per una futura riunificazione della Germania»[43].

L’obiettivo finale è un socialismo libertario e anticapitalista poiché «democrazia e capitalismo si escludono per definitionem»[44]. Riemerge, nella specifica tonalità di alcuni concetti, il rivoluzionario cresciuto nella gioventù evangelica. «La questione della trascendenza è anch’essa, per me, una questione di storia reale e cioè: in che modo si può trascendere la società esistente, in che modo si può elaborare un nuovo progetto di società futura. Si tratta forse di una trascendenza materialistica»[45]. Questa pulsione interna deve valere anche all’interno della società nuova possibile grazie alla strutturazione di un’antropologia che dovrà mantenere quel «grado di inquietudine critica raggiunto di volta in volta dallo spirito umano verso ogni forma di convivenza umana via via raggiunta», tensione che non consentirà «un acquietamento e un assestamento definitivo della storia umana»[46]. Dunque nessun approdo ultimo a una società perfetta, cristallizzata. L’antiautoritarismo di Dutschke «corregge» l’eschaton, sradica l’illusione di una teleologia della storia che conclude il percorso storico della perfettibilità nella perfezione.

Nel movimento studentesco europeo la Primavera di Praga offre nuove ipotesi di lavoro e nuove prospettive. Essa non è l’esito di quel movimento antiautoritario, classista, popolare e libertario auspicato da «Rudi il rosso» nella Repubblica Federale. Essa è un laboratorio, un esperimento elaborato in massima parte dai dirigenti comunisti, certo a partire da istanze sociali che potentemente esprimevano insofferenza verso il conformismo imposto con la forza dall’URSS ai paesi raccolto sotto la sua egida. Dutschke si reca immediatamente a Praga per parlare, capire, sostenere un processo che pare configurare una possibile alternativa comunista. Appena rientrato in Germania, l’11 aprile del 1968, a una settimana di distanza dall’uccisione a Memphis di Martin Luther King jr. viene colpito a Berlino, davanti alla sede della SDS in Kurfürstendamm, da Joseph Bachmann un estremista di destra esaltato, come dichiarerà lui stesso, dalla campagna d’odio montata dai giornali di Springer. Rudi sopravvive ai tre colpi, due alla testa e uno alla spalla sinistra, che lo raggiungono. I danni provocati al cervello sono gravi ma non fermano la sua attività. Si reca in Francia e in Italia, infine in Danimarca ad Århus dove insegna sociologia. Bachmann, condannato a sette anni per tentato omicidio, si suicida in carcere nel 1970. Dutschke gli aveva scritto, manifestandogli la propria assenza di rancore e cercando di spiegargli le ragioni della scelta socialista.
Pur affaticato indebolito da frequenti attacchi di epilessia rientra nella Repubblica Federale, si avvicina al movimento antinucleare e prende contatti con i dissidenti della DDR organizzando manifestazioni pubbliche in loro favore. Viene delegato a Brema per partecipare all’atto di fondazione dei Grünen previsto per metà gennaio 1980. Pochi giorni prima dell’apertura del congresso, il 24 dicembre 1979, annega nella vasca da bagno di casa, ad Århus, colpito da una violenta crisi. Rudi Dutschke, l’uomo che si era ribellarsi con tutta la sua intelligenza e forza alla violenza del capitalismo, alla sua dinamica distruttiva verso l’individuo, la comunità, l’ambiente è sepolto al cimitero di Sant’Anna a Berlino-Dahlem
*( Fonte: Snistrainrete. Franco Milanesi è dottore di ricerca in Studi politici e in Pensiero politico e comunicazione politica. Ha studiato in particolare le espressioni eterodosse ..)

 

07 – Per mezzo grado in più Secondo molti scienziati l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi è ormai irraggiungibile. Altri avvertono che abbandonarlo sarebbe un colpo fatale alla lotta per il clima.(*)

Da quando è stato nominato presidente della prossima conferenza delle Nazioni Unite sul clima (Cop28), Sultan al Jaber, amministratore delegato dell’azienda petrolifera statale di Abu Dhabi, ha portato avanti un messaggio chiaro: il mondo non deve assolutamente abbandonare l’obiettivo degli 1,5 gradi.
In vista del vertice, in programma a novembre a Dubai, Al Jaber ha intrapreso un tour globale in cui ha sottolineato ripetutamente l’importanza di raggiungere gli obiettivi fissati dall’accordo di Parigi del 2015. Quel documento, firmato da 195 paesi, s’impegnava a mantenere l’aumento della temperatura media globale rispetto ai livelli preindustriali ben al di sotto di due gradi e idealmente anche di 1,5 gradi.
Quel numero è diventato la chiave dell’azione sul cambiamento climatico, su cui si basano tutti i piani governativi e aziendali per ridurre le emissioni di gas serra, e la parola d’ordine degli attivisti per il clima. I firmatari dell’accordo di Parigi si sono impegnati ad azzerare le emissioni nette, e molti di loro hanno fissato la scadenza al 2050. Ma per riuscirci bisognerebbe ridurle del 43 per cento entro il 2030 rispetto ai livelli del 2019: uno sforzo colossale per un mondo ancora dipendente dai combustibili fossili.

Al Jaber ha dichiarato che il traguardo degli 1,5 gradi “non è negoziabile”. Tuttavia, più di sette anni dopo quella storica sera di Parigi e a meno di sette dalla scadenza del 2030, la possibilità di raggiungere l’obiettivo è oggetto di accese discussioni. Alcuni climatologi ritengono che gli 1,5 gradi non siano più realistici, mentre altri sono convinti che potremmo rimetterci in carreggiata solo adottando provvedimenti molto più drastici. Nel mondo dell’imprenditoria, soprattutto nell’industria dei combustibili fossili, c’è chi vorrebbe abbandonare l’obiettivo perché mantenerlo significherebbe limitare l’espansione del settore.

È già in corso un ampio dibattito su cosa succederebbe se non si rispettasse il limite degli 1,5 gradi, sull’opportunità o meno di ripensare le priorità e su chi sarebbero i vincitori e i perdenti di un eventuale abbandono o ridimensionamento dell’obiettivo.

ACQUA ALLA GOLA
Nel 2022 le emissioni globali di anidride carbonica hanno toccato un nuovo record, anche a causa della crisi energetica dovuta alla guerra in Ucraina. Gli scienziati stimano che il pianeta si sia già riscaldato di almeno 1,1 gradi rispetto al periodo preindustriale. Il senatore democratico statunitense Sheldon Whitehouse è particolarmente pessimista: “A questo punto è virtualmente sicuro che supereremo gli 1,5 gradi”. I rappresentanti del mondo degli affari cominciano a sostenere in privato che sarebbe meglio prepararsi a un pianeta più caldo invece di concentrarsi su un obiettivo ormai irraggiungibile. Bill Gates, la cui società d’investimenti Breakthrough Energy finanzia le innovazioni per contrastare il cambiamento climatico, ha ripetuto più volte che il traguardo degli 1,5 gradi non è più realistico.

Per qualcuno l’insistenza di Al Jaber sugli 1,5 gradi è strana visto il suo ruolo di amministratore delegato della Abu Dhabi National Oil Company. Nel 2021 ha promesso di aumentare rapidamente la produzione di petrolio degli Emirati Arabi Uniti entro il 2030, sostenendo allo stesso tempo che le emissioni possono essere ridotte. È una posizione che contrasta con la comunità scientifica, secondo cui i progetti esistenti e quelli previsti nel settore dei combustibili fossili stanno spingendo il mondo a mancare il traguardo degli 1,5 gradi.

Molti scienziati e attivisti però temono che prendere atto della sconfitta nella battaglia per gli 1,5 gradi significherebbe giustificare una riduzione dell’impegno dei governi e delle aziende. “La soluzione non è cambiare obiettivo”, sottolinea Mark Howden, vicepresidente del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), di cui fanno parte scienziati e specialisti provenienti da tutto il mondo. “Quello che dobbiamo fare è accelerare la riduzione delle emissioni”.
L’obiettivo degli 1,5 gradi è dovuto in gran parte all’impegno dell’Alleanza dei piccoli stati insulari (Aosis), un’organizzazione di 39 paesi – tra cui le Maldive, il Belize e le isole Cook – preoccupati dalla grave minaccia che la crisi climatica rappresenta per loro. Alcuni stati, come le isole Salomone, hanno già visto scomparire una parte del loro territorio a causa dell’innalzamento del livello dei mari.
Alla conferenza di Parigi nel 2015 la maggior parte dei paesi occidentali e degli stati con le più alte emissioni si era concentrata sul traguardo dei due gradi, ma alla vigilia del vertice l’Aosis aveva proposto l’obiettivo degli 1,5 gradi. Secondo il samoano Fatumanava-o-Upolu III Pa’olelei Luteru, attuale capo dell’organizzazione, “gli 1,5 gradi sono il livello oltre il quale molte piccole isole verrebbero travolte dal cambiamento climatico. È la nostra linea rossa”.

Le due soglie “sono il risultato di considerazioni scientifiche ma anche politiche”, spiega Howden. “Se ci basassimo esclusivamente sulla scienza avremmo cifre leggermente diverse, mentre se dipendesse soltanto dalla politica avremmo ancora altri numeri”.
L’inclusione del traguardo degli 1,5 gradi nell’accordo del 2015 è stata una grande vittoria per le piccole isole. Da allora è diventato un caposaldo del movimento per il clima, grazie anche al rapporto del 2018 con cui l’Ipcc ha rivelato che i danni per il pianeta sarebbero molto più gravi se la temperatura aumentasse di due gradi.
Mezzo grado può sembrare poca cosa, ma Howden spiega che “la differenza nelle conseguenze è sorprendentemente elevata”. Secondo gli scienziati, per esempio, un maggiore riscaldamento potrebbe comportare la scomparsa del ghiaccio estivo nell’Artico, che riflette la luce solare e contribuisce a regolare la temperatura dell’oceano e dell’aria. Questo potrebbe esporre miliardi di persone a eventi meteorologici estremi e provocare alluvioni, perdita di ecosistemi e riduzione della produttività agricola.
Inoltre superare gli 1,5 gradi potrebbe avere effetti negativi sulla salute. Con un aumento di 1,5 gradi, l’Ipcc prevede che il 14 per cento della popolazione mondiale sarà esposto a ondate di calore estremo almeno una volta ogni cinque anni, ma con un incremento di due gradi la percentuale sale al 37 per cento. Il climatologo Tim Lenton spiega che negli anni settanta circa dieci milioni di persone vivevano in aree con una temperatura media annuale di 29 gradi o più. Ma secondo uno studio di cui è coautore centinaia di milioni di persone potrebbero presto trovarsi in condizioni simili.

Gli scienziati hanno individuato altri punti di non ritorno che potrebbero essere raggiunti se le temperature dovessero aumentare di più di 1,5 gradi, tra cui lo scioglimento della calotta glaciale della Groenlandia, che provocherebbe un consistente innalzamento dei livelli dei mari in tutto il mondo, o il cambiamento delle correnti convettive nell’Atlantico settentrionale, che potrebbe determinare forti variazioni delle temperature in Europa e alterare la stagione dei monsoni in Africa.

UN REGALO AI PETROLIERI
Ma mentre le conseguenze del riscaldamento globale sono diventate più evidenti e il mondo ha assistito a eventi devastanti come le alluvioni in Pakistan e gli incendi negli Stati Uniti, in Australia e in Europa, anche i dubbi sulla fattibilità del traguardo degli 1,5 gradi sono aumentati.

LE CONSEGUENZE DUE MONDI DIVERSI
Al momento della firma dell’accordo di Parigi, gli scienziati dicevano che si sarebbe potuto ridurre le emissioni abbastanza da evitare di superare quella soglia, ma che sarebbe stato difficile. Dal 2016 però le emissioni sono aumentate ogni anno tranne il 2020, e il mondo ha dilapidato il suo carbon budget, cioè la quantità di anidride carbonica che possiamo emettere prima di provocare un riscaldamento di più di 1,5 gradi. Questo significa che per rispettare l’obiettivo “dovrebbe succedere qualcosa di drastico nei prossimi due o tre anni”, spiega Joyeeta Gupta, che insegna scienze ambientali all’Amsterdam institute for social science research. “Ci siamo mossi troppo tardi, e ora dovremmo ridurre le emissioni così rapidamente che sarebbe molto doloroso”.
Ma alcuni scienziati credono già che l’obiettivo degli 1,5 gradi sia spacciato. Secondo un sondaggio realizzato nel 2021 da Nature, il 75 per cento degli scienziati dell’Ipcc riteneva che il riscaldamento avrebbe superato i 2,5 gradi entro la fine del secolo. Un rapporto dell’Australian academy of science è altrettanto pessimista: “limitare il riscaldamento a 1,5 gradi è ormai praticamente impossibile”.
Secondo Laurie Laybourn-Langton del centro studi britannico Chatham House, alcuni dicono queste cose nel tentativo di “scuoterci dal nostro torpore”, ma quest’idea fa il gioco di tutti quelli secondo cui il mondo dovrebbe continuare a bruciare combustibili fossili e concentrarsi sulla gestione degli effetti del cambiamento climatico invece di affrontarne le cause: “Se l’obiettivo fosse abbandonato, a vincere sarebbero i combustibili fossili e tutti quelli che non vogliono la grande trasformazione di cui la società ha bisogno per affrontare la crisi climatica”.
Nell’industria del petrolio e del gas si parla già delle nuove tecnologie che potrebbero permettere di superare il limite degli 1,5 gradi per poi invertire la tendenza, nonostante l’Ipcc abbia avvertito che alcuni effetti sarebbero duraturi o irreversibili. Recentemente l’amministratrice delegata della Occidental Petroleum, Vicki Hollub, ha dichiarato a una conferenza del settore energetico che la cattura diretta dall’aria – una nuova tecnologia che permette di rimuovere l’anidride carbonica dall’atmosfera – potrebbe consentire all’industria del gas e del petrolio di fare affari per altri decenni.
Secondo Myles Allen, uno degli autori del rapporto dell’Ipcc sugli 1,5 gradi, è troppo tardi perché si possa fermare il riscaldamento semplicemente riducendo le emissioni dovute ai combustibili fossili, e catturare l’anidride carbonica e immagazzinarla nelle formazioni geologiche potrebbe avere un ruolo importante nel raggiungimento dell’obiettivo. Ma Al Jaber ha ribadito ai manager dell’industria petrolifera che dovranno impegnarsi di più anche se emergeranno nuove tecnologie. “Sappiamo che siamo fuori strada. Dobbiamo correggere la rotta”.

PUNTI DI SVOLTA
Nonostante l’aumento delle emissioni, secondo Laybourn-Langton ci sono segnali di cambiamento. La guerra in Ucraina ha accelerato la trasformazione del sistema energetico europeo. Nuovi progetti di energie rinnovabili e misure di risparmio energetico sono stati approvati rapidamente, contribuendo a compensare la riapertura di alcuni impianti a carbone in risposta al calo delle importazioni di gas dalla Russia.
L’Inflation reduction act da 369 miliardi di dollari varato dal presidente statunitense Joe Biden sta favorendo enormi investimenti nelle tecnologie verdi. “La gente si sta rendendo conto che dobbiamo liberarci dagli idrocarburi, perché sono un problema per la sicurezza nazionale”, spiega David Blood, cofondatore della Generation Investment Management.
Le ricerche di Lenton e altri esperti hanno identificato tre “punti di non ritorno positivi” che potrebbero innescare una reazione a catena in settori che rappresentano il 70 per cento delle emissioni globali di gas serra: imporre il passaggio ai veicoli elettrici, ordinare agli enti pubblici di sostituire una parte della carne che acquistano con proteine vegetali e sostituire i componenti più inquinanti dei fertilizzanti agricoli con ammoniaca prodotta da fonti rinnovabili. “Sono ottimista sugli 1,5 gradi, perché ho ancora un barlume di speranza in queste misure”, spiega Lenton. “Sono piccoli passi che fanno una grande differenza”.
Secondo Nick Stansbury del fondo d’investimento Legal and General Investment Management il modo migliore per garantire il raggiungimento del traguardo degli 1,5 gradi sarebbe introdurre un prezzo adeguato per l’anidride carbonica. “Si possono rendere più costose le attività che producono emissioni tassandole, oppure si può sovvenzionare tutto il resto.
Secondo Detlef van Vuuren dell’istituto di ricerca olandese Pbl, invece, continuare a discutere sul traguardo degli 1,5 gradi è inutile. “Non importa se siano un obiettivo realistico o no. Più riusciremo a contenere il riscaldamento e meglio sarà. Non dobbiamo arrivare a due gradi, quindi se non riusciremo a fermarci a 1,5 dobbiamo fare il possibile per non superare gli 1,6”.

Stansbury è convinto che tornare in carreggiata verso gli 1,5 gradi sia “assolutamente possibile”, ma come altri avverte che il tempo stringe. “Esiste un momento in cui questa finestra si chiuderà definitivamente? Sì, esiste, e non è molto lontano”.

Howden dell’Ipcc riconosce che allo stato attuale rispettare l’obiettivo degli 1,5 gradi “è piuttosto improbabile”, ma sostiene che non bisogna abbandonarlo. “Dobbiamo rivoltare il discorso da ‘non possiamo farlo’ a ‘non possiamo permetterci di non farlo’”.
*( Attracta Mooney, Financial Times, Regno Unito- – Fonti: Ipcc, Financial)

 

08 – COS’È IL GREEN DEAL EUROPEO – SI TRATTA DELL’INSIEME DI STRATEGIE E PIANI D’AZIONE PROPOSTI E ADOTTATI DALLA COMMISSIONE EUROPEA PER RIDURRE LE EMISSIONI DI GAS SERRA DEL 55% ENTRO IL 2030 E RAGGIUNGERE LA NEUTRALITÀ CLIMATICA ENTRO IL 2050.(*)
A novembre 2019 il parlamento europeo ha dichiarato l’emergenza climatica. Dopo pochi giorni la commissione ha presentato una nuova strategia, denominata “green deal europeo“, articolata in una serie di piani d’azione e volta a concretizzare l’impegno europeo per il raggiungimento della neutralità climatica. Si tratta dell’ultima e più importante e strutturale iniziativa Ue sul clima.

COSA PREVEDONO GLI ACCORDI EUROPEI SUL CAMBIAMENTO CLIMATICO.
Il green deal (patto verde) europeo prende le mosse dall’Agenda 2030 delle Nazioni unite, di cui è parte integrante, ma individua obiettivi aggiuntivi, più ambiziosi. In particolare quello di ridurre le emissioni di gas serra del 55% entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990.

LA CRESCITA È CONCEPITA COME ADATTAMENTO.
Si tratta di una nuova strategia di crescita che include un adattamento ai cambiamenti climatici e alle necessità dell’ambiente. Per questo motivo la transizione ecologica, uno dei pilastri dello sviluppo sostenibile, riveste un ruolo prioritario. In questo contesto, la sostenibilità non viene vista soltanto da un punto di vista ambientale ma integra tutti gli ambiti di azione dell’Ue. L’Unione infatti si propone con questo piano di tenere un approccio inclusivo e consapevole delle attuali disuguaglianze economiche e sociali.

La commissione ha presentato la sua proposta per la prima legge europea sul clima nel marzo del 2020. Attraverso questo atto, l’azzeramento delle emissioni di Co2 entro il 2050 è diventato un obiettivo giuridicamente vincolante. Sono state inoltre proposte le misure per verificare i progressi compiuti, da svolgersi ogni 5 anni, in linea con il bilancio globale previsto dall’accordo di Parigi.
La legge sul clima concretizza in un atto giuridico il nostro impegno politico e ci pone in modo irreversibile sulla strada verso un futuro più sostenibile. Questo atto costituisce l’elemento centrale del green deal europeo, e offre prevedibilità e trasparenza per l’industria e gli investitori europei.

– Ursula Von Der Leyen – Nel corso dei mesi seguenti sono stati adottati una serie di strategie e piani d’azione specifici, rivolti a numerosi settori. Dall’industria e dal settore chimico ai trasporti, fino all’architettura e al design. Per promuovere al loro interno una maggiore attenzione alla sostenibilità.

Sono stati inoltre formulati piani per ridurre le emissioni inquinanti, per combattere il fenomeno del disboscamento, per favorire la diffusione dell’agricoltura biologica e l’implementazione di un modello di economia circolare. Ma non sono mancate le proposte anche a livello di partecipazione civica, per esempio con il patto europeo per il clima, uno spazio di scambio e interazione con l’obiettivo di creare un movimento di sensibilizzazione ai cambiamenti climatici. Soprattutto nel 2022, con la crisi causata dallo scoppio del conflitto in Ucraina, una delle tematiche principali è stata quella dell’energia, in particolare con lo strumento del RepowerEu, il cui scopo è quello di affrancare l’Europa dai carboni fossili.

• L’Italia verso il piano per l’energia RepowerEu. A oggi le principali proposte che compongono il patto verde europeo sono le seguenti:
• direttiva sulle energie rinnovabili;
• direttiva sull’efficienza energetica;
• iniziativa FuelEu Maritime;
• iniziativa ReFuelEu Aviation;
• regolamento sull’infrastruttura per i combustibili alternativi;
• direttiva sulla tassazione dell’energia;
• meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere;
• fondo sociale per il clima;
• sistema per lo scambio di quote di emissioni dell’Ue per produzione di energia, industria, trasporti marittimi e aerei;
• strategia forestale dell’Ue;
• scambio di quote di emissioni per i trasporti stradali e l’edilizia;
• regolamento sull’uso del suolo, la silvicoltura e l’agricoltura;
• regolamento sulla condivisione degli sforzi;
• livelli di emissioni di Co2 per auto e furgoni.
Secondo il piano di investimenti elaborato nel 2020, per realizzare il tutte queste proposte sarà necessario circa 1 trilione, ovvero mille miliardi di euro. A questo scopo sono mobilitate moltissime risorse dell’Ue, a partire dal suo bilancio a lungo termine, che contribuirà per oltre 500 miliardi di euro.

25% DEL BILANCIO A LUNGO TERMINE DELL’UE PER IL PERIODO 2021-2027 SARÀ UTILIZZATO PER OBIETTIVI CLIMATICI E AMBIENTALI, SECONDO LA COMMISSIONE EUROPEA.
Mentre il programma InvestEu mobiliterà circa 279 miliardi di euro in investimenti privati e pubblici nei settori del clima e dell’ambiente nel periodo 2021-2030. Altri ruoli importanti saranno quelli della Banca europea per gli investimenti (Bei) e dei due fondi per l’innovazione e per la modernizzazione (esterni al bilancio annuale).
Da decenni ormai l’Unione europea riconosce l’effetto sul clima e sull’ambiente della presenza umana sulla Terra e si impegna a contrastarlo. La decarbonizzazione è un processo lungo e complesso, siccome moltissime attività umane comportano produzione e consumo di energia, che ancora dipendono largamente dai prodotti petroliferi e dal gas naturale, responsabili dell’emissione di elevati quantitativi di sostanze inquinanti nell’atmosfera. Tali agenti hanno l’effetto di alterare le temperature e quindi gli equilibri degli ecosistemi. Causando una serie di effetti nocivi a catena, i quali hanno importanti ripercussioni anche sulla salute umana e sullo sviluppo.
Come evidenzia la European environmental agency (Eea), l’energia è il primo settore per emissioni di gas serra, con un contributo pari al 26% del totale. Seguono i trasporti e l’industria (entrambi per il 22%).

Dal 1990 al 2020 le emissioni sono diminuite del 33,3%, passando da 4,69 a 3,12 kt Co2 eq. Un calo significativo, ma ancora piuttosto lontano dagli obiettivi fissati dal green deal per il 2030. Oltre che legato al fatto che il 2020 è stato un anno molto particolare da un punto di vista ambientale, per via della temporanea interruzione di molte attività inquinanti durante il lockdown. Il più affidabile dato del 2019 vede infatti il calo a un più contenuto 25%, meno della metà del traguardo finale, che dovrebbe essere raggiunto ormai in meno di 7 anni.

Analisi – l patto verde è chiaramente un piano molto ambizioso, che mobilita ingenti risorse per scopi importanti e difficili da raggiungere. Una grande opportunità, ma per questo anche una sfida.

In primo luogo, si tratterà di verificare come questi fondi verranno utilizzati e se effettivamente si riuscirà a trovare sempre un punto di incontro tra la questione climatica e ambientale e le altre dinamiche sociali, economiche e politiche. Tensioni di questo genere sono già emerse con la crisi energetica, quando le questioni geopolitiche (il supporto europeo all’Ucraina tramite il boicottaggio della Russia) e quelle socio-economiche (l’inflazione che ha colpito il settore energetico per questa ragione) hanno messo alla prova l’Unione.
A maggior ragione considerata la scarsa capacità dell’Unione europea stessa di gestire i disaccordi interni. Proprio nel caso del green deal per esempio la Polonia ha sottolineato di voler raggiungere gli obiettivi climatici al proprio ritmo, e per evitare l’impasse l’Unione europea ha dovuto ricorrere alla clausola dell’opting out, in deroga del principio di unanimità.
Ma bisognerà anche verificare se le risorse saranno utilizzate per progetti di reale impatto (e non per semplice greenwashing). E quindi che la decarbonizzazione rimanga sempre e comunque la priorità. In questo senso, il peso notevole dei privati nel programma di finanziamento potrà costituire un aspetto problematico, che sarà necessario monitorare. Ma questo non è l’unico problema relativo ai fondi. Come evidenziato da uno studio sui vantaggi e i limiti del green deal, si tratta anche di soldi già esistenti. Nessuna risorsa viene “creata” per questo scopo.
Un altro problema, evidenziato tra gli altri da Greenpeace, è che per quanto gli obiettivi possano sembrare ambiziosi, non sono tuttavia sufficienti per raggiungere la neutralità climatica. Il piano dell’Unione europea è quello di combinare la crescita economica con la sostenibilità. Ma secondo gli studi in materia, una negoziazione in questo senso potrebbe essere impossibile. Tra gli altri, a sostenerlo è la stessa agenzia europea per il clima, che sottolinea come scindere la crescita economica dal consumo di risorse e quindi dalle pressioni ambientali appaia via via meno realizzabile. Difatti, evidenzia l’Eea, la probabilità che l’Europa raggiunga i suoi obiettivi risulta a oggi molto bassa.
*(Commissione europea – Ambiente, cambiamento climatico, Ecologia, inquinamento )

 

 

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