2514 Un 'Colloquio sulle migrazioni' per festeggiare i 25 anni di attività del Centro Astalli

20061208 16:35:00 webmaster

Il sottosegretario Lucidi: ”Non dobbiamo pensare di essere la fortezza sotto assedio”. Gad Lerner: ”Il voler essere padroni in casa propria blocca il sentimento della compassione”

ROMA – Un "Colloquio sulle migrazioni” per festeggiare i suoi primi 25 anni di attività. Così il Centro Astalli di Roma, il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati nella Capitale, ha celebrato il quarto di secolo: non solo ricordando le origini e la storia del Centro, ma con un dibattito di ampio respiro sui nostri timori, le nostre titubanze, le nostre aspettative nei rapporti con gli stranieri che ormai da anni vivono tra noi. “Per fare la storia di come nasce e come si sviluppa il Centro Astalli non si può non partire dalla figura di Padre Pedro Arrupe, che nel 1980 istituì il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati” da spiegato Padre Federico Lombardi, gesuita e direttore della Sala stampa vaticana. “E per noi gesuiti non è possibile parlare di lui senza emozione: padre Arrupe è stato un uomo dal carisma straordinario, una persona di grande fede, ampi orizzonti ed enorme passione cristiana per il mondo contemporaneo. Veniva dal Giappone dove aveva conosciuti gli orrori della bomba atomica, e presto si rese conto che i problemi e gli squilibri della contemporaneità interpellavano la Chiesa, la Compagnia di Gesù e i credenti in maniera radicale. Nel 1979”, continua Padre Lombardi, “il mondo fu scosso dalla realtà dei boat people vietnamiti: solo nei primi sei mesi di quell’anno 140mila persone lasciarono il loro Paese a bordo di imbarcazioni di fortuna, dove spesso incontrarono la morte. Di fronte a questa emergenza Padre Arrupe cominciò a chiedersi cosa si potesse fare concretamente e l"anno successivo invitò la Compagnia di Gesù a coordinare i propri sforzi per aiutare questi poveri tra i poveri. Coglieva la dimensione umana e spirituale di un problema, che non riguardava soltanto il corpo ma anche lo spirito. E si rendeva conto che i Gesuiti potevano avere lo spirito giusto per affrontare una sfida che andava affrontata non con l’atteggiamento della carità, ma con la vicinanza e la condivisione. Capiva che la nostra missione ci portava a confrontarci con i grandi problemi del mondo. Nell’81 padre Arrupe ebbe un ictus, ma per noi gesuiti il Servizio per i Rifugiati rappresenta il suo testamento apostolico e spirituale. Negli anni successivi il Servizio è cresciuto ed ha prodotto forme diverse di accompagnamento umano e spirituale per i rifugiati e i richiedenti asilo, ma tutto si è sviluppato intorno a questa prima intuizione originaria. Dai tempi di Arrupe il mondo è cambiato, ma il problema dei rifugiati è lo stesso: anzi, sul pianeta le persone costrette a lasciare il loro Paese sono passate dai 16 milioni di allora ai 50 di oggi. Perciò ancor oggi essere con i rifugiati significa essere nel punto più esatto per capire che questo non è un mondo giusto ed anche nel punto dal quale partire per cambiarlo. E per fare questo occorre essere non solo nei luoghi della decisione politica, ma anche in quelli dell’esperienza: per vivere una fede che non sia disincarnata, ma rappresenti una via di fede e di giustizia”.

“Quando pronunciamo la parola straniero pensiamo sempre a qualcuno che è straniero, ma non siamo mai portati a pensare che noi stessi siamo stranieri per gli altri”. Da queste premesse ha preso le mosse Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose. “Non c’è uno straniero davanti a noi, ci sono due stranieri l’uno di fronte all’altro. Non perdere di vista il fatto che siamo stranieri ci aiuta a capire chi è lo straniero, per arrivare a un dialogo e per capirlo. All’interno della Bibbia ci sono due affermazioni che riguardano lo straniero. Una ci dice “Dio ama lo straniero”, l’altra “tu amerai lo straniero” perché tu stesso sei stato straniero. E la prima ragione che ha portato Dio ad amare Israele è stato proprio l’amore per lo straniero. Ma va detto anche che all’interno del Cristianesimo lo straniero per eccellenza è stato Gesù. Nei Vangeli questo viene messo in luce più volte. Ma anche i cristiani si sono sentiti spesso in condizione di straneità. Il Nuovo Testamento insiste che la condizione del cristiano è quella di nomade e straniero, per loro ogni terra è patria e ogni patria è straniera. Io sono cresciuto ancora cantando”, continua Enzo Bianchi, “e pregando per gli infedeli, che erano da tenere ai confini della cristianità. Ma oggi la situazione è molto cambiata e noi abbiamo difficoltà ad affrontarla perché non siamo abituati alla pluralità e alla differenza continua. Questo deve essere l’impegno dei cristiani, perché l’incontro con gli altri è possibile e fragile. È necessario sentirsi in condizione di straniero, per essere capaci di esercitare l’accoglienza e l’ospitalità. Ed è proprio l’ospitalità la cosa più difficile, perché noi siamo in grado di aiutare gli stranieri ma non di accoglierli nelle nostre case. Padre Arrupe chiedeva soprattutto di stare insieme a loro e non di fare qualcosa per loro. Questa è l’accoglienza: ammettere l’altro nel nostro spazio. Altrimenti il rapporto con lo straniero è sempre molto fragile e rischia di trasformarsi nell’ostilità e nella creazione del nemico”.

"La parola straniero è legata ai termini estraneo, strano, straniamento", ha detto Gad Lerner, giornalista e scrittore, e lui stesso apolide fino all’età di venti anni. Alcuni percepiscono lo straniero con un senso di inquietudine perché lo vedono come il padrone dell’avvenire. Lo straniero è sì povero, lacero e disposto a lavorare in condizioni di totale e assoluto sfruttamento, ma viene comunque percepito come dotato di maggiori strumenti. Lo slogan ‘vogliamo essere padroni a casa nostra’ rappresenta esattamente la paura che lo straniero possa introdurre nuove abitudini tra noi, e questo timore è spesso accompagnato dall’idealizzazione di un passato meraviglioso, che invece non c’è mai stato. Il voler essere padroni in casa propria blocca il sentimento della compassione” C’è poi la questione delle differenze, un concetto spesso talmente enfatizzato da produrre incomprensione e diffidenza. “Le persone, inoltre, sono convinte che le differenze siano maggiori delle cose che ci accomunano. Su questa convinzione nascono i luoghi comuni: i musulmani sono fanatici, gli slavi rubano, le donne albanesi sono di facili costumi. Oggi – a volte perfino a fin di bene – si esaspera l’elemento della differenza, codificandolo in blocchi di appartenenza rigidi. Mentre la strada da tenere presente dovrebbe essere quella di ricordare sempre che, pur nella nostra preziosa e irripetibile unicità di esseri umani, ciò che ci rende simili è sempre molto di più di quello che ci rende diversi”. Alla chiusura dei lavori è intervenuta anche Marcella Lucidi, sottosegretario all’Interno con delega per l’asilo politico. “Non dobbiamo pensare di essere la fortezza sotto assedio”, ha affermato il sottosegretario, “ma dobbiamo prendere atto che il pianeta sta cambiando. Noi stiamo lavorando per una legge sull’immigrazione che favorisca e definisca i percorsi di inserimento nel nostro Paese”. (ap)

 

 

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