01 – La Marca (Pd)*: partecipa alla festa della donna organizzata da cibpa.
02 – La Marca (Pd)*: a Toronto per la festa degli alpini di Vaughan e l’incontro con il patronato 50&piùenasco.
03 – Fabrizio Tonello*: Il potere globale: 8000 miliardi e vent’anni di guerre. USA/CINA
04 – Pasquale Misuraca*: La scienza della storia e della politica. La Sinistra ha perso le elezioni regionali del 2023 perché ha perso Gramsci nel 1949.
05 – Alfiero Grandi*: Eletta Schlein, tutta l’opposizione deve misurarsi con i problemi. Ad esempio sul presidenzialismo la destra ha idee chiare, mentre l’opposizione ne sottovaluta l’importanza.
06 – M. Bertorello, D. Corradi*: Aspettando Godot, tra aiuti di stato e debito.
07 – Alfiero Grandi*: Meloni si vanta della retromarcia sulle auto elettriche e abbraccia il fossile.
08 – La ricerca in Europa, una questione di genere- Disparità di genere – Il numero di ricercatori universitari è in aumento nella maggior parte dei paesi Ue. Le donne incontrano ancora maggiori barriere in questo tipo di carriera, in primo luogo da un punto di vista contrattuale(*)
09 – Francesca Leoci*: Riforma fiscale: in arrivo il condono… per gli evasori . La riduzione delle aliquote Irpef. IL CONDONO PER GLI EVASORI.
10 – Sabato Angieri*: Andrea Şeceresini e Alfredo Bosco. I giornalisti cacciati da Kiev ancora senza risposte: «Vogliamo tornare» – CRISI UCRAINA. Alfredo Bosco e Andrea Sceresini ricostruiscono un anno di guerra fino al ritiro dell’accredito
01 – LA MARCA (PD) PARTECIPA ALLA FESTA DELLA DONNA ORGANIZZATA DA CIBPA.
«Nella giornata internazionale dei diritti della donna sono onorata di partecipare allo splendido evento organizzato dalla CIBPA (Canadian Italian Business and Professional Association) dal titolo “Women in Leadership” per celebrare i traguardi delle donne italo-canadesi come eccellenze nei rispettivi settori professionali: dall’arte al mondo degli affari. Non bisogna però spegnere i riflettori su tutte le altre donne che purtroppo non hanno la fortuna di vivere in un paese come il Canada.
Penso alle innumerevoli donne alle quali vengono negati i diritti più elementari e che, nel tentativo di dare un futuro migliore a sè stesse e ai propri figli, perdono la vita. Sto parlando dell’immane tragedia avvenuta due settimane fa al largo delle coste di Steccato di Cutro, in Calabria. In questa giornata il mio pensiero va anche e soprattutto a queste donne» È quanto afferma in una nota la senatrice del Partito Democratico, Francesca La Marca, eletta nella circoscrizione estero, ripartizione America Settentrionale e Centrale.
«Le mie più sincere congratulazioni sono rivolte alla vincitrice del premio “donna dell’anno”, ovvero alla Direttrice delle Pubbliche Relazioni per il sindacato “LiUNA”, la signora Victoria Mancinelli – ha continuato la senatrice La Marca – i suoi successi professionali e personali sono fonte d’ispirazione per continuare a lavorare verso l’obiettivo della piena equità di genere»
L’evento ha avuto lo scopo di valorizzare, riconoscere e premiare la leadership delle donne italo-canadesi all’interno della comunità. Fra le quasi 500 persone partecipanti anche varie autorità, fra cui il Console Generale Luca Zelioli.
«E’ stato sicuramente un enorme piacere conoscere così tante donne, e di conseguenza così tante storie di vita vissuta, che danno lustro alla nostra società. Credo sia sempre giusto ricordare queste ragazze, così che possano poi essere un faro per la nostra generazione futura che, grazie a questi esempi e a questi eventi, avrà la possibilità di crescere e di poter essere chi vorrà, raggiungendo il loro pieno potenziale senza incontrate barriere basate sul genere» ha concluso la senatrice La Marca.
*(Sen. Francesca La Marca, Ph.D. – SENATO DELLA REPUBBLICA – – Ripartizione Nord e Centro America – Electoral College of North and Central America)
02 – La Marca (Pd)*: A TORONTO PER LA FESTA DEGLI ALPINI DI VAUGHAN E L’INCONTRO CON IL PATRONATO 50&PIÙENASCO
«Il senso del dovere, la tenacia, la responsabilità, lo spirito di sacrificio, la determinazione e un forte senso di solidarietà: sono questi i valori che ho sentito nelle parole degli alpini del gruppo autonomo di Vaughan (Toronto) durante la festa delle “Penne Nere”, guidate dal Capogruppo Danilo Cal, celebratasi lo scorso sabato 4 marzo e a cui ho avuto l’onore di prendere parte. Negli occhi degli alpini ho visto la fierezza e l’orgoglio, non solo di appartenere ad un corpo così importante per la nostra storia nazionale, ma anche un fortissimo senso di attaccamento verso l’Italia e l’intera comunità nazionale». È quanto afferma in una nota la senatrice del Partito Democratico, Francesca La Marca, eletta nella circoscrizione estero, ripartizione America Settentrionale e Centrale.
«Il gruppo degli alpini di Vaughan – prosegue la senatrice La Marca – è formato da 71 soci ed alla festa erano presenti oltre 400 persone tra cui il ministro provinciale, diversi parlamentari canadesi, il sindaco della città, il Console Generale italiano a Toronto Luca Zelioli, i rappresentati di tutte le Forze Armate oltre a una consistente rappresentanza della locale comunità italiana. L’occasione ha permesso di raccogliere oltre 5mila dollari da destinare agli anziani italo-americani affetti da Alzheimer. Lo spirito e i valori che l’Associazione Nazionale Alpini promuove sono tutt’ora vivi e forgiano ognuno dei suoi membri. Inoltre – aggiunge la senatrice La Marca – le sue innumerevoli sezioni all’estero dimostrano quanto i valori di sacrificio, unità e fratellanza siano radicati non solo in Italia ma anche fuori dai confini nazionali».
«Nella giornata di ieri – prosegue la senatrice La Marca – ho preso parte ad un incontro con alcuni responsabili del patronato 50&piùEnasco che, quotidianamente, assistono nelle pratiche burocratiche e amministrative molti nostri connazionali. All’incontro erano presenti David Sensi, direttore esecutivo dela rete dei patronati Enasco, Annalisa Caserta e Catia Squartecchia responsabili rispettivamente degli uffici di Vaughan e Hamilton. L’occasione è stata utile per fare il punto su quelle che sono le principali richieste e problematiche che devono affrontare gli italiani residenti in zona».
L’urgenza dell’incontro – prosegue la Senatrice La Marca – è stata giustificata anche dal repentino cambio di politica della società InfoCert, l’unico provider disponibile per l’ottenimento dello SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale) per gli italiani all’estero, non in possesso di un documento di identità italiano. Le nuove disposizioni, e in particolare l’obbligo di presentare in ogni caso un documento di identità valido, hanno chiaramente messo in agitazione i patronati esteri ed i loro assistiti. È fondamentale – sottolinea la Senatrice La Marca – che i patronati possano continuare, grazie allo SPID, ad assistere i nostri connazionali all’estero. Il rischio concreto è che altrimenti questi gravino sugli uffici consolari già in affanno per mancanze strutturali e di personale. Per questa ragione – conclude la senatrice La Marca – seguo da vicino e con attenzione la vicenda ed ho anche sottoscritto un’interrogazione parlamentare, rivolta al Ministro degli Affari Esteri Antonio Tajani, presentata dal collega Francesco Giacobbe, a cui spero arrivi presto una risposta».
*(Sen. Francesca La Marca, Ph.D. – SENATO DELLA REPUBBLICA – Ripartizione Nord e Centro America – Electoral College of North and Central America)
03 – Fabrizio Tonello*: IL POTERE GLOBALE: 8000 MILIARDI E VENT’ANNI DI GUERRE . USA/CINA. LA SUPREMAZIA USA ALLA SFIDA DELLA CINA, RESUSCITA IL MITO DELLA POTENZA MILITARE NECESSARIA.
«Rimarremo leader dell’Indo-Pacifico» Dove vive metà del mondo, ma nessun americano
Grazie all’invasione dell’Ucraina è resuscitato il mito che il mondo abbia bisogno di più potenza militare americana.
Un mito che appena un anno e mezzo fa sembrava sepolto nelle valli afghane: 20 anni di costosissima e inutile guerra finivano nel caos dell’aeroporto di Kabul e nel completo ritiro delle truppe. Afghanistan e Iraq: le due guerre più lunghe della storia degli Stati uniti, che avevano portato solo morte e distruzione senza raggiungere nessuno degli obiettivi pomposamente dichiarati all’inizio.
Sarebbe dovuto essere un campanello d’allarme simile a quello suonato in Gran Bretagna nel 1956, dopo l’intervento per riaffermare il proprio controllo sul Canale di Suez e per “dare una lezione” al presidente egiziano Nasser. La debacle che ne seguì costò il posto al Primo ministro inglese Anthony Eden e costrinse gli inglesi a riconoscere che il loro ciclo imperiale era giunto alla fine. La vecchia ricetta – mettere in riga i popoli più deboli – non funzionava più.
LA CAOTICA e umiliante fuga da Kabul nel 2021 avrebbe potuto essere l’occasione per dichiarare la finita l’era degli interventi militari ai quattro angoli del mondo: al contrario, grazie anche a Putin, il momento è passato. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha fatto rivivere la tradizione più che secolare dell’uso della forza da parte dell’America, sia pure nella forma dell’uso di forze locali: così come c’erano state le truppe vietnamite, e poi afghane, addestrate e pagate dal Pentagono, oggi nella steppa combattono giovani ucraini che consumano più armi e munizioni di quante gli Stati Uniti riescano a produrne.
LA GUERRA AFGHANA è sparita dalla memoria e l’amministrazione sembra pronta a commettere gli stessi errori che hanno portato a quella sconfitta, tutti giustificati dall’apparente obbligo di leadership globale: qualche giorno fa l’ambasciatore americano in Cina, Nicholas Burns, ha dichiarato che gli Stati Uniti sono, e intendono rimanere, i leader della regione Indo-Pacifica, ovvero dell’immensa regione multi continentale compresa tra l’Australia a sud, l’Asia a nord, l’Africa a ovest e il centro dell’Oceano Pacifico a est. Contiene metà della popolazione della Terra e ovviamente anche la Cina ma non gli Stati uniti, ovviamente, quindi le affermazioni di Burns non possono che essere percepite come fortemente provocatorie a Pechino.
Oggi il presidente Joe Biden e i suoi consiglieri parlano disinvoltamente di Russia e Cina in modi che lasciano trasparire una visione obsoleta, moralistica e sconsideratamente grandiosa del potere americano. Una retorica bellicosa adottata da Biden che sembra aver sposato senza riserve l’ossessione dell’establishment di Washington per l’egemonia, insieme all’idea di una nuova era di dominio americano sostenuto militarmente a qualunque costo. La necessità della supremazia militare degli Stati Uniti – sia essa misurata dalla spesa del Pentagono, dal numero di basi all’estero o dalla propensione all’uso della forza – è diventata un articolo di fede.
Il progetto Costs of War della Brown University ha stimato che le azioni militari statunitensi dall’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 in poi sono costate circa 8.000 miliardi di dollari, una somma decine di volte superiore a quella per la tanto sbandierata iniziativa infrastrutturale Building a Better America dell’amministrazione Biden. Ed è difficile capire come i benefici di queste operazioni militari possano aver superato i costi, umani e finanziari, per gli Stati Uniti e per il mondo.
TUTTAVIA, LA LOGICA di base che ha favorito gli interventi in tutto il pianeta rimane intatta. Persino Biden, che da vicepresidente si era opposto all’aumento delle forze statunitensi in Afghanistan e che da presidente ha infine ritirato le truppe, rimane certo dell’efficacia duratura del potere militare americano. La sua risposta alla sconfitta in Afghanistan è stata quella di proporre un aumento della spesa del Pentagono. Il Congresso non solo è stato d’accordo, ma ha aggiunto stanziamenti supplementari. Gli aiuti militari all’Ucraina si moltiplicano come se fossero popcorn. Mai un Paese apparentemente votato a nobili cause ha creato più caos di quanto abbiano fatto gli Stati Uniti dopo la Guerra fredda, mentre si accingevano a colpire gli “stati canaglia” ovunque.
L’elezione di Trump, con le sue bizzarre iniziative come gli incontri con Kim Jong-un e i ripetuti apprezzamenti verso Putin, aveva provocato un esaurimento nervoso all’establishment di politica estera statunitense, un esaurimento da cui non si è ancora ripreso del tutto. A metà del mandato di Biden, la grande strategia statunitense di leadership globale è impantanata in un groviglio di contraddizioni che si rifiuta di analizzare. Tra queste spicca l’insistenza di Washington di tornare di fatto alla guerra fredda con Russia e Cina anche se le risorse disponibili per questa impresa si assottigliano e le prospettive di mantenere il tradizionale posto privilegiato del Paese nell’ordine internazionale si riducono, basti pensare al rifiuto di tre quarti della popolazione mondiale di collaborare alle sanzioni contro la Russia.
EPPURE DOVREBBE essere chiaro che un esercito russo che non riesce nemmeno ad arrivare a Kiev non rappresenta un pericolo per Varsavia, Berlino, Roma o Parigi, tanto meno per New York. Fino ad oggi gli Stati Uniti hanno speso in Ucraina quasi 80 miliardi di dollari che avrebbero potuto essere usati per rallentare il cambiamento climatico, affrontare la crisi dei migranti o migliorare le condizioni della classe operaia americana, tutti compiti vitali anche in vista delle elezioni del 2024, ma che l’amministrazione Biden tratta con molta meno urgenza che armare l’Ucraina.
*( Fonte: Internazionale – Fabrizio Tonello, è professore di Scienza politica presso l’Università di Padova. Ha lavorato negli Stati Uniti, alla University of Pittsburgh e alla ..)
04 – Pasquale Misuraca*: LA SCIENZA DELLA STORIA E DELLA POLITICA. LA SINISTRA HA PERSO LE ELEZIONI REGIONALI DEL 2023 PERCHÉ HA PERSO GRAMSCI NEL 1949.
GRAMSCI NEI QUADERNI HA SCRITTO CHE AGLI INIZI DEL NOVECENTO ERA ENTRATA IN «CRISI ORGANICA» LA CIVILTÀ MODERNA, E COME COL RINASCIMENTO, PER SUPERARE LA CRISI DELLA CIVILTÀ MEDIEVALE, SI ERA AVVIATA LA COSTRUZIONE DI UNA NUOVA CIVILTÀ CREANDO NUOVE SCIENZE E NUOVE ARTI, ORA BISOGNAVA COSTRUIRE UNA CIVILTÀ UMANA ULTERIORE.
Questo compito epocale i marxisti italiani non l’hanno voluto riconoscere nel Gramsci dei Quaderni. Capitanati politicamente e ideologicamente da Togliatti, si sono impegnati a ridurre Gramsci a un ‘marxista critico’ e mitico fondatore del Partito Comunista d’Italia. Nel 1949 uscì l’edizione tematica dei Quaderni supervisionata da Togliatti, e fu l’inizio della fine.
Bisognerà aspettare il 1975 e l’edizione critica dei Quaderni perché si cominciasse a parlare di «rottura epistemologica» del Gramsci del carcere rispetto al Gramsci giovane, ma ambiguamente, ancora una volta togliattianamente. E in forma spettacolarmente contraddittoria: la foto del frontespizio dei Quaderni del 1975 non era la foto segnaletica carceraria del 1933 – del Gramsci scienziato della storia e della politica – bensì la foto ritratto del Gramsci del 1916 – il Gramsci de «Il Grido del Popolo».
Un falso storico. Gramsci è andato in carcere oltre la sociologia (borghese e marxista) e oltre il marxismo (anche il marxismo di Marx), cominciando a costruire una nuova scienza, «la scienza della storia e della politica», che spiega – tra l’altro – la «crisi organica» della civiltà moderna, che oggi stiamo vivendo nella sua fase agonica.
Nel 1978 è stato pubblicato dalla De Donato editore il libro «Sociologia e marxismo nella critica di Gramsci», che ho scritto con Luis Razeto, scienziato sociale cileno internazionalmente noto come primo e massimo autore dell’Economia di Solidarietà. Dal 2009, arricchito e aggiornato, lo abbiamo pubblicato su Amazon – col titolo «La traversata». Dalla critica del marxismo e della sociologia alla proposta di una scienza della storia e della politica.
Ah, dimenticavo: i «Quaderni del carcere» e le «Lettere dal carcere» ancora oggi esibiscono nel frontespizio la foto ritratto del Gramsci che grida al popolo, non la foto segnaletica del Gramsci scienziato.
*(Pasquale Misuraca, Ha studiato pittura e scultura a Reggio Calabria, architettura e sociologia a Roma. Consulente della Rete Due della Rai e della Terza Rete radiofonica, ha scritto e realizzato per la Rai una serie di programmi televisivi: Il prodotto intellettuale.)
05 – ALFIERO GRANDI*: ELETTA SCHLEIN, TUTTA L’OPPOSIZIONE DEVE MISURARSI CON I PROBLEMI. AD ESEMPIO SUL PRESIDENZIALISMO LA DESTRA HA IDEE CHIARE, MENTRE L’OPPOSIZIONE NE SOTTOVALUTA L’IMPORTANZA.
MELONI VUOLE IL PRESIDENZIALISMO PER AFFERMARE LA SUA LEADERSHIP E PER DIMOSTRARE CHE OTTERRÀ CON QUESTA MAGGIORANZA QUELLO CHE ALTRI NON HANNO OTTENUTO, CAMBIANDO A FONDO L’ASSETTO COSTITUZIONALE ANTIFASCISTA DEL 1948, ANDANDO OLTRE FINI.
E’ antica la suggestione della destra per cambiare la Costituzione introducendo il Presidenzialismo. Questo obiettivo, dopo 75 anni di Costituzione, è ritenuto talmente importante da scendere a patti con spinte contraddittorie come l’autonomia regionale differenziata. Meloni ha un bel citare il Garibaldi o dichiarare che non ci saranno cittadini di serie A e B, se il progetto Calderoli diventasse legge, Lombardia, Veneto, Emilia aprirebbero la trattativa bilaterale con il Governo per ottenere fino a 23 materie. Il risultato sarebbe una dinamica para secessionista, che renderebbe dubbia perfino la possibilità del Presidenzialismo di governare le forze messe in moto dalla stessa destra.
L’elezione diretta del Presidente della Repubblica stravolgerebbe la logica e la struttura della nostra Costituzione.
Il Presidente oggi è garante e regolatore, eletto da uno schieramento parlamentare, ma con un ruolo che va oltre la maggioranza che l’ha eletto. Per questo ha potuto, in situazioni difficili, indicare soluzioni che non erano alla portata delle scelte.
Se viene eletto dai cittadini il Presidente diventa il capo della parte che ha vinto le elezioni. E’ il capo della fazione elettorale vincente.
Basta leggere i suoi compiti costituzionali per capire che non c’è solo il ruolo di garante dell’unità nazionale e della costituzionalità delle scelte politiche.
Il Presidente della Repubblica è la carica istituzionale garante dell’autonomia della magistratura, infatti presiede il Csm, nomina 5 giudici della Corte che ha il compito di garantire la coerenza costituzionale delle leggi.
I costituenti immaginarono un equilibrio tra Governo, parlamento, magistratura, della cui autonomia il Presidente è oggi il garante. Pur con variazioni per 75 anni è stato così.
Ora, con confusa indeterminatezza, Giorgia Meloni intende proporre l’elezione diretta del capo dello stato in una delle versioni conosciute.
Il presidenzialismo è già in seria crisi, come abbiamo visto il 6 gennaio 2021 negli Usa, con una spaccatura profonda del paese, fino a rischiare il colpo di stato.
Anche Macron sta affrontando una fase complicata e le manifestazioni di protesta popolare sono un avviso potente di fratture non composte.
DOVE SAREBBE IL VANTAGGIO DEL PRESIDENZIALISMO ? NELL’IMPORRE LE SCELTE ?
C’è bisogno di stabilità, si dice. Una stabilità accettabile è oggi offerta da un sistema parlamentare come quello tedesco, con un sistema elettorale proporzionale e la formazione di coalizioni che hanno il compito di durare, con meccanismi parlamentari che ne aiutano la realizzazione.
Il ruolo parlamento infatti è l’altro elemento dirimente, di cui i presidenzialisti non parlano, ma che verrebbe ridotto di fatto ai minimi termini.
Da un paio di decenni il parlamento è stato via via compresso in un ruolo che non gli consente di esercitare effettivamente il ruolo di rappresentante degli elettori.
La debolezza politica dei Governi e delle coalizioni ha inventato meccanismi obbliganti sul parlamento, per costringerlo ad approvare le decisioni dei governi, in testa l’abuso dei decreti legge.
I parlamentari hanno dato una mano al declino del parlamento, complici leggi elettorali che a partire dal porcellum hanno affidato ai capi partito la scelta dall’alto dei futuri parlamentari. L’elezione dipende dal capo partito, non da chi vota.
Il parlamento è già troppo depotenziato. Con il Presidenzialismo avremmo un parlamento svuotato di ruolo e di poteri.
L’illusionismo che promette agli elettori di decidere sul Presidente continua a negare l’elezione diretta dei parlamentari, nasconde che la Costituzione italiana diventerebbe regressiva, meno aperta, meno partecipata, meno democratica di quanto è oggi, istituendo una sorta di commissario per l’Italia, peggio solo del Sindaco d’Italia di Renzi.
Per questo la risposta al Presidenzialismo delle destre non deve essere difensiva, ma una ferma e potente riaffermazione del valore e del ruolo della nostra Costituzione, per difenderla, certo, ma soprattutto per attuarla con rigore a partire dai diritti fondamentali dei cittadini.
Occorre anche una nuova legge elettorale per evitare che in futuro possa continuare lo scempio di una coalizione che con il 44% dei voti ha il 59% dei seggi parlamentari con cui può cambiare da sola la Costituzione.
La Costituzione è un asse politico fondamentale, su cui si può coagulare un’alternativa politica.
*(Alfiero Grandi, giornalista)
06 – M. Bertorello, D. Corradi*: ASPETTANDO GODOT, TRA AIUTI DI STATO E DEBITO. NUOVA FINANZA PUBBLICA. LA RUBRICA SETTIMANALE DI ECONOMIA POLITICA. A CURA DI AUTORI VARI
IN EUROPA SI È AVVIATO UN CONFRONTO PERCHÉ GLI STATI POSSANO FORNIRE AIUTI ECONOMICI ALLE IMPRESE CON MAGGIORE FACILITÀ E DISCREZIONALITÀ. Un confronto che indica, perlomeno, la difficoltà del mondo industriale continentale nel fronteggiare il regime di ipercompetizione su scala globale. Promotori sono stati principalmente Germania e Francia, i due paesi chiave dell’Unione. Le vecchie regole, un tempo considerate inviolabili, oggi possono essere sacrificate in nome di una condizione straordinaria.
SI PARLA DI PROVVEDIMENTI TEMPORANEI, MA LE RAGIONI SOTTOSTANTI UNA TALE SCELTA SONO COSÌ STRUTTURALI CHE SARÀ DIFFICILE CONSIDERARLI UNA PARENTESI.
Gli aiuti di Stato sono necessari per adeguare l’impresa europea ai competitor mondiali, cioè Stati Uniti e Cina, che non si fanno scrupoli a iniettare risorse pubbliche per reggere la sfida internazionale. Il dibattito in corso ci parla di una svolta geopolitica e selettiva della globalizzazione, dove gli aspetti d’interesse strategico prevarranno sempre più sulla logica della «libera» competizione. Inoltre, l’agognata svolta green potrà avvenire solo al prezzo di programmi pubblici straordinari per agevolare le riconversioni industriali e, perché no, per rendere politicamente e socialmente sostenibile il progetto stesso, aiutando i soggetti che pagheranno un prezzo salato per questi cambiamenti. Da qui, in sintesi, nasce l’urgenza di ricorrere nuovamente agli aiuti di Stato. Il consenso, però, non è unanime.
Colpisce, in particolare, l’ostilità delle classi dirigenti italiane (Governo e imprese in primis). Esse temono che gli aiuti di Stato andranno a favorire i paesi che hanno maggiori margini di manovra in quanto meno indebitati. Paesi come Germania, Paesi Bassi e persino la Francia potrebbero indebitarsi di più e a costi relativamente contenuti per favorire le aziende nazionali, alterando i meccanismi competitivi a danno delle aziende italiane che invece questi aiuti faticherebbero a racimolare. La contraddizione è reale, ma rimuovere il problema a monte che genera questa necessità sul piano continentale risulta particolarmente problematico. In questo senso, in Italia non si avanzano altre idee che non siano incentrate sul libero fare delle imprese. Un’illusione che rischia di scivolare nella miopia.
Certo il problema del debito esiste (l’Italia raggiunge il 145,5% del Pil nel 2022), come esiste il rischio che gli aiuti di Stato facciano rima con pubblicizzazione del debito privato e sostegno ai profitti. Allora quello che serve è una politica industriale pubblica, consapevoli che la pandemia e ancor prima la crisi del 2008 hanno determinato un’esplosione del debito a tutte le latitudini per contrastare la tendenziale stagnazione, con poche eccezioni (tra cui spicca la Germania). Per fare un esempio, la Francia nel 2021 aveva un debito pari al 112% del Pil, nel 2010 era solo all’85%, mentre nel 2007 era al 64,5%. Nella prossima fase il fattore inflazione inciderà nel contenere il peso relativo del debito. In questo quadro rivendicare il mercato significa non comprendere la partita globale che si è aperta.
Piuttosto l’Italia dovrebbe chiedere un piano europeo, capace di reggere la sfida globale e di mettere al centro il tema della giustizia sociale e della conversione ecologica. Per dare forza all’azione pubblica servirà una riforma del fisco, nazionale ed europeo, che recuperi il criterio progressivo della tassazione. É inutile giraci attorno, il debito pubblico potrà essere gestito o ridotto non tanto attraverso la crescita economica, di cui non si prevedono grandi accelerazioni nel prossimo futuro, ma intervenendo sulle grandi ricchezze.
Le forme possono essere molteplici, ma la combinazione con l’inflazione (auspicabilmente non eccessivamente alta) potrà alleggerire il fardello del debito e dare fiato a progetti di trasformazione economica sempre più impellenti. Altrimenti aspettiamo Godot.
*(Fonte: Il Manifesto. Marco Bertorello lavora nel porto di Genova, è dirigente della Filt-Cgil, collabora con il Manifesto ed è autore di volumi e saggi su economia )
07 – Alfiero Grandi*: MELONI SI VANTA DELLA RETROMARCIA SULLE AUTO ELETTRICHE E ABBRACCIA IL FOSSILE. GIORGIA MELONI HA RIVENDICATO COME UN SUCCESSO ITALIANO AVERE OTTENUTO IL BLOCCO DELLE DECISIONI EUROPEE IN MATERIA DI COSTRUZIONE DI NUOVE AUTO CON MOTORI CHE USANO CARBURANTI FOSSILI NON OLTRE IL 2035, AGENDO DI CONSERVA CON LA POLONIA, CON CUI È IN PIENO SVILUPPO UN ASSE POLITICO, DI IMPIANTO NETTAMENTE CONSERVATORE.
In realtà non c’è nulla di cui vantarsi, è stata bloccata un’iniziativa importante contro la crisi climatica.
Draghi non è un ambientalista ma ha saputo collocare l’Italia in una posizione corretta sulla crisi climatica in occasione del G20 di Roma e poi della Cop 26 di Glasgow puntando sull’obiettivo di non arrivare all’aumento di 1,5 gradi.
Non è passato molto tempo, l’Italia oggi si sta collocando in una posizione opposta, di retroguardia e nel caso dei motori endotermici delle auto con una brusca inversione di rotta, contrastando le iniziative più coraggiose della Commissione europea sui temi ambientali.
Non sappiamo quando l’argomento potrà essere ripreso, c’è solo da sperare che il resto dell’Europa isoli le posizioni più conservatrici e retrograde dell’Italia e dei suoi nuovi “amici”.
In particolare il Governo italiano sta facendo scelte (oppure non fa scelte) che lo collocano lontano dai paesi con cui storicamente l’Italia ha avuto rapporti stretti di collaborazione.
Il Ministro dell’Ambiente ha inviato il testo del decreto sulle comunità energetiche a Bruxelles, fin qui potrebbe sembrare tutto ok. Il problema è che questo ha lodevoli intenzioni ma non ha chiarito i mezzi finanziari che intende mettere in campo per far partire le comunità energetiche locali che potrebbero dare un contributo rilevante alla transizione ecologica. Per ora solo parole.
Fit for 55 è un pacchetto di misure innovative dell’UE per una svolta in tempi rapidi, in particolare nell’uso delle energie da fonti rinnovabili nella mobilità. La misura che ha colpito di più l’attenzione è che entro il 2035 non dovrebbero essere più prodotte auto con motori endotermici, benzina e diesel. Contro questo pacchetto di misure si sono scatenate opposizioni riconducibili alle posizioni dei costruttori di auto, che in particolare in Italia sono su posizioni di conservazione. Stellantis infatti punta sull’elettrico con alcuni marchi non italiani, mentre la vecchia Fiat resta lontana dalle innovazioni.
La propaganda di produttori, che peraltro stanno già impoverendo l’industria in Italia, dà numeri di eccedenze di lavoratori indimostrate e in ogni caso dimenticando che quello che non si farà più come prima si farà con altre modalità, che – guarda caso – porteranno più occupazione, sia pure di tipo diverso.
Il Governo dovrebbe costruire un progetto in cui la transizione si possa realizzare in quanto il superamento della CO2 prodotta dalle auto è uno dei punti chiave per impedire l’aumento della temperaura che provoca i disastri a cui stiamo assistendo.
O invece si pensa seriamente che il cambiamento climatico può aspettare ? C’è una doppiezza di atteggiamenti, da un lato le notizie allarmanti sulla siccità al Nord portano a nominare un commissario straordinario e dall’altra nessuna seria scelta strutturale per porvi rimedio. E’ come dire che si rincorrono i problemi anziché prevenirli.
I Ministri interessati si sono sbracciati per rassicurare i produttori, agitando i rischi occupazionali, che pure ci possono essere se non si affrontano i problemi organicamente, verso i quali occorre preparare i rimedi, ad esempio riconvertendo le professionalità.
Così per quanto riguarda la produzione da energie rinnovabili, fotovoltaico ed eolico, se togliamo gli effetti del superbonus, ora bloccato per decreto, dovrebbe esserci un piano poliennale per incentivare gli investimenti. Enel è vicina al completamento dell’investimento in pannelli fotovoltaici più grande d’Europa, ne servirebbero altri, ma a chi è interessato ad investire nelle rinnovabili, fotovoltaico in primis, va presentato un progetto, compresi i finanziamenti pubblici disponibili, altrimenti nel 2030 non avremo i 70 GW di rinnovabili in più che era il nostro obiettivo.
Va aggiunto che produrre galleggianti e pale eoliche e generatori in mare, a una distanza dalla costa di 25/30 km, porterebbe importanti commesse per la siderurgia, mentre l’ex Ilva vivacchia al di sotto delle sue capacità produttive e non ha risolto i problemi di compatibilità ambientale con il territorio.
Invece grande spolvero per i rigassificatori galleggianti e per accordi di fornitura del gas, necessari per la transizione ma che non sono inquadrati in un periodo di transizione destinato a lasciare il campo alle rinnovabili. Addirittura ci si è inventati l’Italia hub europeo del gas, di cui si parla solo da noi e che invece dovrebbe lasciare il posto agli investimenti nelle vere risorse nazionali, acqua, sole, vento, che per di più sono rinnovabili.
Non pervenute le scelte sull’idrogeno da fonti rinnovabili, se ne parla per qualche treno, ma un progetto nazionale degno di questo nome non c’è, del resto se scegli l’idrogeno devi anche costruirne la distribuzione e prevederne l’uso al posto dei carburanti fossili.
La guerra ha certamente cambiato le priorità e la transizione ecologica è stata brutalmente spinta in secondo piano. In primo piano ora c’è la guerra, per di più con la curiosa affermazione della Meloni che l’aiuto militare all’Ucraina non costerebbe nulla all’Italia, affermazione discutibile e che verrà presto smentita dalla spesa militare che l’Italia si è impegnata a portare al 2% nel giro di qualche anno.
Il Governo sulle politiche ambientali finora ha mostrato un volto conservatore, regressivo, in contraddizione perfino con le dichiarazioni di ricerca di una maggiore autonomia nazionale, che verrebbe garantita solo da una crescita esponenziale delle energie da fonti rinnovabili.
Tra l’hub del gas del Governo e un’Italia lanciata negli investimenti più avanzati sulle rinnovabili c’è di mezzo un mare, o meglio le scelte politiche e il Governo Meloni è disinteressato alle politiche ambientali e invece è molto orientato sul fossile, basta guardare il che sta assumendo Eni. Per di più il rinnovamento delle fonti energetiche porterebbe tecnologie avanzate, ricerca, nuovi lavori, processi di formazione.
Invece il Governo si attarda su posizioni di retroguardia. Qui siamo oltre i tanti incidenti di percorso di cui si sta discutendo ma c’è una linea politica sbagliata e retrograda, contraria agli interessi e ad una vera autonomia nazionale.
Alle concessioni balneari il Governo ha dedicato tempo ed impegno mentre le politiche ambientali sono nella nebbia, o peggio. Questo Governo ha comportamenti regressivi, pericolosi. Per di più gli errori sulle concessioni balneari hanno già portato ad un alto là dell’Unione europea sulla prossima tranche di miliardi del PNRR.
*(Alfiero Grandi, politico, giornalista e Coordinamento per la Democrazia Costituzionale.k)
08 – La ricerca in Europa, una questione di genere- Disparità di genere – Il numero di ricercatori universitari è in aumento nella maggior parte dei paesi Ue. Le donne incontrano ancora maggiori barriere in questo tipo di carriera, in primo luogo da un punto di vista contrattuale.
Nel 2021 in Ue ci sono circa 638mila ricercatori. Ovvero 143 ogni 100mila abitanti.
La Danimarca è il paese con l’incidenza maggiore (306 ogni 100mila abitanti). L’Italia è il quartultimo (99).
LE DONNE INCONTRANO PIÙ BARRIERE IN QUESTO SETTORE.
In 18 stati Ue sono più spesso precarie rispetto ai loro colleghi uomini. Il divario maggiore si registra in Danimarca.
Secondo la definizione offerta da Eurostat, un ricercatore è un professionista impegnato nella concezione o nella creazione di nuove conoscenze, prodotti, processi, metodi e sistemi, nonché nella gestione dei progetti in questione. Si tratta dell’esito di un percorso che inizia con il dottorato di ricerca, di cui abbiamo parlato in un recente approfondimento.
Analizziamo i dati relativi al numero di ricercatori nei paesi dell’Unione europea, alla loro incidenza sulla popolazione totale, e alla loro variazione nel tempo. Soffermandoci in particolare sulle disuguaglianze, a oggi ancora persistenti, tra ricercatori e ricercatrici. Queste ultime sono più esposte a difficoltà e barriere durante il loro percorso e le loro condizioni lavorative continuano a essere in media inferiori rispetto a quelle dei colleghi di sesso maschile.
IL DOTTORATO DI RICERCA IN UNIONE EUROPEA.
I RICERCATORI IN EUROPA
Nel corso dell’ultimo decennio il numero di ricercatori nell’Unione europea ha visto un sostanziale aumento: +24% tra 2012 e 2021. In Lussemburgo e a Malta in particolare la cifra è più che raddoppiata. Mentre sono 5 gli stati che hanno riportato un calo, seppur modesto: Romania, Slovacchia, Irlanda, Estonia e Bulgaria. Stando all’ultimo aggiornamento disponibile, i ricercatori universitari in Europa sono più di 630mila.
638.232 i ricercatori universitari in Ue nel 2021. A ospitarne il numero più elevato in termini assoluti è la Germania (120mila, circa il 19% del totale). Seguono Francia (14%) e Spagna (11%). L’Italia, l’altro grande paese dell’Ue per numero di abitanti, si posiziona al quarto posto (dopo la Polonia), con quasi 59mila ricercatori.
La situazione cambia però significativamente se analizziamo i dati in rapporto al numero di abitanti. In tal caso, non sono i paesi più popolosi a registrare i dati più elevati.
La Danimarca è il paese europeo con più ricercatori
L’incidenza dei ricercatori sul totale della popolazione nei paesi Ue (2021)
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DA SAPERE
I dati si riferiscono al totale dei ricercatori in ambito universitario, contati come unità di lavoro (full time equivalent), in rapporto alla popolazione totale registrata da Eurostat al primo gennaio dello stesso anno.
La Danimarca detiene in questo senso il record europeo, con oltre 300 ricercatori universitari ogni 100mila abitanti. Segue il Portogallo con 280. Agli ultimi posti si posizionano invece Romania (32) e Bulgaria (48). L’Italia, con 99 ricercatori ogni 100mila abitanti, è al quartultimo posto in Europa e ben al di sotto della media, pari a circa 143.
L’accesso delle donne alla ricerca universitaria
La ricerca è uno degli ambiti di maggiore interesse per quanto riguarda la parità di genere. Infatti si tratta di posizioni lavorative di elevato prestigio, dove tradizionalmente la presenza maschile è dominante.
Come afferma l’istituto europeo per l’uguaglianza di genere (Eige), che ha realizzato un apposito report, la ricerca in Europa è ancora caratterizzata da una marcata sotto-rappresentazione delle donne. Secondo i dati raccolti dall’istituto, le donne nel 2018 costituivano appena un terzo dei ricercatori presenti nell’Unione europea.
Gli ostacoli all’inclusione delle donne nell’ambito della ricerca universitaria sono vari. Tra questi, le discriminazioni rispetto all’accesso ai fondi, siano esse consapevoli o frutto di un bias cognitivo. Ma anche la cultura e l’ambiente, spesso percepito come tossico, maschilista o respingente, stando a numerose testimonianze.
LE DONNE INCONTRANO ANCORA BARRIERE NELLA PROPRIA CARRIERA.
In parte, la presenza maschile e femminile incide diversamente nei diversi settori della ricerca. Le donne sono nettamente in minoranza negli ambiti tecnici come le ICTs o l’ingegneria. Mentre sono la maggioranza nelle scienze biologiche o negli studi ambientali o umanistici. Oltre a questo, le donne affrontano difficoltà molto maggiori nel loro percorso di avanzamento di carriera e la loro presenza rispetto a quella maschile diminuisce fortemente all’aumentare del livello e del prestigio della posizione, come mostrano i dati di She figures.
Ma la disparità di genere si manifesta anche, con particolare forza, a livello di contratto. Le ricercatrici donne sono infatti molto più spesso precarie rispetto ai loro colleghi uomini. I dati più recenti su tale divario, forniti da Eige, sono relativi al 2019.
18 SU 27 GLI STATI UE in cui le ricercatrici universitarie sono più spesso precarie rispetto ai loro colleghi uomini (2019).
In Danimarca si registra il maggior divario tra uomini e donne
Il tasso di precarietà tra i ricercatori universitari nei paesi Ue (2019)
DA SAPERE
Sono indicate le percentuali di ricercatori e ricercatrici che dichiarano di essere precari, ovvero di avere un contratto a tempo determinato di breve durata o nessun contratto.
Il divario più marcato si registra in Danimarca (quasi 10 punti percentuali di differenza) e risulta elevato anche in Ungheria, Grecia, Malta e Austria (tutte sopra i 6 punti percentuali). Mentre in 9 paesi dell’Unione lo scarto è a vantaggio delle donne: in questo caso, il dato più elevato è quello riportato dalla Lettonia (6 punti).
(FONTE: elaborazione openpolis su dati Eige – pubblicati: mercoledì 21 Dicembre 2022)
09 – Francesca Leoci*: RIFORMA FISCALE: IN ARRIVO IL CONDONO… PER GLI EVASORI . LA RIDUZIONE DELLE ALIQUOTE IRPEF. IL CONDONO PER GLI EVASORI.
IL GOVERNO MELONI PUNTA A UNA RIDUZIONE A TRE ALIQUOTE IRPEF, NELLA RIFORMA FISCALE CHE ANTICIPA L’INTRODUZIONE DEL CONDONO.
La riforma fiscale del governo Meloni prende sempre più forma. Le previsioni si concentrano sulla riduzione di aliquote e scaglioni Irpef e Iva, semplificazione delle tasse per le imprese e razionalizzazione di sconti ed esenzioni fiscali. La questione è stata discussa in un incontro tra il viceministro con delega agli Affari fiscali, Maurizio Leo e i sottosegretari del Mef.
Come annunciato dal viceministro dell’Economia con delega al Fisco, Maurizio Leo, l’obiettivo del governo è quello di ridurre a tre le aliquote dell’Irpef, prevedendo anche una revisone delle tax expenditures, ovvero le detrazioni e le deduzioni fiscali.
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LA RIDUZIONE DELLE ALIQUOTE IRPEF
Attualmente le aliquote Irpef sono: 23% fino a 15mila euro; 25% tra i 15mila e i 28mila euro; 35% tra i 28mila e i 50mila euro; 43% sopra ai 50mila euro. Per passare da quattro a tre, l’idea è unire le due centrali, con un’aliquota al 27% o al massimo al 33%, per agevolare le fasce più alte.
IL CONDONO PER GLI EVASORI
Il governo si propone di aumentare le entrate fiscali prevenendo l’evasione. Come dichiara Il Fatto Quotidiano, il condono fiscale per gli evasori sta per trovare spazio nei decreti attuativi della legge delega di Giorgia Meloni, che sarà portato giovedì della prossima settimana al Consiglio dei ministri. Le dichiarazioni fiscali infedeli saranno quindi depenalizzate per valori sopra i 150mila euro, come anche gli omessi versamenti.
Al Consiglio dei ministri di giovedì 16 marzo, verrà discussa la legge delega sui principi del complesso riordino fiscale, al centro delle discussioni negli ultimi mesi. Nella legge delega si indica l’introduzione di un patto tra i contribuenti e lo Stato, e si fa riferimento al tipo di “adesione” stabilendo quindi che ciò che non si è dichiarato viene restituito non si correrà il rischio di un processo penale.
*(Fonte: Open polis -08 – Francesca Leoci – giornalista. Corriere di Puglia e Lucania)
10 – Sabato Angieri*: ANDREA ŞECERESINI E ALFREDO BOSCO. I GIORNALISTI CACCIATI DA KIEV ANCORA SENZA RISPOSTE: «VOGLIAMO TORNARE» – CRISI UCRAINA. ALFREDO BOSCO E ANDREA SCERESINI RICOSTRUISCONO UN ANNO DI GUERRA FINO AL RITIRO DELL’ACCREDITO. Dai servizi ucraini nessuna spiegazione. «Il lavoro in Russia o in Donbass non può essere il discrimine per accettare reporter»
I giornalisti cacciati da Kiev ancora senza risposte: «Vogliamo tornare»
«La cosa che ci preme di più è poter tornare in Ucraina per lavorare come abbiamo sempre fatto e che il nostro caso non diventi un precedente», hanno spiegato Andrea Sceresini e Alfredo Bosco ieri, nella sede romana della Stampa estera.
«Essere stati in Donbass dalla parte separatista o in Russia non può rappresentare un discrimine per accettare o meno i giornalisti in territorio ucraino, anche perché non si tiene conto del fatto che molti dei colleghi che sono stati ‘dall’altro lato’ negli anni scorsi sono spesso stati critici contro il governo russo».
INVITATI a parlare del caso mediatico che li ha visti coinvolti nell’ultimo mese, Sceresini e Bosco hanno raccontato nei particolari i fatti accaduti dalla sospensione del loro accredito giornalistico in Ucraina.
«Sia io sia Andrea – ha spiegato Bosco – abbiamo lavorato in Ucraina negli anni passati, quando l’attenzione mediatica su ciò che avveniva in Donbass era quasi nulla. Siamo stati più volte in territorio separatista perché sentivamo che quella storia non poteva che essere raccontata in modo corale, dando voce a entrambi gli schieramenti. Dopo il 24 febbraio 2022 abbiamo subito deciso di tornare in Ucraina per continuare a occuparci di ciò che negli anni avevamo visto incancrenirsi nel disinteresse generale della comunità internazionale. Durante l’ultimo anno abbiamo lavorato in diverse zone dell’Ucraina, siamo stati testimoni dell’assalto ai treni di Leopoli i primi giorni dopo l’invasione, abbiamo documentato le conseguenze dei bombardamenti nel sud e nell’est, intervistato decine di persone, raccolto testimonianze di volontari e militari impegnati al fronte e il nostro lavoro non è mai stato segreto… non credo che nessuno possa, in nessun modo, accusarci di aver svolto un compito diverso da quello di documentare la realtà che ci circondava».
«Il 6 febbraio, di ritorno da Bakhmut, dove ci eravamo recati per raccogliere delle testimonianze sulla resistenza dell’esercito ucraino e sulla drammatica battaglia che sta costando la vita a centinaia di soldati ogni giorno, riceviamo un messaggio da uno dei fixer».
IL FIXER, nei contesti di crisi una figura fondamentale per i giornalisti, si occupa di tradurre le conversazioni e i documenti necessari per ottenere i permessi e accompagna i reporter nel lavoro quotidiano, magari facilitandoli grazie alla sua rete di contatti. Il problema, spiegano i giornalisti, è che con il tempo diversi fixer hanno iniziato a organizzarsi in modo «un po’ troppo corporativista».
«Comprensibile se si ragiona sull’aspetto economico – spiega Bosco – In guerra il 90% della popolazione coinvolta soffre enormemente ma c’è una piccola percentuale che trae vantaggio dal contesto: l’Ucraina non è certo il primo Paese a vivere un conflitto, tutti possono immaginare a cosa mi riferisco e anche la tendenza dei fixer a fare ‘cartello’ rientra in questa dinamica».
Sergij, il fixer che doveva accompagnare i due colleghi al fronte il giorno dopo, scrive a Sceresini: «Ho appena parlato con un rappresentante dei servizi di sicurezza dell’Ucraina. Uno di voi ha l’accredito non valido ed è sospettato di collaborare con il nemico. Non mi interessa chi sia, ma non ho né la possibilità né la voglia di continuare a lavorare con voi».
ALLE OVVIE RICHIESTE di spiegazioni, Sergij non ha risposto ed è sparito. Poco dopo, sia lui sia Bosco hanno ricevuto un’email nella quale l’Sbu, i servizi segreti ucraini, comunicava la sospensione dei loro accrediti militari. «Da quel momento lavorare è stato impossibile – racconta Bosco – C’era il rischio che in qualsiasi momento un militare ci fermasse per chiedere i nostri permessi e, non trovandoli, ci arrestasse».
In Ucraina dal febbraio scorso vige la legge marziale: «Abbiamo provato in ogni modo a metterci in contatto con le autorità ucraine per risolvere la questione, per capire le motivazioni di tale provvedimento ma, ad oggi, non abbiamo ancora ottenuto alcuna risposta».
*(Fonte: Internazionale. Sabato Angieri, Giornalista freelance – il manifesto – LinkedIn Giornalista, scrittore, traduttore e autore teatrale.)
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