1754 Piero Fassino: Il partito che vogliamo

20060714 13:08:00 webmaster

Riprendiamo ampi stralci tratti dall´editoriale di Piero Fassino al numero della rivista «Italiani Europei – bimestrale del riformismo italiano» da oggi in edicola. L’articolo sarà spunto per una discussione tra lo stesso segretario dei Ds, Giuliano Amato e Alfredo Reichlin, che si terrà sempre oggi alle 15 presso la Sala Olimpo dell’Hotel Minerva a Roma.

(da l’Unità del 14 luglio 2006)

Con la vittoria nelle elezioni politiche del 10 e 11 aprile e con i risultati confortanti delle elezioni amministrative di maggio non soltanto si chiude un ciclo elettorale intenso e impegnativo, ma soprattutto si è aperta una nuova stagione politica caratterizzata dall’esaurirsi del berlusconismo e dal ritorno a responsabilità di governo di una coalizione riformista e progressista. Da questo mutamento radicale di scenario occorre adesso trarre tutte le conseguenze e rivolgere la nostra attenzione alle nuove sfide che ci attendono. (…)

E ora tocca al centrosinistra riprendere in mano le redini di un’Italia che – proprio per effetto della politica della destra – è un Paese oggi più esposto al rischio di un declassamento della sua forza economica e di una regressione della sua coesione sociale e nazionale. Oggi governare non è davvero solo amministrare bene. Serve uno scatto, un salto, una «scossa» come l’ha chiamata Romano Prodi. Una scossa che rimetta in movimento l’Italia e restituisca fiducia e certezze ai tanti – le imprese, le famiglie, i giovani, il mondo del lavoro, le donne – che hanno visto la loro vita insidiata da molte forme di incertezza, precarietà, solitudine. Vincere la prova del governo è dunque la prima grande sfida che sta di fronte a Romano Prodi e al centrosinistra. Per vincerla, tuttavia, occorre misurarsi anche con l’altra grande sfida che ci consegna il voto del 9 e 10 aprile: il tema cruciale della trasformazione dell’Ulivo da alleanza politico-elettorale a soggetto politico a tutto tondo. (…)

Abbiamo fatto del rilancio dell’Ulivo il perno per la ricostruzione dell’unità del centrosinistra e abbiamo presentato per tre volte consecutive l’Ulivo agli elettori – nelle elezioni europee del 2004, nelle regionali del 2005, nelle politiche del 2006 – raccogliendo ogni volta un consenso di circa un terzo del corpo elettorale. Non solo, ma nelle aree socialmente più dinamiche – le città, i territori urbani, i giovani – il consenso raccolto dall’Ulivo è stato più ampio di quello dei suoi partiti. Tant’è che, all’indomani delle elezioni, è apparsa naturale la formazione dei gruppi parlamentari dell’Ulivo; come naturale è apparso presentare il simbolo dell’Ulivo anche nelle principali città andate al voto il 28 e 29 maggio. A conferma che l’Ulivo è un soggetto nel quale si è venuta riconoscendo via via una quantità crescente di elettrici e di elettori, una parte dei quali non hanno appartenenza partitica.

E questa è la ragione per cui sono convinto che nel nome del nuovo partito, comunque lo si chiami, si dovrà fare esplicito riferimento all’Ulivo, perché in questo simbolo e in questo nome si riconoscono già oggi milioni di donne e di uomini.

Ho richiamato queste considerazioni per ricordare che quel progetto politico che comunemente viene chiamato «Partito democratico» non nasce oggi. Ha alle spalle già undici anni di vita. E anche per questo è necessario portarlo a compimento con la definitiva trasformazione dell’Ulivo in un grande partito democratico e riformista. Per realizzare questo obiettivo è tempo che la discussione sul Partito democratico viva concretamente nella società italiana. Un partito nuovo, infatti, soprattutto se corrisponde ad un progetto politico ambizioso e di ampio respiro, non può nascere in laboratorio. (…)

Il dibattito sul nuovo soggetto politico tende spesso ad incagliarsi sui nomi, sulle date, sugli organigrammi, sulla leadership: non sono questioni secondarie, ma quando prevalgono su tutto il resto rischiano di soffocare una riflessione che deve invece essere culturalmente densa e alta, arricchita da una larga partecipazione adeguata all’importanza di un progetto politico che vuole avere portata storica e non contingente.

Non serve, quindi, chiudersi in un angusto dibattito organizzativo. Non è questo che ci chiedono i milioni di cittadini italiani che dal 1996 ad oggi hanno accompagnato la nascita e l’affermazione dell’Ulivo: persone in carne e ossa che con la loro passione, la loro generosità, la loro dedizione hanno confermato via via di avere fiducia nella nascita di una forza politica unitaria, riformatrice, progressista, capace di rappresentarne bisogni e idee, aspirazioni e valori. E di tradurli concretamente in progetto di governo.

La costruzione dell’Ulivo come partito democratico e riformista deve, dunque, essere il frutto di un processo politico vero, nel quale la consapevolezza dei mutamenti sociali, economici e culturali che hanno investito il mondo, l’Europa, l’Italia nell’ultimo quarto di secolo, si incontri con la capacità di interpretare il futuro, di rappresentare i nuovi bisogni e i nuovi diritti, di indicare il profilo e la qualità del modello di sviluppo che deve caratterizzare l’Italia, nonché la collocazione del nostro Paese nei nuovi scenari dell’interdipendenza globale e dell’integrazione europea.

(…) La funzione primaria di un partito politico è guidare una nazione, pensarla e collocarla negli orizzonti più larghi del mondo, concorrere alla costruzione di identità collettive e radicarle in un sistema di valori condivisi, promuovere coesione sociale e senso di appartenenza, coniugare partecipazione e decisione, selezionare una classe dirigente e plasmarla intorno a valori forti. Per chi crede nella democrazia, questa funzione non è affatto scomparsa nel tempo liquido della modernità, ma acquisisce un’attualità, un’urgenza ancora più stringenti. Insomma il nostro problema, la questione di fondo che dobbiamo affrontare, è come si declina la funzione nazionale e dirigente in una società che tende ad essere sempre più organizzata intorno alle persone e non solo alle identità sociali collettive; una società nella quale il primato dell’interesse generale è insidiato dall’emergere di vecchi e nuovi corporativismi; una società nella quale le maggiori opportunità di libertà, autonomia, realizzazione non mettono al riparo da nuovi rischi di precarietà, emarginazione, incomunicabilità. E il ruolo della politica, dei partiti, si ritrova essenzialmente nell’esigenza, solo apparentemente banale, di ampliare il più possibile quelle opportunità e ridurre il più possibile quei rischi.

(…)Ovunque in Europa i sistemi politici sono caratterizzati da tre regole: in primo luogo tendono ad articolarsi attorno a due opzioni, una progressista e una conservatrice. Ed è così anche in Italia. In secondo luogo quasi ovunque queste due opzioni non si riconoscono in due partiti, ma in due coalizioni pluripartitiche. Ed è così anche in Italia. E, infine, ovunque – caratteristica assai più labile in Italia – la solidità delle due coalizioni è dovuta al fatto che ciascuna è guidata e diretta da una forza principale di vasto radicamento sociale, di largo consenso elettorale, di forte cultura di governo. È esattamente per colmare questa lacuna nel sistema politico italiano che serve il partito dell’Ulivo. Tanto più oggi, dopo il voto del 9 e 10 aprile, vinto da una coalizione di centrosinistra composta da tredici partiti, obiettivamente esposta a rischi di fragilità e distinzioni. Esistono dunque precise ragioni sociali e politico-istituzionali che portano ad affermare che serve un «Partito democratico».

Una volta spiegata la sua necessità, occorre definirne l’identità. Un soggetto politico si definisce a partire da tre elementi: il sistema di valori, il profilo programmatico e la collocazione internazionale. Guardando a questi tre fattori, emerge l’originalità del Partito democratico italiano che per nascere ha bisogno di far incontrare le diverse culture politiche che hanno segnato la storia politica dell’Italia: il riformismo della sinistra, il riformismo cattolico-sociale e cattolico-democratico e il riformismo di matrice azionista, laica e liberaldemocratica. Peraltro, proprio il fatto che l’Ulivo abbia alle spalle undici anni di vita ha già consentito di costruire via via un’intelaiatura valoriale e progettuale, fondata sull’incontro tra questi riformismi, la loro reciproca contaminazione culturale, la maturazione di esperienze e azioni politiche e programmatiche comuni.

Non è difficile quindi individuare i tratti del riformismo su cui fondare il Partito democratico: la pace e la consapevolezza delle responsabilità, anche difficili, che si debbono assumere per affermarla; l’Europa e la sua integrazione come lo spazio, il luogo, la dimensione del futuro dell’Italia; il ruolo insostituibile del mercato e il valore dell’impresa per realizzare quell’accumulazione e quella crescita senza le quali non sarebbe possibile alcuna politica redistributiva; il sapere come leva fondamentale sia per innalzare la qualità dello sviluppo e la specializzazione del sistema produttivo, sia per restituire valore al lavoro e al talento individuale; le politiche redistributive e lo Stato sociale come strumenti insostituibili per realizzare uguaglianza, equità e coesione sociale; la tutela della natura e della specie come condizione per una più alta qualità individuale e collettiva; la parità di genere per realizzare una società in cui uomini e donne abbiano effettivamente gli stessi diritti e le stesse opportunità; la laicità come capacità di riconoscere le scelte di vita di ciascuno e garantire uguaglianza di diritti e di opportunità, consentendo a ogni persona di vivere la propria libertà nella responsabilità. Su ciascuno di questi temi oggi l’Ulivo è già espressione di un nuovo riformismo sorto dall’incontro tra riformismi diversi e dalla sintesi delle loro esperienze e del loro pensiero.

Quanto alla collocazione internazionale di un futuro Partito democratico, non sfugge a nessuno che la sfida sta nell’individuare un punto di coesione e di compatibilità tra la geografia politica italiana e la geografia politica europea.

Stabilito che in Italia il Partito democratico è l’incontro tra culture e riformismi diversi, è altrettanto vero che nel panorama europeo la stragrande maggioranza delle forze politiche che si richiamano al campo progressista, democratico e riformista sono socialiste e socialdemocratiche. Tant’è che Anthony Giddens – uno dei teorici della Terza via di Tony Blair – non esita a scrivere: «Trovo interessante il progetto di aggregazione che porterebbe alla creazione in Italia di un Partito democratico, anche se spererei che fosse più socialdemocratico nel suo orientamento dei Democratici americani». E aggiunge: «Potrebbe cominciare andando a vedere nel concreto l’esperienza dei Paesi scandinavi (…) gli italiani non possono diventare degli scandinavi, ma possono imparare molto (come altri Paesi in Europa) dalle politiche di cui quei Paesi sono stati pionieri. I Paesi scandinavi hanno i livelli più alti di giustizia sociale non soltanto in Europa, ma in tutto il mondo. Ma hanno anche alti tassi di crescita, una crescita che marcia di pari passo con un livello di occupazione alto e stabile. Hanno dimostrato che crescita economica e giustizia sociale non sono solo compatibili, ma interdipendenti».

Peraltro, una riflessione sulla collocazione internazionale del Partito democratico non può prescindere dai mutamenti intervenuti nello scenario politico europeo. Troppo poco, ad esempio, si è riflettuto in Italia sul fatto che la crisi della Dc italiana, all’inizio degli anni Novanta, determinò il venir meno di quell’asse preferenziale tra le due principali Democrazie Cristiane del continente – la Dc italiana e quella tedesca – su cui si reggeva il Ppe. Venuta meno una delle due, Helmut Kohl per evitare il rischio di una pericolosa solitudine guidò la trasformazione del Ppe da partito europeo dei partiti democratici cristiani a partito dei partiti moderati e conservatori, aprendo le porte del Ppe ad Aznar, ai conservatori inglesi, a Berlusconi e ad altri.

Un processo che, a sua volta, ha portato alla nascita di nuove aggregazioni, quali ad esempio il Partito Democratico Europeo (Pde) promosso dalla Margherita per aggregare forze di ispirazione liberaldemocratica e cristiano-progressista non disponibili ad accettare la deriva conservatrice del Ppe. Si tratta di verificare se sia immaginabile un processo politico analogo che veda il Pse – in cui oggi siedono partiti socialisti e socialdemocratici di ogni Paese europeo e tra essi Ds e Sdi – aprirsi a un incontro con altre esperienze riformiste e progressiste, quali quelle di ispirazione cristiana, liberaldemocratica e ambientalista. (…)

So bene che la collocazione internazionale ed europea del nuovo Ulivo è forse uno dei passaggi più delicati. E anche per questo si tratta di costruire con pazienza e innovazione una soluzione coerente sia con il profilo riformista del nuovo soggetto, sia con il suo pluralismo costitutivo.

Queste osservazioni rendono evidente come non si possa circoscrivere un progetto politico così ambizioso agli angusti confini di una sola «fusione fredda» tra Ds e Margherita. Questi due partiti sono stati, insieme a Romano Prodi, i promotori dell’Ulivo. E continueranno ad esserne i protagonisti. Ma se l’intesa tra Ds e Margherita è condizione necessaria, può da sola non essere sufficiente per far vivere pienamente l’esperienza dell’Ulivo e la sua evoluzione in un nuovo Partito democratico. (…)

Pubblicato il 14.07.06

 

 

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