n°11–18/3/’23. RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Fine settimana di incontri a New York per la senatrice La Marca(Pd)*.
02 – A Grandi*: “La prima battaglia sia contro il ddl autonomia di Calderoli”
Elly Schlein ha detto parole nuove e impegnative per il Pd: “Ci opporremo con forza al disegno pericoloso di Calderoli sull’Autonomia regionale differenziata, che divide un paese che invece va ricucito
03 – Francesca Leoci*: Arriva il reddito di cittadinanza europeo: anche gli italiani possono beneficiarne, ecco come
04 -Fabrizio Tonello*: Benvenuti, questo è l’anno dei movimenti. Se arrivate a Parigi rischiate di non trovare l’autobus perché i lavoratori dell’azienda trasporti sono in sciopero contro Macron e la sua «riforma» delle pensioni.
05 – Luigi Pandolfi*: I tassi vanno su finché qualcuno va giù, un terremoto targato Federal Reserve. Effetti collaterali . I piani restrittivi della Fed dovevano deprimere i posti di lavoro, invece toccano la finanza — Ci risiamo(ndr)
06 – Laura Carrer *:Tutti contro TikTok – La votazione che si è tenuta all’inizio del mese alla Commissione per gli affari esteri della Camera statunitense è un caso emblematico della guerra tra governi e piattaforme.
07 – Il modo migliore per onorare quelle vittime è impedire che accada ancora”.
08 – TUTTE LE AMBIGUITA’ DELLA PROPOSTA ISRAELIANA(*). Un grande movimento contesta la riforma della giustizia proposta dal governo di estrema destra. Senza mettere in dubbio i limiti di un sistema oppressivo
09 – Nel mondo(*)
10 – Chiara Zannaro*: Cos’è l’equinozio di primavera e quando cade nel 2023
L’inizio della cosiddetta primavera astronomica si avvicina: contrariamente a quanto si pensa l’equinozio di marzo non avviene sempre il 21 del mese, ma si verifica in un momento preciso che varia da un anno all’altro
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01 – FINE SETTIMANA DI INCONTRI A NEW YORK PER LA SENATRICE LA MARCA(PD)
Nella giornata dell’ 11 marzo, la senatrice Francesca La Marca, eletta nella ripartizione America Settentrionale e Centrale, ha avuto un proficuo incontro a New York presso la sede del Consolato Generale d’Italia a Park Ave, dove c’è stato uno scambio utile e proficuo sulle dinamiche del potenziamento dei servizi consolari nel tri-state, con il Console Generale Fabrizio Di Michele, la Console Irene Asquini, i membri del Comites di New York, il rappresentante Coni USA Mico Delianova Licastro e la consigliere del CGIE per gli Stati Uniti.

L’incontro è stato chiamato dalla senatrice La Marca per avere una discussione su come potenziare i servizi consolari in una circoscrizione consolare che comprende gli stati di New York, New Jersey e Connecticut e in cui vivono quasi 100.000 connazionali.

Nella giornata di domenica, 12 marzo, la senatrice La Marca ha partecipato all’annuale “festa della donna”, tenutasi a New York con quasi 300 partecipanti e organizzata dalla Federazione delle Associazioni della Campania in USA, durante la quale sono state premiate tre “donne dell’anno”, tutte di origine campana, che hanno contribuito con le loro attività e il loro operato allo sviluppo della società americana.

La senatrice La Marca, nel suo intervento, oltre a ringraziare i soci dell’associazione e il Presidente, Cavaliere Nicola Trombetta, ha sottolineato l’importanza nel volere dedicare questa celebrazione anche alle donne migranti, che tragicamente hanno perso la vita nel naufragio al largo delle coste della Calabria qualche settimana fa e a tutte le donne italo-americane, faro della famiglia americana.

La vittoria nella battaglia per l’equità di genere è ancora lunga ma, ha sottolineato la senatrice, celebrazioni come queste rendono giustizia e accendo i riflettori su tutte le donne, perno fondamentale di qualsiasi società. La celebrazione purtroppo, a causa della pandemia, era stata annullata negli ultimi anni, quindi questo evento per la senatrice La Marca è stato anche una occasione importante per rivedere i tanti amici e le tante amiche campane che ha avuto il piacere di conoscere in questo decennio di attività politica e che formano una comunità più viva e dinamica che mai.
*(Sen. Francesca La Marca, Ph.D. – SENATO DELLA REPUBBLICA – Ripartizione Nord e Centro America – Electoral College of North and Central America)

 

02 – A Grandi*: “LA PRIMA BATTAGLIA SIA CONTRO IL DDL AUTONOMIA DI CALDEROLI”. Elly Schlein ha detto parole nuove e impegnative per il Pd: “Ci opporremo con forza al disegno pericoloso di Calderoli sull’Autonomia regionale differenziata, che divide un paese che invece va ricucito”.

ORA DEBBONO SEGUIRE COMPORTAMENTI COERENTI.
Va costruita un’opposizione vera, dei partiti, alla proposta di Calderoli che oltre al disegno di legge portato al Consiglio dei Ministri ha indicato le 500 competenze che le Regioni potrebbero pretendere.

Un supermercato per accrescere i poteri delle Regioni ricche, dimenticando che l’astensione dal voto in Lazio e in Lombardia è stata del 40%.

Occorre bloccare questo gioco dell’oca per non compromettere pilastri dell’unità nazionale e dei diritti dei cittadini come la scuola e la sanità – che hanno già seri problemi – o scelte economiche decisive come strade, ferrovie, autostrade, le politiche energetiche ed ambientali. Anche Confindustria ha compreso che semmai occorre una regia europea, non uno spezzatino per regioni delle scelte politiche nazionali.

Il contrasto alle proposte di Calderoli deve essere netto perchè anche a destra non tutti condividono di mettere a rischio l’unità nazionale.

Se il Pd farà seguire i fatti alle parole di Schlein verrà archiviato l’errore di Bonaccini, che all’inizio aveva flirtato con Fontana e Zaia.

Occorre ammettere, come ha fatto Rosi Bindi con coraggio, che le modifiche del titolo V volute dal centro sinistra nel 2001 erano un errore e hanno lasciato varchi in cui la Lega si è fiondata.

Il progetto Calderoli è in contrasto con la Costituzione perchè divide i cittadini rispetto ai diritti e ignora la solidarietà verso le aree più deboli che, guarda caso, è il punto più interessante del PNRR.

Quindi occorre chiudere i varchi che fanno dire ai leghisti che stanno attuando la Costituzione.

Qui è l’originalità della proposta di legge popolare costituzionale presentata dal C.D. C, tra i firmatari Villone, Viesti, Gianola ed altri 120 esperti.

La pdl punta a riscrivere gli articoli 116.3 e 117, per superare il contenzioso (2200 ricorsi) che ha intasato la Corte costituzionale sui poteri concorrenti.

La pdl stabilisce un principio nazionale di governo delle scelte sulle materie, stabilisce che la regione non può decidere in un patto a 2 con il Governo materie e risorse, che il parlamento deve pronunciarsi sempre come i cittadini, che vanno chiarite quali risorse verranno destinate alle aree più deboli.
Anche i Lep non sono un toccasana in sé, non a caso c’è chi li definisce diritti minimi.
Non si tratta di diritti minimi ma di livelli obbligatori e uniformi di prestazione nel territorio nazionale, bloccando il tentativo di alcune regioni di fuggire con la cassa lasciando le altre prigioniere della spesa storica e delle restrizioni di bilancio. La sanità è già sottofinanziata, con diritti diversi da regione a regione.
Le dichiarazioni di Meloni sull’interesse nazionale sono in contraddizione con la deriva simil secessionista della Lega.
La raccolta delle firme sulla Pdl è in corso e ha bisogno del sostegno di chi vuole fermare Calderoli e c. Restano meno di due mesi per arrivare a 50.000 firme e, in seguito, alla discussione in Senato (possibile grazie al nuovo regolamento) nel corso della quale ogni senatore dovrà schierarsi e pronunciarsi.
*(Alfiero Grandi Fonte: Il Fatto Quotidiano).

 

03 – Francesca Leoci*: ARRIVA IL REDDITO DI CITTADINANZA EUROPEO: ANCHE GLI ITALIANI POSSONO BENEFICIARNE, ECCO COMEL’ASSEGNO DEL REDDITO DI CITTADINANZA EUROPEO, O REDDITO MINIMO, POTREBBE VARIARE DA 550 EURO A 875 EURO AL MESE.
Il Parlamento europeo ha approvato l’introduzione di un reddito di cittadinanza europeo, per tutti gli Stati membri, col fine di evitare il rischio di povertà e di esclusione sociale. Contro l’emendamento, voluto fortemente dai socialisti, si è opposto il centrodestra, mentre il Terzo Polo ha deciso di astenersi.

Su proposta della Commissione europea, l’Europarlamento ha chiesto l’introduzione obbligatoria di un “reddito minimo” per tutti gli Stati membri. Per questo è stata chiesta una direttiva ad hoc dal gruppo dei socialisti (tra cui il Pd), contrastando il volere di Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega.

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La misura Mia del governo Meloni
Dubbioso sul reddito di cittadinanza del governo Conte, il centrodestra aveva varato una nuova misura sostitutiva di inclusione attiva, denominata Mia. Il nuovo provvedimento consisterà in un sussidio percepibile solo da coloro che risultano impossibilitati a lavorare: è previsto un assegno ridotto a 350 euro per gli occupabili, e a i 500 euro per i non occupabili.

LA SOGLIA MINIMA DEL REDDITO MINIMO
Se il centrodestra ha detto No alla decisione del Parlamento europeo, lo dobbiamo alla soglia minima a cui dovrebbe far riferimento per adeguare il suo Mia. In poche parole, per il calcolo dell’ammontare del reddito di cittadinanza, l’Ue ha fissato un reddito minimo “che tenga conto della soglia nazionale di rischio di povertà (indicatore AROPE), per cercare di creare un sistema che garantisca un tenore di vita dignitoso”.
Quindi l’assegno non sarà uguale per tutta l’Unione europea, ma ogni Paese dovrà valutare l’ammontare del reddito in base alla propria soglia di povertà. L’indicatore AROPE, corrisponde al 60% del reddito disponibile mediano nazionale equivalente dopo i trasferimenti sociali, e questo in Italia ammonta a circa 10.500 euro all’anno. L’assegno, a seconda del beneficiario, potrebbe variare quindi da circa 550 euro a 875 euro al mese.
*( Fonte: News Mondo. tirocinio professionale e collaborazione dottore commercialista e revisore legale Studio commerciale tributario)

 

04 -Fabrizio Tonello*: BENVENUTI, QUESTO È L’ANNO DEI MOVIMENTI. SE ARRIVATE A PARIGI RISCHIATE DI NON TROVARE L’AUTOBUS PERCHÉ I LAVORATORI DELL’AZIENDA TRASPORTI SONO IN SCIOPERO CONTRO MACRON E LA SUA «RIFORMA» DELLE PENSIONI.
SE ARRIVATE A NEW YORK RISCHIATE DI NON POTER BERE IL CAFFÈ DA STARBUCKS. PERCHÉ C’È UN’ASSEMBLEA SINDACALE IN CORSO. SE ARRIVATE A LONDRA DOVRETE ATTENDERE PAZIENTEMENTE CHE SFILI UN CORTEO DI INFERMIERE INFEROCITE PER I TAGLI AL SERVIZIO SANITARIO INGLESE. E se ieri atterravate a Tel Aviv c’era da aspettare che la polizia sgombrasse i manifestanti che cercavano di impedire la partenza di Netanyahu pr l’Italia. Benvenuti nell’anno dei movimenti. UNO SPETTRO SI AGGIRA per l’Europa (grazie zio Karl) ma anche sull’intero pianeta: movimenti eterogenei, che non hanno parole d’ordine comuni, che qui si oppongono all’aumento dell’età pensionabile e là alla deriva autoritaria del primo ministro israeliano. Movimenti di sacrosanta protesta contro le politiche del governo Meloni (oggi manifestazione a Crotone) e movimenti di sindacalizzazione nel paese dove per 40 anni i sindacati erano praticamente scomparsi, come negli Stati Uniti. E infine movimenti globali contro i combustili fossili e la criminale inerzia dei governi di fronte al riscaldamento globale e ai fenomeni climatici estremi.

Andiamo con ordine, partendo da Israele dove l’altroieri i manifestanti hanno bloccato le strade e tentato di impedire al premier di lasciare il Paese per venire da Giorgia Meloni. Le strade di accesso all’aeroporto Ben Gurion, da dove poi Netanyahu è decollato per Roma sono state bloccate per ore e sgomberate solo con brutalità dalla polizia. Le proteste contro la sostanziale cancellazione del ruolo della Corte suprema durano da nove settimane e sono tra le più grandi che Israele abbia mai visto. SE ANDIAMO NEGLI Stati Uniti, nel 2021-2022 ci sono state centinaia di votazioni nei caffè Starbucks sull’opportunità o meno di costituire un sindacato: quasi sempre la mobilitazione dei baristi ha vinto e adesso 278 negozi hanno la loro rappresentanza. Si tratta un segnale importante perché i lavoratori dei servizi sono sempre stati i più deboli e i peggio pagati: il salario minimo federale non solo è ancora fermo a 7,25 dollari l’ora dal 2009 (lordi) ma nei bar e ristoranti è legale pagare cuochi e camerieri 2,13 dollari se ricevono delle mance. Alcune città e Stati hanno accettato la richiesta di un salario minimo a 15 dollari ma la strada da percorrere è ancora lunga.

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Sempre sul fronte dei sindacati, è in corso un’elezione storica alla United Auto Workers, che conta 400.000 iscritti. Il candidato progressista Shawn Fain è in vantaggio sul presidente in carica Ray Curry con un margine di 645 voti a conteggi quasi conclusi. L’elezione di Fain e della su lista Unite All Workers for Democracy chiuderebbe anni di indagini per corruzione sulla vecchia guardia dell’ UAW. Sarebbe un’altra vittoria per i riformatori che l’anno scorso, grazie a Sean O’Brian, erano finalmente riusciti a prendere la guida del sindacato dei camionisti, i celebri Teamsters, per decenni in mano a Jimmy Hoffa (legato alla mafia e assassinato nel 1975) e poi a suo figlio James Hoffa. NON SERVONO MOLTE parole per descrivere la situazione in Francia, dove pochi giorni fa sono scese in piazza a Parigi 700.000 persone per opporsi all’aumento dell’età pensionabile. La mobilitazione attuale, in realtà, è una nuova fase della rivolta contro le politiche neoliberiste del presidente Macron iniziate con i gilet gialli nel 2018-19 e fermate soltanto dall’epidemia di Covid-19.

Quanto all’Italia, abbiamo visto una manifestazione antifascista a Firenze mettere insieme non poche centinaia di studenti per solidarietà con una dirigente scolastica minacciata di sanzioni ma decine di migliaia di persone. I giornali si sono concentrati sull’abbraccio Schlein-Conte ma la realtà è che un movimento di massa imprevisto li ha costretti a essere lì e a interpretare il ruolo di leader dell’opposizione, silente per mesi. L’8 marzo ha visto cortei semispontanei in decine di città, tra cui uno enorme a Bologna. Oggi migliaia di persone saranno in Calabria per denunciare i crimini di un governo che rifiuta di salvare persone in pericolo a 100 metri dalla riva. TUTTO QUI? No, ci sono manifestazioni antigovernative dal Perù alla Georgia, promosse con obiettivi limitati e assai diversi, ma è un vento di mobilitazione che soffia nel mondo, per non parlare della sollevazione delle donne in Iran contro un regime teocratico. Le occasioni sono variegate ma le piazze si riempiono per esprimere un generale rifiuto delle oligarchie al potere, tutte più o meno corrotte, tutte più o meno decise a mantenere i propri privilegi a tutti i costi.

SE C’È UN DATO COMUNE alla politica di governi diversi come quello di Rishi Sunak in Gran Bretagna, di Emmanuel Macron in Francia, di Bibi Netanyahu in Israele e di Giorgia Meloni in Italia è la determinazione a spostare risorse dai più poveri ai più ricchi, dalle spese sociali alle spese militari. L’invasione russa dell’Ucraina è stata una benedizione del cielo per tutti costoro, che sono stati ben felici di estrarre dal cappello a cilindro miliardi per nuove armi di ogni tipo, come se Putin volesse sbarcare a Dover, a Tel Aviv o a Otranto nelle prossime settimane.

Nell’ultimo anno la propaganda ha fatto il suo dovere ma le piazze si stanno riempiendo lo stesso e continueranno a riempirsi anche nei prossimi mesi perché tutte le contraddizioni del tecno feudalesimo autoritario in cui viviamo sono ormai evidenti.
*(di Fabrizio Tonello. Questo è un argomento di discussione collegato all’originale su: https://ilmanifesto.it/benvenuti-questo-e-lanno-dei-movimenti )

 

05 – CI RISIAMO (di Luigi Pandolfi) *: I TASSI VANNO SU FINCHÉ QUALCUNO VA GIÙ, UN TERREMOTO TARGATO FEDERAL RESERVE. EFFETTI COLLATERALI . I PIANI RESTRITTIVI DELLA FED DOVEVANO DEPRIMERE I POSTI DI LAVORO, INVECE TOCCANO LA FINANZA. Una storia di cripto-valute e di tassi di interesse. A distanza di 15 anni da Lehman Brothers, gli Usa sono di nuovo in apprensione per il proprio settore bancario.

Ci sono due banche, la Silvergate Capital e la Silicon Valley Bank. Nel giro di due giorni, il titolo della prima è crollato del 42% (fallita), quello della seconda del 60%. Siamo al 9 marzo. Ieri, dopo che era arrivata a perdere il 62%, Silicon Valley Bank è stata «chiusa» dalle autorità della California. Ne hanno risentito immediatamente le principali banche del Paese (JPMorgan Chase, Bank of America, Citigroup, Wells Fargo, Morgan Stanley e Goldman Sachs): 54 miliardi di dollari volati via in ventiquattr’ore. In fibrillazione le borse di tutto il mondo, anche Milano giù pesantemente, zavorrata proprio dai bancari.

PER LA SILVERGATE Capital, banca specializzata in criptovalute, hanno contato molto il collasso, lo scorso novembre, di Ftx, l’exchange fondato da Sam Bankman Fried, e il persistere della tendenza ribassista sul mercato delle monete virtuali. Ma è un caso circoscritto. Più sistemico si presenta invece il problema della Silicon Valley Bank.

I FATTI. La storica banca delle start-up con sede a Santa Clara in California, tra le più grandi degli States, lo scorso mercoledì aveva avviato una repentina raccolta di fondi per tappare un buco di 1,8 miliardi di dollari. Il valore delle obbligazioni emesse era pari a 2,25 miliardi. La cosa non viene presa bene dagli investitori. Inizia la fuga dei clienti, anche su consiglio di grandi fondi di investimento e società di venture capital (spiccano Founders Fund, Coatue Management e Union Square Ventures). Le azioni crollano, il panico dilaga, l’epilogo del fallimento.

ALL’ORIGINE di questo terremoto ci sono senz’altro gli effetti della politica monetaria restrittiva della Fed. Tassi di interesse più alti si traducono in un aumento della remunerazione del capitale investito in bond statali. Funziona così: il tasso di riferimento della banca centrale è l’architrave di tutti i tassi: sale il «tasso guida», salgono i rendimenti sui bond. Il problema è che c’è un rapporto inversamente proporzionale tra il rendimento ed il valore di un titolo. A tassi di interesse più alti corrisponde una svalutazione di quest’ultimo.

Un grosso problema per le banche che ne hanno troppi in pancia. Come nel caso della Silicon Valley Bank, che per rimborsare i depositanti (tanti, con problemi di liquidità proprio a causa della stretta della Fed sul credito), ha dovuto vendere le obbligazioni detenute ad un prezzo più basso di quello iniziale (la minusvalenza di 1,8 miliardi di dollari).

TASSI DI INTERESSE e rischio recessione. Quest’ultima rimane ancora un’evenienza possibile. E il suo incombere non fa bene alla solidità del quadro finanziario americano e globale. Intanto, proprio ieri, sono arrivate le nuove stime sul mercato del lavoro negli Stati Uniti. Il mese di febbraio sono stati «creati» 311mila posti di lavoro rispetto al mese precedente. Troppi. Gli analisti se ne attendevano al massimo 225mila. Più posti di lavoro significa più reddito, quindi più consumi. E questo non va bene con l’inflazione che rimane elevata.

Un’altro giro di vite sui tassi, quindi? La logica porterebbe a questo. Ma l’incendio partito dalla banca californiana dovrebbe far riflettere sugli effetti di un ulteriore aumento del costo del denaro. Per di più se si mette in conto un forte rallentamento dell’economia globale. Rischio contagio? Il New York Times ha sottolineato che il fallimento della Silicon Valley Bank può essere paragonato, per alcuni aspetti (valore degli asset dei clienti, ad esempio), a quello della Washington Mutual nel 2008.
NON BISOGNA trascurare, inoltre, la dimensione globale dell’istituto. Svb opera, oltre che negli Stati Uniti, anche in Europa, in Asia e in Israele. Proprio in Israele sono state centinaia le start-up che hanno ritirato i propri soldi dai conti correnti nelle ultime quarantotto ore. Per quanto adesso si cerchi di minimizzare, insomma, la situazione non può che destare preoccupazione. La crisi di liquidità delle imprese può creare nuovi casi Svb. Senza contare gli appetiti della speculazione, peraltro già pesantemente in azione.
*(di Luigi Pandolfi, i. Giornalista economico e saggista. Giornalista pubblicista, scrive di economia e politica su vari giornali, riviste e web magazine. )

06 – Laura Carrer *:TUTTI CONTRO TIKTOK – LA VOTAZIONE CHE SI È TENUTA ALL’INIZIO DEL MESE ALLA COMMISSIONE PER GLI AFFARI ESTERI DELLA CAMERA STATUNITENSE È UN CASO EMBLEMATICO DELLA GUERRA TRA GOVERNI E PIATTAFORME.
I legislatori hanno votato per approvare una misura che concede all’amministrazione Biden nuovi poteri nei confronti della piattaforma TikTok, il social network cinese lanciato nel 2014 e di proprietà di ByteDance. Il presidente repubblicano del comitato che ha sponsorizzato il disegno di legge, Michael McCaul, ha dichiarato a Reuters che “TikTok è una minaccia alla sicurezza nazionale” e che “chiunque abbia TikTok scaricato sul proprio dispositivo ha dato al Partito comunista cinese una backdoor a tutte le loro informazioni personali. È un palloncino spia nel loro telefono”. Da Pechino l’azienda respinge fermamente le accuse di spionaggio. Il disegno di legge non specifica con precisione come funzionerebbe il divieto, ma fornirebbe a Joe Biden il potere effettivo di impedire a chiunque negli Usa di accedere o scaricare l’app sul proprio smartphone. Al momento gli utilizzatori negli Usa sarebbero più di 100 milioni, meno di quelli europei.

L’Unione americana per le libertà civili (ACLU) ha invitato i legislatori ad allontanarsi dalla proposta di legge poiché rappresenterebbe “una grave violazione dei diritti protetti dal Primo emendamento”. Le preoccupazioni espresse dal governo federale statunitense in merito ai problemi di sicurezza nazionale che deriverebbero dall’uso di TikTok sono espressione di un gesto politico che ha avuto riverbero internazionale, e sono emerse alcuni anni fa raggiungendo l’apice nel 2020 quando l’ex presidente Donald Trump aveva cercato di vietare l’app. A giugno dello scorso anno Buzzfeed ha riferito di aver ascoltato 80 registrazioni audio di meeting interni dell’azienda cinese nei quali era discusso il modo in cui i dipendenti accedessero ai dati degli utenti statunitensi. Le registrazioni contenevano 14 dichiarazioni di nove diversi dipendenti di TikTok che indicavano le intrusioni in un periodo temporale tra il settembre 2021 e il gennaio 2022.
Nei meeting si discuteva anche di Project Texas, il progetto aziendale che la piattaforma sta portando avanti con l’obiettivo di interrompere il flusso di dati statunitensi verso la Cina. in base a questo accordo, stipulato tra il fornitore di servizi cloud Oracle e la commissione sugli investimenti stranieri statunitensi (CFIUS), TikTok manterrebbe le informazioni degli utenti private e protette in un data center gestito da Oracle in Texas. I dati sarebbero poi accessibili a specifici dipendenti della piattaforma che risiedono nel paese.
Su questo punto comunque una precisazione è doverosa: la stretta a TikTok e il conseguente mantenimento dei dati fuori dalle mani cinesi non è soluzione a tutti i mali. Pechino potrebbe infatti aggirare l’ostacolo comprando dati e informazioni sui cittadini Usa attraverso data broker sparsi per il mondo. L’ultimatum su TikTok è arrivato a inizio mese anche alle agenzie governative: nel giro di trenta giorni l’app, se presente, dovrà essere disinstallata dai dispositivi federali. Divieto appoggiato da più di 30 stati americani, Canada e anche istituzioni politiche europee. Bruxelles si è infatti allineata alla decisione vietando l’utilizzo su telefoni del personale parlamentare dal 20 marzo prossimo.
A nulla sono valsi gli incontri avvenuti a metà gennaio scorso tra il Ceo di TikTok Shou Zi Chew e alcuni commissari europei. L’esecutivo europeo non ha fatto sapere se sia stato vittima di incidenti informatici specifici legati all’app, e ha poi escluso simili iniziative su altre piattaforme. La sospensione è temporanea e sarà oggetto di rivalutazione. Intanto è nato Clover, il progetto per la sicurezza dei dati in Europa: come il fratello gemello statunitense, istituisce due data center (in Irlanda e in Norvegia) con l’obiettivo di rafforzare il sistema di protezione della privacy tramite supervisione e controllo indipendenti.
*(a cura di: Laura Carrer, giornalista freelance e ricercatrice. Scrive di sorveglianza di stato, tecnologia all’intersezione con i diritti umani, piattaforme tecnologiche e spazio urbano su IrpiMedia, Wired, Il Post, Il Manifesto e altri.)

 

07 – IL MODO MIGLIORE PER ONORARE QUELLE VITTIME È IMPEDIRE CHE ACCADA ANCORA”. (*)
Il 4 marzo, diversi giorni dopo il naufragio che ha provocato la morte di più di settanta persone al largo delle coste calabresi, Giorgia Meloni ha annunciato che il prossimo consiglio dei ministri si riunirà proprio a Cutro, ribadendo di essere mossa dallo spirito umanitario. Ha definito “surreale” il fatto che sui mezzi d’informazione si dica che “meloni scappa”.
Certo, le domande a cui rispondere erano tante: perché la guardia costiera non è intervenuta? Perché non ci sono rotte sicure nel Mediterraneo? La presidente del consiglio, però, sembrava più propensa a parlare di un’altra vittima, lei stessa. Era sfinita dalle critiche:
“Davvero, in coscienza, c’è qualcuno che ritiene che il governo abbia volutamente fatto morire sessanta persone?”.
Ha inoltre invitato quelli che la criticano a essere “un minimo seri”.
Il punto importante qui è l’idea di “pacificare” il confronto politico, a cui Fratelli d’Italia fa sistematicamente appello. L’invito a “essere un minimo seri” non riguardava la necessità che l’esecutivo rendesse conto del suo operato. Era invece una richiesta all’opposizione e alla stampa anche adottassero toni più moderati. Sui social network circolava un’immagine in cui si accusava “la sinistra” di voler “mettere sotto processo il governo”, anche se il numero di morti in mare nel 2023 è molto al di sotto del totale negli ultimi anni. E pazienza se siamo ancora a marzo.
Quando a febbraio dei militanti di estrema destra a Firenze hanno picchiato degli studenti delle superiori, i ministri hanno condannato chiunque cercasse di “alzare la tensione” parlando di antifascismo. Poi, in occasione della tragedia di Cutro, gli alleati di Meloni hanno criticato l’opposizione per aver “politicizzato” i fatti invece di ammettere che il governo sta facendo del suo meglio. E il ministro degli esteri Antonio Tajani ha difeso il ministro dell’interno Matteo Piantedosi “perché ha sempre dato disposizione di intervenire a soccorrere in mare tutti i migranti”.
Non tutti hanno accolto l’invito al silenzio deferente, soprattutto dopo le parole offensive del ministro Piantedosi, che subito dopo il naufragio ha colpevolizzato le vittime. Non era la stessa Giorgia Meloni che nel 2015 chiedeva che il governo di Matteo Renzi fosse “indagato per strage colposa” dopo la morte di 58 persone nel canale di Sicilia? E non era sempre Meloni che nell’ultima campagna elettorale invocava un “blocco navale” contro le imbarcazioni dei migranti?
Non avremmo dovuto prendere sul serio Fratelli d’Italia quando paragonava gli arrivi dei migranti in Italia a “scene che somigliano alla preoccupante profezia contenuta nel Campo dei santi”, il romanzo suprematista bianco di Jean Raspail in cui i buonisti e i marxisti favorivano l’invasione dei neri in occidente?
E che dire di tutte le volte che Meloni ha parlato di “invasione” di migranti o di un piano per la
“sostituzione etnica”, una minaccia che rischiava di “far estinguere il popolo italiano”?
A essere onesti, anche nei suoi appelli per il blocco navale la leader di Fratelli d’Italia faceva riferimento all’idea che impedendo le partenze si sarebbero salvate vite umane. I politici di estrema destra spesso riprendono l’appello ad “aiutarli a casa loro” per ribadire di avere a cuore gli interessi dei migranti purché se ne stiano lontani dall’Italia. Oltretutto è difficile sostenere che la guardia costiera non sia intervenuta a Cutro a causa delle politiche contro l’immigrazione. Tuttavia, in Europa le morti inutili di migranti sono correlate alle scelte repressive di dissuasione: i respingimenti dell’agenzia Frontex, la rinuncia a soccorrere le imbarcazioni o i centri gestiti da regimi autoritari, incaricati di “occuparsi” delle migrazioni.
La vacuità di queste preoccupazioni umanitarie traspare dall’ultimo appello di Meloni a potenziare la “lotta agli scafisti”, un ritornello arcinoto anche a passati ministri dell’interno come Marco Minniti, del Partito democratico: l’idea di punire gli sfruttatori che fanno pagare ai migranti migliaia di euro per attraversare il Mediterraneo. Tuttavia, come hanno spiegato Arci Porco Rosso e Borderline Europe in un recente rapporto, la distinzione tra chi trasporta i migranti e i migranti stessi è pretestuosa, visto che i “capitani” delle imbarcazioni arrestati spesso sono profughi a cui all’improvviso viene andato il timone.
Un modo per impedire alle bande criminali di sfruttare gli immigrati sarebbe aprire percorsi sicuri nel Mediterraneo. Gli scafisti sono un capro espiatorio. Un modo per assolversi, per non fare i conti con la realtà e la necessità delle migrazioni di massa, considerando vicende come quella di Cutro una questione di singoli criminali che caricano le persone su bagnarole traballanti. Con questo governo, però, non c’è speranza che le cose possano andare diversamente.
*(ndr)

 

08 – Meron Rapoport – Oren Ziv *: TUTTE LE AMBIGUITA’ DELLA PROPOSTA ISRAELIANA. Un grande movimento contesta la riforma della giustizia proposta dal governo di estrema destra. Senza mettere in dubbio i limiti di un sistema oppressivo.

Per i palestinesi è quasi inconcepibile considerare Israele una democrazia. Lo stesso vale per molti attivisti israeliani per i diritti umani. Settantacinque anni di pulizia etnica, dominio militare, insediamenti per soli ebrei su terreni di proprietà palestinese e un sistema consolidato di discriminazione simile all’apartheid hanno reso ai loro occhi le parole “Israele” e “democrazia” incompatibili.
Eppure, nelle ultime settimane la società israeliana è stata lacerata dalla questione della democrazia. Centinaia di migliaia di manifestanti, in grande maggioranza ebrei, hanno riempito le strade di Tel Aviv, Gerusalemme, Haifa, Beersheva e di altre città e cittadine in “difesa della democrazia”, facendo appello alla disobbedienza di massa e perfino alla “rivolta” se il nuovo governo di estrema destra dovesse realizzare la sua riforma della giustizia. L’espressione “guerra civile” (o nella versione ebraica “guerra tra fratelli”) è diventata un elemento centrale nel vocabolario politico collettivo, insieme a espliciti avvertimenti sul rischio di potenziali spargimenti di sangue nello scontro tra governo e cittadini ebrei.
Questa protesta storica sta crescendo non solo in termini di dimensioni ma anche d’influenza, dato che vi hanno aderito vasti settori delle élite israeliane: imprenditori, banchieri, avvocati, intellettuali, agenti della sicurezza, diplomatici, ex giudici della corte suprema e pubblici ministeri. È significativa anche la presenza dei settori dell’informatica e dell’alta tecnologia, responsabili non solo del 20 per cento circa delle entrate fiscali dello stato e del 40 per cento delle sue esportazioni, ma anche dell’immagine interna ed esterna di Israele come “nazione startup”. A oggi decine di aziende dell’alta tecnologia, oltre ai fondi speculativi, hanno annunciato che ritireranno i loro investimenti e conti bancari da Israele, se non l’hanno già fatto. Centinaia di noti economisti, tra cui il presidente in carica della Banca d’Israele e i suoi predecessori, hanno avvertito delle possibili implicazioni che la riforma avrà sulla posizione del paese nell’economia globale, e lo stesso hanno fatto le banche internazionali e le agenzie di rating. Messe insieme, queste sono le minacce più rilevanti all’economia d’Israele da decenni.
Il governo incontra un’agguerrita opposizione anche nel cuore della pubblica amministrazione: in una dichiarazione politica estremamente rara, la presidente della corte suprema Esther Hayut ha definito la riforma “un piano per schiacciare il sistema giudiziario” e ha minacciato di dimettersi se dovesse essere approvata. Con lei si sono schierati consulenti legali del governo e della knesset, il parlamento israeliano, oltre a ufficiali di alto rango dell’esercito e della polizia, preoccupati dai piani del governo.
La riforma che il primo ministro Benjamin Netanyahu sta portando avanti è stata in gran parte architettata da due politici israeliani relativamente poco conosciuti: il ministro della giustizia Yariv Levin e il presidente della commissione parlamentare per la costituzione, la legge e la giustizia Simcha Rothman, del Partito sionista religioso, formazione di estrema destra guidata da Bezalel Smotrich. Rothman e Smotrich sono entrambi avvocati e da anni conducono una campagna contro il sistema giudiziario israeliano, in particolare contro la sua corte suprema, sostenendo che avrebbe “preso il sopravvento” come parte dello “stato profondo”. Secondo loro le élite del paese impongono idee liberali a una popolazione in prevalenza conservatrice, e non riconoscono il ruolo dei legittimi rappresentanti dei cittadini nella knesset e nel governo.

POTERI ILLIMITATI

La riforma pretende di “guarire” la democrazia israeliana, restituendo il potere all’organo esecutivo e a quello legislativo. La prima parte si basa su quattro elementi principali: concedere alla coalizione di governo il controllo totale sulla nomina di nuovi giudici della corte suprema, rendendole quasi impossibile annullare eventuali leggi che violino i diritti umani; permettere al parlamento di respingere simili decisioni della corte nei rari casi in cui fossero prese; abolire la facoltà dei tribunali di riesaminare le decisioni adottate dalle autorità nazionali o locali sulla base della loro “plausibilità”; e permettere ai ministri di ignorare le indicazioni dei consulenti legali. Nel sistema unicamerale israeliano – in cui la knesset è controllata di fatto dalla coalizione di governo, non c’è una costituzione scritta e i tribunali sono al momento l’unico contrappeso all’esecutivo – modifiche simili darebbero al governo poteri praticamente illimitati. I prossimi passi non sono ancora stati definiti nel dettaglio, ma prevedono di indebolire ulteriormente il sistema giudiziario rispetto al potere esecutivo.
Eppure, sapendo quanto sia già fragile la democrazia israeliana, e come la corte suprema negli anni non sia stata in grado di difendere i diritti dei palestinesi e di altri gruppi discriminati, c’è da chiedersi perché Netanyahu abbia scelto il suo sesto mandato per far passare queste drastiche modifiche.
La prima e più ovvia risposta risiede nei suoi stessi problemi con la giustizia. Netanyahu è sotto processo con accuse di corruzione, frode e abuso d’ufficio. Se fosse condannato, rischierebbe di scontare anni in carcere. Dunque ha tutte le ragioni per cercare di controllare il sistema giudiziario, nominare i giudici che potrebbero occuparsi di eventuali ricorsi o designare un nuovo procuratore generale che farà magicamente scomparire il suo processo. Anche la pura e semplice vendetta contro la magistratura che l’ha messo sotto processo è un motivo per agire.
Ragioni personali muovono anche Aryeh Deri, leader del partito ultraortodosso Shas e uno dei più importanti alleati della coalizione di Netanyahu, le cui precedenti condanne per corruzione ed evasione fiscale a gennaio hanno spinto la corte suprema a escluderlo dalla carica di ministro. Deri ha motivi ancora più immediati per indebolirla e ribaltare le sue decisioni.
Inoltre, è il rappresentante di una grande comunità che da decenni considera la corte uno dei suoi principali nemici, soprattutto perché ha invalidato alcune norme contrarie alle leggi fondamentali d’Israele. Per esempio, ha respinto l’esenzione dal servizio militare degli studenti della yeshivah (il sistema delle scuole religiose), una delle questioni più delicate per la popolazione ultraortodossa d’Israele. I partiti ultraortodossi hanno aspramente criticato anche altre sentenze dei tribunali, soprattutto quelle sui diritti lgbt+ o quelle che consentono l’apertura delle attività commerciali durante le festività ebraiche.
Anche il movimento dei coloni e i suoi sostenitori politici, non solo quelli dell’estrema destra, hanno una lunga storia di ostilità verso la magistratura. Nel 1979 la corte stabilì che le espropriazioni di terre ai danni dei palestinesi compiute sulla base di “motivi di sicurezza” non potevano essere più usate per costruire insediamenti ebraici in Cisgiordania, com’era successo fino a quel momento. Nel 2020 ha annullato una legge che permetteva allo stato di espropriare terreni privati palestinesi su cui erano già state costruite migliaia di case illegali dei coloni.
Con l’ascesa degli estremisti di destra è diventato evidente che uno dei loro obiettivi sarebbe stato sbarazzarsi degli ostacoli legali che impediscono, o almeno rallentano, la realizzazione di un sistema di apartheid ancora più profondo e duraturo in Cisgiordania.
Smotrich, ora ministro delle finanze, è l’autore del cosiddetto piano risolutivo d’Israele, che offre ai palestinesi tre opzioni: accettare la supremazia ebraica, emigrare o “avere a che fare con il pugno duro delle forze di sicurezza”. Itamar Ben Gvir, ministro della sicurezza nazionale del nuovo governo, è stato un esponente del movimento razzista kahanista e un ammiratore di Baruch Goldstein, un colono che uccise decine di fedeli palestinesi in preghiera a Hebron nel 1994. Entrambi considerano la presenza di rappresentanti dei cittadini palestinesi d’Israele in parlamento “un errore” a cui si deve rimediare.
Quindi non c’è da meravigliarsi se per i vari esponenti del governo i risultati delle ultime elezioni, che gli hanno dato una comoda maggioranza di 64 seggi, sono un’occasione irripetibile per cambiare l’equilibrio nella società israeliana. Oltre a rendere irreversibile l’occupazione israeliana della Cisgiordania, il governo ha una serie di obiettivi illiberali che spera di raggiungere, e che sta tenendo da parte per il giorno in cui i tribunali saranno resi inoffensivi: espandere il raggio d’azione del Gran rabbinato, il supremo organo religioso ebraico dello stato; deportare i richiedenti asilo africani; chiudere la televisione pubblica e trasformare il panorama dei mezzi d’informazione; riorganizzare il sistema scolastico; arginare i sindacati. Ma il piano più pericoloso e radicale forse è quello che punta a dichiarare illegale la maggior parte dei partiti palestinesi nella Knesset. Una mossa simile impedirebbe a più del 20 per cento dei cittadini d’Israele di avere una rappresentanza, e garantirebbe il dominio eterno dell’estrema destra.

Quello che il governo a quanto pare non aveva previsto era la reazione non solo dei “soliti sospetti” tra i cittadini palestinesi d’Israele o della sinistra radicale ebraica, ma anche di vasti settori dell’opinione pubblica di centro, della classe imprenditoriale e dei leader stranieri, come il presidente francese Emmanuel Macron e il segretario di stato statunitense Antony Blinken. Perfino alcuni settori della destra, tra cui molti che hanno votato per questo governo appena tre mesi fa, sono contrari. Secondo diversi sondaggi, tra il 40 e il 50 per cento dell’elettorato di destra ritiene che il governo si stia spingendo “troppo oltre” con le riforme pianificate, e la percentuale tra l’intera popolazione è molto più alta.

UN MARE DI BANDIERE
La prima manifestazione dell’attuale ondata di proteste è stata organizzata dal movimento di sinistra Standing together a Tel Aviv all’inizio del gennaio 2023, pochi giorni dopo l’annuncio della riforma da parte di Levin. Vi hanno preso parte più di ventimila persone, una folla considerevole per gli standard israeliani. Da allora il dissenso ha continuato a crescere. Folle di 150mila manifestanti, quasi il 2 per cento della popolazione totale d’Israele, si riuniscono ogni sabato, non solo a Tel Aviv ma anche in altre città grandi e piccole, compreso l’insediamento di Efrat in Cisgiordania. Mai nella storia del paese si sono viste tante persone scendere in piazza così spesso in un tempo così breve.

Mentre la prima manifestazione aveva una forte sfumatura di sinistra, con slogan contro l’occupazione e oratori palestinesi, quelle successive hanno preso una piega molto sionista e tradizionale. Oggi le proteste sono inondate da un mare di bandiere israeliane e i palestinesi sono quasi del tutto assenti. Il termine “occupazione” non è mai pronunciato, se non da un piccolo gruppo di attivisti di sinistra. La parola d’ordine invece è “democrazia”. Secondo gli organizzatori Israele è una democrazia, l’alta corte è custode dei diritti umani e dei valori liberali, e la riforma della magistratura distruggerebbe queste istituzioni sacre. Tutto quello che chiedono, quindi, è lasciare le cose come sono.
Alla fine di gennaio Moshe Yaalon, ex ministro della difesa ed ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, che in passato ha dichiarato di limitare i suoi viaggi per paura di essere arrestato a causa delle inchieste sui crimini di guerra, ha detto ai manifestanti: “Non abbiamo combattuto contro i nemici esterni per consegnare il paese ai criminali”. Yaalon, che è diventato una delle figure principali del movimento, ha avvertito che Netanyahu sta trasformando Israele in una “dittatura” e ha promesso: “Come abbiamo impedito alla Siria e all’Egitto di distruggere Israele impediremo anche a lui di farlo”.
Anche altri ex generali, accusati anche loro di crimini di guerra, come l’ex primo ministro Ehud Barak, hanno espresso la loro opposizione, invocando la “disobbedienza civile”. I soldati riservisti delle unità speciali hanno formato il loro gruppo di protesta. Alcuni veterani della guerra del 1973 hanno perfino rubato un vecchio carrarmato da un sito commemorativo e hanno guidato verso Gerusalemme, prima di essere fermati dalla polizia. Nel frattempo gli oratori arabi sono pochi e sporadici, e il 18 febbraio un’attivista femminista palestinese invitata a parlare a una manifestazione a Haifa ha annullato la sua partecipazione dopo che gli organizzatori avevano censurato parti del suo discorso perché collegavano la riforma della magistratura all’occupazione.

PROVA DI FORZA
Questi sviluppi rivelano quanto il dissenso sia omologato al pensiero dominante e perfino conservatore. Si tratta, innanzitutto, di una prova di forza delle classi medie e alte degli ebrei israeliani. Alcuni manifestanti sono stati attivi nelle cosiddette proteste di Balfour nel 2020, che chiedevano le dimissioni di Netanyahu per le sue incriminazioni, e che hanno contribuito alla caduta del suo precedente governo. La maggior parte però si è appena avvicinata all’attivismo politico. Canta slogan come “democrazia o rivolta” e “no alla dittatura”, anche se i raduni sono di solito molto tranquilli e la polizia permette ai manifestanti di bloccare le strade principali prima di disperdersi pacificamente di loro spontanea volontà (il 1 marzo ci sono stati alcuni scontri durante una protesta a Tel Aviv).
Il governo di Netanyahu è sotto pressione. Perfino il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha avvertito: “La forza della democrazia statunitense e di quella israeliana sta nel fatto di essere costruite su istituzioni forti, su pesi e contrappesi, e su una magistratura indipendente”.
Netanyahu si trova davanti a una scelta difficile: se rinuncia a elementi importanti della riforma il suo governo potrebbe rapidamente disintegrarsi, dato che Smotrich, Ben Gvir e perfino alcuni esponenti del Likud (il suo partito) come Levin sono determinati a farla passare senza la minima modifica. Se va avanti potrebbe rischiare una crisi senza precedenti, perché è molto probabile che la corte suprema stroncherà alcune parti o forse tutto il testo. In questo caso il governo potrebbe rifiutare la sentenza, il che spingerebbe Israele in un limbo costituzionale, facendolo somigliare quasi a uno stato fallito.

Ad aleggiare sulla crisi c’è, naturalmente, l’ombra del conflitto israelo-palestinese, quasi completamente assente da tutte le discussioni su democrazia o dittatura nell’opinione pubblica israeliana. Un piccolo ma ostinato gruppo di poche centinaia di manifestanti ha formato il blocco anti-occupazione. Alcuni portano alle proteste bandiere e simboli palestinesi e chiedono “democrazia tra il fiume e il mare”.

All’inizio gli attivisti erano attaccati da altre persone in piazza secondo cui “non è il momento giusto” per parlare di occupazione e di diritti dei palestinesi. Tuttavia, man mano che le proteste crescevano è aumentata anche la legittimità del blocco anti-occupazione. Il fatto che questa riforma antidemocratica sia portata avanti da coloni di estrema destra come Smotrich e Ben Gvir aiuta i manifestanti contro l’occupazione a tracciare una linea tra la parvenza di democrazia che c’è in Israele e la sua mancanza dall’altra parte della Linea verde, il confine precedente al 1967.

Questa ondata di dissenso serve da lezione collettiva sulla democrazia attiva. Se riuscirà a fermare le iniziative antidemocratiche potrebbe creare un nuovo modo di pensare alla democrazia israeliana, alla necessità di proteggere i diritti delle minoranze dalla “tirannia della maggioranza”, e al pericolo delle idee razziste e antidemocratiche che la destra promuove da anni. Potrebbe essere l’inizio di una nuova epoca nella politica israeliana: più liberale, meno xenofoba e forse, ma forse, più propensa a capire che i fallimenti della democrazia del paese non possono essere risolti senza mettere fine al dominio militare su milioni di palestinesi.

Ma se non ci riuscirà il governo di destra sarà libero di soffocare gli elementi progressisti che ancora resistono nella società ebraica israeliana e d’imporre misure radicali contro i palestinesi da entrambi i lati della Linea verde: dall’esclusione dei partiti palestinesi alle elezioni parlamentari israeliane all’esproprio di terre in Cisgiordania, se non addirittura a una nuova nakba, la catastrofe, la cacciata dei palestinesi dopo la creazione d’Israele nel 1948. La posta in gioco non potrebbe essere più alta.
*( Meron Rapoport è un giornalista del sito indipendente israeliano Local Call, che si occupa di democrazia, pace e giustizia sociale. Ha fondato il movimento A land for all, che promuove la convivenza tra israeliani e palestinesi. Oren Ziv è un giornalista e fotografo che collabora con Local Call e +972 Magazine. È tra i fondatori del collettivo Activestills, che dal 2005 documenta questioni sociali e politiche in Israele e Palestina.)

DA SAPERE – DAL VOTO ALLA PIAZZA
1 NOVEMBRE 2022 Gli israeliani vanno a votare per la quinta volta in meno di quattro anni. Il Likud, il partito di destra dell’ex primo ministro Benjamin Netanyahu, ottiene la maggioranza relativa conquistando 32 seggi sui 120 della knesset, il parlamento israeliano. Sionismo religioso – un’alleanza formata dalle formazioni di estrema destra Potere ebraico di Itamar Ben Gvir e Partito sionista religioso di Bezalel Smotrich – arriva a quattordici seggi.
29 DICEMBRE S’insedia il nuovo governo guidato da Netanyahu, che diventa premier per la sesta volta, mentre è sotto processo per corruzione. L’esecutivo è sostenuto da una coalizione di partiti di estrema destra e ultraortodossi.
4 GENNAIO 2023 Il ministro della giustizia Yariv Levin presenta una riforma che ha l’obiettivo di indebolire la corte suprema, dando al parlamento più controllo sulla magistratura.
7 GENNAIO Migliaia di persone manifestano a Tel Aviv contro la riforma. Da allora le proteste si ripetono ogni settimana.
13 FEBBRAIO Centomila persone protestano davanti al parlamento a Gerusalemme mentre la commissione parlamentare per la costituzione, la legge e la giustizia approva alcune disposizioni della riforma.
21 FEBBRAIO Il parlamento approva in prima lettura due testi che fanno parte della riforma della giustizia. La seconda e terza lettura sono previste entro la fine di marzo.
*( Fonte: The Times of Israel, Haaretz – Tutte le ambiguità della protesta israeliana
Meron Rapoport, Oren Ziv, The Nation, Stati Uniti)

 

09 – Nel mondo (*)
Penisola coreana
Il 13 marzo la Corea del Sud e gli Stati Uniti hanno dato il via alle più grandi esercitazioni militari congiunte degli ultimi cinque anni, che dovrebbero durare almeno dieci giorni. Il giorno prima la Corea del Nord, che contesta le esercitazioni, aveva lanciato due missili da crociera nel mar del Giappone.

Birmania
Il 13 marzo le Forze di difesa delle nazionalità karenni (Kndf), una milizia etnica che si batte contro la giunta militare al potere, ha accusato l’esercito di aver ucciso almeno ventuno persone tra civili e monaci buddisti nel corso di un attacco a un monastero a Nan Nein, nello stato Shan. Secondo i ribelli, i soldati hanno anche incendiato molte case.

Iran
Il ministero dell’interno ha annunciato il 12 marzo che più di cento persone sono state arrestate in varie province del paese con l’accusa di essere coinvolte nell’intossicazione di circa novecento alunne di scuole femminili, ricoverate a partire da novembre. Il ministero ha aggiunto che l’obiettivo del complotto era “far chiudere le scuole femminili” e che “è possibile il coinvolgimento di organizzazioni terroristiche”. I Mojahedin del popolo (Mek), un gruppo d’opposizione in esilio, hanno reagito accusando le autorità di voler “nascondere il loro coinvolgimento in questo atto criminale”.

Repubblica Democratica del Congo
Il 12 marzo le autorità della provincia orientale del Nord Kivu hanno affermato che almeno diciassette persone sono rimaste uccise in un attacco condotto dai ribelli delle Forze democratiche alleate (Adf) a Kirindera, nel territorio di Beni. Pochi giorni prima, nella notte tra l’8 e il 9 marzo, le Adf, affiliate al gruppo Stato islamico, avevano condotto un altro attacco nella zona, uccidendo quarantasei persone.

Libia
Circa trenta migranti risultano dispersi dopo il naufragio dell’imbarcazione su cui viaggiavano al largo della Libia, avvenuto il 12 marzo. Diciassette persone sono state soccorse da un mercantile che si trovava in zona. L’allarme era stato lanciato poche ore prima dall’ong Alarm phone.

Madagascar
Il 13 marzo la guardia costiera malgascia ha affermato che ventidue migranti sono morti in un naufragio avvenuto due giorni prima al largo delle coste dell’isola mentre cercavano di raggiungere l’isola di Mayotte, un dipartimento francese d’oltremare nel canale del Mozambico. Altre ventitré persone sono state soccorse e due risultano disperse.

Stati Uniti
Everything everywhere all at once ha vinto l’Oscar per il miglior film nel corso della cerimonia degli Academy awards 2023, che si è svolta il 12 marzo a Hollywood. La commedia fantastica diretta da Daniel Kwan e Daniel Scheinert ha ottenuto sette statuette su undici nomination, compresa quella per Michelle Yeoh come migliore attrice.
*(Fonte: Internazionale)

 

10 – Chiara Zannaro*: COS’È L’EQUINOZIO DI PRIMAVERA E QUANDO CADE NEL 2023. L’inizio della cosiddetta primavera astronomica si avvicina: contrariamente a quanto si pensa l’equinozio di marzo non avviene sempre il 21 del mese, ma si verifica in un momento preciso che varia da un anno all’altro.
VEDIAMO PERCHÉ
Il 20 marzo 2023 alle 22.24 inizierà ufficialmente la primavera nell’emisfero boreale: in quel momento si verificherà l’equinozio di primavera, dal latino aequinoctium, termine composto dall’unione delle parole aequus “uguale” e nox “notte”. Sia nel caso di quello primaverile sia nel caso di quello autunnale, si tratta di un evento astronomico durante il quale i raggi solari sono perpendicolari all’asse di rotazione sulla Terra. Durante questa giornata, che solitamente cade tra il 19 e il 21 marzo per la primavera nell’emisfero boreale e tra il 21 e il 23 settembre per l’autunno, le ore di luce e di buio si equivalgono e all’equatore il Sole si trova esattamente allo zenit.

COSA ACCADE ALL’EQUINOZIO DI PRIMAVERA
Nel momento dell’equinozio, il Sole, per passare da un emisfero all’altro, attraversa l’orizzonte astronomico, ovvero il cerchio creato dall’intersezione della sfera celeste con il prolungamento dell’orizzonte dell’osservatore, che è perpendicolare all’asse verticale, raggiunge il punto vernale, dove si intersecano l’eclittica e l’equatore celeste. Questo è dovuto dal moto di rivoluzione della Terra intorno al Sole: dopo l’equinozio di primavera nell’emisfero boreale, quello quindi settentrionale, le ore diurne cominceranno ad aumentare progressivamente, fino al solstizio d’estate, che quest’anno cadrà il 21 giugno alle 16,57. In concomitanza con l’inizio della stagione primaverile nell’emisfero boreale, in quello australe si verificherà l’equinozio d’autunno, che da noi, invece, cadrà a settembre. Al contrario di quello che accade nell’emisfero settentrionale, da quel momento in quello meridionale le ore diurne diminuiranno progressivamente fino al solstizio d’inverno.

PERCHÉ L’EQUINOZIO DI PRIMAVERA CAMBIA OGNI ANNO
Il motivo per cui l’equinozio di primavera cade in un giorno diverso ogni anno è dovuto al fatto che la Terra compie un giro completo intorno al Sole in 365 giorni e 6 ore, la durata del cosiddetto anno siderale, che non corrisponde, infatti, a quello del nostro calendario gregoriano. Per questo motivo è stato introdotto l’anno bisestile, di 366 giorni, in modo tale da recuperare 24 ore ogni quattro anni. Nonostante ciò, a causa del ritardo accumulato, ogni anno gli equinozi si verificano in un momento diverso.
Per quanto riguarda il solstizio d’estate e il solstizio di inverno, i giorni coincidono con il momento in cui il Sole raggiunge rispettivamente il punto di declinazione massima e minima. Il giorno del solstizio d’estate è quello in cui si ha a disposizione il maggiore numero di ore diurne, al contrario, quello invernale, è quello con più ore di buio.
*(Fonte Wired: Chiara Zannaro, giornalista praticante e sto attualmente frequentato la scuola di giornalismo dello Iulm di Milano.)

 

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