4334 Silvana Mangione (USA), sullo svolgimento delle primariie

20080208 21:14:00 redazione-IT

La gente, questa volta, vuole decidere chi dovrà guidare il paese fuori dalla recessione e fuori da guerre.
L’establishment non può impedire un’elezione, ma può vanificarne i risultati

NEW YORK – Tutto il mondo è ormai affascinato da queste difficili primarie presidenziali americane. Sia in campo democratico sia in casa repubblicana, al di là delle storie personali, degli alti e bassi dei candidati, delle analisi, i sondaggi, le critiche, le elucubrazioni dei tuttologhi, i commenti della stampa, le interviste – pilotate o meno – alla “gente comune”, il fatto più importante è questa straordinaria, nel bene e nel male, gestione della democrazia. Una democrazia che si manifesta attraverso la vera concretizzazione del significato sia letterale che profondo del termine: potere del popolo.

Il potere che i padri fondatori di questo eccezionale paese hanno insistito nel definire fin dalla prima frase del preambolo della Costituzione: «We, the people of the United States…» – “Noi, il popolo degli Stati Uniti, per costruire un’unione più perfetta …. e garantire i benefici della libertà a noi stessi ed ai nostri discendenti, decretiamo ed instauriamo questa Costituzione per gli Stati Uniti d’America”. Intendiamoci, anche qui i partiti decidono ed impongono le proprie indicazioni in molte istanze, ma il procedimento attraverso il quale vengono eletti i candidati a tutte le cariche, da quelle locali a quelle federali, è un meccanismo nel quale il popolo è sovrano. L’unico limite reale è quello della volontà del singolo elettore. Se vuoi votare devi registrarti. Se vuoi partecipare devi andare alle urne, fin dall’inizio, fin dalle primarie, per scegliere il tuo candidato. Chiunque può candidarsi, pagando una piccola tassa di registrazione e presentando il numero di firme richieste dai diversi Stati per le singole cariche. Punto. Tutto qui. E che cosa potrebbe essere più serio della vera possibilità di assumersi la responsabilità di decidere chi ci deve rappresentare? Anche qui, tuttavia, si era arrivati all’odio della politica e dei suoi minuetti rispondenti soltanto ad interessi personali o corporativi. Mai come in questo periodo storico la gente si era sentita esclusa. E ha reagito. La gente, questa volta, vuole davvero esprimersi nella selezione di chi dovrà guidare il paese fuori dalla recessione e fuori da guerre che non fanno intravedere soluzioni positive. La gente è andata a votare nelle primarie in numeri imprevedibili. La gente è andata, in quantità mai viste, a discutere nei caucus, queste strane riunioni che riprendono le antiche abitudini della democrazia, dall’άγορά dei greci all’arengo dei comuni medievali, ai “town meetings”, le assemblee pubbliche nelle quali i singoli cittadini discutono un problema che li tocca da vicino e danno indicazioni ai propri rappresentanti. Quando la corsa alle “nomination” dei due partiti è iniziata c’erano diciotto candidati. Sfido chiunque a ricordarsi a memoria il nome di tutti.. Adesso siamo ridotti a due democratici e due repubblicani (il terzo, Ron Paul, rimane soltanto per ribadire il proprio messaggio non ortodosso). Nel supermartedì dei ventiquattro Stati per quarantatre contese, gli elettori hanno palesato le proprie opinioni in numeri pressoché doppi di quelli delle ultime consultazioni presidenziali. E non hanno incoronato leader in nessuna delle due corse all’eliminazione. Soltanto il repubblicano John McCain sembra aver guadagnato spazio sugli altri due concorrenti, lo stesso McCain, che era dato per politicamente defunto soltanto sei mesi fa ed ora sembra avviato alla vittoria nel suo partito e forse nelle presidenziali. Tutto potrebbe cambiare rapidamente, come è già successo più volte. Perché «We, the people» vuole essere sicuro di non commettere gli errori del passato, provocati dalla fretta e dall’assenteismo. Fin qui gli aspetti positivi. Di negativo c’è l’enorme costo in dollari di queste campagne. Qualcuno diceva che alla fine i candidati avranno speso almeno mezzo miliardo di dollari. Io sono convinta che ce ne vorrà almeno il doppio ed i finanziamenti privati possono essere e sono condizionanti. Di negativo c’è l’attuale polarizzazione, che scaturisce dalla durissima domanda: «Ma l’America è pronta per un presidente donna o per un presidente nero?». Guardiamoci in faccia: in questo paese – come in molti altri – la politica sembra ancora essere un gioco delegato esclusivamente agli uomini. Minime sono le percentuali di donne all’interno delle assemblee parlamentari. Donne capi di stato o primi ministri o presidenti di rami del parlamento sono state e sono rare come mosche bianche nei cosiddetti paesi più industrializzati. Perché? In alcuni casi il perché sta semplicemente nelle leggi elettorali, che danno ai partiti il diritto supremo di scegliere candidati da mettere in liste bloccate, che tolgono ai cittadini perfino il diritto alla scelta. E i palliativi dell’inserimento di nomi femminili, determinati insindacabilmente in base a motivazioni non sempre trasparenti, non servono a nulla, perché altri fattori, compreso il taglio dei cordoni della borsa, negano comunque loro la vittoria. In altri casi, vale il fatto che stampa, industria, finanza e politica sono ancora e sempre in mano ad un novanta e più per cento di uomini. Anche la percezione esterna dei fatti viene deformata. Ad esempio, se la comunità afro–americana vota massicciamente per Obama, la convinzione collettiva, il mantra ripetuto dai guru è che il giovane senatore dell’Illinois sta unendo gli USA, che erano spaccati. Al contrario, se la maggior parte delle donne vota per una donna, si tratta di una battaglia di genere che sta spaccando l’America. Secondo me, invece, ambedue le situazioni riflettono il desiderio di trovare orgoglio nel proprio esponente da parte di un’ampia categoria di cittadini, che finora si è sentita tagliata fuori, vero o falso, giusto o sbagliato che sia. La scelta profonda sta – in queste presidenziali – fra l’esperienza e il sogno. La prima, l’esperienza, guarda caso viene considerata imperdonabile se in possesso di una donna, mentre costituisce il pregio che sta portando alla vittoria McCain. Il secondo, il sogno dell’inarrestabile capacità di cambiamento da parte del genere umano, se non gestito dall’esperienza, si scontrerà infrangendosi miseramente contro gli ostacoli dell’establishment, che non può impedire un’elezione, ma può vanificarne i risultati. E il meraviglioso meccanismo americano delle presidenziali verrà schiacciato anch’esso dalle insanabili deformazioni del potere.

Silvana Mangione

 

 

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