4353 USA: Il peso dell'apparato

20080211 15:48:00 redazione-IT

di Gian Giacomo Migone (da l’Unità)

Ora i problemi posti dalle elezioni americane si riducono ad un solo interrogativo, essenziale: i Democratici intendono eleggere il prossimo presidente degli Stati Uniti, capace di sfidare il declino sussultorio della più grande potenza mondiale, o preferiscono lasciare le cose come stanno, in una condizione di subalternità morale, politica e culturale che li affligge, fin dall’epoca di Ronald Reagan?

Certo, è possibile che le più recenti vittorie di Barack Obama (particolarmente importante quella nello stato di Washington, bianco e ipermoderno) inneschino un effetto valanga che gli consenta di giungere alla convention di Denver con una maggioranza autosufficiente.

È assai più probabile che lo stallo, modificato ma di poco, perduri e che i 796 superdelegati (governatori, sindaci di grandi città, senatori, deputati, donne e uomini di apparato) costituiranno l’ago della bilancia. Lo status di delegati di diritto, privi di vincoli giuridici di rappresentanza, consente loro una libera scelta individuale che possono esercitare all’ultimo momento, nel voto alla convention, oppure anticipare con una dichiarazione d’investitura a favore della Clinton o di Obama. Da cui l’incertezza nel conteggio attuale dei delegati che deriva dalle oscillazioni dei loro intendimenti, ridotti al fatidico dilemma: la presidenza o lo status quo?

Costoro preferirebbero la presidenza e uno status quo che ha così generosamente premiato le loro carriere. Purtroppo per loro, la questione non si pone in questi termini. Perché? Le ragioni sono varie e puntano tutte nella direzione di una scelta netta. I sondaggi d’opinione danno Obama chiaramente vincente sul candidato repubblicano (John McCain, malgrado le persistenti manifestazioni di forza da parte di Mike Huckabee), mentre Hillary Clinton riesce soltanto a raggiungere uno stentato pareggio. Al di là dei sondaggi, espressione di dati complessivi su base nazionale che non tengono conto delle complessità del sistema elettorale, conta soprattutto il fatto che Obama è più debole della Clinton in grandi stati «blu», comunque tendenzialmente democratici (New York, Massachusetts, anche California), mentre è il solo in grado di contendere a McCaine gli «stati rossi» che, ad esempio, John Kerry non riuscì a scalfire. E, senza alcuni dei quali, si ripeterebbe una vittoria repubblicana. Non a caso i repubblicani sin dall’inizio si augurano una candidatura di Hillary Clinton perché più facile da sconfiggere che non Obama, soprattutto da un candidato poco washingtoniano, perciò capace di intercettare il vento innovativo, se non proprio antipolitico, che spira negli Stati Uniti e in buona parte dell’Occidente.

Proprio quel vento che riempie le vele di Barack Obama. Molti commentatori hanno sottolineato come le presidenziali americane ormai (ma perché soltanto ormai?) siano un confronto tra personalità più che tra programmi. Vero, ma fino a un certo punto. Certo che contano genere, colore della pelle, retorica, carisma ma ciò che oggi orienta l’elettorato americano, determinando una partecipazione senza precedenti alle primarie, è una valutazione della capacità e della volontà di cambiamento dei singoli candidati. Ciò che suscita entusiasmo nei confronti di Barack Obama non sono i suoi pronunciamenti programmatici (rari ma molto significativi, come la disponibilità a negoziare con le forze avverse agli Stati Uniti nel mondo, prima di combatterle), bensì la sua relativa indipendenza da poteri forti che condizionano qualunque presidente, anche democratico. George W. Bush scomparirà dalla scena ma non gli interessi che lo hanno guidato. Sono i milioni di finanziatori e le masse solitamente restie a votare di giovani, di americani di origine africana, e di intellettuali tradizionalmente rinchiusi nei loro ghetti, mobilitati da Obama a renderlo diverso da Hillary Clinton, al punto di farla apparire come una minestra riscaldata della presidenza di suo marito. L’estremismo al potere, rappresentato dall’attuale presidente, ha reso più difficile ai democratici limitarsi a «tenere» un’area di centro che non contesta nelle sue premesse la politica avversaria; una posizione culturalmente, prima che politicamente, subalterna che, se anche vincesse di misura, della vittoria non sa cosa fare (quella congressuale del 2006 è tipica al riguardo).

La risposta dei delegati democratici dovrebbe essere semplice: quella del candidato che offre le migliori possibilità di sconfiggere gli odiati repubblicani. Eppure potrebbe non essere così perché quello stesso candidato costituisce un rischio anche per coloro che dovrebbero incoronarlo proprio a causa delle energie che ha messo in moto e dello sconvolgimento di poteri, politici e societari, che potrebbe determinare. Se, invece, la forza di Obama dovesse assumere proporzioni tali da trascendere o piegare quei 796 grandi delegati, resterebbero i pericoli a cui a suo tempo si espose Bob Kennedy.

g.gmigone@libero.it

www.unita.it

 

 

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