n° 50 – 17/12/2022. RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – La Marca (Pd): «dall’Inps qualche risposta dopo l’incontro con il direttore Colitti»
02 – Cos’è l’indice di Gini*: Serve per misurare le differenze tra i redditi, per quantificare le disuguaglianze in Europa.
03 – Carè(Pd)*: Sicurezza stradale, Proposta di legge per una guida consapevole. ” La sicurezza stradale è un valore da preservare.
04 – Nicola Caré (PD)*:: No alla mini naja, ampliare il servizio civile.
05 – Nel Mondo.
06 – Giulio Zoppello*: creare un’identità digitale europea è più complicato del previsto.
07 – Alexander Mühlauer,*: Quanto costa la Brexit . Gli economisti britannici cominciano a fare i conti con i danni che l’uscita dall’unione europea ha provocato al regno unito. Ma il governo cerca di
Evitare il dibattito.
08 – Cécile Boutelet*: potere collettivo. È la prima donna presidente del consiglio di fabbrica della multinazionale tedesca Volkswagen. Originaria della Calabria, si è fatta largo in un settore dominato dagli uomini
09 – Carè(Pd)*: incontro proficuo con deputato Bat Erdene Jadambaa della Mongolia,
10 – Alessandro Calvi*: A sinistra la questione non è morale ma politica – Davanti allo scandalo al parlamento europeo, che coinvolge persone legate alla sinistra italiana, bisogna usare bene le parole di Enrico Berlinguer: nella seconda repubblica i partiti sono diventati più strumento di potere che portatori di idee

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01 – LA MARCA (PD): «DALL’INPS QUALCHE RISPOSTA DOPO L’INCONTRO CON IL DIRETTORE COLITTI»
In seguito all’incontro tenutosi venerdì 2 dicembre, presso la sede generale dell’INPS a Roma, tra Francesca La Marca, Senatrice PD eletta nella ripartizione America Settentrionale e Centrale, e il Dottor Massimo Colitti, Dirigente della Direzione Centrale Pensioni, Area Normativa e Contenzioso in Regime Internazionale, Pagamento Pensioni all’estero dell’INPS, sono giunte dalla stessa Direzione informazioni importanti che riguardano i nostri connazionali all’estero.

«Una delle problematiche che ho riportato al Dottor Colitti – specifica la Senatrice La Marca – si riferiva alla difficoltà, per molti nostri connazionali, di partecipare correttamente alla campagna di verifica generalizzata dell’esistenza in vita. Tuttavia, i dati mostrano come tale campagna, eseguita tra i mesi di febbraio e giugno 2022, abbia dato buoni risultati. Essa ha interessato 36.954 pensionati residenti in Canada e 23.291 pensionati residenti in USA, di cui hanno completato l’accertamento dell’esistenza in vita rispettivamente 34.722 pensionati residenti in Canada e 21.432 residenti in USA. Questi numeri indicano – prosegue la Senatrice La Marca – che il 93,96% dei pensionati residenti in Canada e il 92,02% dei pensionati residenti in USA ha completato con successo il processo di verifica. Per quanto concerne le modalità di espletamento di tale processo la maggior parte dei pensionati residenti in Canada ha preferito affidarsi ai patronati che, ancora una volta, hanno svolto un ruolo fondamentale, mentre i pensionati residenti negli USA hanno perlopiù utilizzato lo strumento della posta ordinaria.»

«Tuttavia, – sottolinea la Senatrice La Marca – anche in considerazione delle problematiche riferite alle difficoltà incontrate da pensionate con cognome da nubile di perfezionare la riscossione personale agli sportelli di Western Union delle pensioni a loro intestate, l’INPS ha implementato un filo diretto con i patronati che potranno rivolgersi all’istituto scrivendo all’indirizzo pensioniestero@inps.it.»

«Il mio impegno – spiega la Senatrice La Marca – è fare in modo che la riscossione delle pensioni da parte dei nostri connazionali all’estero avvenga in maniera sempre più semplice e veloce. Se da un lato appare importante la semplificazione delle procedure, anche attraverso strumenti telematici, dall’altro è necessario che i pensionati meno propensi ad utilizzare le nuove tecnologie non vengano lasciati soli. L’interlocuzione aperta con l’INPS – conclude la Senatrice La Marca – mi permetterà di dare risposte più veloci e complete ai nostri connazionali pensionati all’estero.»
*(Sen. Francesca La Marca, Ph.D. – SENATO DELLA REPUBBLICA – Ripartizione Nord e Centro America Electoral College of North and Central America – Palazzo Madama – 00186 Roma, Italia
Email – francesca.lamarca@senato.it )

 

02 – Cos’è l’indice di Gini*: SERVE PER MISURARE LE DIFFERENZE TRA I REDDITI, PER QUANTIFICARE LE DISUGUAGLIANZE.
LE DISUGUAGLIANZE ECONOMICHE POSSONO ESSERE DEFINITE DA DIVERSI FATTORI. UNO DI QUESTI È IL REDDITO. PER MISURARE LE DIFFERENZE CHE SUSSISTONO TRA I REDDITI PERCEPITI, SI UTILIZZA L’INDICE DI GINI.

Questo numero può avere valori compresi tra 0% e 100%. Più è basso, più ci si avvicina a una situazione di perfetta uguaglianza in cui tutte le persone hanno il medesimo reddito. Più è alto invece più i redditi sono concentrati in un piccolo gruppo di persone. Se l’indice è pari a 100% significa che un’unica persona possiede tutto il reddito del gruppo considerato.

L’indice può essere applicato ai redditi lordi, al netto dell’imposta o all’imposta stessa. Inoltre, può essere utilizzato per calcolare altri indicatori per misurare le disuguaglianze e gli effetti di redistribuzione delle imposte.

DATI – Andando più nel dettaglio, l’indice misura quanto una distribuzione devia da una situazione di uguaglianza perfetta. Per capire cosa significa è necessario valutare alcuni dettagli su come si costruisce l’indice. Si considerano i percettori di reddito ordinandoli dal più povero al più ricco. Si ottiene quindi un andamento sommando a ogni persona il reddito di quelle precedenti nella scala costruita.

Attraverso il confronto con un andamento teorico in cui tutte le persone considerate ricevono lo stesso reddito porta a ottenere l’indice di Gini. Per questo motivo quindi, più è alto questo valore, più la situazione considerata devia dalla situazione di perfetta uguaglianza e sono maggiori le disuguaglianze economiche.

A livello europeo, i dati su cui si basa questo indicatore derivano dall’indagine Eu-silc che ha lo scopo di raccogliere dati comparabili tra gli stati membri sulle condizioni economiche dei cittadini. Su queste rilevazioni si costruisce l’indice di Gini.

In Bulgaria c’è il valore più alto dell’Unione europea
Indice di Gini nei paesi europei (2021)
FONTE: elaborazione su dati Eurostat

DA SAPERE. Il dato rappresenta l’indice di Gini calcolato per i vari paesi dell’Unione europea. Si tratta di una misura della disuguaglianza dei redditi. Più è alto il valore, maggiore è la concentrazione dei redditi in un gruppo ristretto di persone. Non è disponibile il dato della Slovacchia per l’anno considerato.

Lo stato in cui l’indice di Gini è più alto è la Bulgaria (39,7%). Seguono Lettonia (35,7%), Lituania (35,4%) e Romania (34,3%). I paesi caratterizzati dai valori minori sono Repubblica Ceca (24,8%), Belgio (24,1%) e Slovenia (23%). In Italia, l’indice è pari al 32,9%.

ANALISI
L’indice di Gini ha il vantaggio di riuscire a considerare tutti i redditi percepiti all’interno di un unico indice ed è importante per avere un’idea sulle disuguaglianze economiche di un territorio. Ci sono però delle limitazioni che vanno tenute in considerazione, come notato da World bank. Innanzitutto, considerare solo questo valore non dà un quadro completo della situazione. Ad esempio è possibile che questo indice aumenti (e quindi si incrementino le disuguaglianze dei redditi) ma che si abbassi il numero delle persone in condizione di povertà assoluta perché magari in generale è aumentato il livello dell’economia. Questo è un caso che capita più di frequente nei paesi in via di sviluppo.

Inoltre, l’indice calcolato per un territorio non si può aggregare con altri indici calcolati per altre economie. È quindi necessario calcolare per ogni stato un indice specifico. Infine, in alcuni casi un indicatore di welfare migliore potrebbe essere quello dei consumi, come nel caso delle economie emergenti. Anche se bisogna tenere conto che gli individui variano in base all’età e alle esigenze, aspetti che influenzano i consumi.
*( FONTE: elaborazione su dati Eurostat: disuguaglianze, economia – Dove: Unione europea)

 

03 – Carè(Pd)*: SICUREZZA STRADALE, PROPOSTA DI LEGGE PER UNA GUIDA CONSAPEVOLE. ” LA SICUREZZA STRADALE È UN VALORE DA PRESERVARE. HO PRESENTATO UN DISEGNO DI LEGGE CHE PERMETTE, CON SEMPLICI ED IMMEDIATI DISPOSITIVI, DI SALVARE VITE UMANE OLTRE AD INCIDERE IN MODO CONSIDEREVOLE, SUI COSTI DEL NOSTRO SISTEMA SANITARIO, PENSIONISTICO E SOCIALE.
Si chiede il casco obbligatorio per i ciclisti da 0 a 14 anni ed obbligatorio indipendentemente dall’età per i monopattini a motore, la distanza di 150 cm. in caso di sorpasso fra il mezzo a quattro e più ruote e il mezzo a due ruote, i sensori laterali obbligatori per tutti i mezzi di lunghezza superiore a ml.7, che segnalano la presenza di un ostacolo al conducente del mezzo pesante, l’obbligo per tutti i veicoli in circolazione con peso totale a pieno carico superiore a 3,5 ton. di munirsi di apposita segnaletica indicante gli angoli ciechi e l’obbligo per tutti i veicoli di nuova immatricolazione a quattro e più ruote di installare una camera car ossia una telecamera che registra tutti i movimenti frontali del veicolo. Nel mondo una persona muore ogni 24 secondi a causa di incidenti stradali. Ricordiamoci che guidare non è uno scherzo, ma una cosa molto seria. Quindi la strada deve essere percorsa in modo consapevole.” Cosi’ Nicola Carè, deputato del Pd.
*(On./Hon. Nicola Carè – Camera dei Deputati – Chamber of Deputies – IV Commissione Difesa – Defence Committee- Circoscrizione Estero, Ripartizione Africa, Asia, Oceania e Antartide – Electoral College – Africa, Asia, Oceania and Antarctica – Ufficio/Office: – Palazzo Montecitorio – Piazza del Parlamento, 24 – 00186 Roma-Italy Tel: +39 06 67 60 31 88)

 

04 – Nicola Caré*: NO ALLA MINI NAJA, AMPLIARE IL SERVIZIO CIVILE.
GIORNI FA IL NEO PRESIDENTE DEL SENATO IGNAZIO LA RUSSA AD UN’INIZIATIVA DEGLI ALPINI HA ANNUNCIATO CHE, ANCHE SE NON È TRA LE SUE PREROGATIVE, SI FARÀ PROMOTORE CON UN GRUPPO DI COLLEGHI DI PRESENTARE UNA PROPOSTA DI LEGGE PER ISTITUIRE LA MINI NAJA.
Si tratta di una proposta di legge che ciclicamente ricompare, in pratica un servizio militare volontario della durata di non più di 40 giorni, per formare e addestrare i giovani. In cambio ai partecipanti verrebbero riconosciuti dei crediti per la carriera scolastica o per i concorsi. Chiaramente la proposta del presidente La Russa potrebbe avere degli aspetti positivi ma sicuramente ha numerosi inconvenienti che rischiano di renderla costosissima, inutile e addirittura di rappresentare un aggravio di lavoro per le forze armate.

Ma andiamo con ordine. Il servizio di leva obbligatorio non è mai stato abolito, ma semplicemente sospeso. Modifica che ha avuto avvio nel 2004 con la Legge Martino, l’ultimo scaglione di militari leva è stato nel 2005 con i giovani nati nel 1985. In pratica sono trascorsi 18 anni da quel giorno e quelle costose strutture e quella complessa organizzazione che servivano a far funzionare la Leva obbligatoria non ci sono più, anzi, in alcuni casi destinate ad altri scopi.

Una mini naja avrebbe dei costi mostruosi, che non so se il nostro paese in questo momento è in grado di affrontare, non è in grado di creare alloggi, dare ospitalità ( vitto e alloggio), fornire i mezzi tecnologici e magari di avanguardia, per poter formare e addestrare questi giovani in soli 40 giorni! E poi quest’enorme mole di lavoro da chi sarebbe fatto? Sempre dagli stessi militari che attualmente, ricordiamoci, sono preparati e selezionati su base professionale e che già hanno numerosi compiti come: sicurezza del territorio, anti terrorismo, strade sicure, e addirittura aiutare nei casi estremi la protezione civile.

Depositerò una proposta di legge che va incontro a questo spirito che mi pare condiviso da più parti: di aiutare i giovani nella formazione sia tecnologica sia nella conoscenza delle istituzioni, che vede magari un ampliamento delle offerte che attualmente vengono fatte ai giovani che aderiscono al servizio civile.

Introdotto nell’ordinamento italiano nel 1972, di cui fu relatore il senatore Giovanni Marcora, inizialmente previsto come alternativa al servizio di leva, previsto esclusivamente per coloro che si fossero dichiarati obiettori di coscienza, oggi rappresenta un’occasione per molti giovani per avvicinarsi alle istituzioni e mondo del lavoro. In pratica i giovani che superano una selezione andranno, per un periodo che varia dagli otto mesi ai 12 mesi dipende del progetto, ad aiutare un’istituzione che contribuisce al benessere della società: Croce Rossa, Protezione civile, Vigili del fuoco e altri e altre associazioni che si occupano dei problemi delle nostre società. Ecco la proposta che io presenterò, e che spero di poter condividere con più forze politiche possibili, sarebbe quella di rafforzare ed ampliare quello che già avviene con il Servizio Civile. Aumentare le specialità, aggiungere le ore di formazione, in modo che possa essere non solo un aiuto per chi li ospita, ma un vero corso di formazione che avvicini i giovani alle istituzioni ma che possa essere anche di aiuto al famoso problema formativo che tanto penalizza in nostri giovani. Certamente anche in questo caso le risorse non sono enormi ma i tempi non sono lunghi. Un anno è sempre poco ma partiremmo da una macchina che già funziona con successo e con poco sforzo si potrebbe ampliare e raggiungere gli obiettivi di cui parla il presidente La Russa.

Dopo un anno potremmo, a secondo delle scelte dei candidati, avere dei ragazzi che sanno come comportarsi dinanzi un terremoto, a un incendio o a un malato, dinanzi a un disabile, un anziano e tanti altri casi. Invito tutti i colleghi a parlarne insieme potremmo forse con poco fare tanto per i nostri giovani e per il nostro Paese.

 

05 – Nel mondo(*)

Regno Unito
Le infermiere e gli infermieri di Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord sono entrati in sciopero alle 8 del 15 dicembre, dando il via alla più grande azione di protesta del settore nella storia del servizio sanitario nazionale. Il personale continuerà a fornire attività “salvavita” e alcune cure urgenti, ma è probabile che le operazioni di routine e altri trattamenti pianificati saranno interrotti. Il sindacato Royal college of nursing ha affermato che non è stata lasciata scelta dopo che i ministri si sono rifiutati di riaprire il negoziato sui salari. Il governo ha affermato che la richiesta di aumento salariale del 19 per cento è insostenibile.

Unione europea
L’inchiesta sulle presunte tangenti del Qatar ai parlamentari europei, tra cui l’ex vicepresidente Eva Kailī, si allarga progressivamente. Il nome del Marocco circolava da alcuni giorni tra diverse fonti europee, che indicano questo paese come uno dei lobbisti tradizionalmente più aggressivi a Bruxelles e che ora viene citato nel ramo italiano del “Qatargate”.

Ucraina-Russia
Il 14 dicembre è avvenuto un nuovo scambio di prigionieri tra Russia e Ucraina, a quasi dieci mesi dall’invasione lanciata da Mosca: 64 soldati ucraini e un cittadino statunitense residente in Ucraina sono stati consegnati alle autorità militari di Kiev. Nelle ultime settimane, centinaia di detenuti sono stati liberati e si sono registrati alcuni progressi nei colloqui per la ripresa delle esportazioni dalla Russia di un ingrediente usato nella produzione di fertilizzanti e per l’estensione di un accordo sul grano.

Perù
Il 14 dicembre il governo ha esteso lo stato di emergenza a tutto il paese a causa dell’intensità delle proteste che finora hanno causato sette morti. I manifestanti chiedono lo scioglimento del parlamento e la convocazione di nuove elezioni, sei giorni dopo che il presidente Pedro Castillo ha tentato di sciogliere il parlamento per indire una nuova costituente ed è stato arrestato. La presidente ad interim, Dina Boluarte, non è riuscita a placare il malcontento della popolazione, portando a crescenti scontri tra manifestanti e autorità. Il ministro della difesa ha dichiarato che la misura sarà prorogata per i prossimi trenta giorni.

Cina
Il ministero della sanità ha riconosciuto il 14 dicembre che i nuovi casi di covid-19 sono “in rapido aumento” a Pechino. La scorsa settimana, il governo ha abbandonato bruscamente la strategia zero covid, con la fine della quarantena automatica per le persone positive al test e l’interruzione delle campagne di test di massa. Secondo un funzionario dell’Organizzazione mondiale della sanità l’esplosione dell’epidemia si è verificata prima che il governo cinese cominciasse ad allentare le restrizioni sanitarie.

Fiji
Il leader dell’opposizione, Sitiveni Rabuka, ha annunciato che sta valutando un ricorso sull’esito delle elezioni legislative del 14 dicembre, i cui risultati sono stati ritardati a causa di una “anomalia” tecnica. Quando il conteggio è stato interrotto, Rabuka, ex primo ministro autore di due colpi di stato, era in testa rispetto al suo rivale Frank Bainimarama, ex golpista divenuto primo ministro e al potere da sedici anni.

Stati Uniti-Africa
Joe Biden ha riunito il 14 dicembre alla Casa Bianca i leader di sei paesi africani dove il prossimo anno si terranno le elezioni. Il presidente del Gabon Ali Bongo, della Nigeria Muhammadu Buhari, della Liberia George Weah, della Sierra Leone Julius Maada Bio, del Madagascar Andry Rajoelina e della Repubblica Democratica del Congo Félix Tshisekedi sono stati invitati, insieme alle loro delegazioni, a margine di un importante vertice sull’Africa a Washington. Gli Stati Uniti vigileranno per assicurarsi che le elezioni siano “libere, eque e credibili”, ha dichiarato il consigliere per la sicurezza nazionale.

Stati Uniti
David DePape, l’uomo accusato di avere aggredito il marito della presidente della camera dei rappresentanti Nancy Pelosi, aveva nel mirino altri personaggi pubblici, tra cui il figlio del presidente degli Stati Uniti, Hunter Biden, l’attore Tom Hanks e il governatore democratico della California Gavin Newsom. Lo ha riferito in tribunale il 14 dicembre un agente di polizia che ha interrogato DePape, che dovrà rispondere di sei accuse, incluso il tentato omicidio, per i fatti del 28 ottobre.
*(Fonte: Internazionale)

 

06 – Giulio Zoppello*: CREARE UN’IDENTITÀ DIGITALE EUROPEA È PIÙ COMPLICATO DEL PREVISTO.

GLI SNODI DEL PROGETTO: GLI APPALTI, I CINQUE CONSORZI LA BATTAGLIA SUGLI STANDARD, IL BRACCIO DI FERRO DELL’INDUSTRIA, IL CASO SPID, I COLOSSI DEL WEB

LA COMMISSIONE HA ASSEGNATO GARE PER 63 MILIONI DI EURO PER SVILUPPARE UN WALLET SU CUI CONSERVARE I NOSTRI DOCUMENTI DI IDENTITÀ, SULLA FALSARIGA DELLE APP DEL GREEN PASS. MA SU TUTTO IL RESTO SI LITIGA ANCORA. LE IMPRESE TEMONO LOCK-IN TECNOLOGICI. I COLOSSI DEL WEB SONO CONTRO IL CONSIGLIO EUROPEO. E SPID RISCHIA DI RIMANERE FUORI DALLA PARTITA

Inventare un sistema di identità digitale comune in Europa è più complicato del previsto. Sulla carta, l’idea è semplice. Tra qualche anno (l’obiettivo è il 2025) ogni cittadino dei 27 Stati dell’Unione avrà una app su cui potrà caricare i suoi documenti: carta di identità, patente, tessera sanitaria, ma anche documenti catastali della casa o titoli di studio. Quando deve dimostrare in qualche forma la propria identità, anziché fornire il singolo documento, sfodera la app europea. E solo lo stretto indispensabile per la richiesta. Vuoi sapere se sono maggiorenne? Ecco l’età. Hai bisogno di controllare se la mia patente è valida? Qui la data di scadenza.
Un meccanismo simile a quello del green pass, che è stato per Bruxelles un imprevisto banco di prova di un progetto più ampio coltivato da tempo. E che ora la Commissione vuole mettere in pratica, sviluppando già nel 2023 i primi casi d’uso. Ma, come dicevamo, creare questa identità digitale comune ha generato varie complicazioni. Politiche, tecniche, commerciali. Tant’è che un operatore del settore pagamenti in un documento interno consultato da Wired, ha giudicato la tabella di marcia della Commissione “ambiziosa”.

LE BATTAGLIE NASCOSTE DIETRO AL SISTEMA EUROPEO DI IDENTITÀ DIGITALE
Standard da definire. Imprese in lizza per assicurarsi gli appalti per app e servizi. Stati divisi sugli schemi di sicurezza. Le barricate dell’Europarlamento sulla privacy in rete. La costruzione di un’identità digitale comunitaria scatena scontri e divisioni. L’inchiesta di Wired

GLI APPALTI
Non che Bruxelles non si sia messa di impegno. Anzi. All’identità digitale tiene troppo. Tant’è che ha assegnato per tempo gli appalti per sviluppare la app di identità digitale e per metterla alla prova in alcuni casi d’uso: con la patente di guida, i documenti sanitari e i titoli di studio. La prima gara vale 26 milioni di euro e riguarda la creazione vera e propria dell’app, il cosiddetto wallet dell’identità digitale (che poi ogni Paese potrà adattare, come per le app del green pass). Bruxelles ha scelto un consorzio formato da due società informatiche: NetCompany-Intrasoft, controllata della danese Intrasoft, 3,6 miliardi di euro di giro d’affari nel 2021, e la svedese Scytáles.
La seconda, che mette in palio 37 milioni, invece copre le applicazione del sistema comune di identità digitale. In gara ci sono cinque consorzi (e non quattro, come ha ricostruito Wired inizialmente in assenza di informazioni trasparenti di Bruxelles sui partecipanti). E il 14 dicembre ciascuno ha ricevuto il via libera all’offerta e una fetta dell’appalto, come hanno confermato una fonte della Commissione europea coinvolta nel progetto, che ha richiesto l’anonimato per poter contribuire a questo articolo, e alcune note dei consorzi stessi. Tutti contenti, quindi.

GLI STATI EUROPEI VOGLIONO METTERE TUTTI I VOLTI DI CHI HA UNA PATENTE IN UN MAXI-SISTEMA DI RICONOSCIMENTO FACCIALE
La proposta è nella revisione del Consiglio Ue di Prüm II, che regola lo scambio di informazioni tra le polizie dell’Unione. La presidenza francese spinge anche per ricerche di massa sui dati del dna
I cinque consorzi
Il primo vincitore è Potential. Ne fanno parte 148 componenti da 20 paesi dell’Unione, tra cui Austria, Grecia e Spagna. Francia e Germania sono al timone. Per l’Italia ci sono, tra gli altri, Dipartimento per la trasformazione digitale e il gruppo Namirial. In cassa ha 60 milioni di euro che dall’anno prossimo investirà in applicazioni dell’identità digitale in ambito bancario e sanitario, dalle telecomunicazioni ai trasporti. Potential conta di consegnare il suo bouquet di servizi entro aprile 2025.
L’Italia è anche tra i sei Paesi dietro Nobid, consorzio a trazione nordica (ne fanno parte anche Islanda, Norvegia, Lettonia, Danimarca e Germania) con focus sui pagamenti. Rappresentano il Belpaese Intesa Sanpaolo, PagoPa, la società partecipata dal ministero dell’Economia e delle finanze (Mef) che ha l’incarico di sviluppare servizi digitali per gli enti pubblici, e Abilab, il braccio tech dell’Associazione bancaria italiana. Sono coinvolti anche Poste Italiane, l’Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, la software house Intesi group e Infocert, galassia del gruppo Tinexta che si occupa di fattura elettronica, posta elettronica certificata e identità digitale.
Infocert, Intesi, eWitness (che si occupa di dare valore legale alle transazioni digitali) e Infocamere, società espressione delle Camere di commercio, sono iscritti al consorzio European digital wallet, che comprende anche alcuni paesi extra-Ue, come Svizzera, Ucraina, Norvegia e Regno Unito. Infocert è anche dentro Trace4Eu. Infine c’è Digital credential 4 Europe (in cui l’Italia è presente), che copre i settori scuola, formazione e sicurezza sociale.

LA BATTAGLIA PER LA PRIVACY NEL CUORE DELL’EUROPA
Il Garante europeo per la protezione dei dati fa ricorso contro il nuovo regolamento dell’Europol, che assegna all’agenzia di polizia grandi poteri sull’uso delle informazioni. Uno schiaffo a Consiglio ed Europarlamento e una domanda: il blocco dei 27 vuole essere ancora il campione della privacy?

LA BATTAGLIA SUGLI STANDARD
Dal punto di vista industriale, a conti fatti, si può partire. Quel che manca, però, sono gli accordi tecnici e politici. Partiamo dal primo. Il consorzio che ha vinto lo sviluppo del wallet deve basarsi su una cornice comune di regole (Architecture and reference framework, arf). Affidata a un comitato di esperti, è ancora in fase di scrittura. Una delle ultime versioni del testo, che Wired ha potuto visionare, è tartassata di critiche da parte degli operatori del settore. Tempi troppo ottimistici, termini non chiari e pezzi mancanti.

MANCANO GLI STANDARD, PER ESEMPIO. L’Europa ha scelto principalmente la strada della Mobile driving licence (Mdl), che funziona anche offline, garantendo quindi maggiore flessibilità se non ci fosse campo, ma, per esempio, non permette di creare credenziali anonime. Non ha chiuso tuttavia le porte all’altro candidato, lo standard del World wide web consortium (W3C) guidato da sir Tim Berners-Lee, che lavora su credenziali “anonime” e multiple e non su un identificativo univoco che potrebbe consentire il tracciamento del cittadino. Ma se e quando lo standard del W3C potrà entrare nel wallet comunitario è pratica rimandata, al momento, a un aggiornamento futuro dell’accordo, senza tempi precisi né scadenze.

INTERNET DEVE ESSERE AL SERVIZIO DEL “BENE PUBBLICO”: IL MANIFESTO DI TIM BERNERS-LEE

IL BRACCIO DI FERRO DELL’INDUSTRIA
Gli operatori sono preoccupati, come emerge dai documenti visionati da Wired. Per il fornitore di identità norvegese Signicat e la tedesca Spherity, che lavora con Ethereum, il rischio è che la revisione del regolamento sull’identità europea, Eidas 2.0, dia più potere agli Stati di decidere come sviluppare questi sistemi. E in assenza di standard condivisi già ora, chi sta investendo in specifiche tecnologie o innovazioni potrebbe ritrovarsi ad avere scommesso sul cavallo sbagliato perché le cancellerie, nel frattempo, decidono di andare in tutt’altra direzione.
Spherity suggerisce di far sapere alla Commissione “che questa continua incertezza è davvero un grosso problema per il settore commerciale e per la competitività digitale dell’Europa”. Secondo gli esperti di Visa, questo negoziato sta prendendo più tempo del previsto. Risultato? “Questo realisticamente richiederà più tempo dei 12 mesi” previsti da Bruxelles. E sempre secondo gli osservatori del colosso dei pagamenti, la Commissione “potrebbe essere riluttante ad aggiornare periodicamente” i suoi standard, rischiando così di tagliare fuori il wallet e i suoi cittadini dagli ultimi progressi di tipo tecnologico.

NOTIFICHE COME RACCOMANDATE E BONUS IN AUTOMATICO: IL CANTIERE DI PAGOPA PER NUOVI SERVIZI PUBBLICI DIGITALI
Al via il test della piattaforma delle notifiche digitali per integrare pec e raccomandate. A fine anno un sistema di rimborso automatico degli acquisti sostenuti da bonus. Il numero uno Virgone racconta i progetti dei prossimi mesi per l’app Io e PagoPa

IL CASO SPID
E per l’Italia c’è un problema in più. Perché sul sistema comune di identità digitale si è espresso il Consiglio europeo, dove siedono gli Stati. Che nei giorni scorsi hanno dato il via libera alla loro posizione sul wallet. E tra le varie decisioni hanno definito i livelli di garanzia (level of assurance) che il sistema di identità dovrà avere. La scelta è ricaduta sul livello alto (il maggiore di tre), che è quello, per intenderci, della carta di identità, anche elettronica: rilascio in presenza e chip crittografico sulla carta. Il che taglia fuori il Sistema pubblico di identità digitale italiano (Spid), giudicato di livello sostanziale. Un gradino sotto.
“L’Italia non si è schierata in Consiglio e così rischiamo di buttare a mare le cose fatte con Spid, il programma di identità digitale più diffuso in Europa – dice a Wired Carmine Auletta, responsabile innovazione e strategia di Infocert -. Se passa la linea del Consiglio, 33 milioni di identità Spid non potranno essere utili al wallet europeo”.
Molti Paesi hanno suggerito al Consiglio di non accordarsi sul massimo livello, ma di tenersi su quello sostanziale. “Svezia, Polonia, Danimarca e Belgio erano per un livello sostanziale”, dice Auletta. Ma la richiesta non è stata ascoltata. A spingere per il livello alto è la Germania, che ha investito sulla carta di identità elettronica, assegnata a tutti i cittadini. “Ma tra gennaio e febbraio 2022 la Germania ha fatto mezzo milione di transazioni con la sua carta – attacca Auletta, basandosi su dati del governo federale tedesco – mentre in Italia con Spid siamo a 23,6 milioni solo nell’ultima settimana di novembre”. Ad Auletta funzionari dell’Agenzia per l’Italia digitale (Agid) avrebbero detto di non aver difeso Spid poiché non sarebbero riusciti a negoziare una posizione comune con altri Stati dell’Unione.
Fatto che sta che contro questo voto Assocertificatori, l’associazione dei fornitori di servizi fiduciari di cui Auletta è presidente, e il Cloud signature consortium, associazione internazionale tra i cui fondatori c’è Infocert, intendono muoversi ora che la palla passa al Parlamento europeo, che dovrebbe esprimersi sul tema a febbraio per chiudere il negoziato a tre (trilogo) con Consiglio e Commissione.
Secondo una fonte della Direzione generale Connect della Commissione, che ha richiesto l’anonimato per contribuire a questo articolo, quello di Spid sarebbe tuttavia un falso problema, perché il Consiglio ha lasciato aperta la possibilità di fare il riconoscimento da remoto (e non di persona) per chi ha questo tipo di identità digitali per passare al livello alto. Un escamotage che permetterebbe di salvare Spid, attrezzando sportelli virtuali per la conversione dell’identità da sostanziale ad alto.
WIREDLEAKS, COME MANDARCI UNA SEGNALAZIONE ANONIMA

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I COLOSSI DEL WEB
Sempre che a spuntarla sia la linea del Consiglio. Che è andata di traverso anche alle piattaforme del web. Il testo contempla livelli minimi di sicurezza e interoperabilità tra i certificati emessi dai gestori online e il wallet europeo. Secondo Mozilla, la fondazione dietro Firefox, questo minerebbe sicurezza online, tanto da raccogliere l’appoggio di Google e Apple. La Electronic frontier foundation (Eff), una fondazione sui diritti digitali, ha accusato il Consiglio di voler imporre alle piattaforme di riconoscere e accettare i certificati emessi dagli Stati europei per l’identificazione online, anche se queste li ritengono non sicuri e potenzialmente dannosi per i propri utenti.
Un’accusa che Bruxelles rispedisce al mittente. Nessuno vuole mollare la presa. Per gli Stati è una questione di sicurezza, di sovranità e di controllo dei dati. Mentre per le aziende ballano miliardi. Bruxelles ha stimato che i benefici oscillano tra 3,9 e 9,6 miliardi tra risparmi e valore aggiunto. Con un’adozione del 67%, già 500 milioni di investimenti potrebbero moltiplicarsi in opportunità economiche per 1,2 miliardi in dieci anni, con nuovi posti di lavoro tra 5mila e 27mila unità.

“A LIVELLO EUROPEO, I SISTEMI DI IDENTITÀ DIGITALE CHE NEGLI SCORSI ANNI STAVANO ATTRAVERSANDO UNA FASE DI RAPIDO SVILUPPO HANNO CONTINUATO IL PERCORSO DI CONSOLIDAMENTO E DIFFUSIONE TRA UTENTI E AZIENDE, ANCHE SE IL RITMO DI CRESCITA STA PROGRESSIVAMENTE RALLENTANDO”, è la conclusione di un’analisi dell’osservatorio sull’identità digitale della School of management del Politecnico di Milano. Davanti a questa frenata, si fa strada l’idea del wallet.
MA SARÀ UNA STRADA IN SALITA.
*(Fonte: Wired di Giulio Zoppello, giornalista ed inviato, storyteller, ufficio stampa, moderatore e social media manager. Collabora con Esquire, Wired e ScreenWEEK )

 

07 – Alexander Mühlauer,*: Quanto costa la Brexit. GLI ECONOMISTI BRITANNICI COMINCIANO A FARE I CONTI CON I DANNI CHE L’USCITA DALL’UNIONE EUROPEA HA PROVOCATO AL REGNO UNITO. MA IL GOVERNO CERCA DI EVITARE IL DIBATTITO

Se c’è un aspetto della Brexit che mette d’accordo gli esperti britannici è che l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea ha danneggiato economicamente il paese. Il problema è solo capire l’entità del danno. Alla London school of economics ci provano da tempo. In uno studio pubblicato il 1 dicembre i ricercatori dell’istituto si sono chiesti se i prodotti alimentari siano diventati più cari in seguito alla Brexit. La risposta è stata: sì, nettamente più cari.
Dopo l’uscita dall’Unione europea, affermano, i prezzi dei prodotti alimentari sono aumentati del 3 per cento all’anno. “Il Regno Unito è passato da buone relazioni commerciali con pochi ostacoli a complesse procedure con controlli e moduli per far entrare le merci”, ha detto Richard Davies, uno degli autori dello studio. Sia gli esportatori europei sia gli importatori britannici hanno scaricato sui consumatori almeno la metà dei costi aggiuntivi legati alla Brexit.
Studi come questo hanno acceso un dibattito nel paese: come fare i conti con le conseguenze economiche dell’uscita dall’Unione?
Se finora se n’è discusso poco, la colpa è soprattutto della politica. A lungo la Brexit è rimasta un tabù, un tema che i conservatori hanno semplicemente evitato. Ma ora è tornata a essere un argomento di discussione a Westminster, soprattutto da quando circola la notizia che il primo ministro Rishi Sunak vorrebbe riallacciare strette relazioni commerciali con Bruxelles. I sostenitori della Brexit hanno subito protestato indignati, e Sunak ha dovuto smentire le voci.
Quindi la questione è risolta? Per niente. Secondo l’Office for budget responsibility (Obr, un’agenzia indipendente che analizza le finanze pubbliche), nel lungo periodo la Brexit farà calare la produzione economica britannica del 4 per cento. Il cancelliere dello scacchiere Jeremy Hunt ha detto di non credere a questi dati, sottolineando invece i vantaggi che arriveranno dai nuovi accordi commerciali resi possibili dalla Brexit. Però c’è un problema: difficilmente gli accordi con gli Stati Uniti e l’India annunciati dai sostenitori della Brexit arriveranno presto, ammesso che arrivino. Mentre quelli già conclusi, per esempio con il Giappone e l’Australia, difficilmente manterranno le promesse iniziali. L’accordo commerciale con l’Australia dovrebbe incidere sull’economia solo per lo 0,08 per cento del pil.
Le prospettive per il Regno Unito sono piuttosto fosche. Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) nei prossimi due anni il paese dovrebbe registrare la crescita più bassa del G20, Russia esclusa. È probabile che la causa di queste previsioni sia in larga parte la Brexit. Per Thomas Sampson, un altro economista della London school of economics, da quando è stata completata la Brexit gli scambi commerciali del
Regno Unito con l’Unione europea sono diminuiti del 15 per cento. L’ambasciatore tedesco a Londra, Miguel Berger, ha condiviso su Twitter un grafico che riporta i più importanti partner commerciali tedeschi nel tempo. “Il Regno Unito era tradizionalmente il quinto partner commerciale della Germania. Nel 2022 non sarà più tra i primi dieci”, ha scritto Berger.

UNA TEMPESTA
Il problema è che chiunque discuta con i numeri alla mano non ha vita facile nel dibattito sulla Brexit, animato soprattutto dalle emozioni. Ne sa qualcosa Mark Carney, l’ex capo della Banca d’Inghilterra. In un articolo sul Financial Times ha usato un paragone che ha infastidito i sostenitori della Brexit. “Mettiamola così”, ha scritto Carney, “nel 2016 l’economia britannica era un buon 90 per cento di quella tedesca, ora è meno del 70 per cento”. Si è scatenata una tempesta. Eppure il confronto di Carney è ancora un argomento discusso, per esempio dell’industria automobilistica. Un manager del settore ha dichiarato: “Sappiamo tutti che la Brexit ha reso il nostro paese più povero.
Ora si tratta di trarne il meglio”. Dal punto di vista economico, la cosa migliore sarebbe allentare le regole sull’immigrazione, diventate più severe dopo la Brexit. Secondo le aziende, nel Regno Unito non c’è abbastanza manodopera per soddisfare le esigenze di molti settori. Particolarmente ricercati sono i macellai, i camionisti e i lavoratori della gastronomia. L’economista Charles Good hart ritiene che il sistema di visti introdotto dal governo non soddisfi le esigenze dell’economia. “Non abbiamo bisogno di persone qualificate, ce ne sono abbastanza. Ci servono persone che svolgano i lavori che i britannici non vogliono fare”, ha detto in una recente conferenza.
Ma questo punto di vista non è condiviso dal governo, soprattutto dal ministero dell’interno, il quale fa notare che nella prima metà del 2022 il Regno Unito ha registrato il più alto numero di immigrati di sempre. Questo record si spiega soprattutto con il fatto che molti studenti stranieri sono arrivati solo ora, dopo aver cominciato gli studi online durante la pandemia di covid-19.
Altre persone hanno cercato rifugio nel Regno Unito dall’Ucraina, dall’Afghanistan e da Hong Kong. La ministra dell’interno Suella Braverman ha elogiato la “generosità del popolo britannico”, ma ha promesso di continuare a lavorare per mantenere il controllo sui confini, riconquistato dopo la Brexit.

DA SAPERE. SEGNI DI PENTIMENTO.
Sei anni e mezzo dopo il referendum sulla Brexit del 2016, tre anni dopo l’uscita formale dall’Unione europea e due anni dopo la firma di un accordo commerciale con Bruxelles, nel Regno Unito molti si stanno pentendo della scelta, scrive il New York Times. “Il motivo è chiaro: la crisi economica più grave dell’ultima generazione, di certo peggiore di quella sperimentata dai vicini europei. Non tutto ovviamente è riconducibile alla Brexit, ma i sofferti rapporti con il resto d’Europa hanno svolto indubbiamente un ruolo e hanno reso la scelta di uscire dall’Unione un ottimo bersaglio per i cittadini ansiosi di trovare qualcosa con cui prendersela per la situazione attuale”. Secondo un sondaggio condotto di recente dalla società di ricerche YouGov, solo il 32 per cento dei britannici pensa che la Brexit sia stata una buona idea. Il 56 per cento, invece, sostiene che sia stato un errore. Tra chi nel 2016 ha votato a favore dell’uscita dall’Unione europea, solo il 70 per cento continua a credere di aver fatto la scelta giusta, mentre negli ultimi mesi i brexiter pentiti sono passati dal 4 al 19 per cento. Tra chi ha votato per restare in Europa il 91 per cento continua a pensare che la Brexit sia sbagliata e solo il 5 per cento dichiara di aver cambiato idea.
*(Fonte: Internazionale. Alexander Mühlauer, Süddeutsche Zeitung, Germania)

 

08 – Cécile Boutelet*: POTERE COLLETTIVO. È LA PRIMA DONNA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DI FABBRICA DELLA MULTINAZIONALE TEDESCA VOLKSWAGEN. ORIGINARIA DELLA CALABRIA, SI È FATTA LARGO IN UN SETTORE DOMINATO DAGLI UOMINI

Il settore 18 dello storico stabilimento della Volkswagen a Wolfsburg, in Bassa Sassonia, è uno dei luoghi principali del made in Germany. Lì c’è la sede del betriebsrat, il consiglio di fabbrica dell’azienda, una specie di stato nello stato che rappresenta i lavoratori del primo gruppo industriale tedesco, per la maggior parte iscritti al grande sindacato dei metalmeccanici, l’Ig metall, che ne ha 2,2 milioni in tutto il paese. Il consiglio di fabbrica è un organismo unico nel suo genere, indispensabile nelle scelte della casa automobilistica che ha 630mila dipendenti nel mondo e 295mila in Germania. Dall’estate 2021, e per la prima volta in 75 anni di storia, alla sua guida c’è una donna: Daniela Cavallo, 47 anni. È stata lei a condurre le trattative, durate quasi un mese, che il 23 novembre hanno portato all’accordo per aumentare dell’8,5 per cento gli stipendi dei dipendenti della Germania occidentale, in modo da rispondere alla forte inflazione. La trattativa è stata un test di credibilità per Cavallo che, dalla sua nomina, ha già superato diverse prove del fuoco, a partire dallo scontro con Herbert Diess, all’epoca amministratore delegato dell’azienda, che in seguito è stato licenziato.
“Non bisogna sottovalutare Daniela Cavallo”, dichiarano molti osservatori (maschi), colpiti dalla sua combattività.
Capelli lunghi castani, tailleur e sorriso affabile, Cavallo non ha di certo lo stile austero e a volte bellicoso dei suoi predecessori né tanto meno quello del suo mentore, Bernd Osterloh, ex presidente del consiglio di fabbrica dal carattere vulcanico.
Dopo lo scandalo del 2015 sulle emissioni truccate dei motori diesel, la nuova generazione alla guida della Volkswagen concepisce il potere come un esercizio meno dittatoriale e più collettivo. “Lo scontro continuo non ci permette di evolvere”, dice Gunnar Kilian, direttore delle risorse umane dell’azienda, che in passato ha lavorato a stretto contatto con Cavallo al consiglio di fabbrica. “Credo che questo pensiero sia condiviso anche da Daniela Cavallo e da Oliver Blume, il nuovo amministratore delegato del gruppo. Per raggiungere dei compromessi, il dialogo dev’essere onesto”.
È per questo che Cavallo nei suoi discorsi fa molta attenzione a eliminare tutti gli aspetti che potrebbero indisporre i suoi interlocutori. A proposito del suo scontro epico con Herbert Diess, allontanato dall’azienda anche a causa dei rapporti tesi con il sindacato, lei parla di “divergenze sull’applicazione della strategia” e insiste sul fatto che Diess merita “rispetto e riconoscenza”. Sul suo modo di esercitare il potere dentro un sindacato dominato dagli uomini, si limita a commentare che “ognuno deve trovare il suo stile” e che la sua forza sta nel “rappresentare tutti i lavoratori”.
Non ci sono aneddoti sulla sua vita privata, si sa solo che è sposata e ha due figlie.
Nella città industriale di Wolfsburg, in cui la dimensione collettiva ha sempre la precedenza, tutto quello che può somigliare al narcisismo è malvisto. Cavallo, figlia di immigrati italiani originari della Calabria, venuti a lavorare a Wolfsburg negli anni sessanta, vuole essere considerata nient’altro che la rappresentante delle lavoratrici e dei lavoratori e testimone del mito della Volkswagen. Eppure incarna lo stesso una rivoluzione all’interno della casa automobilistica, e anche dell’Ig metall, che in Germania ha un peso economico e politico immenso.

UN EQUILIBRIO DELICATO
A chi appartiene la Volkswagen? È la domanda che aiuta a capire il delicato equilibrio di poteri all’interno dell’azienda. A Wolfsburg si otterranno risposte diverse a seconda di chi risponde. L’azienda che Adolf Hitler aveva voluto per incarnare la sua idea di “auto del popolo”, dopo la seconda guerra mondiale rimase senza proprietari. I britannici, che allora occupavano la regione, si limitarono a rilanciare la produzione, senza rivendicare la proprietà sugli impianti. La Ig metall riteneva che l’azienda appartenesse ai lavoratori, sostenendo che nel 1937 i nazisti avevano espropriato i fondi dei sindacati tedeschi.
L’incertezza è durata fino al 1960, quando la Volkswagen fu trasformata in società per azioni. Ma la cosiddetta legge Volkswagen del 1960 garantisce ancora alla Bassa Sassonia una quota del 20 per cento con cui bloccare, se vuole, le decisioni più importanti. Quando la regione si allea con il consiglio di sorveglianza, chela legge tedesca detiene la metà dei seggi al consiglio di vigilanza, insieme possono fermare qualsiasi decisione. Anche la famiglia Porsche, oggi azionista di maggioranza del gruppo, non può imporre nulla senza il loro consenso. Oltre a questa organizzazione ci sono anche tradizioni orgogliosamente difese dai lavoratori. Dal dopoguerra la Volkswagen ha un proprio contratto collettivo, versa stipendi tra i più alti dell’industria automobilistica e offre privilegi ai propri dipendenti.
Anche se esteticamente non è granché, la città di Wolfsburg è un’oasi di ricchezza nella Germania del nord, paragonabile a Francoforte o a Monaco. La sede di Wolfsburg è una delle più potenti e ricche dell’Ig metall, un trampolino per le carriere e una vetrina del sindacato. Per questo la Volkswagen è una realtà atipica, a metà strada tra un’azienda statale, una familiare e una multinazionale. Non esistono esempi di esercizio del potere e di successo economico simili, con un rapporto quasi paritario tra capitale e lavoro.
Questo modello però non è senza macchia: all’inizio degli anni duemila alcuni fondi neri messi a disposizione dalla Volkswagen offrivano ai rappresentanti sindacali viaggi di lusso con tanto di prostitute per “facilitare” le trattative. Quando è venuto fuori, nel 2005, è scoppiato uno scandalo. Proprio intorno al 2000, la giovane Daniela Cavallo muoveva i primi passi come rappresentante del personale.
Quando nel 2002 la nuova legge tedesca ha imposto una quota obbligatoria di donne alle elezioni per il rinnovo delle rappresentanze sindacali, lei si è candidata con l’Ig metall ed è stata eletta. Sostenuta da Bernd Osterloh, ha cominciato la sua scalata. “È vero, sono figlia delle quote rosa.
Nel 2002 non mi avrebbero mai cercato se non ci fossero state. Ma di certo non è grazie alle quote se sono stata nominata presidente del consiglio di fabbrica”, dice con orgoglio. “Daniela Cavallo sa farsi valere”, commenta Christiane Benner, numero due
dell’Ig metall, che la conosce bene. “Incarna anche un cambiamento di paradigma: è la prima volta che una donna diventa presidente del consiglio di fabbrica di un’azienda automobilistica, in cui le donne rappresentano solo il 15 per cento dei dipendenti. La vediamo nei dibattiti, sui giornali economici. È un modello di cui abbiamo bisogno”, continua. “È nei settori della metallurgia e dell’elettronica che girano gli stipendi più alti in Germania, quelli che permettono alle donne di essere autonome dal punto di vista economico”.
Alla fine la cittadinanza Daniela Cavallo sta infrangendo un altro tabù: nata in Germania Ovest nel 1975, ha chiesto la cittadinanza tedesca solo nel 2021 per poter votare alle elezioni, quando già dal 2000 la doppia cittadinanza era accessibile a tutti i cittadini dell’Unione europea. Se le chiedi perché, parla del suo forte legame con l’Italia e del fatto che si sente una cittadina europea, condizione che non le faceva sentire la mancanza della cittadinanza tedesca. “Poi però mi sono accorta dell’ascesa dell’estrema destra in Germania e ho deciso che dovevo oppormi con ogni mezzo”, racconta. Il fatto che una persona che ha ricoperto incarichi importanti abbia preso la cittadinanza così tardi la dice lunga sul grado di integrazione degli stranieri nella politica tedesca.
Negli ultimi cent’anni i lavoratori immigrati – italiani, ma anche turchi, polacchi, europei dell’est – hanno contribuito alla ricchezza tedesca, ringiovanendo il paese. Nonostante questo, in Germania è difficile sentire le loro opinioni sulle questioni politiche. “Facilitare l’accesso alla doppia nazionalità per i cittadini dell’Unione europea è una rivendicazione chiara dell’Ig metall”, aggiunge Christiane Benner. “La partecipazione politica dei lavoratori stranieri deve diventare un diritto acquisito nel nostro paese”.

(Daniela Cavallo. 1975 Nasce a Wolfsburg, in Germania, figlia d’immigrati calabresi. 1994 Entra alla Volkswagen come impiegata e in seguito si forma come manager. 2002 Comincia a far parte dei consigli di sorveglianza di diversi marchi del gruppo (Seat, Skoda, Porsche, Traton). 2021 Diventa presidente del consiglio di fabbrica, l’organo che rappresenta i lavoratori. 2022 Si scontra con l’amministratore delegato Herbert Diess, che in seguito viene licenziato dall’azienda.)
*( Fonte : Internazionale, Cécile Boutelet, giornalista Le Monde, Francia.)

 

09 – Carè(Pd)*: INCONTRO PROFICUO CON DEPUTATO BAT ERDENE JADAMBAA DELLA MONGOLIA.
Un piacere oggi ricevere alla Camera dei deputati una delegazione guidata dall’on.Bat Erdene Jadambaa, membro del parlamento della Mongolia, dall’ Ambasciatore della Mongolia in Italia S.E. Sig.ra Narantungalag Tserendorj, dall’Ambasciatore d’Italia in Mongolia S.E. Sig.ra Laura Botta e da B.Bolormaa funzionario del Ministero dell’Alimentazione e dell’Agricoltura e dell’Industria.
Un’occasione per confrontarci e per rafforzare le relazioni politiche, economiche e culturali tra i nostri due Paesi. Abbiamo analizzato la possibilità della creazione delle sinergie tra gli imprenditori italiani e gli imprenditori della Mongolia. Vorremmo firmare una intesa con la Mongolia che ci consentirà di essere presenti per scambiare il know-how e aggregare associazioni, imprese e interessi progettuali per innalzare la qualità delle relazioni internazionali promuovendo le buone pratiche di internazionalizzazione.
Nel settore tessile – con la produzione della lana e del cachemire più pregiato al mondo -, nell’energia, nell’immobiliare, nella sanità, nelle infrastrutture, nell’agroalimentare, nei trasporti e nel turismo ci sono ampi spazi di manovra per accrescere l’interscambio e generare lavoro. E questo è l’obiettivo a cui lavoreremo da subito. Schiacciata da Russia e Cina, la Mongolia ha un valore simbolico e geopolitico importante. Sono sconfinate le risorse naturali di cui dispone.Una democrazia destinata a crescere in maniera notevole nei prossimi anni.” Così Nicola Carè deputato del Pd.

*(On./Hon. Nicola Carè – Camera dei Deputati – Chamber of Deputies – IV Commissione Difesa – Defence Committee – Circoscrizione Estero, Ripartizione Africa, Asia, Oceania e Antartide
Electoral College – Africa, Asia, Oceania and Antarctica – Ufficio/Office: – Palazzo Montecitorio – Piazza del Parlamento, 24 00186 Roma-Italy – Tel: +39 06 67 60 31 88)

 

10 – Alessandro Calvi*: A SINISTRA LA QUESTIONE NON È MORALE MA POLITICA – DAVANTI ALLO SCANDALO AL PARLAMENTO EUROPEO, CHE COINVOLGE PERSONE LEGATE ALLA SINISTRA ITALIANA, BISOGNA USARE BENE LE PAROLE DI ENRICO BERLINGUER: NELLA SECONDA REPUBBLICA I PARTITI SONO DIVENTATI PIÙ STRUMENTO DI POTERE CHE PORTATORI DI IDEE.

La questione morale posta nel 1981 da Enrico Berlinguer non aveva a che fare con un’idea astratta di onestà o di purezza morale, ma con il rapporto tra politica e potere. Nelle parole che il segretario del Partito comunista italiano (Pci) affidò a Eugenio Scalfari, e che confluirono in una famosa intervista pubblicata su Repubblica, non c’era nessun moralismo. C’era invece una asciutta ma durissima denuncia del sistema di potere che dal dopoguerra si era consolidato in particolare, ma non soltanto, intorno alla Democrazia cristiana.

“I partiti non fanno più politica”, affermava in quell’intervista Berlinguer, rivendicando la diversità del Pci e spiegando che le altre forze politiche si erano trasformate in macchine di potere e clientela, e gestivano gli interessi più disparati senza più “alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune”. “La loro stessa struttura organizzativa”, diceva ancora il segretario del Pci, “si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un ‘boss’ e dei ‘sotto-boss’”.

Il cuore del ragionamento, come è evidente, era soprattutto politico: “La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati”. Purtroppo negli ultimi trent’anni – quelli della cosiddetta seconda repubblica – quel sistema denunciato da Berlinguer pare invece diventato patrimonio ideale condiviso da tutti i partiti.

Le parole di quarant’anni fa sono applicabili con inquietante precisione anche alle formazioni politiche che oggi si collocano nel centrosinistra, di fatto ormai quasi indistinguibili dai partiti governativi di allora sotto il profilo degli interessi e perfino dei valori rappresentati. Come hanno sottolineato molti osservatori per spiegare le ragioni della sconfitta del Partito democratico (Pd) alle ultime elezioni politiche, ciò riguarda soprattutto proprio il Pd, organizzazione che è nata e si è sviluppata come strumento di potere più che come partito di idee. E che avendo ora perso il potere è entrato nella sua crisi più profonda. Ma naturalmente è un problema che non riguarda solo il Pd.

Si è tentato di limitare le responsabilità all’attività di singoli, senza affrontare i nodi politici che sono alla base di ogni cosa

Rilette oggi, insomma, le parole di Berlinguer sono in grado di spiegare la crisi dei partiti dell’attuale centrosinistra. E si tratta di una crisi soprattutto politica. Per i leader di quei partiti ammetterlo significherebbe ammettere la propria sconfitta culturale. Ed è anche per questo che tra quei dirigenti si fatica spesso a rispondere sul tema delle distorsioni nel rapporto tra potere e politica, anche quando le domande non hanno nulla a che fare con il coinvolgimento nelle inchieste della magistratura. E tutto si fa più difficile quando quel coinvolgimento – direttamente o indirettamente – si realizza. È ciò che sta succedendo in questi giorni, con la notizia relativa a un presunto sistema corruttivo annidato all’interno delle istituzioni europee, sul quale sta indagando la magistratura belga e che coinvolgerebbe esponenti politici italiani riconducibili al centrosinistra.

Così, in questi giorni, a sinistra si è rimasti per lo più in silenzio o quasi. E, quando si è deciso di parlare, invece di affrontare la questione politica – ossia la trasformazione anche a sinistra dei partiti in “federazioni di camarille” al servizio di leader carismatici – si è preferito affondare il colpo sugli aspetti giudiziari, si è preferito mostrarsi indignati e cedere a un moralismo che si accende rapidamente, come altrettanto rapidamente si spegne. Ma non può stupire: in fin dei conti è un modo per provare a limitare le responsabilità all’attività di singoli, e dunque per tentare di salvare la baracca senza affrontare i nodi politici che sono alla base di ogni cosa. Anche se quei nodi minano la baracca alle fondamenta molto più di quanto non facciano singole vicende giudiziarie.

Ecco allora che nel Partito democratico si è definito lo scandalo come “inaccettabile”, e sono state annunciate massima inflessibilità e intransigenza nei confronti di chi dovesse essere coinvolto. Gettate sul piatto così, senza nessun tipo di analisi, restano parole inutili, e tanto consuete da essere ormai logore.

Smarrimento

Né possono sorprendere quelle contenute in un’intervista di Roberto Speranza, leader di Articolo 1, formazione nella quale militava uno dei politici coinvolti, uscita sulla Stampa con un titolo inquietante: “Nessun garantismo su Panzeri, siamo noi a chiedere chiarezza”. In quelle parole c’è tutto lo smarrimento di una sinistra che, oramai trent’anni fa, concorse con altre forze nell’affidare alla magistratura una funzione moralizzatrice che non trova spazio nella costituzione ma ne trovò molto nel vuoto ideale e politico che anche aveva ingoiato la sinistra e ancora l’avvolge.

In questo deserto, l’unico a fare una vera analisi politica sembra essere Gianni Cuperlo, deputato del Pd, del quale in passato fu anche presidente. “La sinistra”, ha scritto intervenendo sulla Stampa, “è chiamata a fare i conti con una questione morale penetrata dentro di sé e che nessuna scorciatoia, individuale o giudiziaria, può assolvere”. La questione morale di oggi sta infatti “nell’aver corrotto non già e non solo gli individui, ma la nozione stessa di politica”. Ma la sua resta per ora una voce nel deserto.

Cuperlo peraltro afferma ciò che è evidente già da molti anni, e che i leader politici del centrosinistra hanno ignorato, forse distratti dalla convinzione che la forza del loro potere fosse giustificazione sufficiente per l’esercizio di quello stesso potere. Convinti insomma della verità contenuta in una famosa battuta di Giulio Andreotti: “Il potere logora chi non ce l’ha”. E invece il potere ha logorato un’intera classe politica, quella che a sinistra lo ha incarnato in questi ultimi tre decenni, e che per insipienza, convenienza o conformismo appare tuttora sostanzialmente inconsapevole delle ragioni della propria crisi, e perfino delle proprie responsabilità in quella stessa crisi.
*( Alessandro Calvi, È un giornalista italiano. Ha scritto per il Riformista e il Messaggero)

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