4383 Veltroni: una nuova Italia si può fare

20080217 10:47:00 redazione-IT

Il discorso di Walter Veltroni all’assemblea costituente del PD

“Papà era in Afghanistan per portare la pace e non è la prima volta che andava all’estero: tutti i giorni ci mandava le foto di quello che faceva con i bambini nelle scuole che
ricostruivano. Aveva scelto di far parte di un reparto dell’Esercito che si occupa di ricostruire, ed era orgoglioso di quello che faceva. Credeva fino in fondo al suo lavoro, mettendo al servizio dello Stato e della patria la sua vita”. Sono le parole con le quali una ragazza di diciotto anni ha ricordato suo padre.
Giovanni Pezzulo aveva 45 anni. Insieme ad alcuni colleghi, stava distribuendo viveri e medicinali alla popolazione, non lontano da Kabul. Gli hanno sparato a tradimento, lo
hanno colpito a morte e probabilmente hanno esultato, i guerriglieri talebani che hanno ferito, per fortuna in modo lieve, anche un altro giovane militare italiano, Enrico
Mercuri, di 31 anni.

A lui vanno i nostri auguri di rapida guarigione. Alla moglie e a Giusy, la figlia di
Giovanni, il commosso, riconoscente abbraccio di noi tutti.
Giovanni Pezzulo ha onorato la bandiera italiana, sotto la quale serviva, su mandato
Onu, le popolazioni civili dell’Afghanistan. Non era lì per fare la guerra. Era lì per
contribuire a un’impresa difficile, ma necessaria: pacificare, stabilizzare, democratizzare
un paese che era diventato – e non deve tornare ad essere – un santuario del terrorismo
fondamentalista internazionale.
A Giovanni, agli altri nostri caduti in Afghanistan in questi anni, a tutte le donne e gli
uomini impegnati nelle nostre missioni militari di pace, va la gratitudine di ogni italiano.
La strada verso la pace è lunga e impervia, lo sappiamo bene. Con Romano Prodi,
Massimo D’Alema, Arturo Parisi, in questi anni abbiamo lavorato in Europa, nella Nato
e all’Onu, per un salto di qualità nella conduzione politica della questione afgana.
Continueremo a farlo. E’ ancora più necessario e urgente, con l’aggravarsi della crisi del
Pakistan.
Ma lavorare per una soluzione politica non significa ritirare unilateralmente la nostra
presenza militare.
E’ quanto ha chiesto in Parlamento, proprio in questi giorni, la Sinistra Arcobaleno, che
ha votato contro il decreto di rinnovo di tutte le nostre missioni militari internazionali.
Noi consideriamo quel voto un grave errore. In via di fatto, perché non si vede come il
ritiro unilaterale dell’Italia possa aiutare una svolta politica della questione afgana. E in
via di principio, perché il ripudio della guerra, solennemente affermato dalla nostra Carta
Costituzionale, non ha nulla a che vedere con un’opzione neutralista o isolazionista.
L’Italia non può restare indifferente rispetto alla qualità dell’ordine mondiale. L’Italia
deve intervenire attivamente nel contesto internazionale. Con un vincolo preciso: la pace
può essere perseguita solo attraverso il rafforzamento del multilateralismo e non
imboccando la scorciatoia senza uscita delle politiche e degli interventi unilaterali.
Per questa ragione siamo venuti via dall’Iraq: perché quella missione era nata all’insegna
dell’ambiguità su questo decisivo discrimine politico e di principio.
Per questa stessa ragione, abbiamo invece confermato e confermiamo i nostri impegni in
Afghanistan, in Libano e nei Balcani, che non solo hanno una ineccepibile
legittimazione internazionale, ma sono espressione di quel multilateralismo efficace che
è la sola via per la gestione dei conflitti nel mondo nuovo che sta sorgendo attorno a noi.
Un mondo più grande, segnato dall’affacciarsi di miliardi di donne e di uomini a lungo
esclusi dallo sviluppo mondiale. La Cina e l’India, il Brasile e la nuova Russia, rinata
dalle ceneri dell’Unione Sovietica, insieme al vasto mondo arabo-islamico, stanno
mutando in modo radicale la natura stessa della globalizzazione.
Solo pochi anni fa, si pensava alla globalizzazione come alla possibile forzata
occidentalizzazione del mondo. Invece il mondo, sempre più, sta diventando
multipolare: con le sue straordinarie opportunità di umanizzazione e con gli altrettanto
enormi rischi per la stabilità finanziaria e la giustizia sociale, per l’equilibrio ambientale
e per la pace.
L’ampliarsi degli orizzonti del mondo rende ancora più attuali le quattro direttrici
storiche della nostra politica estera. E rende ancora più evidente e necessario il principio
che è la forza di ogni Paese: la priorità assoluta sono gli interessi nazionali, non quelli di
parte.
Si potrà e si dovrà, se necessario, dissentire tra maggioranza e opposizione su questa o
quella scelta concreta. E’ avvenuto in passato e altrove, è possibile che continui a
succedere. Ma un grande Paese, una grande democrazia come noi vogliamo essere, non è
tale senza una visione condivisa della collocazione dell’Italia nel mondo e del nostro,
comune interesse nazionale.
Il primo pilastro della nostra politica estera è, continua ad essere, la partecipazione attiva
dell’Italia al processo di integrazione politica dell’Europa: l’Europa massima possibile,
non quella minima indispensabile, l’Europa come risposta a chi crede che la
globalizzazione sia ingovernabile.
Noi facciamo nostro e chiediamo alle altre forze politiche di fare altrettanto, l’appello
del Presidente Napolitano, al quale rivolgiamo da qui il nostro saluto più affettuoso, per
una sollecita ratifica parlamentare del trattato di Lisbona.
Nella prossima legislatura, le nostre priorità in campo europeo saranno una solida
politica di sicurezza comune, una politica dell’energia coerente con la strategia
dell’abbattimento delle emissioni e dello sviluppo delle fonti rinnovabili, una
rappresentanza unitaria sui mercati esterni, una politica della ricerca e delle reti europee
da finanziarsi anche mediante l’emissione di euro-bond.
Il secondo pilastro della nostra politica estera è il Mediterraneo, che dopo secoli di
marginalità ha oggi davanti a sé la straordinaria opportunità di proporsi come l’hub
politico ed economico mondiale di questo secolo. Un hub che collega Europa e Nord
Africa, Caspio e area del Golfo, a sua volta porta per l’Asia. Un hub per le merci e per
l’energia, per le migrazioni e il dialogo religioso.
Essere parte e perno di un forte circuito “euro-mediterraneo” è per l’Italia la condizione
principale per il rilancio del Mezzogiorno, per rovesciare finalmente la prospettiva e fare
del nostro Sud non più il principale problema ma la più importante risorsa sottoutilizzata
del Paese.
Il terzo pilastro è il rafforzamento dell’amicizia e della collaborazione, nazionale ed
europea, con gli Stati Uniti. Amicizia e collaborazione fondate ovviamente
sull’autonomia, e non sulla dipendenza. Sul legame che la storia ci ha consegnato, e sui
compiti che il presente ci assegna.
Concorrere alla costruzione di uno spazio comune transatlantico è fondamentale nel
campo tradizionale della politica estera e di difesa. Ed è decisivo in campo economico,
dove serve una cooperazione che rafforzi il governo della globalizzazione e della
liberalizzazione dei mercati, e diminuisca il rischio di crescenti protezionismi.
Europa e Stati Uniti assieme rendono tutto più facile e possibile. La partnership atlantica
è la base migliore per un nuovo dialogo con il mondo arabo e islamico. E’
un’opportunità per il governo delle crisi, a cominciare da quella israelo-palestinese. E’ la
chiave per la piena integrazione dei Balcani occidentali nel sistema europeo, e per un
approccio positivo nei confronti delle nuove potenze emergenti e dei rischi della
proliferazione nucleare e del riarmo.
Il quarto pilastro di una politica estera che auspichiamo condivisa dal più ampio arco di
forze parlamentari è il multilateralismo, e in particolare il sostegno alle Nazioni Unite, al
loro imprescindibile ruolo, alla loro necessaria autoriforma.
Dopo il successo dell’iniziativa sulla moratoria delle esecuzioni capitali, l’Italia deve
continuare a battersi per la tutela dei diritti umani e per l’affermazione e il rispetto della
legalità internazionale, tramite la Corte di Giustizia e il Tribunale Penale Internazionale.
E io continuo a credere che faremmo un torto alla nostra civiltà, oltre che al futuro stesso
dell’umanità, se non assumessimo in modo più stringente e vincolante la lotta alla
povertà e alla fame e il raggiungimento degli altri Obiettivi di Sviluppo del Millennio.
Non è più solo una questione di quantità dell’impegno, di risorse da destinare agli aiuti
allo sviluppo, anche se fa male constatare che l’Italia, pur invertendo al tendenza degli
anni precedenti, è ferma allo 0,20 per cento del Pil, e che solo Grecia e Stati Uniti fanno
meno di noi. E’ anche una questione di qualità e di efficacia, di come gli aiuti vengono
impiegati. Anche per questo nella prossima legislatura dovremo provvedere una sollecita
approvazione della legge di riforma della cooperazione.
Lo dobbiamo anche a quei milioni di italiani – volontari, missionari, associazioni, Ong –
che si spendono per dare speranza e sostegno all’Africa, per migliorare le condizioni di
vita nei paesi in via di sviluppo.
Sono il ritratto migliore dell’Italia. Sono l’esempio delle energie che abbiamo, del tesoro
umano di cui disponiamo. Dobbiamo averne cura, sostenerlo, farlo crescere. Non
lasciamo che questa ricchezza venga mortificata, fino ad esaurirsi pian piano.
L’Italia deve muoversi, deve fare appello alle grandi risorse intellettuali e morali di cui
dispone, se vuole giocare da protagonista nel mondo che cambia.
L’Italia deve lasciarsi alle spalle il passato, e scegliere il nuovo.
Deve smettere di accontentarsi, e volere di più: più mobilità sociale, più spazio al merito
e ai talenti e meno chiusure corporative; più legalità e meno furbizia; più ricerca,
scienza, innovazione tecnologica e meno divisioni e steccati ideologici; più fiducia nel
futuro e in se stessi, e meno paura del nuovo; più potere di decisione alla democrazia, e
meno poteri di veto.
Si può fare. Le risorse per riuscire ci sono. Sta già succedendo.
In Italia due-tremila imprese di media dimensione, ciascuna delle quali è al centro di una
costellazione di decine, talvolta centinaia di imprese più piccole, si sono ristrutturate,
hanno tirato la cinghia, hanno sofferto, si sono internazionalizzate; e ora si sono
riproposte da leader nell’economia globale.
E’ merito loro se nel 2007 le nostre esportazioni, in valore, sono tornate finalmente a
crescere. Quando si dice “imprese”, si dice lavoratori e imprenditori, insieme.
In Italia, migliaia di giovani calabresi hanno sfidato la mafia: "ora uccideteci tutti" hanno
gridato ai boss della criminalità organizzata.
In Italia, in Sicilia, ci sono imprenditori, ci sono industriali, commercianti e artigiani, che
hanno deciso di rifiutarsi di pagare il pizzo e di espellere dalle loro associazioni chi
continua a pagarlo.
In Italia, ci sono stati tre milioni e mezzo di cittadini che si sono messi in fila per far
nascere il Partito Democratico. E con la loro partecipazione, con la loro passione, hanno
dimostrato cos’è la buona politica, hanno fatto vedere dov’è che passa il cambiamento.
Le potenzialità dunque ci sono, e sono grandi. Ma senza un progetto, sono destinate a
rimanere tali.
Il primo dei problemi dell’Italia è che da troppi anni cresciamo troppo poco e comunque
sempre meno degli altri.
Ancora tra il ’91 e il ’98, la produttività totale dei fattori cresceva, in Italia, ad un ritmo di
poco superiore a quello medio dei principali Paesi europei.
Dal ’98 al 2000, è cresciuta meno che in Francia e in Germania.
Dal 2000 al 2006, è addirittura diminuita, mentre Germania e Francia continuavano a
farla crescere a buon ritmo.
Abbiamo così accumulato, dai primi anni ’90, un ritardo di sviluppo di ben 11 punti di
PIL rispetto all’area dell’Euro. In moneta, più di 170 miliardi di Euro all’anno.
Se non invertiamo questa tendenza, l’Italia rischia di perdersi.
Il programma del Partito Democratico assume quindi l’aumento della ricchezza
nazionale come obiettivo principale della sua strategia politica e di governo.
Anche perché, senza crescita, non c’è politica redistributiva che tenga.
Detto con ancora più chiarezza: senza crescita, senza più ricchezza, non c’è giustizia
sociale.
Se l’economia e le imprese vanno male, ogni obiettivo di equità sociale e di creazione di
opportunità si allontana.
Lo dimostra il fatto che oggi l’Italia, insieme ad un problema di crescita, ha anche un
grave problema di disuguaglianza e immobilità sociale: si è bloccato l’ascensore sociale
che consente ai giovani più impegnati, intelligenti e preparati di salire quanto vorrebbero
e meriterebbero.
L’Italia è tra i paesi più diseguali d’Europa. In Italia, il 20 per cento più ricco della
popolazione possiede quasi sei volte il reddito del 20 per cento più povero. Il rapporto
tra reddito e patrimonio è uno a sette, il più alto tra i paesi sviluppati.
L’indice di povertà relativa segnala che il 19 per cento della popolazione è in grave
disagio economico. In Svezia questa percentuale è al 9, in Germania e Francia al 13.
Come non bastasse, questa situazione riguarda più le donne dei maschi. Più i giovani
degli adulti.
Ciò che è più grave: in Italia, a differenza ad esempio di quanto avviene in Spagna, nei
paesi del Nord o in Olanda, il tasso di disuguaglianza, dopo l’intervento pubblico, invece
di scendere resta pressoché invariato.
Il programma del Partito Democratico si propone quindi di cambiare profondamente
qualità e quantità dell’intervento pubblico, per renderlo capace di aiutare davvero i più
poveri ad uscire con le loro gambe dalla situazione di disagio in cui si trovano; di
favorire il rapido innalzamento della partecipazione dei giovani e delle donne – specie
nel Sud – alle forze di lavoro; di chiamare di più il mercato, secondo un principio di
sussidiarietà, a risolvere problemi sociali e ambientali.
Non si possono infatti affrontare in modo efficace i problemi di uguaglianza, se non
facendo leva sulla libertà delle persone, ampliando le possibilità per ciascuno di
perseguire il proprio disegno di vita, compatibilmente con l’eguale diritto altrui.
L’Italia non ha un problema di libertà, nei termini classici in cui questo problema viene
solitamente posto: libertà di manifestazione del pensiero, di associazione, di riunione e
simili.
Ma esiste nel nostro Paese un problema di libertà con riferimento a quello che la
Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti chiama "diritto alla ricerca della felicità":
il diritto di ciascuno a perseguire liberamente il proprio disegno di vita, compatibilmente
con l’eguale diritto altrui.
Per fare solo alcuni esempi: una giovane mamma desidera dedicare alcuni anni alla cura
dei suoi bimbi, per poi ricominciare a lavorare; in Italia, praticamente, non può.
Una pensionata, un pensionato, desidera svolgere un’attività lavorativa part-time, legale e
regolare anche fiscalmente; in Italia, praticamente, non può.
Un giovane che voglia accedere ad una professione, senza avere il padre che già la
esercita, in Italia quasi sempre si trova davanti ad un muro impossibile da scavalcare.
Se il capitalismo italiano viene definito "relazionale", è per la diffusione di opachi patti
di sindacato e strutture piramidali nell’assetto proprietario di molti grandi gruppi, che ne
ostacolano la contendibilità, impedendo al mercato di esercitare la sua funzione
dinamica e selettiva.
E’ ora di cambiare, di voltare pagina, di liberare la società italiana.
La regolamentazione pubblica definisce lo spazio in cui tutte le libertà, anche quelle
private, sono rese possibili ed effettive. Anche per questo, però, essa è chiamata a
giustificare il perché di divieti, ostacoli, strettoie che si frappongono fra la libertà
individuale e l’effettivo perseguimento del progetto di vita di ciascuno.
Quali di queste giustificazioni siano accettabili è questione che investe la politica, le
scelte collettive. Ma è giusto rimuovere quei vincoli – e sono tanti – la cui
giustificazione ormai non è più sostenibile.
Meno veti, meno burocrazia, meno conservatorismi.
Più crescita, più uguaglianza, più libertà.
Sono queste le tre stelle fisse che orientano il programma del Partito Democratico per il
rinnovamento e il rilancio dell’economia e della società italiana.
I Governi di centrosinistra che hanno guidato l’Italia tra il ’96 e il 2001 e tra il 2006 e il
2008 hanno creato le condizioni che rendono oggi possibile e realistico un programma di
svolta riformatrice: prima con la stabilizzazione economico-finanziaria (Euro), e poi con
i primi, importanti successi nella lotta all’evasione fiscale e l’avvio di un migliore
controllo della spesa pubblica.
Ora è finalmente possibile, e allo stesso tempo necessario, chiamare a raccolta le forze
sociali – le organizzazioni sindacali, la Confindustria, ma anche le associazioni della
piccola impresa, del lavoro autonomo, delle professioni, del terzo settore – per una
nuova stagione di concertazione, finalizzata allo sviluppo.
Però non dimentichiamolo mai: la concertazione è un mezzo, non un fine.
Il Patto del Luglio del ’93 aveva una finalità precisa: la stabilizzazione economicofinanziaria.
Risultò decisivo per conseguirla, con l’Euro.
Oggi abbiamo bisogno di un nuovo modello, con un nuovo obiettivo: la crescita. L’Italia
deve crescere. Deve incrementare la produttività totale dei fattori e crescere.
In questo nuovo contesto, tutti devono cambiare comportamenti e capacità di
rappresentanza. La politica, certo, e per prima. Ma anche le forze sociali, per le quali
diventa urgente una nuova assunzione di responsabilità, in nome dell’interesse generale
del Paese, e una autoriforma delle regole della rappresentanza.
Più crescita, più uguaglianza, più libertà.
Nei prossimi giorni il Coordinamento politico discuterà e approverà un documento
programmatico che tradurrà questi principi in una organica proposta al Paese.
Qui mi limiterò ad indicare dodici grandi obiettivi, dodici proposte innovative che
possono cambiare l’Italia.
1. Primo: modernizzare l’Italia significa scegliere come priorità le infrastrutture e la
qualità ambientale.
Partiamo da qui, da un programma straordinario che si proponga di colmare il grave
ritardo che l’Italia ha accumulato.
Il Paese ha bisogno di infrastrutture e servizi che oggi sono ostacolati più da incapacità
di decisione che da carenza di risorse finanziarie.
Ecco la novità del nostro ambientalismo del fare: sì al coinvolgimento, alla
partecipazione, alla consultazione dei cittadini in tutte le fasi di localizzazione,
progettazione e costruzione; ma basta con l’ambientalismo che cavalca ogni movimento
di protesta del tipo Nimby, “non nel mio giardino”, e impedisce di fare le infrastrutture
necessarie al Paese.
Noi riformeremo la normativa di valutazione ambientale delle opere, con l’eliminazione
dei tre passaggi attuali e la concentrazione in un’unica procedura di autorizzazione, da
concludere in tre mesi. Una volta assunta la decisione, deve essere previsto un divieto di
revoca o l’applicazione di sanzioni pecuniarie elevate con responsabilità erariale a carico
degli amministratori pubblici interessati.
La priorità va data agli impianti per produrre energia pulita, ai rigassificatori
indispensabili per liberalizzare e diversificare l’approvvigionamento di metano, ai
termovalorizzatori e agli altri impianti per il trattamento dei rifiuti, alla manutenzione
ordinaria e straordinaria della rete idrica.
E poi al trasporto ferroviario. L’Alta Velocità è il più grande investimento
infrastrutturale in corso nel nostro Paese: va completato e utilizzato appieno. Il
completamento della TAV metterà a disposizione del trasporto regionale un aumento del
50 per cento delle tratte ferroviarie. Noi le useremo per ridurre il traffico attorno alle
grandi città e per dare ai pendolari un servizio finalmente decente.
Dotare il Paese delle necessarie infrastrutture non solo non è in contraddizione con
l’obiettivo di tutelare e valorizzare l’ambiente, ma ne è il presupposto. Allo stesso modo,
le tecnologie per l’ambiente saranno nei prossimi vent’anni ciò che il comparto della
comunicazione è stato nei venti precedenti: la forza trainante dello sviluppo e di un più
vasto cambiamento economico e sociale.
Produrre il 20 per cento di energia con il sole e con il vento significa risparmiare miliardi
di euro sulle importazioni di petrolio; migliorare l’efficienza energetica significa più
competitività per le imprese e risparmio per le famiglie.
E la nostra proposta è un piano per realizzare in dieci anni la trasformazione delle fonti
principali di riscaldamento degli edifici, privati e pubblici, in modo da creare al tempo
stesso un gigantesco risparmio energetico e un grande volano di crescita economica.
Per anni abbiamo incentivato la rottamazione delle auto. Ora incentiviamo la
rottamazione del petrolio.
2. Il secondo grande obiettivo di innovazione è il Mezzogiorno, è la sua crescita, che è
poi la crescita dell’Italia.
Gran parte delle politiche per il Mezzogiorno è incentrata sull’utilizzo delle risorse
comunitarie. L’efficacia di questa spesa è stata tuttavia spesso deludente, si è assistito
alla dispersione dei fondi in una miriade di programmi e si sono così mancate importanti
occasioni per utilizzare le risorse in modo da superare i rilevanti gap del Mezzogiorno
nelle infrastrutture e nei servizi collettivi.
Si deve quindi procedere a una drastica e veloce revisione dei programmi, e ad un
altrettanto drastico accentramento delle risorse su pochi obiettivi, quantificabili e
controllabili.
La priorità è quella di portare entro il 2013 la rete delle infrastrutture, a cominciare dal
sistema dei trasporti – strade, ferrovie, porti, aeroporti e autostrade del mare – su un
livello quantitativo e qualitativo confrontabile con l’Europa sviluppata. E lo stesso vale
per servizi essenziali come quelli idrici e ambientali.
Pensiamo alla Sicilia, alla sua collocazione strategica, al suo essere approdo quasi
naturale per i traffici commerciali delle economie emergenti dell’area, che fa dell’Isola
l’avamposto europeo nel Mediterraneo. Perché questo circuito virtuoso si sviluppi la
Sicilia ha bisogno di una rete infrastrutturale che le consenta di diventare davvero, con le
altre regioni del nostro Mezzogiorno, la naturale piattaforma logistica per gli scambi di
servizi, di beni, di persone, di culture in un’area cruciale del mondo.
3. Terzo grande obiettivo di innovazione è il controllo della dinamica della spesa
pubblica. E’ aumentarne la produttività e renderla finalmente quel fattore di sviluppo e
di uguaglianza che oggi ancora non è.
Nei cinque anni di governo del centrodestra la spesa corrente primaria è aumentata di
due punti e mezzo di PIL. Un’enormità, che spiega da sola il fallimento delle politiche
economiche della Casa delle libertà.
In tutto il mondo, la destra liberista ha come slogan “meno Stato più mercato”.
Solo in Italia il centrodestra pensava di poter governare riducendo le tasse e aumentando
la spesa.
Alla fine dei cinque anni del governo Berlusconi, la pressione fiscale era stata
leggermente ridotta. Peccato però che la spesa corrente primaria, che il centrodestra
aveva trovato nel 2000 al 37,3 per cento del PIL sia stata lasciata al 39,9 per cento nel
2005: più 2,6.
Tra minori entrate e maggiori uscite, 3 punti e mezzo di PIL da finanziare: questa è
l’eredità che ha trovato il Governo Prodi.
E’ quindi vero che il miglioramento dei conti pubblici, che ha portato alla fuoriuscita
dell’Italia dalla procedura di infrazione per deficit eccessivo in cui era precipitata nel
quinquennio 2001-2006, deriva per la parte maggiore da un aumento della pressione
fiscale: peraltro, in parte consistente, frutto del successo nella lotta all’evasione fiscale.
Ma non è meno vero, che per la prima volta dopo dieci anni un Governo stava riuscendo
a mettere sotto controllo la spesa corrente primaria, che è passata dal 39,9 del 2005 al
39,3 del 2007.
Proprio l’esperienza di questi due anni ci consente di dire credibilmente ai cittadini
italiani che nella prossima legislatura, il banco di prova decisivo per il Governo del
Partito Democratico è quello riqualificare e ridurre la spesa pubblica. Senza ridurre, anzi
facendo gradualmente crescere in rapporto al PIL, la spesa sociale.
Spendere meglio, spendere meno.
Mezzo punto di PIL di spesa corrente primaria in meno nel primo anno, un punto nel
secondo e un punto nel terzo: il conseguimento di questo risultato è condizione
irrinunciabile per onorare l’altro impegno che assumiamo con i contribuenti italiani,
famiglie e imprese: restituire loro, con riduzioni di aliquota e detrazioni, ogni Euro di
gettito aggiuntivo, derivante dalla lotta all’evasione fiscale.
Procederemo con innovazioni legislative certo. Ma, soprattutto, con attività di alta
amministrazione.
Un maggiore controllo della spesa pubblica è possibile, come dimostrano i dati positivi
del 2007. Occorre continuare con tenacia e con rigore.
Noi risparmieremo sugli acquisti di beni e servizi, ricorrendo a grandi piattaforme di
acquisto.
Aumenteremo l’efficienza del lavoro pubblico, collegando all’effettiva produttività la
dinamica delle retribuzioni, oltre che valutando davvero i dirigenti sulla base del
raggiungimento degli obiettivi.
E a proposito di valutazione, è tempo di dare ai cittadini la reale possibilità di giudicare i
servizi ricevuti, di fornire indicazioni per il loro miglioramento e di operare per
realizzarlo. Non può sempre passare tutto sulla testa delle persone. Questa è una
innovazione profonda, per mettere l’Italia sullo stesso piano delle grandi democrazie
moderne.
E ancora, per questo: semplificare il nostro barocco sistema amministrativo, ridurre le
sovrapposizioni fra uffici, livelli istituzionali, organismi ed enti pubblici, accorpare in
un’unica sede provinciale tutti gli uffici periferici dello Stato.
Anche in attesa di una riforma istituzionale più complessiva, che assesti finalmente il
Titolo V della Costituzione, cominceremo da subito abolendo le Province nei grandi
Comuni metropolitani, ai quali andranno dati poteri reali in settori importanti come la
mobilità.
Utilizzeremo in modo produttivo il grande patrimonio demaniale, con l’accordo di Stato
e Comuni, in modo da abbattere contestualmente di qualche punto il debito pubblico, che
potrà così scendere più rapidamente al di sotto della soglia del 100 per cento sul PIL.
Libereremo così risorse per almeno un punto di PIL all’anno, attualmente impiegate per
pagare interessi sul debito: una posta di bilancio che oggi si mangia quasi la metà
dell’intero gettito IRPEF.
Insomma: una politica forte e autorevole, un quadro istituzionale più sereno, un lavoro di
lunga lena ma realistico, possono permetterci, nell’arco di pochi anni, di ridurre la
percentuale di spesa pubblica sul PIL e, soprattutto, di migliorare la qualità della spesa.
4. Quarto obiettivo, fare quello che non è mai stato fatto e che oggi è possibile fare:
ridurre davvero le tasse ai contribuenti leali, che sono tanti, lavoratori dipendenti e
autonomi, e che pagano davvero troppo.
Il risanamento della finanza pubblica realizzato negli ultimi due anni, combinato con
questo credibile e concreto programma di riduzione e riqualificazione della spesa e con
la prosecuzione della lotta all’evasione, permette per il futuro, anche per quello
immediato, di programmare una riduzione del carico fiscale.
Per sostenere il potere d’acquisto delle famiglie italiane e affrontare la questione
salariale.
Per restituire alle famiglie e alle imprese i frutti della lotta all’evasione e all’elusione.
Per rendere il fisco più amico dello sviluppo delle persone e dell’economia.
Pagare meno, pagare tutti: è questo il terzo grande obiettivo programmatico del Partito
Democratico.
Un obiettivo che si traduce, subito, in un incremento della detrazione IRPEF a favore dei
lavoratori dipendenti. E dunque in un aumento di salari e stipendi.
La manovra è attuabile in più fasi, in progressiva crescita nel tempo, partendo dai redditi
medio-bassi. E può essere usato per portare a regime l’intervento per la restituzione del
fiscal-drag: ogni anno, la detrazione aumenta per neutralizzare l’effetto del drenaggio
fiscale.
La detrazione può essere utilizzata anche per sperimentare forme di sostegno ai redditi
più bassi, come trasferimento a favore dei lavoratori che hanno un reddito così basso da
non poter usufruire delle detrazioni di cui pure avrebbero diritto.
Proprio perché abbiamo dimostrato di saper fare la lotta all’evasione fiscale, insieme al
controllo della spesa, possiamo essere credibili se ci assumiamo l’impegno, a partire dal
2009, di ridurre gradualmente tutte le aliquote IRPEF: un punto in meno all’anno, per tre
anni.
Subito ridurremo invece la pressione fiscale sulla quota di salario da contrattazione di
secondo livello: azienda, gruppo, distretto, territorio.
Ridurre le tasse sul salario di produttività è la strada maestra per favorire la crescita e,
allo stesso tempo, per redistribuire finalmente un po’ dei vantaggi da aumento della
produttività anche a favore dei lavoratori.
Per pagare le tasse, le piccolissime imprese commerciali ed artigiane sopportano
esorbitanti costi di regolare tenuta della contabilità. Va dunque significativamente
elevato il tetto di 30 mila euro di fatturato per il pagamento a forfait delle diverse
imposte e tributi, anche attraverso una differenziazione del tetto stesso per settori e
comparti, da concordare con tutte le categorie interessate.
Ad esempio: più alto, fino a 50 mila Euro, per chi produce beni, un po’ più basso per chi
produce servizi.
Agli artigiani, ai commercianti, alle piccole imprese in generale voglio dire che
semplificheremo drasticamente l’applicazione degli studi di settore per imprese in
monocommittenza e contoterzisti, fino a consentire loro la totale fuoriuscita dall’uso di
questo strumento.
La revisione degli studi di settore si applicherà all’anno d’imposta in corso e non sarà
mai retroattiva.
Abrogheremo la norma che prevede la possibilità di reiterare gli accertamenti.
Daremo maggiore rilevanza alla dimensione territoriale nella definizione degli indicatori
utilizzati negli studi.
Potenzieremo la formazione congiunta tra Agenzia delle Entrate e Associazioni di
categoria.
5. Il quinto grande obiettivo di innovazione è investire più di quanto mai sia stato fatto
sul lavoro delle donne.
Il modello sociale italiano è oggi afflitto da tre gravi patologie: bassi tassi di
occupazione femminile, bassa natalità e alti tassi di povertà minorile.
Si tratta di un circolo vizioso, che blocca la crescita economica, demografica e “civile”
dell’Italia. Che futuro può avere il Mezzogiorno se un quarto dei suoi bambini nasce
povero e vive un’infanzia deprivata? Se i suoi quindicenni hanno una preparazione
scolastica più simile a quella di Thailandia e Uruguay che a quella della Francia o della
Germania, e anche del Trentino e della Lombardia? Che sicurezza economica possono
avere le famiglie italiane se la loro maggioranza, soprattutto fra quelle con figli, può
contare su un solo percettore di reddito, quasi immancabilmente il maschio adulto?
Per questo noi vogliamo trasformare l’enorme capitale umano femminile inattivo in un
“asso” da giocare nella partita dello sviluppo, della competitività, del benessere sociale.
Vogliamo rovesciare il circolo vizioso in un circolo virtuoso. Più donne occupate
significa infatti più crescita, più nascite (come dimostra l’esperienza degli altri paesi
europei), famiglie più sicure economicamente e più dinamiche e meno minori in povertà.
Per favorire l’occupazione femminile, noi introdurremo incentivi fiscali mirati per il
lavoro delle donne, anche al fine di favorire il secondo reddito familiare, e incentivi
fiscali per promuovere, sul mercato, un settore di servizi “avanzati” alle famiglie, che sia
insieme un settore di occupazione per le donne e un mezzo di conciliazione.
In particolare, pensiamo ad un credito d’imposta rimborsabile per le donne che lavorano,
adeguato a sostenere le spese di cura, così da essere incentivante e graduato in rapporto
al numero dei figli e al livello di reddito. Tutte le donne lavoratrici, siano dipendenti,
autonome o atipiche, con figli e reddito familiare al di sotto di una certa soglia che potrà
crescere nel tempo, dovranno poterne beneficiare. Nei primi due anni della legislatura, il
credito d’imposta potrà essere applicato alle donne lavoratrici del Sud, per poi essere
esteso a tutto il territorio nazionale.
Vareremo inoltre una legge sull’eguaglianza di genere nel mercato del lavoro, come in
Spagna, e stabiliremo punteggi più elevati nelle graduatorie per gli appalti alle aziende
che rispettano la parità di genere.
E ai livelli più alti, vogliamo che i Consigli d’Amministrazione delle aziende pubbliche
siano formati, per metà, da donne.
Per la conciliazione tra lavoro e maternità, proponiamo orari flessibili e “lunghi” negli
asili, nelle scuole elementari e negli uffici pubblici che rendono i principali servizi ai
cittadini; gli asili dovranno chiudere solo una settimana a Ferragosto; le scuole
elementari dovranno organizzare attività estive e restare aperte anche al pomeriggio; gli
orari del commercio dovranno essere liberalizzati.
Proponiamo anche un nuovo congedo di paternità interamente retribuito, dalle imprese,
come nei paesi scandinavi, addizionale alla maternità/paternità già oggi prevista, e non
fruibile dalle donne; congedi parentali al 100 per cento per 12 mesi, come in Francia;
incentivi alla flessibilità di orario richiesta dal dipendente.
E se parliamo di dignità femminile, di libertà e responsabilità delle donne italiane, fatemi
dire ancora una volta con estrema chiarezza: la legge 194 è una buona legge, è una legge
contro il dramma dell’aborto, tanto che ha sottratto le donne dall’incubo della
clandestinità e in trent’anni ha quasi dimezzato il numero degli aborti. Discutiamo di
come applicarla integralmente, di come valorizzarne gli aspetti di prevenzione. Ma è una
legge che va difesa ed è un tema che va tenuto fuori dalla campagna elettorale.
6. Il sesto obiettivo di innovazione è aumentare il numero di case in affitto.
In Italia la quota di patrimonio immobiliare in affitto è pari al 19 per cento, contro il 60
in Germania, tra il 40 e il 50 in Austria, Danimarca, Francia, Paesi Bassi e Svezia, il 30
nel Regno Unito.
La scarsa disponibilità di case in affitto blocca la mobilità, specie dei giovani e delle
giovani coppie. Il terzo delle famiglie che non possiede abitazioni è esposto al rischio di
aumenti dei costi degli affitti e alle difficoltà di poter acquistare una casa senza venderne
un’altra.
Tra le misure che proporremo per aumentare l’offerta di case in affitto, un grande
progetto di social housing realizzato da fondi immobiliari di tipo etico a controllo
pubblico, con ruolo centrale della Cassa Depositi e Prestiti, che può mobilitare risorse
per 50 miliardi di euro, senza intervento di spesa pubblica, per la costruzione e gestione
di 700 mila unità abitative da mettere sul mercato a canoni compresi fra i 300 e i 500
euro.
E una coraggiosa riforma del regime fiscale degli affitti: tassare il reddito da affitto ad
aliquota fissa, ferma restando l’opzione per la condizione di miglior favore; e consentire
la detraibilità di una quota fissa dell’affitto pagato fino a 250 euro mensili.
7. Il settimo grande obiettivo programmatico del Partito Democratico è quello di
invertire l’attuale trend demografico, aiutando in modo significativo le famiglie con figli,
mediante l’istituzione della Dote fiscale per il figlio, proposta dalla Conferenza
governativa di Firenze sulla famiglia.
La Dote sostituisce gli attuali Assegni per il nucleo familiare e le detrazioni Irpef per
figli a carico, assicura trattamenti significativamente superiori a quelli attuali, si rivolge
anche ai lavoratori autonomi.
La Dote parte da un valore pieno di 2.500 euro annui sul primo figlio, aumentando col
numero dei figli secondo parametri di equivalenza e riducendosi regolarmente in
funzione del reddito familiare, ma in modo da migliorare i trattamenti anche per i redditi
medi e medio-alti.
Per le famiglie incapienti con figli, la Dote stessa fa da imposta negativa in quanto viene
erogata come trasferimento.
L’asilo nido deve diventare un servizio universale, disponibile per chiunque ne abbia
bisogno. Il nostro obiettivo, in collaborazione con le Regioni e gli enti locali, è quello di
raddoppiare il numero dei posti entro cinque anni, in modo da assicurare il servizio ad
almeno il 20 per cento dei bambini da 0 a 3 anni.
E’ anche con questi strumenti che si sostiene la famiglia, che la si aiuta a svolgere la sua
importante funzione sociale.
Dobbiamo fare della nostra una società a misura di bambino, riservando all’infanzia i
tempi e gli spazi di cui ha bisogno.
E difendendo i bambini dalle violenze, spesso familiari, e dalle insidie che una società
predona mette in atto nei loro confronti.
Lo dico tornando per un momento all’esperienza che ho vissuto negli ultimi sette anni.
Come Sindaco ho incontrato migliaia di bambini. Li ho visti felici negli asili, nelle
scuole, nei parchi giochi insieme ai loro genitori. Li ho visti non perdere il sorriso e
l’allegria negli ospedali. Ho incontrato, ed è questa la cosa più dura, lo sguardo dei
bambini che avevano subito un trauma, una violenza, un abuso.
Io su poche cose non ho dubbi come su questa: la pedofilia è per me il più orrendo dei
crimini, è equiparabile ad un delitto, perché è la vita di un piccolo innocente che si
spezza. Come tale la giustizia lo deve perseguire, con la più assoluta durezza, anche
nell’erogazione della pena.
8. Ottavo obiettivo, ottava sfida di innovazione: fare della Scuola, dell’Università, della
Ricerca un sistema all’altezza delle sfide della società della conoscenza. Mi limito qui ad
anticipare alcune proposte.
Abbiamo bisogno di “campus” scolastici e universitari. Abbiamo bisogno che per i
ragazzi i luoghi di formazione non siano come una fabbrica o un ufficio, ma dei centri di
vita e di formazione permanente.
Ci sono risorse non solo per riqualificare le strutture esistenti, ma per farne i luoghi più
belli e accoglienti del quartiere. Scuole aperte il pomeriggio, con architetture nuove,
attrezzature didattiche di qualità, strumenti tecnologici e impianti sportivi.
Cento “campus”, universitari e scolastici, dovranno essere pronti per il 2010. Delle
centrali di sapere per le comunità locali. Dei luoghi di formazione e di
“internazionalizzazione” per i nostri ragazzi.
Il secondo impegno riguarda la valutazione. Tutti gli studenti delle scuole italiane
saranno periodicamente sottoposti a test oggettivi, che serviranno alle famiglie per
valutare la qualità dell’apprendimento dei ragazzi e della scuola che frequentano.
Perché è sul talento e sul merito che la società italiana dovrà contare. Perché il talento e
il merito, se uniti alla costruzione di un sistema di pari opportunità, sono il miglior
propellente della crescita e della coesione sociale.
E fatemi dire, a quarant’anni dal ’68, che chi allora proponeva il “6 politico” produceva
un falso egualitarismo che perpetuava le divisioni sociali e di classe esistenti.
Il terzo impegno riguarda gli insegnanti: noi investiremo sulla loro passione e la loro
competenza, la vera risorsa di una scuola di qualità, avviando una vera e propria carriera
professionale degli insegnanti che valorizzi, anche qui, il merito e l’impegno.
Investire sulla professionalità docente significa ad esempio prevedere per gli insegnanti
periodi sabbatici di aggiornamento intensivo, così come avviene per i professori
universitari.
Quanto alla ricerca, dobbiamo spingere le imprese a investire più risorse, concentrando
solo sugli investimenti in ricerca e sviluppo i contributi a fondo perduto.
9. Il nostro nono grande obiettivo è in realtà una priorità assoluta: la lotta alla precarietà.
E in senso più ampio la qualità del lavoro, la sua sicurezza.
Comincio da questa: si tratta di difendere e promuovere standard minimi di civiltà. Ma si
tratta anche di far avanzare un’idea alta della competizione e della produttività.
Dobbiamo vincere sui mercati internazionali per la qualità delle nostre produzioni,
quindi per la forza del nostro lavoro, non perché ci illudiamo di poter competere sui
costi, mettendo in pericolo la sicurezza e sacrificando i diritti dei lavoratori.
Ed io sono orgoglioso di potervi annunciare la prima candidatura del Partito
Democratico alle prossime elezioni: è quella di Antonio Boccuzzi, operaio della
Thyssen, sindacalista, unico sopravvissuto dei sette che quella notte si trovavano sulla
linea cinque.
La sicurezza del lavoro, poter lavorare senza morire e senza farsi male, è un diritto
fondamentale della persona umana, che non può essere comprato e venduto a nessun
prezzo.
Bisogna creare un’unica Agenzia Nazionale per la sicurezza sul lavoro, come luogo di
indirizzo e coordinamento per l’attività ispettiva, preventiva e repressiva, anche
rafforzando il ruolo della concertazione.
Anche grazie all’attività dell’Agenzia, potrà essere realizzato un sistema di forti premi
per le imprese che investono in sicurezza, agendo sul livello della contribuzione;
I lavoratori in nero sono anche i più esposti al rischio infortuni. Vanno quindi premiate
le imprese che accolgono l’invito a regolarizzarsi e a rispettare i contratti.
In Italia un numero consistente di lavoratori ha retribuzioni inaccettabilmente basse; si
trovano per questo in una situazione di povertà che riguarda soprattutto i lavoratori
atipici, giovani, donne, e che si cumula spesso con condizioni di precarietà
dell’occupazione.
Noi intendiamo contrastare con decisione questa situazione, con misure diverse e
convergenti.
La più importante è la sperimentazione di un compenso minimo legale, concertato tra le
parti sociali e il governo, per i collaboratori economicamente dipendenti, con l’obiettivo
di raggiungere 1.000 euro mensili.
Troppi giovani sono ora “intrappolati” troppo a lungo, spesso per anni, in rapporti di
lavoro precari.
Noi contrasteremo questa situazione, facendo costare di più i lavori atipici e favorendo
un percorso graduale verso il lavoro stabile e garantito.
Un percorso che preveda un allungamento del periodo di prova e una incentivazione e
modulazione del contratto di apprendistato come strumento principale di formazione e di
ingresso dei giovani nel lavoro.
In un primo periodo, di lunghezza variabile da definire con le parti secondo le necessità
di formazione, i trattamenti e le agevolazioni all’impresa restano quelle attuali; alla fine
di questo periodo si procede alla verifica della qualificazione dell’apprendista, con la
possibilità di continuare il rapporto, se necessario a completare la formazione, con
ulteriori agevolazioni.
Dopo questo ulteriore periodo vanno previsti incentivi all’impresa che trasforma il
rapporto in contratto di lavoro a tempo indeterminato.
10. Il decimo obiettivo di innovazione riguarda uno dei primi diritti, forse il primo, che
ogni individuo ha: quello alla sicurezza.
Malgrado l’impegno generoso delle forze dell’ordine, i cittadini si sentono più insicuri:
la qualità della vita ne viene gravemente danneggiata. E il danno è più grave per chi è
più debole.
Far sentire sicuri i cittadini, aumentando la presenza di agenti per strada e anche
utilizzando nuove tecnologie è uno dei principali obiettivi programmatici del Partito
Democratico.
E’ questione di entità delle risorse pubbliche dedicate, ma è soprattutto questione di
migliore impiego delle risorse umane e finanziarie già disponibili. Se si vogliono più
agenti in divisa a presidio del territorio, di giorno e di notte, in centro e in periferia, nelle
città e nelle campagne, si impongono misure radicali.
Trasferiremo ai comuni funzioni amministrative e vareremo un piano di mobilità interna
alla Pubblica Amministrazione di personale civile oggi sottoutilizzato, per impiegarlo
nelle attività amministrative di supporto alle attività di polizia.
Le nuove tecnologie, a cominciare dalle reti senza fili a larga banda (WI-FI, WIMAX)
consentono un’infinita possibilità di controllo del territorio. Col loro impiego si possono
aiutare i cittadini più esposti alla paura: le donne che escono sole di notte, gli anziani che
si muovono nel quartiere, i bambini che vanno a scuola, possono essere protetti dalla
rete, attivando un allarme in caso di pericolo.
Le stesse iniziative di video sorveglianza dei privati, che nascono come funghi,
potrebbero avere convenienza a diventare un terminale della rete, contribuendo alla sua
espansione e ottenendo in cambio preziosi vantaggi.
Stazioni e fermate del trasporto pubblico possono diventare, da luogo insicuro per
definizione, l’esatto contrario: le “boe della sicurezza” nel mare metropolitano,
consentendo collegamenti agili con le forze dell’ordine.
La sicurezza dipende anche dalla certezza della pena. Troppo frequenti sono i casi di
condannati per reati di particolare allarme sociale che vengono ammessi a rilevanti
benefici di legge senza avere mai scontato un giorno di carcere.
Il “pacchetto sicurezza” approvato dal Consiglio dei Ministri il 30 ottobre scorso aveva
ampliato il numero dei reati particolarmente odiosi, fra questi la rapina, il furto in
appartamento, lo scippo, l’incendio boschivo e la violenza sessuale aggravata. E in tutti
questi casi prevedeva l’obbligo della custodia cautelare in carcere, il giudizio immediato,
l’applicazione d’ufficio della custodia cautelare in carcere già con la sentenza di primo
grado e l’immediata esecuzione della sentenza di condanna definitiva senza meccanismi
di sospensioni.
Su questa linea noi proseguiremo.
11. Di innovazione ha bisogno un’altra sfera decisiva nella vita di un Paese e di ogni suo
cittadino: quella della giustizia, della legalità.
Da troppi anni, in Italia, il confronto e lo scontro sulla giustizia riguardano
esclusivamente i rapporti tra la politica e la magistratura.
Su questo tema il Presidente Napolitano ha pronunciato giovedì scorso, davanti al
plenum del Csm, parole chiare e dal nostro punto di vista conclusive.
Vorrei tuttavia che, in materia di etica pubblica e di moralità politica, noi fossimo capaci
di essere più severi con noi stessi di qualunque legge e qualunque magistrato.
Il Partito Democratico non può disporre per altri partiti. Ma per se stesso, sia attraverso il
codice etico, sia attraverso norme statutarie relative ai comportamenti di suoi iscritti
eletti nelle istituzioni, il partito stabilisce indicazioni rigorose in particolare sulla qualità
delle nomine di cui i suoi rappresentanti dispongono.
Codici di comportamento e regole deontologiche lasciano il tempo che trovano,
osserveranno gli scettici. Non è vero: i cittadini sono sensibili all’onestà in politica e, se
l’onestà diventa un vantaggio competitivo, anche gli altri partiti seguiranno l’esempio
del nostro.
In ogni caso, noi proporremo norme innovative per la trasparenza delle nomine di
competenza della politica. Per ognuna di esse, dovranno essere predeterminati e resi
pubblici criteri di scelta fondati sulle competenze; attivate procedure di sollecitazione
pubblica delle candidature; infine, pubblicato lo stato e gli esiti delle procedure di
selezione.
Noi proporremo anche di introdurre nel nostro ordinamento il principio della non
candidabilità al Parlamento dei cittadini condannati per reati gravissimi come quelli
connessi alla mafia e alla camorra, alle varie forme di criminalità organizzata, o per
corruzione o concussione.
Ma la vera emergenza giustizia, quella che l’opinione pubblica avverte come tale, perché
ha effetti devastanti sia sulla sicurezza dei cittadini che sullo sviluppo economico del
Paese, è quella dei tempi del processo, sia penale che civile, che vedono l’Italia agli
ultimi posti in Europa e nel confronto coi Paesi avanzati di tutto il mondo.
Il nostro undicesimo grande obiettivo programmatico è allora ridurre sensibilmente
questi tempi, portandoli entro la legislatura a livelli europei.
Noi porteremo a compimento le riforme avviate negli scorsi anni, come la
razionalizzazione e l’accelerazione del processo civile e di quello penale. Ma adotteremo
anche provvedimenti amministrativi che possono essere presi immediatamente, per
accrescere l’efficienza del sistema giudiziario italiano.
Penso ad esempio alla gestione manageriale degli Uffici giudiziari, anche prevedendo la
figure del manager dell’Ufficio Giudiziario, un magistrato appositamente formato per
l’assolvimento di questo compito. Penso alla realizzazione del processo telematico, per
eliminare gli infiniti iter cartacei. O ancora alla modifica dei contratti tra avvocati e
clienti, attualmente basati sulla durata del processo, verso forme basate su premi alla
rapidità.
C’è poi il nodo delle intercettazioni telefoniche, informatiche e telematiche. E’ uno
strumento essenziale al fine di contrastare la criminalità organizzata e assicurare alla
giustizia chi compie i delitti di maggiore allarme sociale, quali la pedofilia e la
corruzione. Si tratta di conciliare queste finalità con i diritti fondamentali, come quello
all’informazione e quelli alla riservatezza e alla tutela della persona.
In parole semplici: ai magistrati deve essere garantita la massima libertà, ai cittadini la
massima tutela.
Il divieto assoluto di pubblicazione di tutta la documentazione relativa alle
intercettazioni e delle richieste e delle ordinanze emesse in materia di misura cautelare
fino al termine dell’udienza preliminare, e delle indagini, serve a tutelare i diritti
fondamentali del cittadino e le stesse indagini, che risultano spesso compromesse dalla
divulgazione indebita di atti processuali.
E’ necessario individuare nel Pubblico Ministero il responsabile della custodia degli atti,
ridurre drasticamente il numero dei centri di ascolto e determinare sanzioni penali e
amministrative molto più severe delle attuali, per renderle tali da essere un’efficace
deterrenza alla violazione di diritti costituzionalmente tutelati.
12. Dodicesimo obiettivo di innovazione, dodicesima sfida: portare la banda larga in
tutta Italia e garantire a tutti gli italiani una TV di qualità.
L’effettiva possibilità di accesso alla rete a banda larga deve diventare un diritto
riconosciuto a tutti i cittadini e a tutte le imprese, su tutto il territorio nazionale,
esattamente come avviene per il servizio idrico o per l’energia elettrica.
Noi realizzeremo, a partire dalle grandi città, reti senza fili a banda larga per creare un
ambiente disponibile alla gestione di nuovi servizi collettivi. Non c’è bisogno di grandi
investimenti pubblici: sono tecnologie infinitamente meno costose delle classiche opere
pubbliche. Soprattutto, sono sistemi che attivano l’iniziativa dei privati, creano nuove
convenienze a cooperare, attraggono investimenti.
Sviluppare un programma nazionale per le info-città è tanto più importante per far
entrare l’Italia nell’era della TV digitale con più libertà, più concorrenza, più qualità, più
autonomia dalla politica.
Più libertà significa superamento del duopolio, oggi reso possibile dall’aumento di canali
garantito dalla TV digitale. Per andare oltre il duopolio occorre correggere gli eccessi di
concentrazione delle risorse economiche, accrescendo così il grado di pluralismo e di
libertà del sistema.
La libertà di informazione è un cardine della democrazia, come ci ha insegnato un
grande giornalista, che resta nel cuore di tutti gli italiani, Enzo Biagi.
Più concorrenza significa ricondurre il regime di assegnazione delle frequenze ai principi
della normativa europea e della giurisprudenza della Corte costituzionale.
Più qualità: noi proponiamo di istituire un fondo, finanziato da una aliquota sui ricavi
pubblicitari, che finanzi le produzioni di qualità. Dire qualità e dire Italia è la stessa cosa.
Vale se pensiamo alla nostra cultura. Se pensiamo a un settore in cui non è possibile che
il nostro Paese abbia pero tante posizioni: quello del turismo.
Più autonomia della televisione dalla politica significa, subito, nuove regole per il
governo della RAI. La nostra idea è quella di una Fondazione titolare delle azioni, che
nomina un amministratore unico del servizio pubblico responsabile della gestione.
Queste sono alcune delle nostre idee per cambiare il Paese. Questo è il cammino di
innovazione che attende l’Italia.
Il nostro Paese deve tornare ad avere voglia di futuro. Deve tornare a correre.
Ma per riuscire farlo, per essere “viaggiatori leggeri”, dobbiamo liberarci di un peso. E’
il peso dei veti, dei no, dei conservatorismi e delle paure.
E’ un peso che rende malata la nostra democrazia, che indebolisce la forza delle
istituzioni, che aumenta l’impotenza di un sistema frammentato e inadeguato, che riduce
al minimo la credibilità di una politica che appare ai cittadini tanto arrogante e
invadente, quanto inconcludente quando si tratta di prendere decisioni, quando si deve
interpretare il bisogno, che nel Paese c’è, di unità, di coesione attorno a obiettivi di
interesse comune.
L’Italia ha bisogno di altro. Gli italiani devono sentire di poter contare su una
democrazia che funzioni, su istituzioni forti e autorevoli, su una politica lieve e
trasparente, che sappia per prima far vivere i principi della responsabilità e della
decisione.
Lo abbiamo sostenuto per mesi. Ci siamo spesi per questo dando vita ad un confronto
aperto e dettagliato con tutte le forze politiche. Abbiamo insistito nelle ultime settimane,
e nei giorni del generoso tentativo del Presidente Marini.
Ma si è preferito dire di no. Si è voluto portare di corsa il Paese al voto pensando che
questa fosse la convenienza. Una grande occasione perduta per dare alla democrazia
italiana stabilità e governabilità. Un’occasione perduta per dare prova di quel coraggio
della responsabilità che una parte della politica italiana sembra aver perduto. E che il
breve respiro non porti lontano appare tanto più chiaro oggi, mentre tra i nostri avversari
si sta sgretolando la certezza, inossidabile fino a qualche tempo fa, di una vittoria
conquistata a mani basse.
Noi abbiamo introdotto una novità: nel momento in cui lavoravamo per un nuovo
bipolarismo, abbiamo unilateralmente abbandonato il paradigma che fondava il vecchio:
la demonizzazione dell’avversario.
Abbiamo uno schema che è quello tipico delle grandi democrazie: convergenza per la
scrittura delle regole e poi conflitto programmatico e politico per chi deve governare il
Paese. Ma il conflitto, appunto, è “per” e non “contro”.
Questa novità di linguaggio, che abbiamo scelto da soli da molti mesi, inevitabilmente
condiziona in modo positivo tutto il confronto politico, che fin qui si è svolto con toni
nuovi.
Sono i toni sollecitati dal Presidente Napoletano, e sono anche i toni che gli italiani,
stanchi delle risse più finte che vere, preferiscono.
Anche per questo sarebbe stato giusto cambiare un’insulsa legge elettorale.
Chi l’ha scritta l’ha definita come sappiamo. Chi l’ha votata, o ha promosso un
referendum per abrogarla o ha convenuto sulla necessità di cambiarla, e fino ad un certo
punto ha lavorato per questo.
Ora si dice che questa legge può funzionare benissimo e garantire perfettamente la
governabilità del Paese. Non è così. E lo sa bene anche chi lo afferma.
Quello della riforma della legge elettorale resterà un problema aperto dall’inizio della
prossima legislatura. E a chi non vorrà vederlo sarà comunque il referendum, dopo non
molti mesi, a ricordarlo.
Ma ripeto: è il senso di responsabilità che deve far comprendere a tutti che l’Italia ha
bisogno di una democrazia che funzioni, di una democrazia che sappia decidere. E anche
in modo coraggioso, con una velocità pari a quella del Paese.
Una legge per essere approvata deve passare una o due volte in due rami del Parlamento.
Non c’è bisogno. Sia una sola Camera ad avere la funzione legislativa.
Il primo ministro non può, come avviene altrove, proporre nomina e revoca dei ministri
al Presidente della Repubblica. Non può varare una legge finanziaria senza che questa
subisca lo stillicidio degli emendamenti, che vuol dire tempo e altre decisioni perse,
quando tutto il confronto giusto e necessario, come avviene altrove, potrebbe svolgersi
approfonditamente prima, nelle Commissioni. Più forza alla figura del premier non vuol
dire altro che una democrazia che funziona meglio.
Abbiamo, un vero record tra le grandi democrazie, mille tra deputati e senatori. Troppi.
Ogni proposta di legge può essere scritta, e ogni decisione può essere presa, da un
numero drasticamente ridotto di parlamentari. Cominciamo anche così ad abbattere i
costi della politica.
E a proposito della sua credibilità, di come è stata minata in questi anni dai passaggi di
questo o quel parlamentare da una parte all’altra e a volte all’altra ancora, non ho trovato
nessuno che non abbia convenuto, in questi mesi, sulla necessità e sulla possibilità di
riformare i regolamenti parlamentari in modo da escludere la costituzione di gruppi che
non corrispondano alle liste presentate alle elezioni.
Bene, proprio perché tutti si son detti d’accordo, rinnovo la proposta: si approvi subito,
in questo Parlamento, nelle prossime settimane, la riforma dei regolamenti.
E ancora, se vogliamo che la politica davvero, sempre più, sia partecipazione e
responsabilità, in questo caso delle persone, facciamolo: diritto di voto alle
amministrative ai cittadini immigrati e a tutti i ragazzi di sedici anni.
Questa è la società che vogliamo. Una società aperta, fondata sulla libertà e la
responsabilità. Una società che considera le differenze una ricchezza, rispetta le scelte di
ognuno e si oppone a qualunque forma di discriminazione e di intolleranza e ai fenomeni
di risorgente omofobia. Una società capace di riconoscere i diritti delle persone che si
amano e convivono.
L’ho detto domenica a Spello, voglio ripeterlo qui: non è l’Italia, a doversi rialzare, non
sono gli italiani, che sono bene in piedi, che lavorano, studiano, creano, sperano e
vogliono partecipare, contare, decidere. E’ la politica che deve risollevarsi.
E comunque comincerà ad apparire chiaro a tutti: noi non aspettiamo i ritardi degli altri e
non ci facciamo bloccare dai veti, dai rifiuti, dai calcoli interessati o dalle timidezze,
dalla paura della novità.
Il Partito Democratico è nato dalla generosità e dall’entusiasmo con cui milioni di
persone si sono lasciati alle spalle grandi storie o si sono gettati per la prima volta nella
loro vita in una sfida affascinante. E’ nato dal coraggio disinteressato di chi ha messo in
discussione il proprio ruolo, le proprie responsabilità, se volete le proprie comodità.
Vale a dire: il cambiamento, il gusto del nuovo, è nel nostro stesso atto di nascita. Ed è
nel nostro modo di essere e di interpretare la politica.
Per questo non abbiamo avuto paura di rompere il vecchio schema politico.
Probabilmente chi ha guardato a noi con gli occhi di una volta avrà pensato fosse solo
tattica, fossero solo parole.
Se è così, ha avuto non solo il tempo per ricredersi, ma anche per maturare il
convincimento che la nostra scelta di presentarci agli italiani, da soli con le nostre idee e
le nostre proposte, finalmente liberi, segna la fine di un’epoca e obbliga tutti al
cambiamento.
E’ stato sufficiente aver avuto il coraggio per farlo, ed è come se una voce si fosse alzata
a dire che “il re è nudo”.
Improvvisamente tutti hanno visto quel che era evidente: siamo andati avanti per
quindici anni con alleanze tanto grandi quanto eterogenee, fittizie, pensate solo per
battere l’avversario, anzi per distruggere il nemico. Poi, puntualmente, esecutivi che non
potevano realizzare programmi e governare. E altrettanto puntualmente puniti dagli
elettori la volta dopo, visto che nessun governo, in questa lunga stagione di bipolarismo
abbozzato, è stato confermato per due volte di seguito.
Non lo si è voluto fare insieme? Noi abbiamo cominciato unilateralmente a cambiare la
politica italiana.
E’ questo che sta facendo il Partito democratico. E’ questo che sta accadendo dopo che
noi abbiamo deciso: basta mediare, basta attenuare, basta ritardare o rinunciare.
Oggi siamo finalmente liberi di dire agli italiani quello che pensiamo e vogliamo. E se
guadagneremo la loro fiducia saremo finalmente liberi di governare. Liberi di imprimere
al Paese la svolta riformista che serve.
Diciamo la verità, l’altro effetto della nostra scelta è stato quello di far capire agli italiani
che si trovano davanti ad una alternativa secca.
Quando il principale esponente dello schieramento nostro avversario si è presentato ai
telespettatori seduto sulla stessa scrivania di sette anni fa, agli italiani è sembrato di
assistere alla replica dello stesso film. Immagini già viste. Parole già sentite.
Noi segniamo un elemento di discontinuità.
Quando lo stesso esponente dello stesso schieramento si candida per la quinta volta alla
guida del Paese, cosa che non è mai successa in nessuna grande democrazia, agli italiani
è sembrato di tornare indietro, ad una lunga storia già vissuta e troppo lunga. Quindici
anni. Metà con governi di centrosinistra. Metà con governi di centrodestra. E problemi di
ieri che sono diventati quelli di oggi.
Noi segniamo un elemento di discontinuità.
La radicalità della nostra scelta ha prodotto e sta producendo effetti di autentico
terremoto della vita politica italiana. E’ quanto pensavamo sarebbe successo. E’ quanto è
giusto accada.
Noi abbiamo scelto di chiudere l’esperienza nazionale di coalizioni la cui eterogeneità
programmatica è ogni giorno confermata dalle dichiarazioni, che rispetto, degli amici
della sinistra Arcobaleno, ai quali voglio rivolgere un augurio di buona fortuna per la
loro scelta di autonomia.
Noi con questa scelta abbiamo definito con chiarezza il nostro campo e il campo del
governo che ci sarà. E’ il campo del centrosinistra riformista. Chi voterà per noi avrà la
certezza che il riformismo, libero da condizionamenti e veti, diventerà governo del
Paese.
Ma il vero terremoto è ora nel centrodestra.
Precipitati verso le elezioni con la bottiglia di champagne in mano, ora per effetto della
nostra iniziativa vedono squadernate le loro divisioni e le loro lacerazioni. Impossibilitati
a fare quello che avevano pensato, e cioè una coalizione di 18 partiti che dopo la nostra
scelta sarebbe apparsa “marziana”, sono stati costretti da un lato a improvvisare un
cartello che non si capisce se sia un partito o una lista elettorale, e dall’altro a scaricare
alleati.
Ma al contrario di quanto abbiamo fatto noi, che abbiamo concluso la nostra esperienza
con la sinistra radicale, Forza Italia ha ritenuto di dover concludere la sua esperienza con
le forze moderate di centro, alleandosi con AN e con il movimento di estrema destra
guidato dalla signora Mussolini.
Così il panorama politico italiano è cambiato. E’ obiettivamente, nessuno lo può negare,
uno spostamento a destra.
E tutto questo avviene con l’anomalia della ripetizione di quel film già visto, di quei
protagonisti già sperimentati.
L’alternativa oggi è netta: da una parte la ripetizione di un passato conosciuto, dall’altra
l’investimento sul futuro.
Fu la scelta fatta dagli americani quando uscirono dal reaganismo scegliendo Bill
Clinton. Fu la scelta degli inglesi quando, uscendo dal lungo periodo del thatcherismo,
diedero fiducia a Tony Blair.
Ora ci siamo. Domani, da Pescara, inizierà il nostro viaggio. Dodicimila chilometri in
pullman per toccare tutte le 110 province italiane. Due mesi per ascoltare, per dialogare,
per proporre, per costruire insieme un’Italia nuova.
Accanto a noi ci sarà Antonio Di Pietro, ci sarà l’Italia dei valori, la forza politica che ha
accettato di condividere il programma, di entrare a far parte dello stesso gruppo
parlamentare all’indomani delle elezioni, di intraprendere un percorso che ci farà
ritrovare insieme nel Partito Democratico.
E oggi, da qui, voglio rinnovare ancora una volta l’invito a Emma Bonino e al suo
partito ad essere con noi per continuare la bellissima esperienza che Emma ha fatto come
ministro capace e autorevole.
Mi rivolgo non solo ad Emma, alla quale mi lega una stima e un’amicizia profonda, ma
al patrimonio di pensiero e di battaglie che i radicali hanno compiuto spesso in
solitudine. So, ed è stato ribadito ancora oggi, che quel partito e quella storia non
intendono sciogliersi. E per questo ribadisco che la soluzione migliore è che le liste del
Partito Democratico si aprano ad Emma e ai dirigenti radicali. Così riusciremo a far
convivere l’identità radicale e la presenza nelle istituzioni della Repubblica.
Più difficile appare capire per quale ragione il nuovo Partito socialista, che in questi anni
si è presentato sotto quasi

 

 

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