n° 05 – 4/2/’23. RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Giovanni De Mauro*: Mondo – Nel 2020 negli Stati Uniti sono stati lanciati più di un milione di nuovi podcast.
02 – Luca Celada, Los Angeles*: CRISI UCRAINA. La Rand Corporation: «Ora l’escalation nuoce agli Usa»
03 – Luigi Pandolfi*: ECONOMIA, La Bce alza di nuovo i tassi, a Francoforte vincono i falchi. Con l’aumento dello 0,50% vogliono incentivare le banche a non prestare soldi con facilità.
04 – Sen. Francesca La Marca/PD) *: Comunicato
05 – Claudio Bozza*: Attentati a diplomatici italiani a Barcellona e Berlino: «Rafforzata la sicurezza».
06 – Alessio Marchionna*: Quello di Memphis è stato un pestaggio di stato.
07 – Francesca Sibani*: La violenza quotidiana del Sudafrica di Ernest Cole.
08 – Gabriella De Rosa*: La Russia non risente delle sanzioni perché aiutata da altri Stati: ecco quali. Le sanzioni occidentali non hanno intaccato più di tanto l’economia e le esportazioni della Russia e questo grazie ai paesi amici.
09 – Giulia Albanese*: Italia/Venezia – Comunista, una scelta obbligata dalla ragione Stralcio di una intervista inedita del 2002 sulla sua formazione politica.
10 – Intanto nel mondo.

 

 

01 – Giovanni De Mauro*: MONDO – NEL 2020 NEGLI STATI UNITI SONO STATI LANCIATI PIÙ DI UN MILIONE DI NUOVI PODCAST.
FINORA È STATO L’ANNO D’ORO PER QUESTO MEZZO, ANCORA RELATIVAMENTE GIOVANE.
E certamente hanno influito la pandemia e i primi lockdown quando, scrive Joshua Benton su Nieman Lab, “più o meno tutti hanno cominciato a fare un podcast”.

L’anno scorso il numero di novità è calato leggermente, ma resta comunque superiore al 2019 e si calcola che, sempre negli Stati Uniti, i podcast attivi, cioè disponibili su una qualunque delle tante piattaforme di ascolto, siano quasi due milioni e mezzo, con il 38 per cento di persone che ne ha ascoltato almeno uno nell’ultimo mese (in Italia era il 30 per cento nel 2020).

Con la forte crescita di nuovi podcast lanciati ogni anno in tutto il mondo, ci si sta avvicinando alla situazione descritta bene da una frase attribuita al giocatore di baseball Yogi Berra: “Nessuno ci va più perché è troppo affollato”. Se ci sono troppi podcast, rischia di passare la voglia di farne di nuovi.

Non a noi, almeno non per ora: questa settimana abbiamo lanciato un podcast quotidiano che si chiama il Mondo ed è disponibile ogni mattina dalle 6.30, dal lunedì al venerdì. Tutti i giorni Claudio Rossi Marcelli e Giulia Zoli scelgono due notizie e le spiegano e commentano con il resto della redazione e con le tante persone che collaborano con noi.
È un modo per trattare l’attualità affrontando alcune delle questioni che poi approfondiamo nel settimanale, e anche per raccontare quello che la redazione fa, sul sito, con gli altri giornali (Internazionale Kids, Extra, Storia e L’Essenziale), con le newsletter e con i festival di Ferrara e di Reggio Emilia.
Con questo podcast parliamo di quello che è successo nel mondo, aprendo ad ascoltatrici e ascoltatori le porte della redazione. Che se poi si affolla tanto meglio.

*(Questo articolo è uscito sul numero 1497 di Internazionale, di Giovanni De Mauro, direttore e fondatore di «Internazionale».)

 

 

02 – Luca Celada, Los Angeles*: CRISI UCRAINA. La Rand Corporation: «Ora l’escalation nuoce agli Usa»
L’ultimo rapporto del think tank legato al Pentagono. La guerra non può essere vinta e se dura è dannosa per Washington e i suoi alleati. Serve trovare compromessi, come per la Crimea, per minimizzare i rischi
I Un rapporto appena pubblicato dalla Rand Corporation conclude che la guerra in Ucraina non può essere vinta e considera che la fine del conflitto sia nel miglior interesse degli Stati uniti. Il rapporto del think tank valuta il protrarsi della guerra come «dannoso» per gli Usa ed i suoi alleati, mentre l’indebolimento della Russia è già stato «sufficientemente» ottenuto.
GLI AUTORI DEL RAPPORTO, titolato «Evitare la guerra lunga: policy americana e la traiettoria del conflitto russo-ucraino», considerano «altamente improbabile» lo «scenario ottimista» di una Russia castigata ed espulsa dal territorio ucraino che rinunci a future rivendicazioni e possa addirittura risarcire i danni. Di contro il report elenca una serie di interessi prioritari americani che rendono la cessazione delle ostilità l’opzione più ragionevole per l’amministrazione Biden. Fra queste evitare un conflitto nucleare (negli anni della guerra fredda la Rand fu un principale centro di studi sulla deterrenza nucleare e formulò la dottrina della distruzione reciproca assicurata), il contenimento dei costi energetici e dei loro effetti (stima potenziali 150.000 morti in eccesso in Europa questo inverno) ed evitare di rinsaldare i rapporti fra Russia e Cina.

IL RAPPORTO SOTTOLINEA che la mobilitazione attuata da Putin, la risolutezza russa hanno permesso alle forze di occupazione di riprendersi dallo sbando e neutralizzare le conquiste della controffensiva di Kharkiv. L’escalation dei bombardamenti e le operazioni terra fanno presuppore, scrivono gli analisti Rand, nella miglior delle ipotesi uno stallo prolungato. Se le forniture occidentali di armi rendono improbabile uno sfondamento russo, il potenziale militare della superpotenza di Putin rendono altrettanto implausibile la capacità ucraina di espellere l’invasore dal territorio nazionale. Per dipiù, pur riconoscendo agli Ucraini il diritto morale di difesa il rapporto nota spassionatamente che sul rispristino dei confini a quelli pre-febbraio 2022 o addirittura pre-2014, gli interessi americani ed ucraini non necessariamente coincidono. Gli autori affermano anzi che tentare di riconquistare la Crimea avrebbe «l’effetto di prolungare il conflitto e dunque aumentarne proporzionalmente i rischi».

IL PRAGMATISMO DELLE valutazioni è sorprendente. Sia per il fatto che la Rand elaborò per il 2019-2012 una «strategia di lungo periodo» proprio per la crisi Ucraina, fatta di sanzioni alla Russia da colpire nei suoi punti «vulnerabili», di proteste, di aiuti «letali» a Kiev, di protagonismo della Nato; sia perché in controtendenza ora rispetto alla linea ufficiale della Casa bianca, avendo l’autorevolezza di un istituto direttamente finanziato dal Pentagono. Nello specifico la Rand è nota, oltre per il peso nel formulare policy militare, anche per un passato di controversi rapporti che hanno inciso sulla politica nazionale. Nel 1971 uno di questi, le Pentagon Papers che ripercorreva la storia dell’escalation americana in Vietnam (e concludeva che la guerra non era vincibile per gli Stati uniti) venne reso pubblico dall’analista dissidente Daniel Ellsberg e pubblicato dal New York Times. Due anni dopo venivano firmati gli accordi di pace di Parigi.

L’ATTUALE RAPPORTO è l’ultimo indizio di una crescente tendenza «possibilista» all’interno dell’apparato bellico americano. A dicembre aveva cominciato l’ex capo di stato maggiore ammiraglio Michael Glen Mullen affermando in un’intervista alla Abc che sarebbe stato opportuno «fare tutto il possibile per arrivare ad un tavolo di trattativa». Il 21 gennaio era stato l’attuale capo di stato maggiore, generale Mark Milley a ribadire che «l’espulsione delle forze russe da ogni metro di Ucraina occupata sarebbe stata molto difficile». Inoltre vi sarebbe crescente preoccupazione fra gli alti gradi sui rischi sempre più credibili di una guerra che non accenna a finire. Un precedente rapporto Rand, ad esempio, pubblicato a dicembre, intitolato Responding to a Russian Attack on Nato During the Ukraine War, prendeva in dettagliato esame modalità e conseguenze di quattro plausibili scenari di espansione del conflitto a paesi Nato.

SI PROFILEREBBERO insomma alcune crepe nella linea Biden caratterizzata finora dall’incapacità di formulare alternative all’escalation militare. Dopo la sofferta vicenda delle forniture di carri armati, fra poco dovrebbe venire approvato un nuovo pacchetto da 2 miliardi di dollari (supplemento ai 45 miliardi stanziati dal Congresso a dicembre) che potrebbe comprendere missili media gittata fino a 150 km (a portata di depositi russi in Crimea). Zelesnky sta già pensando ad aerei militari come un prossimo passo. Ma a questo riguardo le voci dicono che l’incontro avvenuto il 18 gennaio a Kiev fra Zelesnky ed il capo della Cia William Burns, potrebbe aver avuto proprio l’obbiettivo di ridimensionare le aspettative del presidente Ucraino.

AD OTTOBRE UN’INIZIATIVA di democratici progressisti a favore dell’apertura di un fronte diplomatico aveva suscitato una scomposta reazione contraria e si era conclusa con un poco dignitoso «ritiro» della petizione. L’opposizione di destra si allinea a posizioni isolazioniste, più che altro interessate al posizionamento pre-elettorale (il contributo di Trump al dibatto è stato di affermare questa settimana che lui in 24 ore «sistemerebbe tutto».)

IL RAPPORTO RAND invece ipotizza un ruolo americano per favorire la realizzazione da parte di entrambi i belligeranti che non esistono prospettive di vittoria ed individua specificamente nelle forniture «a fondo perduto» un elemento contribuente all’eccessivo ottimismo ucraino sulle prospettive militari e quindi causa del proseguimento delle ostilità. In alternativa individua potenziali strategie americane di uscita, ipotizzando, se non la cessazione degli aiuti, di porre l’inizio di una trattativa come condizione a futura assistenza. Il rapporto menziona l’assicurazione di una futura neutralità ucraina e un piano per l’abolizione delle sanzioni come potenziali incentivi da offrire ai Russi.

IN CONCLUSIONE, il documento invita a trarre utili lezioni da futili escalation in «guerre perse» del passato: Vietnam, Iraq e Afghanistan, ed a contemplare compromessi – col riferimento esplicito all’abbandono della rivendicazione sulla Crimea – per minimizzare i rischi. Esclusa per entrambe le parti la prospettiva di una «vittoria assoluta», la Rand esamina gli esiti possibili di un potenziale negoziato, individuando in un armistizio «in stile coreano» il più promettente in quanto permetterebbe di cessare le ostilità senza dover necessariamente risolvere ogni questione sottostante, comprese quelle territoriali.

In questo scenario, afferma, gli Usa potrebbero in una seconda fase continuare a garantire la sicurezza ucraina dopo la guerra «come ha già dimostrato di saper fare con Israele».
*(Luca Celada, giornalista e documentarista, è stato per oltre vent’anni corrispondente della Rai da Los Angeles occupandosi di attualità, tematiche sociali)

 

 

03 – Luigi Pandolfi*: ECONOMIA, LA BCE ALZA DI NUOVO I TASSI, A FRANCOFORTE VINCONO I FALCHI. CON L’AUMENTO DELLO 0,50% VOGLIONO INCENTIVARE LE BANCHE A NON PRESTARE SOLDI CON FACILITÀ.
A marzo è previsto un altro giro di vite. Mai successo nella storia dell’euro
Al Consiglio direttivo della Bce vincono ancora i «falchi». Si dà un’altra stretta al credito, si conferma lo smaltimento progressivo dei titoli di stato acquistati dalle banche. I tassi. Con un altro aumento dello 0,50%, i tre tassi di riferimento, quello «principale», quello sui depositi e quello sui «prestiti marginali», saliranno rispettivamente al 3%, al 2,50% e al 3,25%.

Significa innanzitutto che le banche, sia quelle in salute che quelle in difficoltà («prestiti marginali»), pagheranno ancora più caro il denaro che prenderanno in prestito da Francoforte. Ma anche che riceveranno di più per i depositi che terranno in garanzia presso la stessa Bce (tasso sui depositi). Un incentivo a non prestare soldi con facilità. E a marzo si prevede un altro giro di vite, un altro aumento di 50 punti. Mai successo nella storia dell’euro. La presidente Christine Lagarde ha motivato tale scelta adducendo che adesso «i rischi per le prospettive di crescita economica sono diventati più equilibrati». Probabilmente avranno influito anche due dati nazionali in controtendenza rispetto al quadro europeo: quello italiano e quello spagnolo.

NEL PRIMO CASO si registra ancora un’inflazione a due cifre, nel secondo, a gennaio, la curva è tornata, anche se di poco, a salire (+5,8% su base annua, dal +5,7% di dicembre). Ma non tutti i conti tornano. Solo una settimana fa, l’italiano Fabio Panetta, che nel bureau di Eurotower guida lo schieramento delle «colombe», ammoniva che «c’è troppa incertezza nell’economia per impegnarsi preventivamente e incondizionatamente su una linea specifica», e che «oltre febbraio qualsiasi guidance incondizionata, ovvero non correlata alle prospettive economiche, si discosterà dal nostro approccio basato sui dati». Le incertezze, per l’appunto. Alle quali la stessa Lagarde, in contraddizione con la decisione assunta sui tassi, ha dovuto fare riferimento in conferenza stampa. «La guerra ingiustificata della Russia contro l’Ucraina e il suo popolo – è stata la sua conclusione – continua a rappresentare un significativo rischio di ribasso per l’economia e potrebbe nuovamente far salire i costi dell’energia e del cibo. Potrebbe anche esserci un ulteriore freno alla crescita dell’area dell’euro se l’economia mondiale si indebolisse più bruscamente di quanto ci aspettiamo. Inoltre, la ripresa potrebbe incontrare ostacoli se la pandemia dovesse intensificarsi nuovamente e causare nuove interruzioni dell’approvvigionamento».

Guerra, shock energetico, recrudescenza della pandemia. Abbastanza per temere una recessione globale. Ma la dottrina è dottrina. C’è l’inflazione? In alto i tassi. Peccato, però, che non tutte le inflazioni sono uguali. E questa europea, come la stessa Lagarde riconosce, è figlia dell’aumento dei costi di produzione, non di un accresciuto potere d’acquisto dei cittadini, come in America. Siamo «americani» per tante cose, non per l’inflazione. Ma per il partito della «stretta» questo non è un problema. E se i tassi da soli non bastano? C’è anche un altro rubinetto che si può chiudere: quello della liquidità per l’acquisto di titoli di stato ed altri asset sul mercato secondario.

LA SECONDA SPADA di Lagarde e del blocco dei paesi nordici. Da marzo, ad un ritmo di 15 miliardi al mese, l’Eurosistema inizierà infatti a disfarsi dei titoli acquistati nell’ambito del cosiddetto PAA (Programma di acquisto di attività). Venderà e non acquisterà, se non parzialmente. Salvo invece, fino al 2024, il reinvestimento dei titoli a scadenza acquistati col Piano pandemico PEPP. Le conseguenze. Per la scelta sui tassi, pagheranno innanzitutto cittadini e imprese (credito più oneroso, meno investimenti, rate dei mutui più salati), mentre le banche vedranno crescere i loro profitti. La moratoria sugli acquisti di titoli, invece, metterà pressione anche sugli Stati maggiormente indebitati. Come l’Italia. Forse anche per questo si chiede con insistenza ai Paesi recalcitranti di ratificare il nuovo trattato sul Mes. Si ritornerebbe alla «normalità». Per gli Stati in difficoltà finanziaria, prestiti condizionati a «riforme strutturali» e politiche di austerità. La «normalità» di Maastricht. Alla quale, forse, si potrà derogare soltanto se di mezzo c’è il riarmo.
*(Fonte: HuffPost. Luigi Pandolfi. Giornalista economico e saggista. Giornalista pubblicista, scrive di economia e politica su vari giornali, riviste e web magazine)

 

 

04 – Sen. Francesca La Marca/PD) *: Comunicato
Cari connazionali, Cari amici,
Alcune settimane fa ho lanciato una petizione rivolta al Consolato di New York, la cui circoscrizione consolare ricomprende gli Stati di New York, New Jersey e Connecticut. In totale sono quasi 100mila i connazionali che vivono in quest’area.
Se ritieni anche tu necessario attivare una linea telefonica, dedicata agli over 70, per l’espletamento dei servizi consolari e per la richiesta del passaporto clicca sul link e firma https://chng.it/6H77zn444W
Vi ringrazio anticipatamente. Francesca
*(Sen. Francesca La Marca PD)

 

 

05 – Claudio Bozza*: ATTENTATI A DIPLOMATICI ITALIANI A BARCELLONA E BERLINO: «RAFFORZATA LA SICUREZZA». BRUCIATA L’AUTO DI LUIGI ESTERO, PRIMO CONSIGLIERE DELL’AMBASCIATA A BERLINO. A BARCELLONA DISTRUTTA UNA VETRATA E IMBRATTATA LA PARETE DEL CONSOLATO.
Attentati a diplomatici italiani a Barcellona e Berlino: «Rafforzata la sicurezza». Meloni: «Seguiamo con preoccupazione»
L’ingresso del consolato italiano a Barcellona imbrattato con scritte a sostegno dell’anarchico Cospito
Due attacchi hanno colpito, ieri, i rappresentanti diplomatici italiani, a Barcellona e Berlino. È quanto riferisce un comunicato della Farnesina. «Ignoti hanno infranto la vetrata del palazzo dove è ubicato il consolato generale a Barcellona, imbrattando una parete dell’ingresso dell’edificio». Cinque persone, a quanto si apprende, sono state identificate.
E sempre ieri, a Berlino nel quartiere di Schöneberg , «è stata anche incendiata l’auto con targa diplomatica di un funzionario diplomatico in servizio all’ambasciata d’Italia». Le locali forze di polizia «hanno effettuato i necessari rilievi scientifici ed investigativi. In ambedue i casi, fortunatamente, non si registrano danni a persone», riferisce ancora la Farnesina. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani «ha personalmente e immediatamente contattato l’ambasciata a Berlino e il consolato a Barcellona per esprimere la propria solidarietà e ha chiesto che venga fatta al più presto piena luce sulle dinamiche di questi atti criminosi». Il ministero ha poi disposto «l’avvio immediato delle procedure per la verifica e il rafforzamento delle sedi diplomatiche e del personale impegnato».

Per entrambi gli attentati, fonti di intelligence stanno seguendo la pista anarchica per risalire ai responsabili. Questa escalation è infatti ritenuta collegabile con il caso di Alfredo Cospito, l’anarchico rinchiuso nel carcere di Sassari e in sciopero della fame da due mesi per protestare contro il regime di carcere duro (41 bis) cui è sottoposto. Condannato a 12 anni e 3 mesi per attentati con finalità terroristiche o di eversione (tra cui la gambizzazione dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, nel 2012 a Genova) e altri reati, il leader anarchico Cospito deve scontare in via definitiva anche un’altra pena per ulteriori atti terroristici (come l’invio di ordigni e plichi esplosivi contro politici, giornalisti e forze dell’ordine) e per il reato di strage politica. Quest’ultima condanna è correlata all’attentato dinamitardo con le due bombe piazzate alla caserma dei carabinieri di Fossano, in provincia di Cuneo, nel 2006, insieme alla sua compagna Anna Beniamino.

SCHEDA: Chi è il leader anarchico Alfredo Cospito
Da qualche tempo gli anarchici hanno alzato il tiro: non si tratta più di atti dimostrativi, ma di mobilitazioni di piazza e di atti dinamitardi sempre più gravi. A preoccupare è in particolare l’atto incendiario contro l’auto del diplomatico in servizio all’ambasciata di Berlino. Il medesimo modus operandi attuato nell’attentato ad Atene contro la diplomatica Susanna Schlein (sorella della deputata del Pd Elly), a cui era stata bruciata l’auto.
La premier Giorgia Meloni ha fatto pervenire «la sua solidarietà e quella del governo italiano al Primo consigliere dell’ambasciata d’Italia a Berlino, Luigi Estero, per l’attentato che ha provocato l’incendio della sua automobile nella capitale tedesca». E poi: «A questo episodio si aggiunge la violazione del nostro consolato generale a Barcellona con atti di vandalismo. Il governo segue con preoccupazione e attenzione questi nuovi casi di violenza nei confronti dei nostri funzionari e delle nostre rappresentanze diplomatiche».
«Destano forte preoccupazione i ripetuti attacchi alle sedi diplomatiche italiane — commenta il presidente del Senato Ignazio La Russa —. È necessario e urgente capire quali siano i motivi e se vi sia una regia unica dietro questi atti criminosi. Al personale delle nostre ambasciate la mia sincera vicinanza». Anche il presidente della Camera Lorenzo Fontana auspica «che sulla matrice di questi nuovi casi di violenza nei confronti dei nostri funzionari e delle nostre rappresentanze diplomatiche venga fatta al più presto luce»

 

 

06 – Alessio Marchionna*: QUELLO DI MEMPHIS È STATO UN PESTAGGIO DI STATO.
NELLA NOTTE TRA IL 27 E IL 28 GENNAIO È STATO DIFFUSO IL VIDEO CHE MOSTRA IL PESTAGGIO DI TYRE NICHOLS, UN NERO DI 29 ANNI, DA PARTE DI CINQUE AGENTI DELLA POLIZIA DI MEMPHIS, IN TENNESSEE. I FATTI RISALGONO AL 7 GENNAIO. IL 10 GENNAIO NICHOLS, CHE ERA STATO FERMATO PER GUIDA PERICOLOSA, È MORTO IN OSPEDALE PER L’EMORRAGIA CAUSATA DAI COLPI RICEVUTI.
I poliziotti, tutti afroamericani, sono stati licenziati e accusati di omicidio di secondo grado, un reato che per le leggi del Tennessee equivale più o meno all’omicidio colposo previsto dall’ordinamento italiano.

Il filmato ricorda molto il pestaggio di Rodney King, avvenuto a Los Angeles nel 1991, e ha un elemento in comune con tutti i casi più recenti di violenza della polizia: gli agenti continuano ad accanirsi contro Nichols anche quando è chiaro che l’uomo non rappresenta una minaccia.

La violenza sembra frutto di un modus operandi, perché comincia subito: Nichols viene trascinato fuori dalla sua automobile e spinto a terra; cerca di spiegare agli agenti che non ha fatto niente di male, che stanno esagerando, che stava tornando a casa; viene colpito con dello spray urticante, a quel punto riesce a scappare; gli agenti lo inseguono a piedi, uno di loro sparando con un taser; Nichols corre verso la casa della madre, gli agenti lo raggiungono e lo gettano di nuovo a terra, cominciano a picchiarlo, gli spruzzano altro spray in faccia; l’uomo urla “mamma”, sperando che la madre, che è poco distante, riesca a sentirlo; poi due agenti lo bloccano a terra mentre un terzo lo prende a calci sul volto, un altro lo colpisce con un bastone; il pestaggio continua per altri minuti, dopo di che gli agenti ammanettano Nichols e lo lasciano seduto con la schiena contro la portiera di una macchina; non gli prestano soccorso e l’ambulanza arriva 22 minuti dopo.

Cerelyn Davis, la donna afroamericana che dirige la polizia di Memphis, ha definito il pestaggio “odioso e insensato”, “un fallimento dell’umanità”. Il New York Times ha scritto che gli agenti accusati dell’omicidio facevano parte di un’unità speciale creata poco più di un anno fa per contribuire a fermare l’ondata di violenza in città. L’unità si chiama Scorpion (Street crimes operation to restore peace in our neighborhoods). È formata da quaranta agenti che vengono dispiegati nelle zone con il livello più alto di criminalità. “Questi poliziotti hanno spesso usato veicoli non contrassegnati, fatto fermi stradali, sequestrato armi e arrestato centinaia di persone”. Queste unità sono piuttosto comuni e sono molto controverse: secondo gli esperti tendono a prendere di mira i quartieri abitati da neri e ispanici e a commettere abusi. Il 28 gennaio la Scorpion è stata smantellata.

MOLTI RESPONSABILI
Dopo la pubblicazione del video ci sono state proteste contro la violenza della polizia a Memphis e in altre città. Sia la famiglia della vittima sia l’amministrazione Biden hanno chiesto di manifestare in modo pacifico. In particolare la madre di Tyre Nichols, RowVaughn Wells, ha cercato di abbassare la tensione: “Ha elogiato il capo della polizia di Memphis Cerelyn Davis per aver agito rapidamente per arrestare e incriminare gli aggressori”, scrive Time. “E ha affermato che, poiché gli agenti coinvolti sono tutti neri, ‘la razza non c’entra’”.

Politico pubblica l’opinione del dottor Donell Harvin – esperto in interventi di pronto intervento e sicurezza – che punta il dito anche sulle responsabilità del personale paramedico per non aver osservato i protocolli del pronto soccorso su Nichols. “Il video mostra che gli operatori del pronto soccorso non hanno praticato quello che noi chiamiamo lo ‘standard di cura’ per i pazienti traumatizzati. Questo consiste, come minimo, nel valutare le vie aeree, la respirazione e i segni vitali della vittima e, in caso di trauma cranico, nell’immobilizzare la colonna vertebrale e il collo della vittima e nell’applicare l’ossigeno per prevenire danni cerebrali. È la fase più semplice e allo stesso tempo più critica. In secondo luogo, nella medicina d’urgenza ci sono due importanti parametri di riferimento che vengono insegnati a ogni tecnico di pronto intervento. Il primo è quello dei ‘10 minuti di platino’, ovvero il tempo che dovrebbe trascorrere dall’arrivo dei soccorsi al trasporto rapido di un paziente gravemente ferito per garantire una sopravvivenza ottimale. La seconda è l’’ora d’oro’, che suggerisce una maggiore probabilità di sopravvivenza quando un’adeguata assistenza pre-ospedaliera, un trasporto rapido e un’assistenza definitiva nel reparto di emergenza o in sala operatoria vengono prestati entro 60 minuti dal verificarsi dell’infortunio. In base ai filmati diffusi, i medici presenti sulla scena dell’aggressione di Tyre Nichols sembrano aver sprecato quello che avrebbe potuto essere tempo prezioso”.

*(Questo articolo è tratto da una newsletter di Internazionale, Americana, che racconta cosa succede negli Stati Uniti – Alessio Marchionna, giornalista di Internazionale)

 

 

07 – Francesca Sibani*: LA VIOLENZA QUOTIDIANA DEL SUDAFRICA DI ERNEST COLE.

IL FOTOGRAFO ERNEST COLE NACQUE NEL 1940 IN SUDAFRICA. CON LE SUE FOTO RACCONTÒ LA VIOLENZA RAZZISTA E LA VITA QUOTIDIANA NEL SUO PAESE. IN ESILIO, NEL 1967, PUBBLICÒ UN LIBRO HOUSE OF BONDAGE (LA CASA DELLA SCHIAVITÙ), CHE È CONSIDERATO IL PRIMO E UNO DEI PIÙ FORTI ATTI D’ACCUSA CONTRO LA BRUTALITÀ DELLA SEGREGAZIONE RAZZIALE. MORÌ DI CANCRO A NEW YORK NEL 1990, SENZA AVER FATTO FOTO PER VENT’ANNI E SENZA VEDERE I CAMBIAMENTI EPOCALI CHE SAREBBERO PRESTO ARRIVATI NEL SUO PAESE.

Nel 2022, dopo il ritrovamento di migliaia di negativi originali mai pubblicati, la casa editrice Aperture ha ridato alle stampe House of bondage, con un capitolo aggiuntivo dedicato alle attività culturali e intellettuali dei neri in Sudafrica, attività portate avanti faticosamente a causa delle restrizioni imposte dall’apartheid. La speranza è che il nuovo materiale e la rinnovata attenzione verso Cole possano servire a fare luce su questo artista rimasto a lungo nell’ombra, morto in solitudine e in povertà.

DA KOLE A COLE

Ernest Cole si chiamava in origine Ernest Levi Tsoloane Kole. Nel corso della sua carriera, cominciata lavorando per la rivista Drum, una pubblicazione coraggiosa e all’avanguardia, cambiò nome in Cole per farsi riconoscere come coloured sui documenti ufficiali, una classificazione – intermedia tra bianco e nero – che gli garantiva più libertà di muoversi e opportunità di lavorare nella fotografia. Alla popolazione nera, infatti, erano riservati un’istruzione molto basica e per lo più lavori manuali. Entrò a Drum come assistente di Jürgen Schadeberg e lì ebbe l’0ccasione di incontrare altri nomi illustri della fotografia sudafricana, come Alf Khumalo e Peter Magubane. Cole è anche riconosciuto come il primo fotografo freelance nero sudafricano, viste le sue collaborazioni con il Rand Daily Mail e l’Associated Press.

Cole documentò la vita e le umiliazioni quotidiane subite dai neri (al Museo dell’apartheid di Johannesburg le sue foto illustrano un’intera sezione). Nei suoi scatti vediamo uomini nudi in fila contro una parete per sottoporsi a una visita medica; neri ammanettati; bianchi che allontanano con disgusto i bambini neri; le panchine e gli sportelli bancari segregati. Una foto ci mostra l’ingresso di una miniera: sulla sinistra, c’è una fila di uomini neri di spalle, vestiti in abiti tradizionali; sulla destra, un’altra fila di neri con in mano le valigie e i fogli che attestano la fine del contratto di lavoro. L’aver lavorato in miniera segna metaforicamente un passaggio tra due mondi: gli uomini che escono sono tutti vestiti in abiti occidentali. Altre immagini ritraggono le scuole dei neri, deliberatamente prive di risorse perché l’istruzione di quella popolazione non era importante: i bambini scrivono piegati per terra, con le gocce di sudore che gli scivolano giù dalle tempie per il caldo; la loro maestra ha l’aria esausta dopo una lunga giornata di lavoro.

Con il passare del tempo e l’inasprirsi delle leggi razziste, il lavoro di Cole diventò sempre più scomodo e difficile. Scattava di nascosto – con la macchina all’altezza dell’anca o nascosta in un panino – e s’intrufolava nei posti. Fu arrestato varie volte. Il clima politico per lui si fece pesante. Hamish Crooks, ex responsabile dei diritti per l’estero dell’agenzia Magnum, attribuisce però la sua decisione di scappare – Cole era cattolico e disse che voleva andare a Lourdes – alla volontà di pubblicare un libro fotografico, emulando altri importanti fotoreporter dell’epoca.

Nel 1967, negli Stati Uniti, riuscì a far uscire House of bondage, il suo testamento e la denuncia più potente dell’apartheid, in un momento in cui le campagne di boicottaggio erano ancora lontane. Il libro fu immediatamente vietato in Sudafrica, dove circolarono di nascosto pochissime copie. Nel giro di qualche anno, però, Cole abbandonò la fotografia. C’è chi dice che cominciò a bere, e che finì a vivere per strada. Per un periodo si trasferì in Svezia. Morì di cancro il 19 febbraio 1990 a New York. Sui suoi ultimi vent’anni di vita c’è ancora un grande mistero, che forse i materiali entrati in possesso dei suoi eredi potranno aiutare a svelare.

UN TESORO NASCOSTO

Una storia che merita di essere raccontata è anche quella del ritrovamento dei negativi. La rivista sudafricana New Frame racconta che il 10 aprile 2017 un nipote di Cole, Leslie Matlaisane, direttore della fondazione di famiglia, ricevette una telefonata dalla banca svedese Seb, che custodiva tre cassette di sicurezza e una valigia da restituire agli eredi del fotografo. All’interno c’erano sessantamila negativi, pellicole, ricevute, registrazioni audio e stampe di foto fatte da Cole negli Stati Uniti per un progetto finanziato dalla Ford foundation. Questo materiale era stato per anni nelle mani della fondazione Hasselblad, di Göterborg, per la promozione della fotografia. L’ipotesi dell’autore dell’articolo di New Frame è che negativi e stampe siano arrivate alla fondazione alla fine degli anni sessanta attraverso il fotografo svedese Rune Hassner, a cui Cole avrebbe presumibilmente chiesto di conservare il materiale, tra cui i suoi lavori che aveva portato con sé dal Sudafrica. Oggi la fondazione svedese rifiuta di restituire agli eredi cinquecento stampe, tra cui quelle realizzate per House of bondage. La battaglia legale è ancora aperta.
*( SUDAFRICA. Francesca Sibani, giornalista di Internazionale)

 

 

08 – Gabriella De Rosa*: LA RUSSIA NON RISENTE DELLE SANZIONI PERCHÉ AIUTATA DA ALTRI STATI: ECCO QUALI. LE SANZIONI OCCIDENTALI NON HANNO INTACCATO PIÙ DI TANTO L’ECONOMIA E LE ESPORTAZIONI DELLA RUSSIA E QUESTO GRAZIE AI PAESI AMICI.
Nonostante la stretta dell’Europa e degli Stati Uniti all’economia, la Russia è abbastanza stabile e sembra non aver risentito sul piano delle esportazioni di greggio e gas nonostante l’embargo e il price cap deciso dall’Occidente. Secondo un’indagine del New York Times, infatti, a favorire la crescita economica del paese aggressore sono stati i cosiddetti paesi amici, su cui Putin ha fatto affidamento dall’inizio della guerra.

Se dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha mosso l’Occidente con una condanna ferma imponendo sanzioni economiche, molti paesi vicini e alleati di Mosca sono rimasti fedeli al Cremlino e hanno contribuito a riempire quel vuoto lasciato dagli importatori europei e occidentali. Già è emerso quanto sia stato importante il ruolo di Cina e India in questo contesto. Da quasi un anno, dall’inizio della guerra, le esportazioni di greggio e gas che prima erano dirette verso l’Europa hanno deviato i flussi verso i giganti asiatici.
I Paesi amici che fanno crescere l’economia russa
Ma non solo, sono rimasti fedeli alla Russia anche le ex repubbliche sovietiche satellite come Bielorussia, Kazakhstan e Kirghizistan. Un ruolo jolly, per non dire ambiguo, invece è giocato dalla Turchia che ha continuato a far affari con la Russia pur ponendosi come mediatore con l’Occidente. Questi paesi non hanno contribuito soltanto ad aumentare il Pil e a far bilanciare le esportazioni, ma anche a rifornire la Russia di tutto quello che non possono acquistare a causa delle sanzioni occidentali dai generi alimentari agli smartphone, dalle lavatrici ai semiconduttori.
Il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha dichiarato di aspettarsi che l’economia russa cresca dello 0,3% quest’anno, rispetto alla precedente stima di una contrazione del 2,3%. Alcuni analisti considerano questi livelli addirittura pre-guerra. Inoltre, il Fondo ha affermato di aspettarsi che il volume delle esportazioni di greggio russo rimanga relativamente forte nonostante il price cap e che il commercio russo continui a essere reindirizzato verso paesi che non hanno imposto sanzioni.
*(Fonte: News Mondo. Gabriella De Rosa, Aspirante giornalista, linguista specializzata nella comunicazione giuridica e politica.)

 

 

09 – GIULIA ALBANESE*: ITALIA/VENEZIA Comunista, una scelta obbligata dalla ragione Stralcio di una intervista inedita del 2002 sulla sua formazione politica.

Nel settembre 2002, nell’ambito di un progetto di raccolta di interviste partigiane, Rossana Rossanda veniva intervistata per un progetto dell’Istituto veneziano per la storia della resistenza e la storia contemporanea (Iveser) sulla sua esperienza resistenziale e il suo rapporto con la Venezia degli anni ’30 è40. L’intervista è rimasta inedita perché Rossanda stava già allora lavorando sulla sua autobiografia, che sarebbe apparsa nel 2005. L’intervista parlava della sua iniziazione alla politica, del rapporto e delle esperienze nella Venezia degli anni ’30 è40 e della non lunga frequenza dell’Università di Padova, del rapporto tra intellettuali e fascismo, del fascismo come totalitarismo e del rapporto tra vita e memoria. Il testo integrale – che contiene diversi spunti originali – sarà pubblicato nella rivista Venetica nel numero 61, secondo numero del 2021, in uscita entro l’anno.
Ne anticipiamo un breve estratto che parla della formazione politica di Rossanda, ma anche del rapporto tra italiani e fascismo.
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TUTTA L’ESTATE (del 1943) avevo cercato di capire. Ero stata una ragazza stupida, convinta di potermi fare una strada privata, studiare, non occuparmi di politica – e mi trovo davanti a questa caduta indecorosa, che parla di quel che è stato il regime, di una guerra sbagliata. Per la prima volta mi sento investita come cittadina – la privatezza non mi appare più una scelta personale ma un lasciar fare errori tremendi. E l’estate badogliana mi lascia di stucco: come? È caduto il fascismo che ci ha portato in guerra, ma la guerra continua? (…) I giornali del periodo badogliano – lei li ha mai visti? – sono pessimi, reticenti.
La sensazione di essere senza una bussola, e che nell’esserlo c’è una specie di colpa, precede quindi il tonfo dell’8 settembre. Poi viene l’8 settembre, la monarchia se la fila e siamo occupati dai tedeschi. I partiti antifascisti nell’estate erano stati assai cauti, dei comunisti non si parlava proprio, una come me, che non aveva in casa particolari riferimenti, e a scuola aveva avuto professori che non parlavano di aquile e gagliardetti, ma neanche delle leggi razziali, non sapeva dove sbattere la testa. (…)
Non ricordo come seppi o chi mi disse per primo che Antonio Banfi doveva essere comunista, era tutto un prudente sussurrarsi. Qualcuno diceva: Banfi è comunista, qualcosa di vero doveva esserci e sono andata da lui. So che andai dritta da lui in un intervallo e glielo chiesi: «Lei è comunista? Perché io non so che cosa fare». (Avevo pensato che) o mi avrebbe mandato a spasso o mi avrebbe aiutato. Capì che ero una dei tanti in cerca, mi dette fiducia al buio, come io a lui.
(…) La prima volta Banfi non mi disse: «Prenda contatto con i seguenti comunisti», ma «Legga questi libri, e venga a dirmi che ne pensa». Andò alla scrivania e scrisse dei titoli su un foglietto. Io lo aprii in treno – sono le cose che uno ricorda per il resto della vita: era un foglietto magro con l’intestazione dell’università, deve essere andato perso come quasi tutte le mie cose. Aveva indicato due libri di Harold Laski, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte e La guerra civile in Francia di Karl Marx, Stato è rivoluzione di Lenin, èdi S. quello che trova». Guardi che è una buona lista per una iniziazione. Ma allora mi venne un po’ un colpo: dunque era vero, era proprio un comunista, di quelli veri, non un simpatizzante (parola che allora non conoscevo).
DEI COMUNISTI sapevo soltanto che era gente decisa e temibile (…) I testi che Banfi mi indicava non dicevano soltanto agisci contro i tedeschi, ma anche: c’è un altro modo di veder le cose, il mondo, la vita, le responsabilità; sei stata cieca, non hai voluto vedere. E, spero che non la faccia ridere, mi pareva che imponessero di rinunciare a quelli che per me erano stati i valori – la pittura, la ricerca, il bello, il lusso della bellezza, non quello del consumismo, che allora non impazzava, e personalmente eravamo molto poveri. Sta di fatto che Banfi fu sorpreso di vedermi arrivare una settimana dopo… avevo deciso. Sì, fu una scelta intellettuale, ragionata e obbligata dalla ragione. Quei testi avevano ragione.
(…) Qualche anno fa a Torino alla fine di una conferenza una bella signora è venuta a salutarmi: ti ricordi? Eravamo a scuola assieme, sono Liliana – certo che la ricordavo, con una splendida treccia bionda attorno alla testa. E mi domanda: «dimmi, come è avvenuta la svolta?» «Che svolta?» «Come sei diventata comunista? Come hai cambiato idea?» E io: «Quale idea? Ero fascista?» Mi ha risposto più o meno «sì»: era imbarazzata, abbiamo parlato un paio di minuti e poi tutti sono usciti. M’è venuto un colpo. Sono stata fascista? Quando? Posso esserle apparsa tale solo nei due anni di liceo passati assieme, i miei quindici/sedici e sedici/diciassette. O prima al ginnasio Manzoni? Mi sono chiesta che diavolo ho detto o fatto e non trovo nulla. La memoria ha gentilmente rimosso delle atrocità? Mi ricordo solo che ero contenta di avere la divisa di giovane fascista perché era il mio primo tailleur, camicetta, giacca e cravatta.
Prima, da giovane italiana, era un informe mantellone, che mettevamo solo per andare ai saggi (anche il tailleur-divisa, del resto). Che cosa posso aver detto o fatto in quel tailleur? Forse che bisognava pensare alla guerra, sacrificarsi, pensare a quelli che erano al fronte, a vincere…? Non lo so.
LA MEMORIA non mi aiuta, non mi assegna colpe. Ricordo invece di essere andata a sentire un paio di lezioni di mistica fascista che era stata introdotta all’Università nell’autunno del 1943: ero curiosa di sentire. C’era un certo Atzeni, tutto vestito di nero in divisa, che blaterava di socialismo fascista, non era neppure interessante in negativo. (…)
È difficile capire adesso che cosa era, o era diventato, il regime negli anni ’30 perché una ragazza non del tutto sciocca potesse aprire gli occhi di colpo nel 1943. Mettiamoci pure l’egoismo personale, l’abitudine donnesca di non occuparsi di politica – la ragione di fondo era che il paese s’era fatto inerte. Il danno più grande di un regime totalitario non è che ti impedisce questo o quello, ti sfida tutti i giorni – ma se non fai politica, ti lascia vivere. Non è vera la tesi di Renzo de Felice, che chi non era antifascista era fascista; poteva essere indifferente o rassegnato, si occupava dei fatti suoi, si scavava delle strade nelle quali fare anche un buon lavoro come tecnico o insegnante o letterato. Guardi che nell’Urss degli anni cinquanta e seguenti, finite le repressioni più pesanti, avvenne lo stesso. Inversamente non è vero che chi era non fascista, o sprezzante del fascismo, fosse perciò antifascista, nel senso di: «Faccio qualcosa per abbattere costoro».
QUEL «NON FASCISMO» che avevo conosciuto a Milano prima dell’Università e poi all’Università fino al 1943 era piuttosto un certo disprezzo dei colti per la retorica fascista – ma quali aquile, spighe, soli… è roba della quale non vale la pena di parlare. (…) mio padre non comperava il «Popolo d’Italia», ma si sentivano per forza i fascisti alla radio o nel film Luce. Per un pezzo mi è rimasta – forse tuttora – la diffidenza per i giornali. Ma era una sottovalutazione, forse un inconscio alibi. Non essere fascisti, o meglio essere non fascisti, non è lo stesso che essere antifascisti. E così anche a scuola. Dove paradossalmente i miei insegnanti non erano fascisti, erano stati formati prima.
Quella lenta invasione, pervasione del fascismo che Angelo d’Orsi descrive – quel libro è spiaciuto a Norberto Bobbio e anche a Pietro Ingrao -, mi spiega quel che a me, ragazzina, appariva il mondo attorno.
Non ricordo, da che l’età mi ha permesso di guardarmi in giro, che ci fosse il terrore. C’era il silenzio. I tagli erano già stati fatti, i comunisti già azzerati, e gli ebrei non li hanno cacciati fino al ’38.

 

 

10 – Intanto nel mondo

Ucraina
Il presidente francese Emmanuel Macron non ha escluso l’invio di aerei da combattimento a Kiev e potrebbe prendere in considerazione l’addestramento di piloti di jet da combattimento ucraini. Il presidente statunitense Joe Biden, invece, parlando con i giornalisti, ha affermato che Washington non invierà caccia F-16 all’Ucraina.
Ucraina-Russia
Il 31 gennaio il ministro degli esteri ucraino Dmytro Kuleba ha affermato che nei prossimi mesi il paese riceverà tra 120 e 140 carri armati occidentali. Si tratta di Leopard 2 tedeschi, Abrams statunitensi e Challenger 2 britannici. Lo stesso giorno l’esercito russo ha rivendicato la conquista di un villaggio a nord di Bachmut, nella regione orientale di Donetsk. Il 3 febbraio è previsto a Kiev un vertice tra l’Ucraina e l’Unione europea.

Pakistan
Il bilancio dell’attentato suicida commesso il 30 gennaio contro una moschea a Peshawar, nel nordovest del Pakistan, è salito ad almeno 88 morti. I taliban pachistani hanno ritirato la loro precedente rivendicazione. L’esplosione è avvenuta al momento della preghiera di mezzogiorno.

Burkina Faso
Almeno tredici persone – dieci gendarmi, due ausiliari dell’esercito e un civile – sono state uccise il 30 gennaio in un attacco commesso da sospetti jihadisti nel nord del paese. I gendarmi e i Volontari per la difesa della patria erano di stanza nella località di Falangoutou, nella regione del Sahel.

Uzbekistan
Il 31 gennaio il giornalista Daouletmourat Tajimouratov è stato condannato a 16 anni di carcere per “tentato golpe”. Tajimouratov era uno dei leader delle proteste dell’estate scorsa che chiedevano di mantenere l’autonomia del Karakalpakistan e la cui repressione ha causato la morte di almeno 21 persone. Il processo riguardava in tutto 22 persone, di cui 16 sono state condannate a pene comprese tra i 3 e i 16 anni di carcere per il loro coinvolgimento nei disordini.

Cina
Le autorità della provincia di Sichuan, nel sudovest del paese, hanno permesso alle coppie di avere un numero illimitato di figli. Nel 2022 la popolazione cinese è diminuita per la prima volta in sessant’anni. Dal 2021 la politica del figlio unico era stata variata a livello nazionale, consentendo tre bambini a famiglia.

Salute
La pandemia di covid-19, che sta entrando nel suo quarto anno e ha già ucciso milioni di persone, è ancora abbastanza grave da mantenere il livello massimo di allerta lanciato nel 2020, ha dichiarato il 30 gennaio l’Organizzazione mondiale della sanità.

Namibia
Il numero di rinoceronti a rischio di bracconaggio ha raggiunto il massimo storico lo scorso anno: 87 animali sono stati uccisi rispetto ai 45 del 2021, secondo i dati ufficiali del governo. La popolazione africana di rinoceronti è stata decimata nel corso dei decenni per alimentare la domanda di corno di rinoceronte che, nonostante sia fatto dello stesso materiale dei capelli e delle unghie dei rinoceronti, è apprezzato, soprattutto in Asia orientale, nella medicina tradizionale e nella gioielleria.

Francia
Il 31 gennaio più di 1,2 milioni di persone hanno partecipato alle manifestazioni in tutto il paese contro un progetto di riforma del sistema pensionistico che prevede un aumento dell’età della pensione da 62 a 64 anni. Secondo la confederazione sindacale Cgt, i manifestanti sono stati 2,8 milioni. L’adesione agli scioperi è stata invece inferiore rispetto alla prima giornata di mobilitazione, il 19 gennaio. Altre due giornate d’azione contro la riforma sono previste il 7 e l’11 febbraio.

Norvegia
Il Fondo sovrano norvegese ha annunciato il 31 gennaio di aver perso 1.637 miliardi di corone (più di 150 miliardi di euro) nel 2022 per le difficoltà sui mercati finanziari causate anche dalla guerra in Ucraina. Il fondo, creato nel 1990 per investire le entrate petrolifere del paese, ha registrato un rendimento negativo del 14,1 per cento.

Mali
Il 31 gennaio alcuni esperti nominati dalle Nazioni Unite hanno raccomandato l’apertura di un’inchiesta indipendente su possibili crimini di guerra e contro l’umanità commessi nel paese dall’esercito e dai mercenari del gruppo paramilitare russo Wagner. Gli esperti avevano ricevuto l’incarico dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite.

Canada
Il 31 gennaio è entrata in vigore nella provincia della British Columbia la depenalizzazione del possesso di piccole quantità di droghe pesanti, tra cui eroina, cocaina e fentanyl. La vendita rimane illegale, ma un adulto potrà detenere fino a 2,5 grammi per uso personale. Si tratta di un esperimento con durata triennale per cercare di contrastare la crisi da overdose di oppioidi che ha causato la morte di migliaia di persone nel paese.

Haiti-Stati Uniti
Tre haitiani con cittadinanza statunitense e un colombiano, accusati di aver partecipato all’omicidio del presidente haitiano Jovenel Moïse nel luglio 2021, sono stati estradati il 31 gennaio negli Stati Uniti. Altre tre persone erano state estradate nei mesi scorsi. I membri del commando armato coinvolto nell’omicidio, tra cui molti ex militari colombiani, sarebbero stati reclutati da un’azienda di sicurezza con sede in Florida.

Australia
Il 1 febbraio le autorità dello stato dell’Australia Occidentale hanno annunciato il ritrovamento di una capsula radioattiva che era stata persa alla metà di gennaio durante il trasporto in camion da una miniera gestita dal gigante angloaustraliano Rio Tinto. La capsula, che contiene cesio-137, è stata trovata sul bordo di una strada a sud di Newman, non lontano dalla miniera.

 

 

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