n°29 – 16/7/2022 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Stefania Cella*: Governo, Mattarella rigetta le dimissioni di Draghi. Cosa succede ora?
Cosa succederà al governo dopo le dimissioni di Draghi?
02 – La Marca* (Pd): – turismo di ritorno: proficuo incontro con il ministro Massimo Garavaglia Questa settimana, nel quadro dei periodici colloqui con il Ministero del Turismo, l’on. La Marca ha incontrato il responsabile del dicastero, Massimo Garavaglia
03 – Andrea Carugati*: POLITICA . Fassina: «Il Pd ricucia l’alleanza col M5S»
04 – Roberto Ciccarelli*: ECONOMIA La miccia della crisi politica accesa da un sistema economico allo sbando IL CROLLO. Governo bloccato dai veti incrociati su fisco, salario minimo e legge Fornero. Una visione sfocata della congiuntura basata su bonus e non riforme sociali. Istat: Inflazione all’8% aumenta le differenze di classe. Bankitalia: con lo stop al gas russo è recessione. Arera: i costi dell’energia più cari per i consumatori italiani che ora pagano di più
05 – Roberto Ciccarelli*: ECONOMIA. Draghi, 516 giorni di politiche economiche conservatrici e fallimentari. LA CRISI. Bonus bruciati dall’inflazione, invece di vere riforme sociali strutturali. Dalla riforma fiscale ai bonus edilizi fino a una fantomatica “agenda sociale”. Gli effetti della policrisi capitalistica hanno colpito la parte più debole, e contraddittoria, della coalizione “senza formule politiche”: i Cinque Stelle. E continueranno a divorare la politica del Palazzo dall’interno
06 – Michele Giorgio*: Per Biden l’indipendenza palestinese può attendere PALESTINA. Incontrando ieri a Betlemme il leader dell’Anp Abu Mazen, il presidente Usa ha detto che «il terreno non è maturo per riavviare negoziati tra israeliani e palestinesi». Nel pomeriggio Biden ha raggiunto l’Arabia saudita.
07 – Massimo Villone*: Le opzioni di Draghi e quelle di Mattarella. Tre ipotesi. 1) il governo è dimissionario, ma rimane in carica fino alla nomina di uno nuovo o anche fino alle elezioni. 2) un nuovo governo, in carica ma in attesa del voto di fiducia
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01 – Stefania Cella*: GOVERNO, MATTARELLA RIGETTA LE DIMISSIONI DI DRAGHI. COSA SUCCEDE ORA? COSA SUCCEDERÀ AL GOVERNO DOPO LE DIMISSIONI DI DRAGHI?
LA SFIDUCIA POLITICA
Le elezioni per ricostruire il Parlamento

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha respinto le dimissioni del presidente Mario Draghi. Cosa accadrà adesso al governo?
Recentemente, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha sporto le sue dimissioni, che sono state rifiutate dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Attraverso un comunicato, il Quirinale ha reso note le volontà di Mattarella. Nella fattispecie, il rifiuto delle dimissioni, invitando Draghi a “presentarsi al Parlamento per rendere comunicazioni, affinché si effettui, nella sede propria, una valutazione della situazione che si è determinata a seguito degli esiti della seduta svoltasi oggi presso il Senato della Repubblica”.

COSA SUCCEDERÀ AL GOVERNO DOPO LE DIMISSIONI DI DRAGHI?
Adesso sorge un dubbio su cosa accadrà al Governo. Della risoluzione della questione se ne occuperà il Parlamento. Un ulteriore risvolto della questione si avrà questo mercoledì, giornata in cui Mario Draghi ufficializzerà le sue dimissioni. Il discorso di Draghi si terrà alle camere nella giornata di mercoledì, mentre lunedì 18 e martedì 19 Draghi parteciperà a un vertice intergovernativo in Algeria

LA SFIDUCIA POLITICA
Nel caso in cui Mario Draghi dovesse ufficializzare le sue dimissioni, questo provocherebbe la sfiducia da parte della politica. Tenendo conto della possibilità di incorrere nella sfiducia, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella potrebbe decidere di incaricare un nuovo leader di governo, facendo decorrere la scadenza naturale della legislatura in marzo, come stabilito.
Le elezioni per ricostruire il Parlamento
Nel caso in cui Mattarella decidesse di istituire un nuovo governo, potrebbe anche decidere di sciogliere le camere, ed istituire le elezioni per la creazione di un nuovo Parlamento entro sessanta giorni dallo scioglimento.
Ad essere interessati al voto anticipato, sono i partiti di centrodestra. Sia Fratelli d’Italia che la Lega stanno spingendo per ottenere le elezioni anticipate. Per quanto riguarda Forza Italia, invece, per il momento dà contro il Movimento cinque Stelle, ma comunque non ha preso ancora una posizione forte.
*( Stefania Cella, Scenografo / Production Designer)

 

02 – LA MARCA *(PD) – TURISMO DI RITORNO: PROFICUO INCONTRO CON IL MINISTRO MASSIMO GARAVAGLIA QUESTA SETTIMANA, NEL QUADRO DEI PERIODICI COLLOQUI CON IL MINISTERO DEL TURISMO, L’ON. LA MARCA HA INCONTRATO IL RESPONSABILE DEL DICASTERO, MASSIMO GARAVAGLIA.
“È stato uno scambio di vedute cordiale che è servito ad approfondire diverse questioni anche nella prospettiva delle mie prossime iniziative parlamentari. Fin dall’inizio di questa legislatura, ho individuato nel turismo di ritorno una delle tracce fondamentali da perseguire nella mia attività parlamentare, sia per aprire degli spazi di attenzione e maggiore considerazione verso gli italiani all’estero che per cercare di concorrere a consolidare un flusso turistico tra i più interessanti per la nostra bilancia dei pagamenti” – ha dichiarato l’on. La Marca.
“In questi ultimi anni, attraverso emendamenti (ricordo l’emendamento approvato riguardante l’entrata gratuita degli iscritti AIRE ai musei statali) ed altri atti parlamentari, sono intervenuta più volte con proposte specifiche volte ad incentivare i flussi turistici dei nostri connazionali verso l’Italia ed in particolare verso i suoi territori meno conosciuti. Per questa ragione, credo sia utile mantenere costanti interlocuzioni con i ministeri competenti in materia. Del resto, nei progetti e negli auspici di chi governa sembra esserci una convinta attenzione a questo comparto turistico, ancora solo in parte sfruttato, ma dalle grandi potenzialità” – ha concluso l’on. La Marca a margine dell’incontro.
*(On./Hon. Francesca La Marca, Ph.D. – CAMERA DEI DEPUTATI – Ripartizione Nord e Centro America -Electoral College of North and Central America)

 

03 – Andrea Carugati*: POLITICA . Fassina: «Il Pd ricucia l’alleanza col M5S»
INTERVISTA. Il deputato di Leu: «Il dissenso di Conte è su temi reali. Il premier non doveva drammatizzare. Si va avanti solo con un’agenda sociale. Insopportabile il ricatto dem sulla coalizione, dovevano riconoscere la fondatezza delle questioni poste.
«Le dimissioni del presidente Draghi sono state una grave drammatizzazione. E ha fatto bene il Capo dello Stato a respingerle e rinviarlo in Parlamento», spiega Stefano Fassina, deputato di Leu
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IL M5S NON HA VOTATO LA FIDUCIA IN SENATO.
Non aveva votato quel decreto neppure il 2 maggio in consiglio dei ministri, mentre la settimana scorsa ha votato la fiducia alla Camera. Quelli che oggi predicano senso di responsabilità perché allora non hanno ascoltato le ragioni del partito di maggioranza relativa? Dov’erano quelli che oggi danno lezioni quando il governo negava un intervento sul bonus 110% che, com’è oggi, soffoca migliaia di imprese? O quando lo stesso esecutivo dava parere favorevole a un emendamento della destra che sfregia il reddito di cittadinanza? Questa crisi ha origini nella società, non nel Palazzo. E il Movimento, con tutti i suoi limiti, ha tentato di affrontare alcuni di questi nodi sociali.

COSA AVREBBE POTUTO FARE DRAGHI DOPO IL VOTO DI GIOVEDÌ IN SENATO?
Avrebbe potuto prendere atto di un dissenso importante del M5S che tuttavia non ha impedito l’approvazione del decreto. Si poteva non drammatizzare un passaggio serio, sapendo che i 5 stelle non avevano intenzione di uscire dalla maggioranza. Anche chi oggi ricatta il M5S sul futuro dell’alleanza doveva riconoscere la fondatezza delle questioni poste e insieme lavorare per un’agenda di risposte credibili alla crisi sociale.

CE L’HA COL PD?
Il ricatto sull’alleanza è insopportabile. Vanno riconosciute le radici sociali della crisi politica.
In realtà in queste ore il M5S discute di ritiro dei ministri.
Questa ipotesi è stata smentita. Ma è evidente che c’è un problema profondo, che riguarda anche l’invio di armi in Ucraina. La reazione del premier e il linciaggio che viene dal resto della maggioranza non aiuta a ricostruire un rapporto di fiducia. Mi pare invece che ci sia l’obiettivo di buttarli fuori per una prospettiva centrista nella prossima legislatura. Altrimenti in Parlamento si sarebbe potuto lavorare sul decreto. In realtà, continua a imperversare un suprematismo morale, culturale e politico verso il M5S.

IL PD STA CERCANDO IN TUTTI I MODI DI FAR RIENTRARE CONTE.
Spero che prevalga la linea di costruire una credibile agenda sociale insieme alle altre forze progressiste.
Per fine luglio era annunciato un decreto «corposo» per tutelare i salari. Conte poteva aspettare questo passaggio prima di rompere. O no?
Insisto, il M5S non ha votato la sfiducia. La drammatizzazione l’hanno fatta altri. E poi perché si chiede responsabilità solo a loro? C’era una larga maggioranza pronta a intervenire sul bonus 110% e il governo non ha risposto. C’è una parte della maggioranza e anche del governo che vuole stringere i 5 stelle in una tenaglia: o accettano l’omologazione oppure vengono tacciati di irresponsabilità. Ma se il Movimento diventa una fotocopia del Pd e prende il 5% non mi pare un grande successo per il campo progressista. Le periferie sociali, piaccia o meno, scelgono o la destra e, seppur ridimensionati, i 5 stelle.

DRAGHI HA DETTO CHE NON PRESIEDERÀ UN GOVERNO SENZA IL M5S.
L’ho ascoltato. Spero voglia dire che presta attenzione alle questioni poste.

ORA CHE SUCCEDERÀ?
Vedo difficile una ricomposizione della vecchia maggioranza, io lavorerò per una saldatura delle forze progressiste su un progetto comune, che tenga conto dei 9 punti contenuti nella lettera di Conte al premier.

PARLA DI UN PROGRAMMA ELETTORALE O DI UNA PIATTAFORMA PER PROSEGUIRE CON QUESTO GOVERNO?
Può essere entrambe le cose. Il governo serve se affronta la crisi sociale, ad esempio con un intervento su salari e pensioni finanziato con gli extraprofitti. Non basta averne uno giusto per tirare avanti.

AL CENTROSINISTRA CONVENGONO LE ELEZIONI?
Le elezioni ora non convengono all’Italia. Non sarebbe utile neppure andare avanti ancora accrescendo il distacco con le fasce più deboli che vogliamo rappresentare.

LEI VOTEREBBE ANCORA LA FIDUCIA A DRAGHI? LA CAPOGRUPPO DI LEU IN SENATO DE PETRIS È USCITA DALL’AULA.
Vorrei valutare la credibilità degli impegni sulla base dei numeri. Sono mesi che chiediamo un tetto nazionale al prezzo del gas e interventi sui salari.

NON SI UNISCE AL CORO CHE CHIEDE AL PREMIER DI RIPENSARCI?
Mi unisco alle voci delle forze sociali, del M5S e di chi nel Pd chiede una svolta sul versante sociale.

LA DESTRA VUOLE IL VOTO SUBITO?
Credo che la Lega non lo voglia, Forza Italia è divisa. Solo Meloni ha questo obiettivo.
*( Andrea Carugati, Giornalista, laureato in Comunicazione politica, dopo alcuni anni all’Unità dal 2014 scrive di politica per Il Manifesto)

 

04 – Roberto Ciccarelli*: ECONOMIA LA MICCIA DELLA CRISI POLITICA ACCESA DA UN SISTEMA ECONOMICO ALLO SBANDO IL CROLLO. GOVERNO BLOCCATO DAI VETI INCROCIATI SU FISCO, SALARIO MINIMO E LEGGE FORNERO. UNA VISIONE SFOCATA DELLA CONGIUNTURA BASATA SU BONUS E NON RIFORME SOCIALI. ISTAT: INFLAZIONE ALL’8% AUMENTA LE DIFFERENZE DI CLASSE. BANKITALIA: CON LO STOP AL GAS RUSSO È RECESSIONE. ARERA: I COSTI DELL’ENERGIA PIÙ CARI PER I CONSUMATORI ITALIANI CHE ORA PAGANO DI PIÙ

Dopo le dimissioni di Draghi l’interpretazione dei dati definitivi dell’Istat sull’inflazione a giugno (+8%) e delle stime di Bankitalia sulla crescita (con il blocco del gas russo è recessione: -2%, ora il Pil è al +3,2%) restano prigionieri del «teatrino della politica» considerato una patologia nazionale o una psicopatologia dei Cinque Stelle. Commissione europea, sindacati, politici e media internazionali: a nessuno è venuta in mente l’idea che siano la manifestazione di una crisi globale che sta rovesciando i presupposti che hanno spinto alla creazione del governo di «larghissime intese», «senza formule politiche». Quello che poi è imploso per il caos creato dai veti incrociati dei partiti e poi per la decisione di Draghi di tagliare i ponti dopo che i Cinque stelle si sono incastrati nella pasticciata gestione del non-voto al Senato sul «Decreto aiuti».

LA REDAZIONE CONSIGLIA:
La crisi di Draghi spiazza le «larghe intese» in Europa
Sebbene il governo sia andato in crisi già dopo la rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale, la sua formula continua a essere considerata buona in sé. Lo pensa il commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni secondo il quale «in acque agitate la stabilità è valore in sé». Per i sindacati questa «è la crisi peggiore nel momento più difficile» (Cisl); «Non è il momento di indebolire il paese e bloccare le riforme» (Cgil); «La sensazione è che siano rinchiusi in un palazzo distante dalla vita reale» (Uil). Questo è vero, ma lo era anche prima.

In un clima da fine del mondo si aggira un fantasma: il «patto sociale». Draghi lo avrebbe proposto il 12 luglio ai sindacati. In due casi su tre hanno anche criticato l’estrema genericità dei suoi annunci, tanti ne ha fatti in questi mesi. Cgil e Uil, hanno rivendicato lo sciopero generale di dicembre scorso per rinnovare i contratti nazionali e aumentare i salari. In queste condizioni, negli ultimi sette mesi della legislatura, quali «riforme» avrebbe potuto fare un esecutivo bloccato? La riforma fiscale che ha fatto esplodere l’ex maggioranza in pezzi? La riforma del sistema pensionistico che nel 2023 vedrà un ritorno integrale alla legge Fornero, contestatissima dalla metà dei partiti e difesa dall’altra metà? Quella del «salario minimo» mentre in realtà si parla di «minimi contrattuali»?

La crisi, fino a poche ore fa intesa in termini economici, sociali o militari, mostra il suo lato politico, sia pure nelle forme grottesche di cui sono capaci i Cinque Stelle, o di ciò che ne resta. E infatti, più che farla, la stanno subendo. La sua natura molteplice si rispecchia nell’inflazione che, storicamente, è sempre politica. L’otto per cento registrato dall’Istat, valore più alto dal 1986, è il risultato dell’aumento dei prezzi dell’energia causato dai ricatti russi e dalla speculazione sulle materie prime. Si sta propagando agli alimenti e, in misura più contenuta, ai servizi. E aumenta le differenze di classe: la spesa delle famiglie meno abbienti è passata dal +8,3% del primo trimestre al +9,8% del secondo trimestre 2022, mentre per quelle più abbienti dal +4,9% al +6,1%. I più colpiti sono i minori poveri, sostiene Save The Children. Si capiscono allora le ragioni di chi chiede da due anni l’estensione del «reddito di cittadinanza». E cosa ha fatto il governo Draghi, dunque anche i Cinque Stelle? A dicembre 2021 hanno imposto nuove condizionalità per restringerlo.

Per l’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente (Arera), ieri ha presentato la Relazione annuale, la media dei prezzi del gas naturale per i consumatori domestici era, già prima della crisi, più alta della media dei prezzi dell’area euro. Al contrario i prezzi per l’industria erano inferiori. Con il quadruplicamento dei prezzi dal 2020 questa situazione è disastrosa per i cittadini e per i lavoratori, i primi a essere colpiti qualora il gas fosse fermato. Ciò richiederebbe una riforma del mercato per mettere fine alle speculazioni, e non solo i bonus in bolletta che sono stati riconosciuti a 4 milioni di persone. Con lo spauracchio del razionamento nel prossimo inverno saranno i subalterni a essere bastonati. «Servono i piani di emergenza» sostiene l’Arera.
Questa situazione è stata affrontata da Draghi con 33 miliardi di misure estemporanee, come suggerito da tutte le istituzioni internazionali, che hanno attutito il colpo. Ma che devono essere rinnovate con il rischio di rendere insostenibile lo sforzo. I 10 miliardi o più del «decreto luglio» – probabilmente non sarà varato – sono la prova di un affanno, non di una prospettiva.

Dai sindacati alla società civile sono state chieste “misure strutturali”, dunque non solo lo scostamento di bilancio chiesto da tutti i partiti. La decontribuzione degli aumenti nel rinnovo dei contratti o il taglio del cuneo fiscale a favore dei lavoratori, per esempio. Confindustria non è d’accordo. Per fare le cose occorre scegliere. Draghi non era in questa posizione. Il suo però non è un capriccio. È un’idea criticabile del ciclo economico. Pensa che questa crisi sia passeggera, mentre si è concatenata a quella precedente, e tra poco la crescita tornerà a splendere con il «Pnrr». Un piano di difficile attuazione che rilancia il modello economico che ha prodotto il disastro al quale è stata affidata la «ripresa». Nel 2026, e oltre. Questa discrasia temporale, frutto di una visione sfocata, non è l’antidoto ma un propulsore della crisi.
*(Roberto Ciccarelli, filosofo, blogger e giornalista, scrive per il manifesto. Ha pubblicato, tra l’altro, Il Quinto Stato (con Giuseppe Allegri),

 

05 – Roberto Ciccarelli*: ECONOMIA. DRAGHI, 516 GIORNI DI POLITICHE ECONOMICHE CONSERVATRICI E FALLIMENTARI. LA CRISI. BONUS BRUCIATI DALL’INFLAZIONE, INVECE DI VERE RIFORME SOCIALI STRUTTURALI. DALLA RIFORMA FISCALE AI BONUS EDILIZI FINO A UNA FANTOMATICA “AGENDA SOCIALE”. GLI EFFETTI DELLA POLICRISI CAPITALISTICA HANNO COLPITO LA PARTE PIÙ DEBOLE, E CONTRADDITTORIA, DELLA COALIZIONE “SENZA FORMULE POLITICHE”: I CINQUE STELLE. E CONTINUERANNO A DIVORARE LA POLITICA DEL PALAZZO DALL’INTERNO

Dopo 516 giorni il governo Draghi è stato piegato dai primi effetti prodotti dalla crisi economica sulla forza politica più indebolita, e contraddittoria, della sua maggioranza «senza formule politiche»: i Cinque Stelle. Incapace di imporre un’«agenda sociale», concessa da Draghi solo poche ore prima le sue dimissioni, questo partito capace di stare al governo con tutti non è però riuscito a imporre il suo progetto di «salario minimo» che giace nei cassetti del parlamento da quattro anni. In compenso ha accettato di peggiorare il «suo» reddito di cittadinanza, già pensato come una feroce politica di Workfare, con la legge di bilancio del 2021. Solo alla fine ha avuto un sussulto, quando la «sua» maggioranza ha votato un emendamento di Fratelli d’Italia al «decreto aiuti» che esautora i centri dell’impiego e attribuisce ai datori di lavoro privati un potere teorico e inapplicabile di denunciare i beneficiari del «reddito» che rifiutano un’«offerta di lavoro congrua». Troppo tardi. Le contraddizioni si pagano.

Insieme al termovalorizzatore che il Pd del sindaco Roberto Gualtieri vuole costruire a Roma, l’altro motivo della crisi politica è stato il superbonus 110%. Un’altra bandiera di un partito-non partito che ragiona con la logica delle «politiche identitarie». Su questa misura, e su tutti gli altri bonus, sull’edilizia c’è stata nella maggioranza una lotta senza quartiere. Il governo «Conte 2» li ha adottati pensando, non a torto, che la «crescita» del Pil sarebbe stata rilanciata nel paese dell’individualismo proprietario basato sul mattone. E, insieme al numero dei morti sul lavoro nei cantieri, questa idea «sviluppista» ha prodotto risultati. Nella necropolitica di un capitalismo in crisi, e dunque sempre più feroce, la misura ha alimentato un «rimbalzo tecnico» dopo il crollo colossale del Pil (-8,9%) avvenuto nel 2020 a causa dei lockdown necessari per contenere la diffusione del Covid. Il superbonus ha prodotto anche una fiammata dell’occupazione precaria e ha dato un parziale contributo della ristrutturazione energetica e antisismica. La polemica è scattata sugli abusi miliardari denunciati dall’Agenzia delle entrate, dalla Guardia di finanza e dalla Corte dei Conti. In realtà, il vero problema è stato creato da un altro bonus, quello «facciate», non sostenuto dai Cinque Stelle. Ecco un altro dei tanti equivoci di questi mesi.

Poi il caos: il governo è intervenuto con misure parziali, e confuse, che hanno bloccato le attività intraprese con il rischio di fallimenti a catena di piccole e piccolissime imprese, alcune delle quali nate negli ultimi tempi vista l’abbondanza dei fondi a disposizione. Così è emerso un aspetto decisivo per comprendere il segno del governo Draghi, e di quello che lo ha preceduto (il «Conte2»): il suo essere conservatore dal punto di vista sociale. Questa politica dei bonus ha avuto effetti distribuitivi molto spostati sui ceti medi e medio-alti. Non ha risolto nulla dell’emergenza abitativa, così come non ha trasformato nulla nello Stato sociale, l’unico strumento potenzialmente universale capace di contenere gli effetti della policrisi in corso dal 2020.

Il caso di scuola di questa politica neo-conservatrice, tipica dei regimi neoliberali esistenti, è quello della rimodulazione delle aliquote Irpef. Con questa manovra , contestatissima dai sindacati, il governo Draghi ha dato di più a chi ha di più e di meno a chi ha di meno. È stato penalizzato l’85% dei lavoratori e pensionati che hanno un reddito sotto i 40 mila euro. Una riforma fiscale regressiva che ha fatto un intervento sulle fasce meno abbienti e più in difficoltà, anziché dedicare risorse pubbliche a chi ha già tanto e poche briciole a chi stenta ad arrivare a fine mese.

Senza contare che gli effetti minimi di questa operazione sono stati divorati dalla mega inflazione esplosa solo poche settimane dopo. Lo stesso destino è riservato ai 200 euro distribuito a una platea di oltre 31 milioni di persone. Così ampia da rendere inutile la distribuzione di altri 5,6 miliardi. Una pioggerella nel deserto. È l’incapacità di immaginare un’altra politica davanti a eventi drammatici che hanno piegato il sistemagià travolto dal Covid. E continueranno a divorarlo dall’interno
*( Roberto Ciccarelli, filosofo, blogger e giornalista, scrive per il manifesto. Ha pubblicato, tra l’altro, Il Quinto Stato (con Giuseppe Allegri).

 

06 – Michele Giorgio*: PER BIDEN L’INDIPENDENZA PALESTINESE PUÒ ATTENDERE PALESTINA. INCONTRANDO IERI A BETLEMME IL LEADER DELL’ANP ABU MAZEN, IL PRESIDENTE USA HA DETTO CHE «IL TERRENO NON È MATURO PER RIAVVIARE NEGOZIATI TRA ISRAELIANI E PALESTINESI». NEL POMERIGGIO BIDEN HA RAGGIUNTO L’ARABIA SAUDITA
Con il primo volo diretto di un presidente americano da Israele in Arabia saudita, ieri Joe Biden ha concluso la visita in Israele e quella, molto breve, nei Territori palestinesi occupati ed è sbarcato a Gedda per rinsaldare l’alleanza con il paese che in campagna elettorale aveva promesso di trasformare in un paria dopo la conclusione dell’intelligence Usa che il principe ereditario Mohammed bin Salman (Mbs) era stato il mandante dell’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi. Pace fatta, tutto dimenticato. Biden ha solo evitato di stringere la mano all’erede al trono e lo ha salutato battendo il pugno. A Gedda oggi il presidente americano parteciperà al summit Gcc+3 che vede la presenza dei leader di Arabia Saudita, Kuwait, Oman, Bahrain e Qatar, più Iraq, Giordania ed Egitto. E potrebbe annunciare i primi passi della normalizzazione tra Tel Aviv e Riyadh.
Alle spalle Biden ieri si è lasciato la delusione del presidente palestinese Abu Mazen, con il quale ha parlato a Betlemme non più di mezz’ora. Il leader dell’Anp si è presentato alla conferenza stampa parlando di «mano tesa per la pace» a Israele. «Chiediamo – ha spiegato – una pace fondata sulle risoluzioni internazionali, l’Iniziativa di pace araba e gli accordi firmati». Poi ha chiesto: «Dopo 74 anni di Nakba, sfollamenti e occupazione, non è il momento che finisca l’occupazione e che il popolo palestinese ottenga libertà e indipendenza?». Invece secondo Biden «il terreno non è maturo per riavviare negoziati». Per il presidente Usa, la libertà dei palestinesi può attendere dopo 55 anni di occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est, città che il presidente americano ha descritto come la capitale di Israele non discostandosi dalla decisione unilaterale presa nel 2017 dal suo predecessore Trump. Non è altro che una dichiarazione vuota il sostegno alla «soluzione a Due Stati» lungo «le linee del 1967» espresso da Biden. «Due Stati con scambi (di terre) reciprocamente concordati restano il miglior modo per raggiungere misure uguali di sicurezza, prosperità, libertà e democrazia per palestinesi e israeliani», ha proclamato il presidente aggiungendo che il popolo palestinese «ha diritto a uno proprio stato, indipendente, sovrano, vivibile e contiguo». A cosa serve affermarlo se Israele continua liberamente a costruire insediamenti coloniali ovunque nei territori occupati rendendo impossibile la creazione di quello Stato «sovrano, vivibile e contiguo» a cui si riferisce Biden.
Così la cosa più concreta che Biden ha fatto ieri a Betlemme è dispensare un po’ di fondi statunitensi. 200 milioni di dollari andranno all’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi. Altri 100 milioni saranno stanziati per i servizi sanitari. E annunciando questi finanziamenti ha indirettamente accusato di corruzione l’Anp di Abu Mazen esortandola a «rafforzare le istituzioni palestinesi e a migliorare la governance e la trasparenza».
Trasparenza la chiedono anche i palestinesi, ma agli Usa. A centinaia hanno manifestato ieri a Betlemme contro le ambiguità della politica estera di Washington e per chiedere giustizia e verità per Shireen Abu Akleh, la giornalista con cittadinanza Usa uccisa a Jenin l’11 maggio scorso. Per il Dipartimento di stato americano è stata colpita con ogni probabilità da fuoco israeliano ma non «intenzionalmente». Una versione respinta dalla famiglia Abu Akleh che invano ha chiesto di incontrare Biden. «Chiediamo che siano assicurati alla giustizia i responsabili della morte di Shireen Abu Akleh», ha esortato anche Abu Mazen. Biden si è limitato a rispondere che «gli Stati uniti continueranno a insistere su un resoconto completo e trasparente della morte della giornalista». Ieri, nella sala stampa, i colleghi di Abu Akleh hanno riservato per lei una poltrona su cui hanno deposto la sua immagine. Cartelloni in memoria della reporter sono stati esposti nella piazza della Mangiatoia a Betlemme.
*(Michele Giorgio, giornalista, da anni vive in Medio oriente da dove è del quotidiano il manifesto. Per Alegre ha pubblicato nel 2012 Nel baratro.)

 

07 – Massimo Villone*: LE OPZIONI DI DRAGHI E QUELLE DI MATTARELLA. TRE IPOTESI. 1) IL GOVERNO È DIMISSIONARIO, MA RIMANE IN CARICA FINO ALLA NOMINA DI UNO NUOVO O ANCHE FINO ALLE ELEZIONI. 2) UN NUOVO GOVERNO, IN CARICA MA IN ATTESA DEL VOTO DI FIDUCIA.
Tanto tuonò che quasi piovve. La crisi era ampiamente annunciata. Con il rigetto delle dimissioni di Draghi e il rinvio alle camere Mattarella ha mantenuto aperto uno spiraglio, legato al passaggio di mercoledì prossimo in Senato.
Fin qui, tutto secondo copione. Nel turbinio di commenti si è rilevato che Draghi è salito al Quirinale una prima volta senza alcun previo passaggio in consiglio dei ministri. Un punto forse politicamente, ma non formalmente, rilevante. Il “potere della crisi” è nelle mani del premier, la cui decisione di dimettersi non richiede una necessaria condivisione con il consiglio.

Il doppio passaggio di Draghi al Colle può segnalare la diversità di vedute tra lui e Mattarella. È probabile che già nella prima visita Draghi abbia manifestato la sua intenzione di dimettersi, dando seguito alle affermazioni circa la necessaria partecipazione di M5S all’esecutivo. Possiamo ipotizzare che Mattarella, prendendo spunto dalla fiducia comunque espressa in Senato, abbia cercato di fargli cambiare idea. Ma in realtà, se Draghi avesse insistito sulle dimissioni, Mattarella avrebbe potuto solo prendere atto. Il rinvio alle camere è un invito che non obbliga il destinatario a ottemperare. Questo indica che nel passaggio parlamentare di mercoledì prossimo tutto dipenderà da Draghi, che potrebbe confermare le dimissioni anche laddove ottenesse nuovamente la fiducia, o anche confermarle subito dopo aver svolto le proprie comunicazioni, e senza nemmeno aspettare il voto.
Mentre il potere della crisi è nelle mani del premier, quello di decidere cosa accade dopo è nelle mani del capo dello stato. Così mercoledì prossimo abbiamo due scenari principali. Il primo. Il senato vota sulle comunicazioni del governo, e concede la fiducia, anche con meno della metà più uno dei componenti (non essendo richiesta una maggioranza qualificata) e da parte solo di alcune delle componenti della precedente maggioranza. Se il presidente del consiglio non rinnovasse le dimissioni, il governo sarebbe comunque validamente immesso nella pienezza dei poteri, e la vicenda si chiuderebbe.
Il secondo scenario è dato dall’ipotesi che Draghi rinnovi comunque le dimissioni. Mattarella, dopo un giro di consultazioni secondo prassi, ha varie opzioni. Può anzitutto immediatamente decidere lo scioglimento anticipato delle camere, mandando il paese alle urne probabilmente tra fine settembre e inizio ottobre, e lasciando l’esecutivo in carica per il “disbrigo degli affari correnti”. Oppure può conferire l’incarico di formare un nuovo governo allo stesso Draghi – ipotesi che si mostra al momento improbabile – o ad altri. Potrebbe anche nominare un governo privo di un sostegno parlamentare certo e predeterminato. Una scelta la cui correttezza istituzionale verrebbe dalla grave situazione sociale, politica, economica in cui il paese versa, dalla necessità di attuare il Pnrr, dalle preoccupazioni che vengono dalla pandemia e dagli scenari di guerra.
Cosa può conclusivamente accadere dopo mercoledì? Abbiamo tre ipotesi. La prima: il governo è dimissionario, ma rimane in carica fino alla nomina di un nuovo governo o anche fino alle elezioni. La seconda: un governo di nuova nomina, in carica ma in attesa del voto di fiducia delle camere. La terza: un governo di nuova nomina, che però riceve il voto negativo anche di una sola camera. In tutti questi casi abbiamo un esecutivo privo di fiducia.
La domanda è: cosa può fare un governo privo di fiducia? In principio, deve limitarsi all’ordinaria amministrazione (il “disbrigo degli affari correnti”). Ma il concetto è elastico. In generale, ciò che è oggettivamente urgente o assoggettato a scadenze indifferibili può rientrare. Un governo senza fiducia potrebbe ad esempio presentare una legge di bilancio (il termine per la presentazione alle camere è il 15 ottobre), o adottare tutti gli atti indispensabili e indifferibili per la tempistica del Pnrr. Diversa considerazione potrebbe farsi per decisioni non assoggettate a termine né oggettivamente urgenti e indifferibili, come ad esempio l’invio di armi per la guerra in Ucraina.
Ovviamente, rispetto alla legittimazione formale ad adottare atti è altra cosa avere la forza politica di adottarli. Altra cosa ancora è avere la forza di orientare l’indirizzo politico, ad esempio combattendo l’aumento esponenziale della povertà, l’inflazione che ancora in prospettiva la accresce, i tanti diritti dimidiati in tanta parte del paese. La storia insegna che alla fine il prezzo della precarietà politica e istituzionale è pagato sempre dai più deboli. I forti si difendono da soli.
*(Massimo Villone, è un politico e costituzionalista italiano. È professore emerito di Diritto costituzionale nell’Università degli …)

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