4371 SIVANA MANGIONE(USA): Si va a votare senza il riconoscimento della specificità degli emigrati

20080215 17:06:00 redazione-IT

Si va a votare. Anche noi italiani all’estero andiamo a votare, per candidati calati dai lontani vertici romani, sulle schede che troveremo nell’enorme plico elettorale. Noi potremo decidere quale nome far nostro nelle scelte obbligate urbi et orbi, al contrario degli italiani d’Italia, che potranno soltanto votare per un simbolo e sperare di non dover cantare “il melone è uscito bianco”, ovviamente senza alcun riferimento a colori di partito. Ogni candidato all’estero ripeterà la litania delle cose da fare, mettendoci di tutto, di più, senza nulla di nuovo, perché le istanze sono sempre le stesse da quando è iniziata questa faticosa scalata della rappresentanza diretta, ventidue anni fa.

Abbiamo avuto, in ordine cronologico, i Co.Em.It./Com.It.Es. (dal 1986), la II Conferenza Nazionale dell’Emigrazione (1988), il Consiglio Generale degli Italiani all’Estero (dal 1991), la modifica costituzionale che ha dato il pieno esercizio del diritto di voto in loco con rappresentanza diretta (2000), la I Conferenza degli Italiani nel Mondo (2000), la legge ordinaria che regola il voto degli italiani all’estero (2001), le elezioni del 2006, un governo tenuto in piedi dai nostri eletti al Senato, poi le elezioni anticipate. Tutto ciò senza che una sola delle nostre richieste più pressanti sia stata evasa in ventidue anni e, se non vado errata, sette parlamenti diversi. È nata RAI International, che ha vissuto alterne vicende ed è stata indistintamente attaccata da una parte e dall’altra, perché – anche nelle sue stagioni migliori, quando nacquero la Giostra dei Gol, la Giostra di Capodanno, la diretta della Parata di Columbus Day, Zoom, Qui Roma e così via – l’ottica in cui questo servizio di informazione si muove è sempre quella italiana, sovrimposta, come il letto di Procuste a tutto e a tutti. Procuste: ve lo ricordate, no? Quel divertente bandito che stava ai crocicchi per acchiappare il malcapitato viaggiatore, stenderlo su un letto di tortura e tagliargli le gambe se era troppo lungo o stirarlo se era troppo corto. Non sono bastati ventidue anni e questa serie di eventi, conditi dall’inno: «Evviva gli italiani all’estero che portano soldi nelle casse dello Stato!», per creare un minimo di sensibilità nella coscienza collettiva dell’«homo politicus» residente in Italia. Ma noi siamo testardi e perseveriamo nel dare suggerimenti. «Vox clamabat in deserto»? La nostra voce parlava e parla alla sabbia e al vento? Può darsi, ma non per questo smetteremo di parlare, per l’amore infinito che portiamo all’Italia, ai suoi valori, ai principi della Costituzione, alla civiltà eterna e presente dalla quale proveniamo. Che cosa vorrei, io? Vorrei che dopo undici anni si riaprissero e fossero tolti per sempre i termini per presentare la domanda di riacquisto della cittadinanza, da parte di chi, nato in Italia, emigrato per necessità, si è naturalizzato in uno dei tanti paesi di nostra cosiddetta “accoglienza”, ha perso la cittadinanza in virtù di una legge del 1912 e, non potendo riaverla, pensa, nel profondo del cuore: «la mamma mi ha detto che non mi vuole più come figlio». Avanti, bisogna superare le considerazioni del “costo” in denaro ed ore-lavoro nei Consolati per far fronte alle richieste che verranno presentate. Non siamo forse fondamentali «risorse economiche per l’Italia»? Non ci vuole molto. Bastano due articoli, uno che consente di presentare le domande di riacquisto per sempre e l’altro che prende atto della contraddizione fra il principio costituzionale dell’uguaglianza uomo–donna e la trasmissione della cittadinanza jure sanguinis soltanto per via maschile fino al 1948, come se le donne, fino al 1948, non avessero avuto nulla a che fare con la nascita dei figli. Vorrei che si affrontasse un dibattito serio su cittadinanza e nazionalità, considerando quest’ultima una sorta di cittadinanza quiescente per le generazioni dopo la terza, con un percorso privilegiato per il riconoscimento dell’italianità a pieni diritti nel caso di trasferimento in Italia. Vorrei che dopo trentatre anni si riuscisse finalmente a capire che – se abbiamo conquistato spazi sui mercati mondiali dei beni di consumo e di lusso – ciò non è dovuto soltanto alle capacità creative e commerciali della miriade di piccole e medie imprese nostrane, ma anche alla presenza delle collettività italiane e della conseguente italianizzazione dei gusti esteri. Ma questo regalo, immeritato, non può durare in eterno e cesserà di fornire benefici effetti, se non si investe pesantemente nella diffusione della lingua e della cultura italiana all’estero non soltanto ai figli degli emigrati, come recita la legge 153 del 1975, ma a tutti, e se non si premiano gli enti privati che lavorano bene e con trasparenza amministrando i corsi. La Francia, che ha subito il sorpasso da parte dell’italiano in alcune aree degli USA, ha stanziato milioni di Euro per riprendere il suo primato, che traina il «Fait en France», come l’italiano promuove il «Made in Italy». Vorrei che i valori della società civile, adottati dalla Costituzione, fossero applicati anche alle fasce deboli delle nostre comunità. Qualcosa si è fatto negli ultimi due anni, in materia di copertura medica in alcuni paesi dell’America Latina. Non basta. I poveri sono poveri dappertutto e il discorso che una sola assicurazione negli Stati Uniti costa più di dieci in altre nazioni non è accettabile, perché è ripugnante fare una graduatoria dei meritevoli e dei non meritevoli di assistenza soltanto in base a quanto bisogna sborsare per chi ne ha davvero bisogno. Vorrei, da sempre, che le culture di cui siamo portatori, arricchite dalle nostre capacità linguistiche e dall’abitudine a diverse gestioni della democrazia, fossero tenute in giusta considerazione, invece di essere temute, come si teme tutto quanto proviene dal «diverso». Non siamo «diversi». Siamo sempre noi, italiani che vogliono un’Italia più forte, aperta come il suo popolo e ritengono, in tutta umiltà di avere qualcosa da offrire, non soltanto in soldoni, ma anche in quell’intangibile forma di contributo che si chiama «pensiero». Cerchiamo dunque di avviare il flusso delle «culture di ritorno», che possono ispirare, mescolarsi a quelle autoctone, favorire la creazione di una rete mondializzata di approfondimento e bellezza, targata Italia. In parole povere, vorrei che iniziasse davvero un’interazione seria e la si smettesse di etichettarci per sentito dire o per dato per scontato, imponendo parametri di valutazione clientelari, opportunistici o miopi. In parole ancora più povere: sono e sarò sempre un’idealista. Non so danzare il minuetto del potere, mi fa ribrezzo l’arrampicata politica con qualunque mezzo, credo profondamente in quell’animale sconosciuto che si chiama meritocrazia. Sbaglio? Sì, secondo molti. Ma non posso smettere di auspicare che si instaurino circoli virtuosi, che portino o riportino tutti i nostri livelli di rappresentanza diretta ad un dialogo paritario e sereno, senza vinti né vincitori, nell’interesse reciproco dell’Italia e delle nostre collettività all’estero. Chiedo troppo? Forse sì. Ma ogni tanto si deve avere il coraggio di mirare alla luna.

 

 

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