4165 CENTO ANNI DEL COOPI DI ZURIGO, LEGGENDARIO PUNTO DI RIFERIMENTO DELLA SINISTRA E DELL'ANTIFASCISMO

20071229 12:35:00 redazione-IT

[b]All’inizio del 2008 una vecchia e nobile istituzione socialista, la Società Cooperativa Italiana di Zurigo traslocherà. La nuova sede, alla Sank Jakobstrasse 6, si trova a pochi passi da quella attuale. Il leggendario "Coopi" resta dunque nel quartiere operaio di Zurigo, il Kreis vier, dove nacque, il 18 marzo del 1905. Non muta, dunque, l’ubicazione topografica e sociale. Né muta la posizione ideale, di Giustizia e di Libertà, cui quattro generazioni di Cooperatori socialisti hanno improntato il proprio agire, sfidando, insieme al tempo, l’arroganza del potere.

di Andrea Ermano[/b]
(FOTO- Zurigo 1913: Erminia Cella e le cuoche del Cooperativo, leggendario ritrovo della sinistra europea)

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Zurigo, da oltre cent’anni, è la capitale dell’emigrazione socialista italiana. Nelle fasi storiche durante le quali nel nostro Paese è venuta a cessare una visibile presenza socialista, il Centro estero di Zurigo ha garantito la continuità politico-organizzativa del socialismo italiano, senza soluzione di continuità. Non si tratta di un fatto storico del tutto trascurabile, perché solo in Italia è messa periodicamente in forse l’esistenza stessa di una formazione politica socialista. Si tratta di "interruzioni" che nel nostro Paese, e solo in esso, si sono verificate varie volte durante il secolo trascorso. E ciò nonostante quella socialista rappresenta la più antica tradizione politica italiana: filo rosso che nessun tiranno ha fino ad oggi reciso.

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La ciclica intermittenza organizzativa del socialismo in Italia, fenomeno singolarissimo nel panorama europeo, si può ascrivere grosso modo a una ben nota inclinazione del nostro establishment. Inclinazione che don Luigi Sturzo — costretto nel 1924 all’esilio dal regime – ebbe a battezzare: "clerico-fascismo". Niente di nuovo sotto il sole: otto secoli prima il gran padre Dante aveva compianto il sangue che "stilla" dal patto di potere cesaro-petrista. E ancora cinquant’anni fa Ernesto Rossi si trovava a denunciare il binomio tra "manganello e aspersorio". Perché il nostro establishment nutre una sua pervicace tendenza: conservare i propri privilegi, con "sacra" malizia e non senza accessi di brutalità "profana", costi quel che costi al Paese.
La vicenda del socialismo italiano, anche all’estero, è segnata dai cicli di questo carattere nazionale. Ed è doveroso ricordare qui i sindacalisti scampati alle persecuzioni del generale Bava Beccaris, che nel 1898 prendeva a cannonate il popolo in piazza contro il rincaro del pane; passando per i giovani antimilitaristi del ’15-’18 renitenti al grande macello della Prima guerra mondiale, fino agli antifascisti in esilio, "evasi" dal Ventennio delle bastonate, del confino e della galera; per giungere alle grandi masse dei "cafoni" che nel secondo Dopoguerra vennero catapultati dai latifondi meridionali dentro l’odiosa xenofobia della destra svizzera, e quivi abbandonati a se stessi.
L’antico impegno dell’emigrazione socialista italiana per l’auto-organizzazione operaia, per il mutuo soccorso solidale, per la pace internazionale, per il dialogo interculturale costituiscono un patrimonio politico inestimabile, oggi più che mai. Ma il punto forse più alto dell’elaborazione condotta nel Centro estero di Zurigo si ebbe, sotto la direzione siloniana, nei primi anni Quaranta: "Socialismo, umanismo, federalismo, unità europea sono le parole fondamentali del nostro programma politico" – scriveva Colorni su queste stesse colonne il 1° febbraio del 1944 – "Questi valori morali hanno salvato l’antifascismo sotto la dittatura fascista. Questi valori morali dovranno ispirare il costume politico della nostra vita pubblica in regime di libertà".
Il socialismo umanista di Colorni e di Silone indicava una strada che la sinistra italiana ha infine imboccato, dopo innumerevoli peregrinazioni moscovite, dopo i fatti d’Ungheria, dopo i carri armati a Praga, dopo gli scioperi di Danzica e dopo la demolizione del Muro di Berlino. Lungo mille prove, chi di piaggeria, chi di coraggio civile, ciascun soggetto ha qualificato se stesso nell’era della glaciazione sovietica.

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Eugenio Colorni, segretario politico del PSI (Centro interno), fu tra i promotori del Movimento federalista europeo e uno degli autori del "Manifesto di Ventotene". Venne ucciso dai nazi-fascisti a Roma all’inizio di maggio del 1944, a pochi giorni dalla Liberazione della Capitale.

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Il socialismo umanista, federalista ed europeista fu la base su cui ebbe luogo nel 1944 il passaggio delle consegne da Zurigo a Roma, dal Centro estero di Ignazio Silone al Centro interno di Eugenio Colorni. Fu una tragedia per la sinistra del nostro Paese che la leadership del PSI non sia rimasta a Colorni, assassinato dai nazifascisti. I "valori morali" di allora rimasero a lungo patrimonio minoritario del Centro estero, ma non vennero sconfitti.
Il passaggio delle consegne tra Zurigo e Roma era avvenuto pochi giorni prima di quella tragica morte. "Il 16 aprile del 1944 il Centro di Zurigo viene sciolto: conserva la responsabilità dell’Avvenire [dei lavoratori] e il coordinamento dei socialisti italiani all’estero, come organo della Federazione socialista italiana della Svizzera", scrive Stefano Merli nel volume dedicato a quella stagione della nostra testata, un volume pregevolmente curato da Giulio Polotti ed edito a Milano nel 1992, nel centenario dalla fondazione del PSI, dall’Istituto Europeo di Studi Sociali, cioè da Bettino Craxi.
Ecco dunque un altro "passaggio delle consegne" tra Centro interno e Centro estero? Non è qui possibile soffermarsi su questo tema. Se di "passaggio delle consegne" si trattò, come si può evincere dalla intentio operis di quella pubblicazione milanese, ciò che ne seguì, di lì a poco, fu un divorzio. Nel 1993, infatti, i socialisti d’emigrazione, con crescente furore verso lo scenario di corruzione emerso a "Tangentopoli", maturarono la decisione di uscire dal PSI, giunto per altro alla vigilia del suo (ennesimo) scioglimento.
Dal pathos di quei primi anni Novanta — che segnarono la fine della Prima Repubblica evidenziando nel card. Ruini uno tra i maggiori talenti politici italiani del Novecento — sono trascorsi tre lustri. Durante i quali Enrico Boselli e i suoi hanno difeso a mani nude alcune, poche, ma preziose, reliquie di presenza socialista. Mentre il grosso della dirigenza post-comunista, cavalcando gli eventi al riparo di una tardiva e labile vocazione socialdemocratica, hanno giocato con l’ipotesi di abbandonare anche l’ormeggio europeo per ricollocarsi al centro moderato dello schieramento politico nazionale.

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Sono trascorsi tre lustri, dunque, e il Gattopardo è tornato da protagonista, in pompa magna, a dominare scena politica italiana. Il capro espiatorio ha subito lo sgozzamento rituale. La corruzione non è cessata. La casta partitocratica non ha mollato la presa. La criminalità organizzata ha esteso una perversa sovranità su quattro regioni. Lo strapotere clericale è tornato ad essere, come diceva Stendhal, "minuzioso ed implacabile". La razza padrona si è legata alla razza padana in nome di una trista "strategia industriale" che consiste nell’importare manodopera a basso costo, da sfruttare e avvilire. E poi ancora da avvilire e sfruttare. La lista degli orrori della Seconda repubblica sarebbe davvero troppo lunga. A pie’ di lista, nell’avvitamento cinico di questa transizione-che-non-transita, si cela ormai un rischio, assai elevato, d’impazzimento.
La maggioranza dei cittadini italiani percepisce la classe dirigente come principale impedimento all’evoluzione del Paese. E’ quell’atmosfera che Marx definiva "pre-rivoluzionaria". Non stupiamoci perciò se si diffonde preoccupazione per le sorti dell’Italia tra i commentatori politici di ogni orientamento, grado, confessione e nazionalità. Basti dire che nei giorni scorsi il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, ha lanciato questo allarme: l’Italia è un paese nel quale potrebbe scomparire tout court la "sinistra" come compagine politicamente organizzata e strutturata.
Ma una "sinistra" che voglia resistere organizzata alla minaccia di catastrofe che si staglia all’orizzonte non può non porsi in una prospettiva umanistica, europeista e internazionale. La lezione del Centro estero resta attuale. Ed esattamente qui riemerge ancora una volta la Questione socialista, che non ha nulla a che fare con un problema di collocazione dei reduci del vecchio Psi. Essa è stata rilanciata dalla Costituente, ma interpella — ben oltre quel perimetro — tutti i leader della sinistra italiana. Per questo, alle soglie di un nuovo anno che si prospetta denso di eventi decisivi, non possiamo che confermare, si parva licet, la nostra fedeltà a un’idea che non muore.

http://www.avvenirelavoratori.eu/

 

 

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