20061114 22:07:00 webmaster
Tito Pulsinelli da Caracas
Lula da Silva ha effettuato la sua prima visita uficiale, come Presidente rieletto, in Venezuela. Nella regione amazzonica, dove la parte meridionale venezuelana è divisa dal Brasile dal maestoso fiume Orinoco, congiuntamente a Chavez hanno inaugurato un ponte che è costato 1 miliardo e 200 milioni di dollari.
Si tratta di una gran opera di infrastruttura basica, lunga 4 chilometri, destinata al traffico automobilistico e a una linea ferroviaria. Il ponte Orinoquia è il fiore all’occhiello del governo di Chavez, che ha dato la precedenza assoluta alla creazione di linee di comunicazione ferrioviaria, autostradale e metropolitana nelle tre maggiori città.
Il Venezuela odierno è un grande cantiere di costruzione, al punto che la produzione nazionale di cemento è insufficiente per soddisfare la domanda crescente. Si è dovuto far ricorso all’importazione di cemento cubano e di tondini brasiliani, per non rallentare la costruzione di centomila case popolari.
Le elezioni presidenziali del 3 di dicembre prossimo non hanno storia, il risultato è scontato, l’unica incertezza è il margine di vantaggio con cui Chavez verrà confermato. Tutte i sondaggi concordano sul risultato, con una variazione del 20% a 30% a favore del movimento bolivariano.
Al di là dei sondaggi, si impone un dato: nessun politico che ha praticato una generosa politica di welfare ha mai perso elezioni. Il governo di Caracas ha destinato il 30% del suo bilancio del 2006 alla spesa sociale: istruzione, salute, pensioni.
Questa è, in sostanza, la politica che i neoliberisti bollano con disprezzo come "populista", o quello che a Washington designano come "uso pericoloso del petrolio come arma geopolitica". Un Paese che possiede i maggiori giacimenti del mondo, usa le straordinarie entrate petrolifere per attuare una politica di ridistribuzione. D’altronde, che dovrebbe fare un governo che si è sbarazzato otto anni fa del FMI? Che dovrebbe fare un governo antiliberista?
In altre parole, il "populismo" è la bolla di scomunica con cui i settori minoritari che prima di Chavez accaparravano la rendita del petrolio, cercano disperatamente di far abortire la nuova politica di redistribuzione. Gli Stati Uniti, va da sè, sponsorizzano questi settori perchè sono favorevoli alla privatizzazione dei giacimenti e delle materie prime. Cercano di rimettere in gioco quelle multinazionali anglosassoni che, fino a 9 anni, avevano in mano il pallino.
Il Presidente Lula ha ratificato l’alleanza strategica con il Venezuela e il suo appoggio pieno a Chavez, nell’avvio delle trivellazioni sottomarine nella foce dell’Orinoco, dove Petrobras -congiuntamente alla venezuelana PDVSA- ha messo mano alla fase iniziale del progetto che dovrà culminare nel Gran Gasodotto del Sud.
Parallelamente, nel mondo fittizio della comunicazione monopolizzata, continua il carnevale di dichiarazioni fantasiose e provocatorie di leader o ex leader, campioni di cause perse. Tra questi, brillano l’ex caudillo neo-falangista spagnolo Jose Maria Aznar, lo scrittore "londinese" Vargas Llosa, il giro mediatico di Miami e quello della sinistra liberista europea (El Paìs, L’Espresso).
O quelli autoctoni, come Teodoro Petkof, ultimo ministro ministro venezuelano delle finanze, noto per aver abolito il fondo pensioni, e per risarcire i banchieri che, dopo, il crack trasferirono all’estero il bottino del risparmio pubblico.
Poi abbonda una nuova tipologia, quelli che -dopo averla avversata e combattuta con ogni mezzo- spiegano alla sinistra come si fa una politica di sinistra "moderna" e "matura". Per loro, la sinistra "civilizzata" è quella che mette in pratica i diktat fondomonetaristi, o che continua a privilegiare le oligarchie. Sono i reduci della breve vita della "teoria delle due sinistre", come il messicano Castañeda, ora in servizio permanente effettivo del neoliberismo del PAN, in salsa Opus Dei.
La confezione di una realtà pret-a-porter è l’attività preferita di queste lobby minoritarie, che agiscono scopertamente come surrogati del sistema (in crisi) dei partiti politici.
Ultimamente, di fronte ai movimenti sociali che sono un fattore deteminante della svolta politica di questo continente, la nuova infamia lanciata da Vargas Llosa -e banalizzata dal coro mediatico- è che questo nuovo protagonismo storico delle popolazioni originarie sarebbe "fondamentalismo indigeno" (sic).
La confezione di una rappresentazione della realtà fittizia, strumentale, che si sostanzia e si ispira ai manuali della guerra psicologica, in Venezuela non riesce a cancellare la realtà quotidiana di una cittadinanza che si beneficia dello Stato sociale. La realtà è più forte della sua rappresentazione, anche quando la sceneggiatura viene scritta da abili romanzieri.
Costoro, hanno fatto fiasco anche quando tentarono di dare una verniciatura "democratica" al gioco sporco dei gorilla: un golpe e un sabotaggio dell’industria petrolifera, costato 20 miliardi di dollari, e un crollo del 15% della produzione nel 2002.
L’esecrato asse Caracas-Buenos Aires-Brasilia tiene botta, rafforza la sua area di influenza e si proietta al di là delle Ande (Bolivia) e sconfina persino nel "cortile blindato" centroamericano (Nicaragua).
C’è qualcosa di marcio tra gli sceneggiatori della rappresentazione della realtà latinoamericana. Siamo alla fine della mega-tornata elettorale continentale del 2006 e i conti non tornano, la realtà supera la loro necrotizzata fantasia.
2434-venezuela-la-realta-si-impone-alla-sua-rappresentazione
3210
2006-1
Views: 27
Lascia un commento