4862 IMMIGRAZIONE: Lavorare da schiavi e non sentirsi tali

20080426 10:51:00 redazione-IT

Indagine del Parsec. Giovani uomini sfruttati gravemente: rumeni, moldavi e bulgari, ma anche pachistani, bangladesi, cinesi e marocchini. 600 mila euro al mese per 10 ore di lavoro al giorno. A spezzare la catena spesso è un incidente
Il ”mercato parallelo” del lavoro nella capitale:
Allevamenti di bufale, le aziende agricole, le cave di travertino, le sartorie abusive, attività in cui gli stranieri hanno ormai sostituito i lavoratori italiani. ”Un mercato non ufficiale ma indispensabile”

Per gli stranieri che denunciano difficile provare i fatti.
Salari non pagati, licenziamenti, lavoro irregolare: questi i motivi per cui i lavoratori immigrati intentano una causa. Michelini, magistrato: ”La tutela processuale rivela una scarsa sindacalizzazione”.

ROMA – Sono giovani uomini che non superano i 35 anni di età, non sono sposati e provengono soprattutto dai paesi dell’Est europeo e in particolare quelli meridionali, come Romania, Moldavia e Bulgaria, ma anche da Pakistan, Bangladesh, Cina, Egitto e Marocco. Guadagnano tra i 500 e il 600 euro al mese per oltre dieci ore consecutive di lavoro, ma non sono pochi i casi in cui vengono pagati a cottimo. E ciò nonostante non si percepiscono mai (o quasi mai) come vittime. È questo l"identikit dei lavoratori gravemente sfruttati così come emerge da una ricerca realizzata in queste mesi dal Parsec (e tuttora in progress) sul lavoro gravemente sfruttato sull’intero territorio nazionale e nella città di Roma in particolare. Un fenomeno sotto gli occhi di tutti, ma molto sfuggente e difficile da definire e da monitorare da parte di chi – operatori e ricercatori sociali, forze di polizia e magistrati – è chiamato a fornire spiegazioni e risposte. L’indagine di Parsec, presentata martedì scorso a Roma al termine di un ciclo di seminari condotti su questo argomento durante il mese di aprile, è stata realizzata da un gruppo di lavoro misto formato, tra gli altri, dai ricercatori Francesco Carchedi e Federica Dolente e dalla coordinatrice del progetto Right Job, Deborah Di Cave.

Secondo l’indagine, i casi di grave sfruttamento lavorativo registrati fino a maggio 2007 in Italia dalle organizzazioni non governative e da alcuni enti locali sono circa 300. Di questi circa 150 sono stati intercettati dalla procura di Varese, dove però sono confluiti anche casi provenienti da città vicine come Milano, Brescia, Como e Busto Arsizio. Sessanta casi sono stati invece registrati dalla Procura di Pisa e 37 dalla Questura e dalla Procura distrettuale antimafia di Lecce. Mentre gli altri 60 casi circa sono emersi in varie città tra cui Roma, Agrigento, Teramo, Venezia-Mestre e Genova. Si tratta di persone arrivate in Italia seguendo le rotte tradizionali dell’emigrazione che – stando alla ricerca – escludono la presenza delle cosiddette organizzazione a doppia sponda, ovvero quelle organizzazioni che gestiscono tutto il ciclo dello sfruttamento: dal reclutamento al viaggio e all’attraversamento della frontiera fino all’inserimento in ambiti di lavoro particolarmente gravosi.

Insomma, è solo una volta arrivati in Italia che i migranti entrano nei circuiti dello sfruttamento lavorativo grave, accettando lavori dequalificanti, duri e privi di qualsiasi tutela e garanzia. Infatti, avverte la ricerca, chi entra in maniera irregolare è quasi obbligato a sottoporsi a qualsiasi condizione di lavoro. È infatti proprio il loro stato di irregolarità a ridurre drasticamente le possibilità di negoziazione di questi lavoratori. Inoltre, emigrando dai loro paesi con l’idea di dover affrontare lavori duri e grandi sacrifici, spesso non si percepiscono come vittime e considerano la loro condizione lavorativa come inevitabilmente legata allo stesso processo migratorio. E per spezzare la catena dello sfruttamento non di rado è necessario un evento traumatico, come un incidente sul lavoro, un’ispezione da parte delle autorità competenti o anche un’iniziativa sindacale. Infatti, sono eventi come questi che favoriscono la maturazione di una coscienza diversa della loro situazione: si accorgono di essere sfruttati più di quanto lo sarebbero nel proprio paese. (ap)

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Il ”mercato parallelo” del lavoro nella capitale

Indagine Parsec. Allevamenti di bufale, le aziende agricole, le cave di travertino, le sartorie abusive, attività in cui gli stranieri hanno ormai sostituito i lavoratori italiani. ”Un mercato non ufficiale ma indispensabile”

ROMA – "A Roma esiste un mercato parallelo del lavoro, un mercato non ufficiale ma pur sempre indispensabile e non sempre visibile”. La capitale e i suoi luoghi sono al centro della ricerca (tuttora in progress) realizzata dall’associazione Parsec sul lavoro gravemente sfruttato: i cantieri edili, le aziende agricole dell"Agro Pontino e gli allevamenti di bufale di Terracina, gli appartamenti dove trovano occupazione colf e badanti. Ma anche luoghi meno noti come le sartorie abusive sulla via Casilina o Prenestina, i mercati ortofrutticoli dove gli immigrati svolgono lavori di carico e scarico, gli impianti sportivi, i garage del centro e della periferia o il porticciolo di Ostia che offrono piccole ma gravose occasioni lavorative di vigilanza e guardiania. Sono questi i luoghi che, nel corso degli anni, hanno visto i lavoratori stranieri sostituirsi gradualmente, e in maniera sempre più marcata, ai lavoratori italiani. Basti pensare alle cave di travertino di Tivoli, dove giovani rumeni che non hanno mai usato le macchine per tagliare il marmo lavorano per 25 euro al giorno. Si tratta di un lavoro pericolosissimo che un tempo facevano gli italiani e che ora non vogliono fare più per via della durezza e del rischio troppo alto, soprattutto per chi non ha nessuna formazione.

Il principale ambito di inserimento lavorativo degli immigrati a Roma, soprattutto per quelli arrivati da poco, rimane comunque quello edile. Sono molti i lavoratori “a chiamata”, cioè quelli che ogni mattina, dalle 5.30 in poi e spesso fino a mezzogiorno, attendono l’ingaggio davanti agli “smorzi”, termine con cui i romani chiamano le rivendite di materiali edili. A reclutare gli edili immigrati si muovono privati cittadini, capomastri di imprese edili e caporali. Il meccanismo del reclutamento ricorda da vicino l’adescamento della prostituzione su strada: il datore di lavoro e il manovale contrattano il prezzo della giornata lavorativa tra l’automobile e il marciapiede. Negli ultimi tempi, poi, c’è stata una fortissima fioritura di imprese edili individuali, che favoriscono il passaggio di molti lavoratori da manovali a caporali. Tanto che, come si legge sulla ricerca, “la prassi di utilizzare lavoratori a giornata dei quali non si sa nulla sembra ormai essersi consolidata, soprattutto a livelli molto piccoli. Livelli ai quali altrimenti non sarebbe possibile operare se non attraverso queste forme di lavoro sottopagato, sfruttato o gravemente sfruttato”.

Per quanto riguarda invece il settore agricolo le aree interessate sono quelle del litorale da Aprilia fino a Terracina e più nell’interno fino a Fondi. Ma vi è anche la zona di Latina dove si concentra la maggior parte delle aziende agricole di tipo intensivo. I lavoratori arrivano per la stagione della raccolta, ma spesso rimangono a lavorare per le stesse aziende anche dopo la scadenza del permesso di soggiorno. L’intermediazione dei caporali è molto diffusa nei contesti ad agricoltura intensiva stagionale in cui si pratica la cultura in serra. Non di rado il caporale appartiene alla stessa nazionalità dei lavoratori reclutati, ma è stesso solo uno dei vari intermediari tra lavoratore e datore di lavoro.

C’è infine il lavoro domestico che negli ultimi anni riguarda donne filippine e sudamericane e, in tempi più recenti, anche romene, ucraine e moldave. Spesso queste lavoratrici sono sottoposte a orari molto faticosi che riducono al minimo o annullano completamente il tempo libero e alla completa mancanza di relazioni al di fuori del contesto di lavoro. Questi fattori – secondo la ricerca – lasciano il campo libero alla possibilità di abusi gravi, che nei casi più estremi possono essere anche di tipo sessuale. E ovviamente l’isolamento e la scarsa percezione dei propri diritti contribuiscono a far sì che possa passare lungo tempo prima che le vittime riescano a liberarsi da questa condizione di asservimento fisico e psicologico.

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Per gli stranieri che denunciano difficile provare i fatti

Salari non pagati, licenziamenti, lavoro irregolare: questi i motivi per cui i lavoratori immigrati intentano una causa. Michelini, magistrato: ”La tutela processuale rivela una scarsa sindacalizzazione”.

ROMA – Salari non pagati, licenziamenti, lavoro irregolare. Sono queste le ragioni principali che inducono i lavoratori stranieri della capitale a intentare causa contro i loro datori di lavoro. A renderlo noto è Gualtiero Michelini, magistrato del lavoro di Roma, intervenuto martedì scorso all’ultimo dei quattro seminari organizzati da Parsec sul lavoro gravemente sfruttato. "Nella capitale le professioni di muratore, carpentiere, decoratore, collaboratrice familiare, baby sitter, addetto al carico e scarico delle merci, cuoco, aiuto cuoco, pizzaiolo e cameriere vengono svolte prevalentemente da lavoratori stranieri, in condizione di regolarizzazione spesso precaria”, ha spiegato Michelini, che ha precisato come “la tutela processuale di questi lavoratori rivela una scarsa sindacalizzazione e rappresentatività collettiva e sconta maggiori difficoltà nella dimostrazione dei fatti e nella realizzazione dei crediti accertati”.

Spesso poi gli immigrati si trovano a lavorare per piccole e piccolissime imprese, con scarse risorse finanziarie e poche possibilità di “affrontare il costo di una difesa tecnica, con conseguenti riflessi, anche in caso di accertamento del credito, sulle possibilità di fruttuoso esercizio dell"esecuzione forzata”. Ma in questo tipo di cause anche accertare l’esistenza e la durata del rapporto di lavoro, che spesso è del tutto irregolare dal punto di vista fiscale e contributivo, può diventare un problema. Una seconda tipologia di controversia riguarda invece le impugnative di licenziamento: i lavoratori immigrati infatti in molti casi vengono licenziati direttamente a voce, senza ricorso alla comunicazione scritta che invece la legge prevede. E anche in questi casi la mancanza di riscontri documentali relativi al lavoro svolto e l’assenza di testimoni diretti impediscono spesso il riconoscimento dell’ipotesi di licenziamento verbale e delle conseguenze risarcitorie.

Quanto agli infortuni sul lavoro, “oltre ai casi più scottanti riferiti alle cronache di totale dissimulazione di eventi anche mortali concernenti immigrati irregolari – ha detto Michelini – è stata osservata una maggiore difficoltà di prova rispetto ai lavoratori italiani, per i problemi del lavoratore immigrato che spesso viene regolarizzato soltanto in occasione e il giorno stesso dell’infortunio e risulta assunto in quella data”. Ma anche qui non è sempre facile reperire testimoni in grado di deporre, il che secondo il magistrato del lavoro rappresenta l’ulteriore espressione “di una difficoltà a intrecciare reti di relazioni con i colleghi di lavoro, di cui magari non si ricorda il cognome, e comunque a instaurare rapporti di solidarietà con gli altri lavoratori”. Nessuno invece intenta causa per via del mancato riconoscimento di una qualifica professionale superiore, per le mansioni svolte o per il demansionamento, in quanto tali tipologie di controversie presuppongono necessariamente “una consapevolezza dei propri diritti e una garanzia di stabilità del posto di lavoro che non appartiene, di fatto, ai lavoratori immigrati”.

Un particolare tipo di controversia riguarda, infine, il lavoro degli stranieri privi di permesso di soggiorno. Normalmente i principi giurisprudenziali prescindono dalla nazionalità del lavoratore e dalla condizione di immigrato regolare o meno dello stesso, così che “la nullità del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione ed il lavoratore ha in ogni caso diritto alla retribuzione”. Ma queste cause sono particolarmente numerose nei periodi di sanatoria, quando l’accertamento di un rapporto di lavoro non regolarizzato diventa necessario ai fini del conseguimento del permesso di soggiorno. Sono situazioni, queste ultime, “che presentano forti rischi di strumentalizzazione e che risultano particolarmente delicate sul piano della verifica processuale”.

Un ultimo problema è quello del cosiddetto dumping sociale. Non è chiaro – secondo Michelini – se il fatto che alcuni lavori vengano ormai svolti esclusivamente dagli immigrati dipenda da una maggiore qualificazione dei lavoratori italiani o invece da una sorta di dumping sociale che rende più basso il costo del lavoro di persone “disposte ad accettare condizioni di lavoro sottopagate o comunque depurate degli oneri fiscali e contributivi”. E questo crea una concorrenza che nell’esperienza pratica si realizza spesso non sul piano del salario netto, che può essere equivalente, ma sul costo del lavoro comprensivo degli oneri fiscali e contributivi “specialmente laddove il lavoratore straniero, che percepisca o viva la sua condizione in termini temporanei, non abbia alcun interesse ad essere inserito nel sistema previdenziale italiano, che garantisce le sue prestazioni ordinarie al raggiungimento di determinati requisiti temporali e in relazione a versamenti continuativi di medio-lungo periodo”. (ap)

http://www.redattoresociale.it/

 

 

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EmiNews 2008

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