n°39 – 24/9/2022. RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Roberto Maggioni*: clima, l’onda verde che non vota interroga la politica. Cambiamo aria. In Italia da nord a sud decine di migliaia di giovani protestano in settanta piazze per lo sciopero globale dei Fridays for future, Patrizia Cortellessa.
02 – Guida alle elezioni 2022: tra rinnovamento e conservazione. Tutti parlano di giovani, in pochi li candidano.
03 – Andrea Colombo*: Putin, l’Europa e le riforme. A destra ultimo giorno con i nervi scoperti
Berlusconi prova a correggere il tiro sull’Ucraina: «Riferivo parole di altri» Il minuetto delle parole dal sen fuggite, delle gaffe clamorose e delle precisazioni improbabili chiude in bruttezza la campagna elettorale. Tempeste in bicchieri d’acqua se si è trattato davvero solo di lingue non tenute a freno.
04- Francesco Vignarca*: Beatrice Fihn, Nobel per la campagna contro le armi nucleari: «Il possibile uso contro un solo Paese riguarda tutti» – INTERVISTA. Ogni minaccia atomica obbliga a una scelta: una potenziale escalation verso la catastrofe globale o il rifiuto totale di tali ordigni. Con 13mila testate nel mondo nessuno è al sicuro
05 – Laura Siviero “Vogliamo crescere, la politica ci metta nelle condizioni di farlo”.
Le Pmi sono più resilienti alla crisi, ma chiedono aiuto al governo che verrà per affrontare subito le emergenze inflazione, caro energia e materie prime,
06- Barbara Weisz*: DEF e legge di bilancio 2023: primi numeri, fra bassa crescita e rialzo del deficit. legge di bilancio 2023, primo banco di prova del nuovo Governo dopo le elezioni: crescita ridotta nella NaDEF, riforme di fisco e pensioni in stallo.
07 – Guido Caldiron*: IL RITORNO AL FUTURO DELLA DESTRA ITALIANA L’INTERVISTA. PARLA IL POLITOLOGO DELL’UNIVERSITÀ DI PERUGIA ALESSANDRO CAMPI, AUTORE CON SERGIO RIZZO PER RIZZOLI, DI «L’OMBRA LUNGA DEL FASCISMO», UN’INCHIESTA SUL PASSATO CHE NON PASSA

 

01 – Roberto Maggioni*: CLIMA, L’ONDA VERDE CHE NON VOTA INTERROGA LA POLITICA. CAMBIAMO ARIA. IN ITALIA DA NORD A SUD DECINE DI MIGLIAIA DI GIOVANI PROTESTANO IN SETTANTA PIAZZE PER LO SCIOPERO GLOBALE DEI FRIDAYS FOR FUTURE, PATRIZIA CORTELLESSA.
DA NORD A SUD TRE ANNI DOPO LE PRIME MANIFESTAZIONI FRIDAYS FOR FUTURE HA RIPORTATO IN PIAZZA DECINE DI MIGLIAIA DI GIOVANI, 80 MILA DIRANNO GLI ATTIVISTI A FINE GIORNATA. UN MOVIMENTO CHE FIN DALLA NASCITA AVEVA DETTO CHE LA GIUSTIZIA CLIMATICA È CONNESSA A QUELLA SOCIALE, IERI HA ALLARGATO DEFINITIVAMENTE GLI ORIZZONTI DICENDO CON FORZA CHE LA LOTTA PER IL CLIMA È CONNESSA ALLE LOTTE PER I DIRITTI CIVILI, SOCIALI E LAVORATIVI. QUESTA GENERAZIONE SARÀ UN’OPPOSIZIONE NATURALE PER CHIUNQUE DA DOPODOMANI GOVERNERÀ L’ITALIA.

GIORGIA MELONI È AVVISATA, e del resto è stata la più bersagliata negli slogan delle settanta piazze italiane. Ma è avvisato anche il Pd che non gode di alcuna credibilità tra chi ha manifestato. «Siamo stati ignorati dalla politica, queste elezioni sono una sconfitta per le migliaia di giovani che sono scesi in piazza in questi anni per il clima e la giustizia sociale» ha detto sotto al palazzo della Regione Lombardia uno dei portavoce dei Fridays Milano alla fine del corteo. «Tra la destra negazionista e l’alternativa cosiddetta progressista che riaccende il carbone, non scegliamo nessuno».

PAROLE SEGUITE da un lungo applauso dei 10 mila che hanno sfilato a Milano. «Non sosterremo nessun partito, perché nonostante le differenze tra i diversi programmi nessuno difende le rivendicazioni che abbiamo portato oggi in piazza» ha ribadito uno dei portavoce nazionali, Filippo Sotgiu, dal corteo dei 30 mila a Roma. Il non voto in realtà è più una questione anagrafica che altro: buona parte di chi ha manifestato è ancora minorenne e non potrà votare. Alla domanda «ma vi sentite rappresentati da qualcuno? Sapreste chi votare?» le risposte variavano tra «no, non mi rappresenta nessuno» èse votassi sceglierei il meno peggio ma farei fatica a trovarlo». Tra i più grandicelli è limpida, quasi antropologica, l’opposizione alla destra, ma sui temi concreti anche ai partiti della cosiddetta agenda Draghi. Chi guarda agli altri partiti lo fa più per necessità che per convinzione. Il mosaico che si ricompone a fine giornata è di una generazione distante anni luce dai salotti politici del blablabla, come dice qualcuno citando le parole di un anno fa della fondatrice di Fridays For Future Greta Thunberg in piazza a Milano per la pre-Cop 26.

UN PO’ DI SFOTTÒ li riceve anche il sindaco di Milano Beppe Sala che negli ultimi mesi con gli ambientalisti non ne azzecca una e anche ieri è riuscito a scentrare il commento alla manifestazione: «Andate a votare così poi potrete lamentarvi». Risposta lapidaria di una delle attiviste milanesi: «Grazie del consiglio sindaco, ora però torna a lavorare e rispondi coi fatti a quello che ti chiediamo».

AMBIENTE E CRISI climatica, transizione ecologica tradita, ma non solo. In molte città gli studenti hanno ricordato i loro coetanei morti in fabbrica durante le ore di alternanza scuola-lavoro. A Milano davanti ad Assolombarda, la sede degli industriali, si sono seduti a terra per un minuto di silenzio con in mano decine di cartelli rossi con scritto in bianco i nomi di Giuliano, Lorenzo e Giuseppe, i tre studenti morti negli stage legati all’alternanza in questo 2022.

«NON POSSONO MORIRE anche gli studenti di lavoro» hanno poi urlato agli industriali. A terra una scritta: «Contro un sistema colpevole». A Torino lo striscione d’apertura era per i morti sul lavoro: «Difendiamo il nostro futuro, basta stragi». A Trieste con gli studenti hanno sfilato anche gli operai della Wärtsilä, ad Ancona su diversi cartelli le scritte «Non si può morire a 18 anni lavorando gratis; sono tutti responsabili della morte di Giuliano, Lorenzo, Giuseppe; «No alla scuola di padroni e Confindustria». Davanti alla sede della Regione Marche gli studenti hanno lasciato dei sacchi pieni di fango a ricordo della strage nella recente alluvione e delle responsabilità della politica
DIRITTI AMBIENTALI, del lavoro, sociali, civili. Quando si dice «un movimento intersezionale». A Milano hanno parlato ragazze femministe e di seconda generazione, che hanno preso parola per chiedere cittadinanza: «Perché non possiamo essere italiani anche noi che siamo cresciuti in questo paese?» hanno chiesto. «Perché dobbiamo essere marchiati come diversi?». Sui cartelli autoprodotti spazio all’ironia: «Meloni li voglio solo nella macedonia» oppure «Non sciogliamo i due poli, sciogliamo il terzo polo» o ancora «Il Titanic nel 2022 non avrebbe avuto problemi».
SE QUALCUNO PENSAVA che due anni di restrizioni Covid avrebbero ucciso il movimento dovrà ricredersi. Certo, i numeri delle piazze del 2019 sono un ricordo lontano, ma quello che emerge dalle mobilitazioni di ieri è che questa generazione non parla solo di ambiente, è una generazione che tiene unito quello che i partiti dividono.
*(Fonte: IL MNIFESTO, Roberto Maggioni, giornalista, Blog di radio popolare Appunti sulla mondialità Bad Input Breaking Dad Ciucci volanti Cronache dal mondo che verrà DisOrdine )

 

02 – GUIDA ALLE ELEZIONI 2022*: TRA RINNOVAMENTO E CONSERVAZIONE. TUTTI PARLANO DI GIOVANI, IN POCHI LI CANDIDANO. SUI QUASI 5MILA CANDIDATI E CANDIDATE ALLE PROSSIME ELEZIONI POLITICHE, SOLO IL 15% HA MENO DI 40 ANNI. ADDIRITTURA MENO DEL 3% È UNDER 30. TRA LE LISTE E COALIZIONI CHE HANNO PRESENTATO PIÙ CANDIDATURE, SONO MOVIMENTO 5 STELLE E UNIONE POPOLARE AD ANNOVERARE TRA LE LORO FILA IL NUMERO MAGGIORE DI GIOVANI CANDIDATI E CANDIDATE.
In Italia sono ancora pochi i giovani in politica. In parte il problema è strutturale, visto che è la costituzione stessa a imporre dei limiti di accesso in questo senso. Tuttavia l’età degli esponenti è un importante indicatore del tasso di cambiamento della politica.
Come si configura la situazione dei candidati alle prossime elezioni politiche del 25 settembre? Analizzando i dati, vediamo che delle 4.746 persone che hanno presentato la propria candidatura, 695 hanno un’età inferiore ai 40 anni, il 14,6% del totale.
1 su 7 i candidati alle elezioni di età inferiore ai 40 anni.
Una cifra che si abbassa poi considerevolmente se contiamo soltanto i giovanissimi, di età compresa tra i 20 e i 30 anni. Parliamo in questo caso di appena 134 candidati, meno del 3% del totale. Questi numeri bassi sono diretta conseguenza degli articoli 56 e 58 della costituzione, che stabiliscono come età minima per accedere alla camera e al senato rispettivamente i 25 e i 40 anni.
A essere maggiormente rappresentate sono invece le fasce intermedie e in particolare quella tra i 40 e i 60 anni. Come abbiamo già evidenziato precedentemente, sono questi i veri protagonisti della politica italiana, a tutti i livelli istituzionali.
Vai all’approfondimento Non è un paese per giovani, neanche in politica.
La maggior parte dei candidati ha tra i 40 e i 60 anni
I candidati e le candidate alle elezioni politiche del 2022, per fascia di età (2022)
DA SAPERE
Secondo gli articoli 56 e 58 della costituzione, l’accesso al parlamento è limitato per i più giovani, rispettivamente all’età di 25 anni per la camera e di 40 per il senato.
FONTE: elaborazione Openpolis su dati ministero dell’interno
(ultimo aggiornamento: lunedì 19 settembre 2022)
Alla camera, dove l’età minima di accesso è più bassa, sono candidate 134 persone di età inferiore ai 30 anni – una persona sola, Elia Francesca Martinica di Forza Italia, ha 24 anni, ma ne compirà 25 a ottobre. Mentre 561 hanno tra i 30 e i 40 anni, 558 alla camera e 3 al senato – analogamente, persone che raggiungeranno a breve la soglia d’età minima per accedere all’istituzione.
Mentre come accennato la fascia più consistente è quella di età compresa tra i 40 e i 60 anni, in cui rientra il 61,2% di tutti i candidati. Sono 1.359 i candidati di età tra i 40 e i 50 anni, e ancora più rappresentata è la categoria 50-60, in totale 1.548 persone.
51,4 anni l’età media dei candidati e delle candidate alle elezioni politiche del 2022.
Una cifra più elevata rispetto alla media della popolazione italiana, che secondo l’ultimo aggiornamento Istat è, nel 2022, di 46,2 anni.
In generale come prevedibile l’età dei candidati al senato è mediamente più elevata rispetto a quella dei candidati alla camera. Ma questo non è l’unico livello di differenziazione.
I giovani nelle coalizioni
Per quanto l’età media all’interno delle liste principali si attesti piuttosto omogeneamente su valori compresi tra i 49 e i 52 anni, le singole liste e coalizioni hanno avuto approcci diversi nella scelta di candidare persone giovani. Alcune hanno candidato quote più elevate di under 40.
Unione popolare e Movimento 5 stelle hanno la quota maggiore di under 40
I candidati e le candidate alle elezioni politiche del 2022, per fascia di età (2022)
DA SAPERE
I dati riguardano le coalizioni, non le singole liste, e sono riferiti alla quota di candidati singoli (escludendo quindi le possibili candidature in più) di età inferiore ai 40 anni, rispetto al totale.
FONTE: elaborazione Openpolis su dati ministero dell’interno
(ultimo aggiornamento: lunedì 19 settembre 2022)
Sono in particolare Unione popolare e il Movimento 5 Stelle a proporre la quota più elevata di candidati di età inferiore ai 40 anni, rispettivamente il 21,1% (per un totale di 93 persone) e il 19,9% (78).
Italexit ha la quota più bassa di candidati giovani.
Tra le due coalizioni, è il centro-sinistra a presentare più candidati giovani, per un totale di 169 persone (il 17% del totale). Il centro-destra raggiunge invece quota 12,3% (136 candidati). Cifre leggermente più elevate le registra Azione – Italia viva (13,9% per un totale di 57 giovani), mentre all’ultimo posto da questo punto di vista troviamo Italexit, con 41 candidati di meno di 40 anni, pari all’11,7% del totale.
Per quanto riguarda poi i giovanissimi, tra i 20 e i 30 anni, oltre il 64% si trova tra la coalizione del centrosinistra (38 persone) e le liste di Unione popolare (33). Il Movimento 5 Stelle invece si distingue per l’elevata quota di candidati di età compresa tra i 30 e i 40 anni (72 su 391).
Quanti giovani sono candidati come capilista?
Un aspetto centrale della questione dell’accesso giovanile alle istituzioni è anche la posizione in cui la candidatura è posta nel listino plurinominale, al di là del dato quantitativo sulle candidature giovani. Andiamo quindi a vedere quanti sono i giovani capilista – considerando quindi soltanto i seggi plurinominali, che secondo la legge elettorale rosatellum costituiscono i 5/8 del totale.
12% dei capilista ha meno di 40 anni.
Ovvero 90 persone su 750. Mentre 228 hanno tra i 40 e 9 50 anni, 255 tra i 50 e i 60, e 139 tra i 60 e i 70. Nella fascia 70-80 rientrano 36 candidati capilista e 2 hanno più di 80 anni.
Tale ragionamento sui capilista può essere fatto anche sui candidati ai seggi uninominali, eletti con metodo maggioritario. Analizzando i dati non emergono però differenze significative rispetto alla situazione dei capilista al plurinominale. Inoltre, bisogna evidenziare che la posizione del candidato all’uninominale è più complessa, e strategicamente molto vincolata alle singole liste e coalizioni.
Oltre il 20% dei capilista del Movimento 5 Stelle è under 40
I capilista candidati alle elezioni politiche del 2022, per fascia d’età e coalizione di appartenenza
DA SAPERE
I dati sono riferiti ai capilista candidati ai seggi plurinominali, divisi per lista di appartenenza. Abbiamo escluso i candidati ai seggi uninominali, che seguono logiche differenti.
FONTE: elaborazione su dati ministero dell’interno
È il Movimento 5 Stelle a riportare la quota più alta di giovani rispetto al totale, con 14 capilista sotto i 40 anni rispetto ai 67 totali (il 20,9%). Segue Unione popolare con 10 candidati under 40 (il 14,5%) e lo stesso centro-sinistra (12,4%).
Ancora una volta, è Italexit a registrare il record negativo, con appena 5 capilista under 40 su 54 (9,3%). Praticamente pari Azione – Italia viva, con 5 su 62 (9,6% del totale) e la coalizione del centro-destra, con 25 (9,7%).
Per quanto riguarda invece gli over 60, il dato più elevato lo registra Unione popolare con il 33,3% (23 capilista), seguita dal centro-destra (27,5%). Infine la fascia intermedia, tra i 40 e i 60 anni, che come abbiamo detto è la più rappresentata, ha la maggiore incidenza in Azione – Italia viva (il 76,9% dei capilista candidati ha un’età compresa tra i 40 e i 60 anni) e in Italexit (75,9%).
*(FONTE, camera dei deputati)

 

03 – Andrea Colombo*: PUTIN, L’EUROPA E LE RIFORME. A DESTRA ULTIMO GIORNO CON I NERVI SCOPERTI, BERLUSCONI PROVA A CORREGGERE IL TIRO SULL’UCRAINA: «RIFERIVO PAROLE DI ALTRI», IL MINUETTO DELLE PAROLE DAL SEN FUGGITE, DELLE GAFFE CLAMOROSE E DELLE PRECISAZIONI IMPROBABILI CHIUDE IN BRUTTEZZA LA CAMPAGNA ELETTORALE. TEMPESTE IN BICCHIERI D’ACQUA SE SI È TRATTATO DAVVERO SOLO DI LINGUE NON TENUTE A FRENO.
Qualcosa di molto peggio se il monito di Ursula von der Leyen, «vedremo le elezioni italiane: se le cose andranno in una direzione difficile abbiamo degli strumenti come per Ungheria e Polonia», è stato rivelatore. O se l’arringa in difesa di Putin pronunciata da Berlusconi da Vespa va intesa come squarcio sui veri umori non solo dell’anziano Cavaliere ma anche di una parte significativa del centrodestra.

Per il Salvini in difficoltà l’ingerenza indebita della presidentessa è un invito a nozze, un’occasione d’oro. Convoca un sit-in di fronte alla rappresentanza della Commissione a Roma, annuncia una improbabilissima raccolta di firme per una mozione di censura all’Europarlamento, pretende che von der Leyen «si scusi oppure ne chiediamo le dimissioni». Il portavoce della Commissione non si scusa ma grida all’equivoco: «Non è intervenuta nelle elezioni italiane. Ha fatto riferimento a procedure in corso contro altri Paesi mettendo in evidenza il ruolo di guardiana dei trattati». Un giro di parole che conferma più di quanto non smentisca. L’Italia è già la sorvegliata speciale d’Europa per via del debito. Lo diventerà ancora di più se, venuta meno la garanzia Draghi, si insedierà un governo di destra e la sorveglianza si allargherà così all’area dei diritti. Anche se, per riparare alla gaffe, la commissione sparge un po’ di miele: «Lavoreremo con qualsiasi governo che vorrà lavorare con la Commissione».

In Italia tutti i leghisti fanno coro uno più indignato dell’altro ed è essenzialmente insperata propaganda elettorale. Ma a criticare la presidentessa, certo con toni meno striduli, sono un po’ tutti da Renzi a Calenda all’ex presidente dell’Europarlamento Tajani. Persino Letta ammette che la frasetta incriminata «crea casino» pur certo che la presidentessa «chiarirà». A chiarimento avvenuto si scaglia contro Salvini: «Gravissime» sono le sue parole e le sue richieste di dimissioni «per un equivoco».

Repertorio elettorale: ciascuno fa la sua parte ma quella di Giorgia Meloni è davvero scomoda. Si può immaginare come commenterebbe la grave lesione alla sovranità nazionale se non si sentisse sulla porta di palazzo Chigi. Però ci si sente e il suo commento è un capolavoro di felpatezza da vecchia Dc al suo peggio: «Sarebbe stata una cosa fuori di misura ma la presidente ha già mandato una nota per correggere parole che sono state lette come un’ingerenza. La responsabilità è della sinistra italiana, andata in giro per il mondo a sputare sull’Italia». La leader tricolore sa che, se vincerà le elezioni, con la Commissione dovrà provare ad andare d’accordo. Ieri ha constatato quanto le sarà difficile e quanto poco la aiuteranno su quella via gli alleati.

Da questo punto di vista il caso Berlusconi è a sua volta un segnale d’allarme. Anche lui ieri ha corretto e precisato a costo di arrampicarsi sulla parete più liscia. Quando ha detto che Putin voleva solo occupare Kiev per un paio di settimane, il tempo di mettere al governo al posto di Zelensky «persone per bene», non stava certo illustrando il suo pensiero: «Riferivo parole d’altri. Facevo il cronista». Letta si scatena: «Una vergogna». Calenda ravvede gli estremi della «tragedia». Zelensky si fa sentire: «Si fida dell’assassino Putin?». La destra, molto più che solo un po’ imbarazzata, finge di credere alla versione di Berlusconi e fa lo stesso il Ppe: «La nostra posizione di sostegno all’Ucraina è cristallina». Al padre fondatore della destra qualcosa in nome dell’età va perdonata. Solo che non si tratta solo di questo e la candidata premier lo sa: sotto pelle le divisioni su guerra e sanzioni sono molto meno effimere e superficiali.

Quanto a divisioni, ce ne sono altre, meno internazionali, altrettanto minacciose. Dal palco di piazza del Popolo una Meloni particolarmente aggressiva ha di fatto annunciato che il presidenzialismo si farà con o senza la controparte, se del caso con una secca imposizione della sua maggioranza. Il primo a frenarla è Salvini: «Le riforme della Costituzione fatte a maggioranza non vanno lontano. Bisogna coinvolgere non solo il Parlamento ma l’intero Paese».
Era già chiaro e ora lo è anche di più: tra le divisioni della sua maggioranza, la ringhiosità di Bruxelles e la crisi che morde, se Giorgia Meloni entrerà a palazzo Chigi la aspetta un calvario.
*(Fonte IL MANIFESTO Edizione del 24 settembre 2022)

 

04 – Francesco Vignarca*: BEATRICE FIHN, NOBEL PER LA CAMPAGNA CONTRO LE ARMI NUCLEARI: «IL POSSIBILE USO CONTRO UN SOLO PAESE RIGUARDA TUTTI» – intervista. Ogni minaccia atomica obbliga a una scelta: una potenziale escalation verso la catastrofe globale o il rifiuto totale di tali ordigni. Con 13mila testate nel mondo nessuno è al sicuro

Le recenti, dure parole di Putin hanno messo in allarme anche coloro che minimizzavano gli allarmi dei movimenti per il disarmo: nel confermare una mobilitazione militare parziale, il presidente russo ha suggerito il possibile utilizzo di armi nucleari «in caso di minaccia all’integrità territoriale del nostro Paese e per difendere la Russia e il nostro popolo». E a sgombrare il campo da fraintendimenti l’ex-presidente Medvedev ha aggiunto che la Russia sarebbe pronta ad utilizzare «qualsiasi, arma anche quella nucleare» per difendere i risultati dei referendum di annessione dei territori orientali ucraini.
«Le minacce nucleari sono inaccettabili sempre e da chiunque, e quelle di Putin aumentano il rischio di escalation verso un conflitto nucleare», sottolinea con decisione Beatrice Fihn, direttrice esecutiva della International Campaign to Abolish Nuclear Weapons. «Tutto ciò – continua – è incredibilmente pericoloso e irresponsabile. Ogni minaccia nucleare obbliga a una scelta: l’escalation verso una potenziale catastrofe globale o il rifiuto totale di tali armi». Raggiungiamo per un commento Fihn, che guida la Campagna insignita del Nobel per la Pace 2017, in Italia rilanciata da Senzatomica e Rete Pace Disarmo, mentre si trova a New York per la cerimonia di firma e ratifica del Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari (TPNW) da parte di altri sette Stati dell’Africa e dei Caraibi, proprio a margine dell’Assemblea generale Onu.
C’è soddisfazione per la continua universalizzazione del TPNW?
Certo: con l’aumento dei Paesi nel TPNW cresce la pressione sui nove Stati nucleari e sui loro sostenitori affinché aderiscano al Trattato. Il rafforzamento di questa norma è particolarmente cruciale in questo momento in cui la guerra in Ucraina ha visto aumentare il rischio di utilizzo di armi nucleari, e uno dei maggiori Stati nucleari ha minacciato apertamente di utilizzare il proprio arsenale. Nonostante il pericolo e le notizie allarmanti non dobbiamo dimenticarci i passi avanti che stiamo realizzando.
Ci stiamo avvicinando a un punto di non ritorno?
Alcuni analisti definiscono le minacce di Putin come un bluff e dicono che non dovremmo averne paura. Ma le minacce nucleari sono sempre “un bluff” fino al giorno in cui, improvvisamente e drammaticamente, non lo sono più. Ecco perché queste nuove minacce, più aggressive, di usare le armi nucleari sono così pericolose: abbassano la soglia dell’uso del nucleare e aumentano notevolmente il rischio di un conflitto con queste armi, e di una conseguente catastrofe globale.

Molti esperti dicono che sarebbero impiegate solo testate “tattiche” in ambito circoscritto
Qualsiasi uso di armi nucleari avrebbe conseguenze catastrofiche di vasta portata, soprattutto in un’Europa densamente popolata. Anche le cosiddette testate “tattiche” hanno in genere rese esplosive comprese tra 10 e 100 chilotoni. La bomba atomica che distrusse Hiroshima nel 1945, uccidendo 140mila persone, aveva una resa di soli 15 chilotoni. Una singola detonazione nucleare potrebbe uccidere centinaia di migliaia di civili e ferirne molti di più con una ricaduta radioattiva che potrebbe contaminare vaste aree in più Paesi. Per tali motivi discutere anche teoricamente dell’uso di armi nucleari senza parlare degli impatti umanitari rischia di far cadere il tabù sul loro utilizzo. Inaccettabile: a causa delle conseguenze umanitarie catastrofiche ad ampio raggio dell’uso delle armi nucleari, la minaccia di usarle anche solo contro un Paese equivale a una minaccia per tutti gli Stati del mondo.

Quindi, quali speranze ci sono?
Considerando il fallimento della Conferenza di Revisione del Trattato di Non Proliferazione nucleare dello scorso agosto, la strada maestra per un vero disarmo nucleare globale è quella del Trattato TPNW. Lo abbiamo visto nella prima Conferenza degli Stati Parti di Vienna, terminata con una Dichiarazione che è sicuramente la più forte condanna delle minacce nucleari che sia mai stata fatta da una Conferenza delle Nazioni unite ed è stata senza dubbio una risposta alla minaccia nucleare della Russia. Il risultato degli incontri austriaci ha mandato un messaggio potente, e urgente, da parte di un ampio gruppo di Stati molto diversi tra loro per storia, collocazione geopolitica, prospettive. La Dichiarazione finale e soprattutto il Piano d’azione che elenca 50 azioni concrete per rafforzare il TPNW e il disarmo nucleare sono strumenti formidabili per mantenere una forma di fiducia nella non proliferazione, anche in un momento in cui molti Paesi potrebbero pensare ad un proprio programma nucleare.

Invece questi esiti dimostrano che molti Stati si stanno impegnando a essere liberi dal nucleare per sempre.
Fra pochi giorni celebreremo la Giornata internazionale per l’abolizione delle armi nucleari, indetta dalle Nazioni Unite per ricordare la scelta eroica del colonnello Stanislav Petrov che decise di fermare una risposta nucleare non fidandosi della segnalazione di attacco di un computer. Ma con 13mila testate nucleari ancora presenti nel mondo non può essere un gesto episodico, anche se coraggioso, a renderci davvero sicuri: solo un’azione coordinata e multilaterale di messa al bando totale ci può riuscire. Continuiamo a lavorare per tale risultato.
* Coordinatore Campagne – Rete Italiana Pace e Disarmo)

 

05 – Laura Siviero “VOGLIAMO CRESCERE, LA POLITICA CI METTA NELLE CONDIZIONI DI FARLO”.
LE PMI SONO PIÙ RESILIENTI ALLA CRISI, MA CHIEDONO AIUTO AL GOVERNO CHE VERRÀ PER AFFRONTARE SUBITO LE EMERGENZE INFLAZIONE, CARO ENERGIA E MATERIE PRIME
CHI L’AVREBBE DETTO CHE LE NOSTRE PICCOLE E MEDIE IMPRESE AVREBBERO RETTO MEGLIO DELLE LORO OMOLOGHE DI MEZZA EUROPA AL COVID E ALLA GUERRA?
I Rapporti usciti in questi giorni dai Centri Studi restituiscono l’orgoglio a un sistema che, da solo, rappresenta il 41% del fatturato totale delle aziende italiane. Silenti (forse troppo spesso), familiari (con tutti i limiti, ma anche molti pregi), consapevoli di dover crescere di più, investire di più, rischiare di più, formarsi, andare sui mercati esteri, ma fiere e appassionate, sono anche l’ago della bilancia tra le micro imprese, troppo micro e le grandi, troppo poche. Ora la sfida dei costi energetici pesa ancora una volta sui conti e sui piani di sviluppo. Energivore o no, vogliono far sentire la loro voce, chiedono di essere accompagnate nell’ennesima transizione di questo millennio.
La manifattura alla testa delle Pmi. Su un totale di 4,2 milioni di imprese attive in Italia (Istat 2019), le medio-grandi sono solo 4.057 (0,1%), il resto del tessuto industriale è costituito dalle micro che valgono il 95%, ma producono solo il 23% del totale del fatturato, e dalle Pmi che, con il 5% delle aziende sul totale, generano il 41% del fatturato. È la manifattura italiana a guidare l’onda delle Pmi. Sul totale delle piccole e medie imprese (dati Unioncamere 2022), il 28,6%, è impegnato nel settore manifatturiero, il 15,3% nel commercio, il 13% nelle attività di servizi di alloggio e ristorazione, il 10% opera nell’ambito delle costruzioni, il 6% nei trasporti. E sono ubicate per il 47% al Nord Italia, il 21% al Centro, il 32% al Sud. Una schiera di piccole e medie imprese attive che assorbono il 44% dei dipendenti e generano un valore aggiunto al costo dei fattori di 312 miliardi, il 38% del totale.
Bene la produttività delle Pmi. Il Rapporto di Banca d’Italia del 7 luglio 2022, curato da Fabrizio Balassone, analizza come «il problema italiano stia nella fragilità del tessuto produttivo, in particolare il numero elevato delle microimprese che registrano livelli di produttività modesta anche rispetto ad analoghe realtà di altri Paesi, mentre è ridotto il numero delle medio-grandi che pure hanno un’efficienza equiparabile a quella di aziende delle maggiori economie europee. Uno squilibrio che viene compensato in Italia dalla produttività delle Pmi, che sono le più dinamiche». Tra il 2010 e il 2019 la produttività delle Pmi italiane è cresciuta del 6,5%, mentre quella delle grandi imprese è diminuita circa del 5%. Inoltre le piccole e medie risultano avere tassi di redditività e investimento in linea con quelli delle grandi aziende in altri territori europei e di molto superiori a quelli delle micro imprese. «Nel confronto con i maggiori Paesi dell’area euro, la produttività delle aziende italiane è superiore a quella delle tedesche e spagnole di pari dimensione e solo lievemente inferiore a quella delle aziende francesi».
La competizione rende forti. Nel mercato estero, dove la pressione competitiva è più alta, le piccole e medie imprese risultano maggiormente performanti. Negli anni successivi alla crisi finanziaria globale, il peso delle esportazioni delle Pmi sul totale è aumentato di tre punti percentuali. Nel 2019 era pari al 48%, di molto superiore alle omologhe francesi e tedesche, ferme al 20% e anche delle spagnole al 33%. La competizione con gli altri Paesi inoltre le ha indotte a spostarsi verso settori ad alta innovazione. In un contesto italiano poco propenso agli investimenti in ricerca e sviluppo, le Pmi italiane hanno aumentato gli investimenti passando da meno di un quinto negli anni 2000 a circa un terzo nel 2019, una quota che resta ancora inferiore agli investimenti delle omologhe spagnole, ma che segna una risalita. Una spinta a cui ha contribuito la costituzione del registro delle Pmi innovative. I progressi maggiori sono stati portati avanti però più nella digitalizzazione dei processi interni che nell’ambito delle tecnologie avanzate.
I tre rischi principali. «Si è passati da una crisi all’altra, con in mezzo una crescita nel 2021 e ci sono tantissime risorse da utilizzare – ha dichiarato Vito Grassi, vicepresidente di Confindustria e responsabile per le Rappresentanze regionali e le Politiche di coesione territoriale – fattori che insieme costituiscono un mix impensabile. Il 30% delle Pmi è esposta ad almeno un rischio tra quello ambientale, finanziario e la transizione ecologica». Il rapporto di Confindustria presentato il 15 settembre analizza due possibili scenari. Uno scenario “base”, dove permangono le condizioni attuali, in cui nonostante un rallentamento del tasso di crescita su base annua (+2,4% nel 2022) i livelli pre-Covid verranno recuperati. E uno scenario “worst”, la peggiore delle ipotesi possibili, che vede un netto arresto delle Pmi ad alto rischio. Secondo il Cerved, le imprese ad alto rischio sono 16mila, impiegano 478mila addetti e presentano un’esposizione verso il sistema creditizio di oltre 44 miliardi.
Le Pmi si attivano ma chiedono sostegno alla politica. Confimi Industria (la Confederazione dell’Industria Manifatturiera Italiana e dell’Impresa Privata che rappresenta circa 45mila imprese per 600mila dipendenti con un fatturato aggregato di quasi 85 miliardi «propone, per l’industria manifatturiera – ha dichiarato il presidente Paolo Agnelli, intervenendo al decennale della Confederazione – che alla crescita della produttività aziendale, pari a un +3 o 4%, siano le aziende stesse a pagare ai propri dipendenti il saldo della differenza inflattiva sofferta nella perdita del potere di acquisto creatosi nel 2022. Una disponibilità – ha sottolineato Agnelli – che possiamo supportare proprio perché non soffriamo di nanismo. Le Pmi manifatturiere sono semplicemente piccole perché sono in attesa di crescere, e con la volontà di farlo. Ci auguriamo che il desiderio di farle crescere trovi riscontro anche nelle politiche governative di oggi e di domani».
Permangono, però, alcuni elementi di fragilità che rischiano di minare la crescita. Il primo, individuato da Unioncamere è la selezione della dirigenza. Spesso si inseriscono dinamiche familiari che poco hanno a che fare con le qualità manageriali. Il Rapporto di Unioncamere evidenzia come una raccolta di dati su 10mila imprese in oltre 20 Paesi, mostri che a pratiche manageriali migliori corrispondano maggiore produttività e performance migliori. Anche il livello di istruzione degli addetti pesa sullo sviluppo delle Pmi. Nel quinquennio pre-pandemia la crescita del numero di addetti è stata maggiore tra le piccole e medie imprese che occupavano una quota maggiore di laureati. Un altro gap rispetto allo sviluppo delle imprese di più grandi dimensioni è l’evoluzione verde. Il conseguimento degli obiettivi del Green Deal che prevede entro il 2030 la riduzione delle emissioni del 55% e entro il 2050 raggiungere il target tra l’80 e il 95%, deve passare attraverso la transizione ecologica delle imprese. L’aumento delle materie prime energetiche dovrebbe essere una spinta in questa direzione. Le risorse pari a 18 miliardi del pacchetto “Transizione 4.0” del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) prevedono incentivi fiscali per la trasformazione digitale delle aziende oltre a diverse misure per la transizione verde.
Il rischio gas. «L’incidenza media del costo dell’energia e del gas sui ricavi delle imprese è passata dal 4,2% nel 2021 a una quota dell’11,2% prevista per quest’anno, con punte del 12% per manifatturiero e commercio- spiega Fabrizio Cellino, vicepresidente di Confapi e Presidente Api Torino -. Il periodo è difficilissimo, occorrono coesione e politiche industriali ed energetiche decise e immediate perché se non ci saranno correttivi abbiamo davanti tre scenari: disoccupazione galoppante e chiusura delle imprese o chiusura temporanea delle aziende per superare l’inverno con massiccio ricorso alla cassa integrazione e conseguente diminuzione della capacità di spesa di milioni di cittadini. Il terzo scenario è legato al fatto che l’Italia ha un costo energetico superiore a quello degli altri Paesi, dunque non dimentichino i politici che verranno eletti, che certe scelte europee potrebbero non essere congeniali all’Italia».
Un plotone di imprese, queste Pmi, che hanno dimostrato di saper stare sul mercato, anche in questo complicato millennio, a non abbassare mai la guardia, a mutare continuamente per reggere, a dare sempre un po’ di più, ora chiedono alla politica sostegno e soluzioni, non elenchi di problemi. La sfida passa al prossimo governo.
Il Settimanale è il giornale economico politico di PMI.it dalla parte delle imprese. Lo trovi in edicola e online. In occasione del lancio e per l’intero mese di settembre, i principali articoli saranno liberamente accessibili sulle pagine di questo sito.
*Fonte Il Settimanale, PMI, Laura Siviero, giornalista)

 

06 – Barbara Weisz*: DEF E LEGGE DI BILANCIO 2023: PRIMI NUMERI, FRA BASSA CRESCITA E RIALZO DEL DEFICIT
LEGGE DI BILANCIO 2023, primo banco di prova del nuovo Governo dopo le elezioni: crescita ridotta nella NaDEF, riforme di fisco e pensioni in stallo.
Le previsioni delle agenzie di rating sono forse troppo pessimistiche sul rischio recessione ma è vero che i conti pubblici scontano una nuova riduzione del PIL: la crescita 2023 scenderà sotto l’1%, dopo l’incremento del 3% previsto per l’anno in corso. C’è una nuova drastica riduzione, quindi, ma non uno scenario recessivo come quello previsto, ad esempio, da Fitch.
Sono i numeri intorno ai quali si sviluppa la NaDEF (Nota di Aggiornamento al DEF), che va approvata entro fine settembre per avere le “basi numeriche” necessarie a definire la programmazione finanziaria della prossima Manovra.
Tra l’altro, il calendario della sessione di Bilancio si incrocia quest’anno con quello elettorale. Sarà il prossimo Governo, espresso in base ai risultati del voto del 25 settembre, a mettere mano alla Manovra economica 2023, partendo dai primi numeri che emergono.

VERSO LA LEGGE DI BILANCIO 2023
LA RIFORMA FISCALE
LA RIFORMA PENSIONI

Per il 2022, la stima di crescita resta intorno al 3%, un numero tutto sommato vicino al 3,1% previsto nel DEF (Documento di Economia e Finanza) di primavera. Quello che peggiora visibilmente è invece il risultato 2023, che scende sotto l’1%, contro una precedente stima intorno al 2,3%. Dunque, una nuova riduzione del PIL con un quarto trimestre 2022 in negativo, e un 2023 assai ridimensionato, seppur senza la recessione (-0,7%) prevista da Fitch.

VERSO LA LEGGE DI BILANCIO 2023 Lavoro, tasse e salario minimo: programmi elettorali a confronto.

La prossima Legge di Bilancio farà quindi i conti con spazi di crescita molto ridotti e conseguente rialzo del deficit. Il costo del debito italiano sta già aumentando: è passato dal 2 al 4% (titoli a dieci anni). In generale, a livello di impatto sui conti pubblici, due punti di crescita in meno producono un aumento di deficit intorno ai 20 miliardi, oltre l’1% di PIL.
Un sentiero stretto, fra bassa crescita e rialzo del deficit, all’interno del quale bisogna inserire una manovra economica. Che, con ogni probabilità, dovrà continuare a sostenere le famiglie a fronte del caro energia e dell’impennata dell’inflazione. E poi dovrà almeno definire il percorso di riforme in stallo da anni: il Fisco, arenato sul fil di lana in Parlamento, le pensioni, che in attesa di riforma strutturale richiederanno ritocchi specifici per il 2023.

LA RIFORMA FISCALE – FLAT TAX E RIFORMA FISCALE: PROGRAMMI ELETTORALI A CONFRONTO

La riforma fiscale è stata intrapresa nel 2021, con la parte relativa alle aliquote IRPEF inserita nella Manovra 2022 e dunque in vigore, ma il resto della legge, inserito nella delega approvata dal Governo, non è arrivato al termine dell’iter parlamentare di approvazione. Dunque, una riforma zoppa, che il prossimo Governo e il prossimo Parlamento sono chiamati a riprendere.
I programmi fiscali delle principali coalizioni politiche sono diversi fra loro: si va dal potenziamento della flat tax previsto dal Centrodestra alla continuità con le misure previste dalla delega per il Centrosinistra alle proposte del Movimento 5 Stelle che insiste su Superbonus edilizi e cashback fiscale.

LA RIFORMA PENSIONI – RIFORMA PENSIONI: PROGRAMMI ELETTORALI A CONFRONTO
L’altro capitolo aperto, per la verità da qualche anno, è la riforma pensioni. Ci sono due necessità: continuare a favorire la flessibilità in uscita, per superare le rigidità previste dalle norme su pensione di vecchiaia e pensione anticipata, in un quadro organico di riforma che superi la logica delle proroghe che ha caratterizzato gli ultimi anni.
Con ogni probabilità, anche il prossimo anno prevedrà una proroga delle formule di flessibilità in uscita: difficilmente si riuscirà a mettere a punto una riforma radicale entro inizio 2023, per cui la Legge di Bilancio prevedibilmente conterrà il rinnovo annuale di misure come l’APE Sociale, Quota 100-102, Opzione Donna. Poi, nel 2023, bisognerà rimettere mano al capitolo della riforma pensioni vera e propria. Conti pubblici permettendo.
*(Fonte PMI.it: Barbara Weisz, Giornalista professionista, esperta di questioni economiche, politiche e finanziarie, collabora da anni con numerose testate on line, quotidiani e riviste)

 

07 – Guido Caldiron*: IL RITORNO AL FUTURO DELLA DESTRA ITALIANA L’INTERVISTA. PARLA IL POLITOLOGO DELL’UNIVERSITÀ DI PERUGIA ALESSANDRO CAMPI, AUTORE CON SERGIO RIZZO PER RIZZOLI, DI «L’OMBRA LUNGA DEL FASCISMO», UN’INCHIESTA SUL PASSATO CHE NON PASSA. «QUELLO CHE DEFINISCO COME “FASCISMO POP” – SPIEGA CAMPI – È CRESCIUTO CON GLI ANEDDOTI E LE STORIELLE DA ROTOCALCO FINO A LASCIARE SULLO SFONDO LE TRAGEDIE CHE IL REGIME HA PROVOCATO NELLA REALTÀ: GUERRE, COLONIALISMO, LEGGI RAZZIALI»
IL FASCISMO STA TORNANDO? MA SE NON SE NE È MAI DAVVERO ANDATO DEL TUTTO…
Potrebbe apparire un paradosso quello che emerge implicitamente dalle pagine di L’ombra lunga del fascismo (Solferino, pp. 414, euro 16,50), il volume firmato dal politologo dell’Università di Perugia Alessandro Campi insieme al giornalista del Corriere della Sera Sergio Rizzo che esce alla vigilia di elezioni che sembrano interrogare come mai prima il peso che il passato del Paese può giocare ancora nel suo presente. Il paradosso lascia però spazio a ben altre considerazioni man mano che ci si addentra in compagnia dei due autori attraverso metropoli e cittadine dove la toponomastica, i simboli e gli edifici parlano ancora il linguaggio del Ventennio, dove il merchandising della nostalgia non conosce confini e dove, infine, un «cuore nero» batte ancora anche in Parlamento. Per Rizzo e Campi, che ha accompagnato a lungo il percorso della destra politica e culturale, è però venuto il momento per il Paese di «chiudere una volta per tutte la partita con quel passato». Una necessità che deve essere fatta propria in particolare anche da «chi ha grandi responsabilità politiche è nonostante ciò persevera nel tollerare nostalgie e pericolosi ammiccamenti».

Questo libro che ricorda come per certi aspetti l’Italia appaia «ancora ferma a Mussolini», esce alla vigilia di un voto che potrebbe fare dell’ultimo partito erede dell’Msi, nato in continuità con il regime, la prima forza politica del Paese. Un contesto che evoca la nota interpretazione di Piero Gobetti che parlava del fascismo come «autobiografia della nazione»?
Credo poco alle letture della storia italiana in chiave di antropologia o psicologia collettiva. Non esiste un carattere degli italiani che li spinge verso l’autoritarismo: ieri Mussolini, oggi Meloni. Gli italiani che hanno fatto nascere il fascismo e lo hanno sostenuto sono gli stessi, in senso storico, che lo hanno combattuto e hanno poi dato vita alla democrazia repubblicana. C’è semmai un cattivo rapporto degli italiani col passato, che si tende continuamente a strumentalizzare. Quell’esperienza non ritornerà mai, come qualcuno teme a sinistra, e di quell’esperienza non c’è nulla da riprendere come lezione, come qualcuno ancora immagina a destra. Il senso del libro è che si dovrebbe consegnare il fascismo alla storia una volta per tutte. Le sue testimonianze visive sono ancora tra noi, sono in alcuni casi parti del paesaggio urbano, ma non si dovrebbe più assegnare loro alcuna valenza emotiva o forza evocativa. Li si dovrebbe trattare come simboli muti, come testimonianze di un passato che tanto non possiamo cancellare, ma che non ci appartiene più.

Dal libro emerge la definizione di «fascismo pop» che sembra adeguata a definire quel misto di scarsa consapevolezza della Storia, intenti auto-assolutori e banalizzazione di vicende drammatiche rilette in termini esclusivamente emotivi che pare essere alla base del modo in cui nel nostro Paese si guarda alla vicenda mussoliniana.
La banalizzazione del fascismo, ridotto a regime da operetta con Mussolini nei panni del capocomico, è stato il capolavoro ideologico di Montanelli. Una lettura che ha avuto in effetti una grande presa per decenni. Nel dopoguerra un’intera generazione doveva giustificare sé stessa per aver preso sul serio il rivoluzionarismo fascista e per aver sostenuto più o meno attivamente il regime. Componenti significative del moderatismo politico e culturale scelsero, per autoassolversi, la spiegazione dell’abbaglio generazionale. La loro unica colpa era quella di aver preso sul serio un capocomico e di aver creduto che il fascismo fosse un’ideologia mentre invece era un tubo vuoto. Al massimo avevano aderito al regime per amor di patria. Il fascismo è diventato così una miniera di aneddoti e di storielle da rotocalco, lasciando sullo sfondo le tragedie da esso provocate (guerre, colonialismo, leggi razziali). È quello che chiamo «fascismo pop o light», che ancora persiste come idea in certi segmenti della società italiana. Oggi si è però arrivati all’interpretazione opposta. Dalla banalizzazione alla demonizzazione: un errore speculare. Il fascismo, in questo caso, come via italiana all’hitlerismo e alla Soluzione finale. Ma entrambe queste letture sono, per quel che mi riguarda, caricature della Storia, diversamente dannose, nel senso che contribuiscono a definire un clima d’opinione segnato da un rapporto con il nostro passato emozionale, puramente soggettivo e strumentale, insomma falso e deformante.

In questa situazione ritiene che l’approdo ad una sorta di pieno «sdoganamento» degli eredi del Msi, e per questa via del fascismo almeno sul piano simbolico, sia più il frutto del successo della strategia di tali forze o del ruolo dei media, del dibattito, o dell’assenza di dibattito, storico complessivo, dello scarso peso che ha il lavoro degli storici presso l’opinione pubblica e via dicendo. A cambiare è stata più la società o la comunità riunita intorno alla fiamma?
Difficile essere nostalgici credibili di un regime che non si è mai conosciuto. Il primo fattore di cambiamento a destra è stato biologico: sono scomparsi, strada facendo, i sopravvissuti della Rsi rimasti fedeli per cinque decenni al mito mussoliniano. Nel frattempo è cambiato il costume collettivo e dunque sono anche cambiati i riferimenti culturali e simbolici. Meloni e gran parte del suo attuale gruppo dirigente sono cresciuti leggendo le saghe tolkieniane, non Gentile, Evola o Adriano Romualdi. Nelle loro sezioni tenevano il poster di Borsellino non quello di Leon Degrelle o di José Antonio, come la generazione di attivisti immediatamente precedente. Infine è cambiato il mondo: con la fine della Guerra fredda e la caduta del blocco sovietico anche l’anticomunismo militante è diventato anacronistico a destra. Non a caso, a cavalcarlo per due decenni è stato Berlusconi piuttosto che Fini. Il cambiamento, lento e ancora forse non del tutto compiuto, c’è insomma stato, almeno nei ranghi della destra istituzionale. Permane poi una galassia di estrema destra, gli energumeni tatuati, rasati e vestiti di nero che sono la gioia di molti talk show, ma mi chiedo che forza politico-elettorale abbiano davvero. Culturalmente si limitano a rimasticare il simbolismo fascista in chiave di razzismo bianco e anti-islamico. Ma come aveva già spiegato Renzo De Felice il radicalismo di destra ha sempre attinto più al nazionalosocialismo che al mussolinismo. È un mondo che si compiace dell’alone diabolico e maledetto che lo circonda. Una buona gestione dell’ordine pubblico dovrebbe essere sufficiente, in un Paese serio, per tenere a bada queste frange.

La destra del dopo Fiuggi puntava sul superamento anche simbolico del passato, mentre in Fratelli d’Italia riemergono i saluti romani, la «lobby nera» raccontata da Fanpage e quella fiamma nel simbolo che non si vuole rimuovere. Siamo di fronte ad un ritorno indietro rispetto all’evoluzione che era in corso? Perché la linea di Meloni è così arretrata rispetto a quella di Fini?
Mi sbaglierò ma Meloni è più in linea col «finismo» di quanto sembri e di quanto lei stessa ammetta pubblicamente. A destra, dopo la traumatica rottura con Berlusconi seguita allo scioglimento in effetti fallimentare di Alleanza nazionale nel Popolo della libertà, su Fini si è impresso il marchio del traditore. Un’ingiustizia storica, ma tanto basta per non voler rivendicare quell’esperienza all’interno della quale Meloni si è però interamente formata e senza la quale sarebbe per davvero una specie di Almirante più giovane e con la gonna.

Su questo terreno emerge un altro elemento: pur con tutti i limiti, vent’anni fa Alleanza nazionale rifiutava ogni legame con Le Pen e diceva di guardare a Sarkozy e, storicamente, addirittura a De Gaulle. Oggi nel pantheon della destra ci sono Vox, Orbán e, prima dell’invasione dell’Ucraina, Putin. Sostenere chi evoca la «democrazia illiberale» non riguarda il rapporto con il passato, quanto piuttosto una visione per il presente?
C’è stato un cambiamento importante negli ultimi quindici anni: la crescente radicalizzazione della destra conservatrice e della sinistra progressista. Gli Stati Uniti ne sono l’esempio più lampante. Dalle divisioni sull’economia o sui modelli di società si è passati allo scontro sui temi identitari e valoriali. Lotta al terrorismo, crisi economica globale, pandemia e ora la guerra hanno acuito le tensioni sociali, indebolito i partiti tradizionali e favorito la demagogia anti-sistema cavalcata dai leader populisti. Meloni spesso oscilla tra appelli alla piazza e conservatorismo istituzionale, ma se dovesse andare al governo certe ambiguità non sarebbero più possibili. Quelle sul piano del collocamento internazionale le ha già risolte. Deve ora sciogliere i nodi in Europa: l’Italia deve avere come alleati e interlocutori Francia e Germania, non l’Ungheria.

La prossima settimana lei prenderà parte alla conferenza «Italian conservatism», organizzata a Roma da Nazione futura, associazione vicina a Fratelli d’Italia, intervenendo ad un colloquio dal titolo «Una nuova egemonia culturale» cui partecipano anche Marcello Veneziani e il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano. Come definirebbe oggi le coordinate della cultura di destra?
Ci sono in realtà anche molti ospiti stranieri. Spero non diventi l’occasione per parlare di una «internazionale nera» che si riunisce a Roma con chissà quali pericolosi obiettivi. Personalmente, argomenterò contro qualunque forma di «egemonia culturale». Il problema per la destra è più semplicemente quello di avere una sua riconoscibilità sociale e culturale a partire da alcuni temi cruciali. Penso, tra le altre cose, alla nazione come spazio di agibilità della democrazia politica, alla difesa della tradizione storica contro la cultura dell’oblio e della cancellazione, ad un ecologismo intriso di valori umanistici, allo Stato come garante della giustizia sociale e alla cultura dei limiti e dei doveri contro il soggettivismo radicale.
*(Guido Caldiron, Studia da molti anni le nuove destre e le sottoculture giovanili, temi a cui ha dedicato inchieste e saggi)

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