2511 INAS CISL: Fare dell'integrazione dei migranti una storia di successo per tutti

20061208 09:31:00 webmaster

C’è una lezione di sociologia pratica che i nostri connazionali all’estero, emigrati e figli di emigrati potrebbero dare ai compatrioti "stanziali" senza bisogno neppure di parole: basterebbe infatti la testimonianza della loro esperienza vissuta. La capacità di accoglienza e di integrazione dei migranti da parte di un paese, della sua cultura, della sua economia, del suo ambiente sociale – questa la lezione – è di per sé la prova della vitalità di quel paese e della sua gente.

Ed è un bonus di speranza per il suo migliore avvenire.
Il vezzo masochista di noialtri italiani di auto-denigrarci ci fa
soffermare più del necessario sul dato negativo della denatalità che ci
vede agli ultimi posti nel mondo. Un dato di malessere che non va certo
sottovalutato come spia di difficoltà nell’organizzazione della vita
familiare e collettiva. Ma che non deve essere vissuto come un indizio di
catastrofe etnica (o "razziale"?).
Osservata da un punto di vista più aperto, invece, il futuro italiano può
apparire sotto una luce positiva, semprechè il nostro paese si metta in
grado di approfittare a pieno delle opportunità dell’integrazione dei
nuovi cittadini che eleggono la nostra terra e si propongono di abitarla
con le loro famiglie e i loro figli. Oggi gli stranieri in Italia (il 4,5
per cento della popolazione ufficiale) rappresentano un abitante su 20
secondo stime comprensive degli irregolari. Ci avviciniamo cioè alle medie
degli altri paesi euro-occidentali. Ma rispetto ad altri paesi della
nostra stazza, in Italia godiamo di alcuni rilevanti vantaggi
psico-sociologici. Innanzi tutto l’eterogeneità multicontinentale e
multietnica degli immigrati: Albania, Marocco, Romania, Cina, Ucraina (in
primo ordine di quantità) ma poi anche Filippine, India, Sri Lanka,
America Latina, Egitto, Nigeria, Senegal… Non siamo cioè di fronte alla
situazione francese dove c’è preponderanza migratoria dalle ex-colonie,
come in Gran Bretagna. E non siamo come nella Germania verso cui si è
diretto un prevalente e massiccio flusso turco. E questo abbassa la soglia
di rischio di corpi separati che si chiudono in se stessi. La nostra cioè
è una situazione simile a quella degli Usa (il segregazionismo verso i
neri ha avuto altra, drammatica genesi storica, come sappiamo). E per noi
è possibile (analogamente agli Usa) parlare di un "sogno italiano". Ciò
anche per la struttura della nostra economia che ha un largo tessuto
elastico di piccole e medie imprese, un tessuto che facilita – come di già
sta accadendo – l’imprenditorialità degli immigrati, la loro mobilità e,
in definitiva, il meccanismo promotivo dell’"ascensore sociale".
Nel dibattito italiano emerge, per altri versi, una tentazione selettiva,
anch’essa figlia di paure miopi e di corto respiro. Si dice: attraiamo
migranti di basso livello professionali mentre invece avremmo bisogno di
gente titolata e qualificata che venga a turare le falle al nostro sistema
formativo asfittico; delle università imbalsamate dai baroni, che non
riescono a sfornare le èlite amministrative, scientifiche, tecniche di cui
avremmo bisogno. Analisi giusta dal punto di vista critico e statico ma
anch’essa bisognosa di essere guardata dal suo rovescio dinamico. Si
valuta ad esempio, a livello mondiale, che l’immigrazione di lavoratori
stranieri a bassa qualifica produca un guadagno netto di 56 miliardi di
dollari ai paesi ricchi, Italia compresa. Colf e badanti e assistenti
familiari consentono, ad esempio, a un maggior numero di donne con alte
professionalità di lavorare fuori casa con un beneficio per il pil
calcolabile tra l’1,3 ed il 3,3 per cento. E questo senza considerare gli
incrementi delle entrate fiscali.
Una realtà complessa dunque. Ma conveniente non per i soli "ricchi". La
Banca mondiale, ad esempio, valuta che un incremento del 3 per cento di
migrazioni si tradurrebbe in 305 miliardi di dollari l’anno di benefici
per i paesi poveri. E per capire di cosa stiamo parlando, ricordiamo che
la cancellazione del debito dei paesi più disastrati vale 3 miliardi:
mentre gli aiuti allo sviluppo ne valgono 70 di miliardi; e 86 quelli che
deriverebbero dalla liberalizzazione degli scambi. Solo per citare alcune
voci dibattute in tanti summit internazionali.
Fare dunque del fenomeno migratorio uno strumento e una storia di successo
per tutte le sue componenti e per tutti i suoi fattori, si può. Mentre si
deve superare il pregiudizio che gli scambi, non solo di beni e servizi ma
anche di lavoro e di uomini, costituiscano un processo a somma-zero o
peggio, negativa, dove se c’è qualcuno che vince e ci guadagna, c’è
necessariamente dall’altra parte chi perde e ci rimette.
Si tratta di un compito alto ed esaltante per tutti i soggetti in campo,
dalle istituzioni pubbliche a quelle economico-produttive a quelle della
cultura e – non da ultimo – per le nostre forze sindacali e di patrocinio
sociale.

 

 

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