4420 Fidel, tra odio e amore, l’ultimo lider maximo

20080220 21:28:00 redazione-IT

Maurizio Chierici

L’uscita di scena di Castro suscita malinconia e speranze politiche. I sentimenti non sono fuori luogo. Il 70% dei cubani è nato sotto il regno di Fidel, icona che accompagna la loro vita. Amore, odio, mai indifferenza: un rapporto passionale. Cuba è sempre stata raccontata in un certo modo, nessun distacco, e chi la osserva riflette emotivamente la separazione mediatica che trasforma l’Avana in un posto surreale. Anche l’uscita di scena si è trasformata in un reality show di grande emozione. Un vecchio come gli altri, più umano di come si immaginava da lontano. Eppure, lontano dalle piazze e dai palazzi, continuava a far sognare chi sognava anche se le illusioni erano impallidite.

Nel 2003 tornano le condanne a morte dopo anni di ruvida tolleranza. Il viaggio di Giovanni Paolo II non ha sciolto gli incubi della guerra di bassissima entità con l’altra America. E Castro li aiuta nella polemica. Dissidenti in carcere, poeti alla sbarra.

Se ne rattrista Eduardo Galeano: «Cuba me duele: le prigioni e le fucilazione all’Avana sono delle gran belle notizie per il superpotere universale che ha una voglia matta di togliersi una volta per sempre questa spina ostinata».
Per capire come è stata lunga la battaglia del mito (positivo e negativo) che ha accompagnato la seconda metà del novecento, basta ricordare che nel 1953 mentre l’avvocato Castro dava l’assalto alla caserma Moncada nell’illusione di rovesciare il dittatore Batista, re Faruk scappava dall’Egitto travolto dal colpo di stato del generale Nasser. Charles De Gaulle, umiliato alle elezioni da chi non gli aveva mostrato la riconoscenza dovuta al salvatore della patria, masticava cattivi pensieri fra i prati della sua campagna di pensionato dell’onore. E preparava il ritorno.

Uno alla volta sono passati i presidenti americani infastiditi da Fidel: Eishenower, Kennedy, Johnson, Nixon, Ford, Carter, due volte Reagan, Bush padre, due volte Clinton. La sua uscita di scena è la sola medaglia conquistata senza gloria dal Bush che ha pacificato l’Iraq. Per mezzo secolo gli avversari si dileguano mentre Castro osservava impassibile: «Hasta la victoria siempre», poster e bandiere nel ’68 di ogni paese. Otto milioni di cubani sono nati sotto il suo ritratto; due milioni lo hanno visto entrare all’Avana quando erano ragazzi. L’icona sempre lì: scomoda, ossessionante, esaltante. Per 48 anni ha suscitato apprensioni nelle due Americhe. Cuba è un’isola ma nessun altro paese del continente ha avuto il permesso di ripeterne l’avventura. La forza di Castro è cresciuta e si è mantenuta anche sulla stupidità di chi lontano-vicino ne ha insidiato l’egemonia. Rafforzandola, mitizzandola mentre il comandante riannodava lo stesso filo nazionalista senza mai cambiare la regola del primo momento: ogni decisione doveva restare nelle sue mani e a nessuno era concesso dubitare.

Un po’ di amici si sono rivelati deboli nell’utopia che, da solo, sempre solo, disegnava per tutti al quarto piano del palazzo della Rivoluzione. Accendeva la luce alle sei di sera, la spegneva alle sei del mattino. Amava lavorare nella notte per leggere i giornali d’Europa e degli Stati Uniti. Capire cosa stavano capendo restando al di sopra di ogni indiscrezione. Attorno alla sua malattia, che l’ha allontanato dal potere, slogan e contro slogan continuano ad incrociarsi tra l’Avana e Miami con la stessa inutilità.

Castro si è ritirato. Cosa sopravvivrà del castrismo senza il fascino della sua regia? Riepilogarne l’avventura diventa esercizio imbarazzante in chi ha una certa età ed è cresciuto nella convinzione che tutti ne conoscano la storia. Il mistero comincia con la nascita: 13 agosto 1926 come raccontano le biografie cubane o 13 agosto 1927 come assicura il fratello Raul al giornalista americano Lione Martin, data ufficializzata dalle biografie di Mosca? Nasce fuori dal matrimonio del padre che ha già due figli. È un ex militare galiziano tornato a Cuba dopo la fine della colonia: piccolo proprietario, canna da zucchero in una fattoria sperduta nella provincia orientale. La prima moglie muore e Castro padre si sposa, arriva Raul, erede della presidenza. Il posto è isolato, non c’è una chiesa: lo battezzano quando compie due anni. Va a studiare dai salesiani nella città dove abitano le zie. Maturità all’Avana coi gesuiti. La nota che ne elogia la promozione gli riconosce talento e disposizione allo spettacolo.

Roberto Fernandez Retamar, saggista e presidente de La Casa de las Americas, uno dei centri culturali importanti del continente latino, ricorda gli anni dell’università: Fidel è lo studente più ammirato dagli studenti. Fa politica nel partito radicale ortodosso e per sgualcire il potere del generale Batista tornato presidente con un colpo di stato, 1955, dà l’assalto alla caserma Moncada a Santiago de Cuba. Immagina di risalire il paese fino all’Avana raccogliendo la folla degli scontenti. Ma viene arrestato assieme agli altri ragazzi, in galera anche Raul. In tribunale si difende con l’arringa che ha attraversato il tempo: «La storia mi assolverà». È sposato con la sorella del vice ministro agli interni del dittatore. Dopo 22 mesi di carcere torna in libertà, 15 maggio 1955, subito espulso dal paese. A Città del Messico disegna la rivincita: sbarcare a Cuba con un gruppo di rivoluzionari sempre nell’idea di marciare sull’Avana. Novembre 1956: comincia il viaggio del Granma, piccolo yacht, 82 compagni di coraggio.

C’è anche il medico argentino incontrato nell’esilio: Ernesto Guevara, l’altro mito della rivoluzione. La lunga marcia parte male. I militari del dittatore sembrano più forti, ma Castro aveva visto giusto: la gente è stanca e i contadini lo accompagnano. L’avvocato Castro comincia ad incuriosire radio e giornali degli Stati Uniti. Diventa un protagonista ammirato per la giovinezza e le barbe dei compagni senza paura e un po’ matti, il Che, soprattutto. Entrano all’Avana la mezzanotte dei 31 dicembre 1958. Batista e la sua corte sono scappati provvisoriamente -si illudono- nel buen retiro della Florida. Ma la provvisorietà si allunga. Castro e Guevara trasformano il paese. Nazionalizzano, aprono scuole, riconoscono agli afrocubani senza nome la dignità di cittadini col diritto di abitare nelle belle case lasciate vuote dai notabili che a Miami aspettano di tornare. Provano a sbarcare nella Baia dei Porci (16 aprile 1961): la gente li respinge e Cuba diventa il paese col quale gli Stati Uniti cominciano a fare i conti in un certo senso tranquillizzati, nel mezzo della guerra fredda, dalle dichiarazioni di Castro al settimanale Bohemia: «Perché non diventerò mai comunista».

Embargo, crisi dei missili e manovre assurde della Cia, lo gettano nelle braccia di Mosca. Sopravvive agli attentati nella solitudine di un governo dalle tasche vuote e senza protettori. La protezione arriva con Krusciov: fra le righe degli accordi firmati assieme a Kennedy per il ritiro dei missili, i russi avrebbero chiesto di rispettare la vita di Fidel. Da quel momento solo le schegge segrete dei servizi paralleli provano colpi di mano, ma al di là di polemiche e parole, la protezione avrebbe resistito ancora oggi. Forse solo dopo la sua morte sapremo se le indiscrezioni sono leggende o le contemplano carte ufficiali. Nel 1965 nasce a Cuba il partito comunista. Castro raccoglie ogni movimento rivoluzionario che lo ha accompagnato: comincia la stagione del partito unico, ancora continua. Mosca e i paesi dell’Est aiutano l’Avana nella conquista di una civiltà sconosciuta all’altra America Latina, scuole e università per tutti. Sanità, case, trasporti che lo stato garantisce ad ogni cittadino.

La monocoltura dello zucchero che Castro e Guevara respingevano nella marcia verso l’Avana, resta indispensabile per importare il petrolio necessario alle trasformazioni. Nel 1967 la morte del Che in Bolivia lascia Fidel nella solitudine del potere. Guevara non piaceva ai russi, per anni cercano di mitigarne il mito. La visita all’Avana di Gorbaciov (1989) incrina i rapporti nel nome della trasparenza. E la caduta del Muro li dissolve. Fidel resta solo, senza petrolio, senza amici, imbrigliato dall’embargo sempre più ermetico. Gli Stati Uniti cadono nello stesso errore di trent’anni prima: si convincono che per Cuba è finita.

Invece Castro mobilita la gente confusa nell’oscurità dei black out, ne risveglia orgoglio e nazionalismo: inizia il periodo speciale, ultima disperazione della sua interminabile presidenza. Cominciano le fughe dei balseros su barchette improvvisate. Il governo le favorisce. Non sa più come andare avanti. Apre al turismo, si riconcilia con la Chiesa cattolica cancellando l’ateismo di stato previsto dalla costituzione ispirata dai sovietici alla magna carta della Bulgaria. La visita di Giovanni Paolo II apre speranze in piccola parte realizzate perché l’informazione resta nelle mani dello stato e ogni altro partito continua ad essere proibito. L’elezione di Bush riaccende il confronto mitigato negli anni di Clinton. Ancora una volta Fidel sembra in difficoltà ma la fortuna non lo abbandona: a Caracas diventa presidente Chavez. Con una certa furbizia lo aveva invitato all’Avana appena uscito di prigione dopo il colpo di stato fallito nel ’92. Lo accoglie con gli onori riservati a un capo di stato quando è solo un ex galeotto: tappeto rosso e schieramento dei picchetti d’onore. Inventa un’amicizia che salva Cuba dalla crisi energetica e rilancia la dottrina di Fidel nel continente. Finita la stagione delle guerriglie cominciano gli anni dei petrodollari. Ma l’età si fa sentire. Sempre più solo e rigido nella gestione del potere, prepara in segreto la successione. Chi prenderà il suo posto al di là della forma che vuole il fratello e il partito eredi disegnati? È il mistero che resta ancora aperto.

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