4214 DONNE E PRIMARIE IN USA

20080111 23:14:00 redazione-IT

da "A MODO MIO – Gente d’Italia", di Silvana Mangione (CGIE USA)

C’è una donna cancelliere che regge la più forte economia europea e che la famosa rivista americana Forbes considera la donna più potente del pianeta. C’è stata una Lady di ferro alla quale pensano ancora con nostalgia i conservatori di tutto il mondo. Ci sono donne primo ministro o presidente in Argentina, India, Cile, Finlandia, Irlanda, Liberia, Nuova Zelanda, Giamaica, Mozambico. Non c’è mai stata una donna presidente nei due paesi che considero fondamentali nella mia vita: l’Italia e gli Stati Uniti. L’Italia spezzò il cuore di Nilde Iotti, prima donna presidente della Camera, alla quale non permise mai di salire al Quirinale. In USA, c’è stata un’italo-americana, Geraldine Ferraro, prima candidata in un ticket presidenziale, che venne punita per la sua ambizione negandole la vittoria perfino nel suo stesso Stato, quello di New York.

C’è stata una donna, Elizabeth Dole, che ha partecipato nel 1999 alle primarie per la candidatura repubblicana alla presidenza degli USA. C’è ora una candidata donna, Hillary Rodham Clinton, alla nomination presidenziale per il partito democratico. Tutti hanno vissuto la sua sconfitta nei caucus dell’Iowa. Una parola sui caucus dell’Iowa: credo che nemmeno gli abitanti dell’Iowa sappiano davvero come funziona questo stranissimo processo elettorale, diverso per i repubblicani (che quanto meno pubblicano il totale delle preferenze ottenute da ciascun candidato) e per i democratici (che non solo non rendono noto il numero dei voti, ma tolgono all’interno di ogni caucus la possibilità di mantenere l’espressione di scelta delle minoranze, costrette, al di sotto di una certa percentuale, a buttare il cappello in un altro campo). Chiaro? No, vero? Tutti hanno vissuto la vittoria di Hillary nelle primarie del New Hampshire, la prima, in questa lunga strada che porta alla nomination, in cui gli elettori, repubblicani, democratici e indipendenti hanno potuto recarsi ai seggi elettorali e dare il proprio voto in una normale consultazione. I sondaggi, nove sondaggi per l’esattezza, la davano perdente nei confronti di Barak Obama con oltre dieci punti di distacco. Ha vinto con tre punti di distacco, in una votazione che ha registrato una partecipazione senza precedenti. Il giorno dopo la vittoria di Obama nei Caucus dell’Iowa, giornali, radio e televisioni inneggiavano al successo di questo interessantissimo candidato. Il giorno dopo la vittoria di Hillary, gli stessi giornali, radio e televisioni si interrogavano disperatamente sul perché ha vinto e – nella maggior parte dei casi – attribuivano la sua vittoria al momento di forte emotività che ha mostrato in un diner del New Hampshire, quando una interlocutrice (che ha poi dichiarato di aver votato per Obama) le ha chiesto: «ma come fai a reggere questa tensione e questa fatica?». E Hillary ha risposto con gli occhi lucidi – ma senza le tanto strombazzate lacrime, delle quali comunque i commentatori più violentemente contrari alla sola idea di una donna presidente hanno messo in dubbio l’autenticità – parlando del suo senso di servizio, dando voce alla sua amarezza per il fatto che le presidenziali vengono trattate dalla stampa come un gioco di chi è “up” e chi è “down”, mentre si tratta del futuro dell’America e dei giovani. Avevo seguito l’ultimo dibattito, nel quale la Clinton ha mostrato la sua esperienza, come aveva fatto nel dibattito repubblicano il senatore McCain. Lasciando perdere qualsiasi valutazione del campo di candidati sia a destra sia a sinistra, arrivo finalmente al punto. Hillary Clinton appartiene ad una generazione, la mia, che ha dovuto conquistare ogni cosa con una fatica immensa, che vissuto dalla liberazione sessuale al sessantotto, dalle battaglie per il divorzio (in Italia) a quelle per l’aborto, in tutti e due i Paesi. Non sono mai stata e non sono una femminista nel senso “storico” o “tradizionale” del termine. Ma bisogna dire, una volta per tutte, che le donne che hanno raggiunto posizioni di prestigio o di rappresentanza hanno dovuto – e devono ancora – essere dieci volte più preparate degli altri e vengono immediatamente tacciate di essere saccenti, supponenti, presuntuose e chi più ne ha più ne aggiunga. «Pensar non nuoce», diceva quel meraviglioso scrittore che è Giovanni Guareschi, ma se lo fanno le donne si tratta di una colpa da lavare col sangue. A sessant’anni di distanza per le donne è ancora tragicamente vera la frase di Betty Friedan: «Negli anni ’50, la definizione ‘donna in carriera’ divenne un peggiorativo che descriveva una rompiscatole, un’arpia mangia-uomini, una miserabile strega nevrotica, dalla quale uomini e bambini dovevano scappare a gambe levate per salvarsi la vita». Ecco dunque che la preparazione e l’esperienza nel caso di John McCain sono magnifiche doti, che lo hanno fatto giustamente vincere (io sono d’accordo) e che lo rendono potenzialmente un ottimo presidente, ma nel caso di qualsiasi donna candidata diventano giustificazioni per poterla accusare di arroganza, supponenza, presunzione, polarizzazione. Si è mai domandato nessuno se la cosiddetta “arroganza”, la cosiddetta “aggressività”, che vengono così facilmente e dolorosamente attribuite alle donne che salgono anche un solo gradino del cursus honorum, non siano invece l’espressione del tentativo di proteggere i propri sentimenti profondi, feriti dalla costante lettura negativa e accusatoria di qualunque atto, compiuto nella massima linearità? In passato questo atteggiamento si chiamava “dignità”, di educazione e di comportamento. C’è una frase molto bella che definisce la missione di NOW – National Organization of Women: «NOW è votata al principio che le donne sono prima di tutto e principalmente esseri umani, i quali, come ogni altra persona nella nostra società, devono avere la possibilità di sviluppare appieno il proprio potenziale umano», assumendo qualunque incarico siano preparate e desiderose di raggiungere.

 

 

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