4161 La famiglia Bellizzi: immagine dei desaparecidos italiani in Uruguay

20071225 15:33:00 redazione-IT

Montevideo – "Nessuno lo torturerà per strappargli la verità. Nessuno potrà obbligarlo a raccontare che fine hanno fatto i desaparecidos. Avrà quelle garanzie che le sue vittime non hanno avuto", scrive Gente d’Italia, quotidiano delle americhe diretto da Mimmo Porpiglia. Sul volto un pò stanco di Silvia Bellizzi sorella di uno dei 200 uruguayani vittime di sparizione forzata negli anni della dittatura, resta un sorriso amaro, gelato in un dolore che non ha trovato ancora pace con la giustizia. Pensa alle pantofole del dittatore Gregorio "Goyo" Alvarez, quelle che indosserà nel carcere per militari Domingo Arena a Montevideo dove è rinchiuso da lunedì scorso, e pensa ai pozzi fangosi dove sono stati detenuti per anni gli oppositori del suo regime, alle sevizie che hanno subito, alla fame, al freddo.

Non è vendetta, quella di Silvia, è l’incertezza a logorarla. "Goyo" è stato ritenuto responsabile per il crimine di "sparizione forzata", ma se non parlerà, se la verità non verrà fuori, suo fratello Humberto resterà ancora desaparecido e il delitto continuera’ a perpetrarsi. Silvia aveva 19 anni quando Andres Humberto sparì nel nulla. Viveva nella casa di Montevideo con i suoi genitori Andres e Maria entrambi di San Basile in provincia di Cosenza. Suo fratello invece si trovava a Buenos Aires dove si era trasferito tre anni prima. In Argentina condivideva un appartamento con alcuni amici e insieme ad uno di loro gestiva una piccola agenzia di pubblicità oltre ad un banchetto di alimentari per arrotondare lo stipendio. Humberto in Uruguay, dove la dittatura si era imposta nel 1973, aveva militato nel movimento studentesco della ROE ( Resistencia Obrero Estudiantil). "Ma in Argentina non faceva politica attiva", sottolinea Silvia, come se solo il fatto di avere delle opinioni possa bastare a giustificare il crimine che ha subito. In Sud America per qualcuno è così, e Silvia in trent’anni ha dovuto imparare a difendersi. Dai "se", dai "ma" e dal silenzio degli altri. Le manette ai polsi del militare Alvarez, dell’uomo che guidava l’esercito quando un gruppo di uruguyani arrestati illegalmente in Argentina furono consegnati alle autorità uruguyane nel 1978 e che il 17 dicembre del 2007 è stato condannato al carcere dal giudice Charles, aiutano a parlare chi non era abituato farlo.
Parlare di crimini contro l’umanità, di mandanti ed assassini, di carnefici e di vittime. Goyo non era ancora Capo dell’esercito quando il 19 aprile del 1977 Andres Humberto Bellizzi andò ad un "appuntamento di lavoro" e non tornò mai più. Ma era sì stato il leader del gruppo militare che fece irruzione nella sede del governo a Montevideo il 27 giugno del ’73 imponendo la dittatura di Juan María Bordaberry. Di Humberto non si sa nemmeno se era tra quei 22 uruguyani consegnati al confine tra Argentina e Uruguay e poi desaparecidos o fucilati. Il processo che ha portato Goyo in carcere non lo ha riguardato, non direttamente. La ricerca della verità sì. E ogni giorno che passa continua a riguaradare la sua famiglia. "Io mi sono sorpresa quando ho avuto la notizia dell’arresto dell’ex dittatore", ammette Maria Bellizzi, la mamma, con una dolcezza che lascia impercettibilmente trasparire decenni di dolore. "Non credevo fosse possibile. Ci siamo così tanto abituati all’indifferenza, alle bugie, alla rimozione collettiva che il carcere non me lo aspettavo. Qualche giorno fa eravamo tutti al Cerro (un quartiere popolare e storico di Montevideo), per il memoriale dei desaparecidos, e tra familiari stavamo commentando la notizia che circolava, quella che appunto la condanna sarebbe arrivata. Io ero scettica, invece…..". Mamma Maria ha due occhi piccoli ancora molto luminosi.
Il volto dei suoi avi, contadini albanesi rifugiati in Calabria nel dicianovvesimo secolo, gli stessi avi di suo marito Andres, conosciuto a Montevideo e morto nel 2003.
Da quel lunedì 25 aprile del 1977, il giorno dopo aver ricevuto la notizia di ciò che era successo a loro figlio, immaginando solo una parte, temendo il resto che cominciava a diffondersi con il passaparola, hanno cominciato insieme una processione infinita alla ricerca di un indizio sul ragazzo. Hanno bussato prima alle porte dei Ministeri, poi degli uffici legali e amministrativi, dell’Ambasciata italiana, delle case dei familiari di altri desaparecidos, dei sopravissuti ai centri di detenzione, delle chiese, delle associazioni umanitarie. Per trent’anni. Senza ottenere nulla. Nulla di concreto, nemmeno una prova, un testimone anche incerto, qualche appiglio per poter riaprire un processo. C’è solo una debole pista. Forse Humberto è finito nel "Club Atlético" di Buenos Aires insieme al suo amico e socio pubblicitario Jorge Gonçalvez. Ma forse no. Il processo intentato nel 1999 dalla famiglia Bellizzi in Uruguay è stato archiviato. Cozzava con l’articolo 4 della Legge di Caducità. Il giudice Moler decise per la chiusura. Resta aperto il procedimento avviato a Roma da un gruppo di famiglie italo-uruguayane. Qualcosa di simile ai processi per l’ESMA argentina che hanno portato alla condanna degli imputati lo scorso 14 marzo di cinque militari (uno dei quali sarebbe "stato suicidato" in carcere a Buenos Aires lo scorso 10 dicembre).

Sugli uruguayani, su Bellizzi ed altri otto -Juan Pablo Recagno Ibarburu, María Emilia Isla Gatti de Zaffaroni, Héctor Giordano Cortazzo, Gerardo Francisco Gatti Antuña, Yolanda Casco de D’Elía, Julio César D’Elía Pallares, Daniel Alvaro Banfi Baranzano, Armando Bernardo Arnone Hernández -sta indagando il pubblico ministero Giancarlo Capaldo. Ma in sette anni le indagini non sembrano aver portato molto lontano.
Ai coniugi Bellizzi nel 1977 aprirì la porta l’Ambasciata d’Italia. Dissero che Humberto non era ricercato. Che sì, forse poteva essere segnalato perchè nel 1974 insieme ad un centinaio di altri connazionali partecipò una manifestazione a Buenos Aires per commemorare il golpe, ma non risultava nessun ordine di arresto. Non ufficialmente. C’era invece traccia dell’intenzione di arrestare tre cittadini uruguyani in Argentina, ma non col nome di loro figlio. Ecco tutto. Era difficile all’epoca riuscire ad avere notizie. Lo è stato per tanto tempo, come durante il primo governo democratico guidato dal presidente Julio Maria Sanguinetti che dichiarava: "Non ci sono stati desaparecidos in Uruguay. Noi avevamo gli occhi dietro la nuca". Vent’anni dopo, quando il penultimo Ambasciatore italiano a Montevideo, Giorgio Malfatti di Monte Tretto ha preso in mano il libro pubblicato dalle mamme dei desaparecidos argentine ed uruguayane nel 2004, ha letto i cognomi di quei ragazzi e ha detto: "Ma questi sono quasi tutti italiani !". Solo alcuni però hanno mantenuto la cittadinanza.
Le madri dei desaparecidos in Uruguay hanno cominciato ad uscire allo scoperto a metà degli anni Ottanta. Quando quelli della Federazione latinoamericana che associa tutte le organizzazioni dei familiari dei detenuti e dei desaparecidos cominciarono a rientrare dall’esilio. "Ma ancora oggi", racconta la sorella Silvia, "facciamo fatica a farci ascoltare".
Per il prossimo aprile si sta organizzando una riuniuone internazionale dei Musei della Memoria. Quello uruguyano , è il più giovane, è stato inaugurato dieci giorni fa. Verranno dall’Argentina, dal Paraguay, dal Venezuela, dal Cile, da Isreale, dalla Francia. Anche Roma sarà invitata. Se risponderà, forse riuscirà a dare voce a chi ha voglia di ricordare e di cercare ancora la verità.

Gente d’Italia/News ITALIA PRESS/Eminotizie

 

 

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