4861 Don Locatelli (MIGRANTES): intercultura, e' rivoluzione

20080424 11:28:00 redazione-IT

"Vinceranno le pluri-appartenze. Ma bisogna fare spazio ai giovani"
Terminato il mandato di cinque anni presso la Fondazione Migrantes della Conferenza Episcopale italiana

“Il mandato di cinque anni assegnatomi dalla Chiesa italiana è terminato. Il mio lavoro nella Fondazione Migrantes ha contribuito all’azione pastorale che si svolge a favore delle comunità italiane che vivono nei continenti del mondo” esordisce così Don Domenico Locatelli, nell’annunciare il termine del suo mandato presso la Fondazione Migrantes della Conferenza Episcopale italiana.

Il mandato, di 5 anni, è stato prolungato di 6 mesi per trovare un nuovo direttore. “Un periodo importante, che mi ha fornito opportunità “privilegiate” di crescita e di apertura mondiale. Certamente quanto ho ricevuto è molto di più di quanto ho saputo dare” sottolinea Locatelli.

Le migrazioni italiane antiche e quelle recenti, l’attuale importante esperienza dell’immigrazione nelle Regioni, la mobilità di oggi che coinvolge sempre più giovani, trova la Chiesa italiana presente e impegnata in questo cammino, e ha trovato in questo sacerdote un uomo attivo, ma anche un pensatore critico.

La direzione dell’ufficio per gli italiani nel mondo passa a don Michele Morando. Un sacerdote aperto alla mondialità, grazie al servizio di missionario in Africa, e che conosce la mobilità umana attraverso il servizio di coordinamento diocesano fatto con gli operatori impegnati quotidianamente con gli immigrati.

“Il nuovo direttore presenta una buona esperienza di missionario “fidei donum” in Africa e qualche anno come direttore diocesano Migrantes. Non è privo di buoni elementi sia di apertura mondiale sia di passione per la mobilità umana e questo è garanzia per un lavoro che sarà molto buono” spiega Locatelli. “E’ una risorsa umana “guadagnata” per il mondo dell’emigrazione italiana. Gli porgo il mio benvenuto e, con piena simpatia, gli auguro un buon lavoro. Non mancherà, da parte mia, il sostegno e la piena disponibilità soprattutto perché il mio impegno nell’ambito migratorio continuerà ancora per qualche tempo al servizio presso le comunità italiane d’Europa”.

Cosa farà adesso? Quali i suoi progetti futuri?

"Con l’accordo del mio Vescovo di Bergamo mi sono reso disponibile ancora per il mondo dell’emigrazione italiana, se lo riterranno opportuno, almeno per alcuni anni. Quindi aspetto le indicazioni dei miei referenti per continuare a lavorare con gli italiani nel mondo là dove sarà richiesta ed utile la mia presenza ed il mio servizio".

Quale bilancio di questi 5 anni e sei mesi, Don?

"E’ giunto il momento di rileggere il cammino fatto. Si deve lasciare quanto non serve, per continuare portando con sé esperienza acquisita, conoscenze e amicizie nuove che si sono concretizzate in questi cinque anni. L’opportunità che la CEI mi ha dato in seno a Migrantes è una di quelle che capitano inaspettatamente e non è data a tutti. Quindi una grande riconoscenza per questa occasione propostami dal compianto Mons. Luigi Petris nella tarda primavera del 2002 quando ancora ero missionario, ormai da 10 anni, tra gli italiani di Yverdon-les-Bains in Svizzera. L’anno seguente approdai a Roma a tempo pieno e stabilmente. Ho appreso un mestiere nuovo, non direttamente collegato con la pastorale, ma di servizio e supporto a quanti continuano ad operare nel contesto degli emigrati italiani. Coordinazione, studio, contatti, comunicazione, interrelazioni, visite, ascolto, documentazione: sono le attività a cui ho messo mano continuando il grande lavoro di coloro che mi avevano preceduto all’ufficio nazionale Migrantes per la pastorale degli italiani nel mondo. E’ arduo modificare la nostra mentalità di missionari che siamo sicuramente capaci di un impegno generoso ad assicurare messe e servizi pastorali ovunque e con ritmi stressanti, ma fatichiamo a “lasciare” quanto si deve lasciare, per assumere “presenze” nuove e dare il servizio richiesto dalla ristrutturazione delle Diocesi dove si opera, assicurando il nostro specifico culturale e “missionario” che è forte di una “tradizione migrante” significativa.
In concreto, proprio qui, ho misurato tutta la fatica nel reperire sacerdoti diocesani e religiosi per un servizio pastorale temporaneo nelle Missioni italiane e nel motivare il consenso dei Vescovi per questo dono missionario della propria chiesa locale.

Come sono cambiate, in questi anni, la pastorale sull’Europa e la pastorale America Latina e America del Nord?

"C’è una tendenza sempre più grande all’integrazione.

Il che vuol dire che sempre di meno c’è una pastorale specifica degli italiani, ma è sempre più legata ad un discorso di azione della Chiesa e delle parrocchie locali. In tante parti si mantiene ancora la messa in lingua italiana, ma sono sempre meno, anche se ancora in numero rilevante. Quindi, forse, si rischia di usare meno l’italiano, per usare di più la lingua del posto".

"Secondo elemento del cambiamento: i preti sono sempre meno, e sono sempre più vecchi. In questi cinque anni ne sono partiti 36, ma ne sono rientrati altrettanti. C’è anche, però, la risorsa dei laici, che sempre più si affacciano anche con servizi da svolgere nell’ambito delle comunità italiane nell’ambito della religiosità. E partono, e stanno seguendo delle formazioni specifiche. E’ un altro cambiamento importante: non si tratta del laico passivo ma lui stesso diventa protagonista. Il rischio grosso è che ci si limiti ai servizi liturgici. La comunità italiana vive moltissimo i funerali, i matrimoni – quando ci si sposa in Chiesa, ma la metà ne fa a meno… Quando c’è ancora un discorso di festa legato alla Prima Comunione o alla Cresima – ma sono pochissimi, in Europa o nel mondo.

C’è soprattutto, nel cambiamento, una mancanza, può darsi, di forza, di coraggio, in quello che è più importante oggi, ma anche più difficile: l’annuncio, parlare di nuovo di Gesù Cristo insomma. Perché fare le cose che la tradizione dà è facile, ma non cambia il cuore. E’ il problema grosso dell’America, dell’Europa, cioè del relativismo, di un pensiero che ha smarrito un po’ il riferimento pastorale, cioè cristiano. Il nostro essere presenti, con 500 preti (senza contare i laici e le suore) in Occidente e in Europa, è ancora chiamato ad agire in questo senso. Il cambiamento ci dice che questo coraggio è necessario: l’economia, il riferimento a criteri economici, stanno schiacciando tutto. Anche l’uomo si consuma. C’è bisogno di una presenza pastorale che sappia dare un pensiero forte sulla persona, sui suoi diritti, da rispettare e da accogliere".

"L’Europa: si fanno i conti con tante strutture che sono diventate enormi, e non si riescono più a gestire. Ci sono molte case costruite da Italiani, dove c’erano le attività della missione, che oggi non si sa come fare: le strutture sono invecchiate e i soldi non ci sono. Le Chiese stesse – ne sono state costruite tante – cominciano a venderle… ne vendono tante, perchè non ci va più nessuno.

C’è l’esigenza, in questa pastorale in Europa, di ricominciare ad avvicinarsi alle persone. Non essere funzionari, ma amici di viaggio e di strada, come facevano i primi. I primi missionari erano vicini, dal materiale allo spirituale. Oggi non domandano l’esigenza spirituale, rischiamo di essere disoccupati… ma il nostro specifico è questo".

"Ci sono 25 missioni che non hanno il prete italiano. Le hanno risolte, e sono città grosse, con anche 8-10.000 italiani. Ma non si può più pensare di trovare 25 preti italiani. Bisogna cambiare, individuare alcune città, in Europa, dove organizzarsi e garantire una presenza e un servizio di qualità".

Per quanto riguarda, invece, l’America del Nord e l’Australia?

"Le chiese locali, molto tradizionali, sono molto attive. Le chiese costruite dagli italiani – e non sono poche in America – sono oggi, grazie a Dio, usate da altre etnie da altri cristiani: cinesi, filippini, latinos. E che siano i benvenuti: il lavoro fatto dagli italiani serve a loro, lo continuano, e non bisogna essere gelosi. E invece questo è sempre un po’ faticoso. A novembre si celebreranno i 100 anni della prima chiesa italiana di Toronto. Affidata agli italiani, oggi è frequentata da cinesi. Però l’anniversario sarà bello farlo insieme. Questa pastorale tradizionale, con le nuove generazioni in America e in Australia, deve incontrarsi con le nuove generazioni. Però urge rifondare in loro il perchè di essere cristiani, e questo è un grosso lavoro".

Problematiche che caratterizzano gli ultimi 5 anni di emigrazione.

"La situazione degli italiani nel mondo, negli ultimi anni è mutata profondamente. Bisognava coglierne la direzione ed il senso profondo. E’ in corso, da almeno due decenni, un profondo cambiamento che ha consegnato anche un nuovo linguaggio, da “emigranti” a “Italiani nel mondo”, da “emigrati” alle generazioni nate dalla prima emigrazione, da “stranieri” a “residenti” ed anche nuovi vocaboli sono diventati correnti come “risorsa Italia”, “sistema Italia”. Anche a livello ecclesiale il pensiero si è trasformato parecchio, mettendoci a disposizione comprensioni molto belle e profonde.
Il lavoro più qualificante è stato quello di favorire momenti per un confronto libero ed ispirato, è stato quello di approntare strumenti per un dialogo che ci facesse ritrovare attorno ad un pensiero teologico che “sta facendosi” a partire dalla lunga esperienza di condivisione con l’emigrazione italiana. Un punto significativo è stato il percorso del “symposium teologico” che i Consigli nazionali dei Coordinatori delle Missioni italiani europee ed altri coordinatori nel mondo hanno condiviso a Nizza lo scorso mese di giugno 2007, accompagnati da quattro teologi europei.
Il lavoro più impegnativo dell’ufficio nazionale Migrantes per gli italiani all’estero è stato, senza dubbio, quello della formazione. Lo ha condotto in sinergia piena con le Delegazioni nazionali, in Europa soprattutto, ma non solo, investendovi e a buon titolo, parecchie energie".

Gli oriundi quali istanze e tematiche portano alla politica e alle istituzioni, in questa nuova fase dell’italianità nel mondo?

"La nuova fase dell’italianità nel mondo mi lascia perplesso. Sì, è una nuova fase. Perchè, ad esempio, dal 2006 ci sono dei parlamentari, ed è una novità. La partecipazione elettorale è una cosa bella, però il 41% è insufficiente. Ho paura che ci sia una seempre maggior marginalità del nostro paese Italia sulla scena Europea e mondiale. Contiamo sempre meno".

"Credo che gli oriundi debbano crescere con la consapevolezza di chi sono, della loro identità e della loro storia. E la devono raccontare. La stanno raccontando: sempre più escono libri, ma non si è ancora superata la fase di esperienza individuale. Non si è ancora entrati nella fase del cantare la storia di un popolo, il cammino che ha fatto".

"Possono offrire cose molto belle e di qualità. Innanzitutto la lingua italiana. Possono davvero stimolare a non perderla, ma la stanno perdendo loro stessi. Questa è la prima risorsa che possano conservare, chiedendo corsi di lingua, praticandola.

"Seconda istanza: devono essere testimoni di un cammino di integrazione che hanno fatto nei loro paesi. Hanno capito la diversità, subito diverse sofferenze, però scritto anche pagine riuscite. Di vita e di lavoro e altro. Devono dire all’Italia che vivere tra persone diverse, tra migranti, e in mobilità, è possibile, ed è positivo".

Facendo Sistema?

"E’ nelle loro mani, non lo costruisce certo Roma. Se non ne hanno la consapevolezza di contare qualcosa è grave, si spreca una preziosa risorsa".

Associazionismo: come è cambiato e come svecchiarlo?

"C’è una cosa bella. I giovani hanno voglia di incontrarsi e di associarsi. Vogliono trovarsi. Però, non dicono a far che cosa, ed è il problema più grosso. E’ un interesse ad associarsi virtuale, ma ho paura che sia poco costruttivo per una vita associativa. Perchè comunque richiede delle regole, una solidità – non dico finanziaria, ma di costruzione, di struttura, di appuntamenti di futuro. Ho paura che questi giovani non abbiano ancora questo futuro. C’è il trovarsi immediato, virtuale, occasionale, e rischia di essere poco progettuale. Mi preoccupa, ma meno maleche questa voglia c’è. Bisogna allora aiutarli, e che trovino la risposta al perchè trovarsi. Il progetto, la finalità. Allora sì che è importante.

"Anche sul tema dello svecchiare l’associazionismo: bisogna assolutamente farlo. Si sta morendo. Ci sono alcune cose interessanti per svecchiarlo".

"Bisogna, prima di tutto, rinunciare all’autoreferenzialità. Non si devono costruire sistemi di difesa e di visibilità che poi non abbiano nulla alle spalle. Secondo: ritornare ai valori ispiratori. Ogni associazione è nata per uno scopo. Di muotuo soccorso, di solidarità, compagnia, celebrare una festa di paese. Bisogna ritornare a quello. E se i motivi non sono più validi, cambiarli, attualizzarli".

"E un’ultima cosa: occorre formazione. I nostri consiglieri e presidenti fanno quello che possono. A volte, magari, con poca istruzione, hanno lavorato veramente tanto, ed è una cosa già bella. Ma adesso bisogna intraprendere la strada della formazione. E devono darsi da fare per creare. Anche per i pensionati, ad esempio, grossa realtà italiana. Gente ancora in gamba: se le associazioni non sono capaci di creare percorsi, si facciano aiutare dalle seconde generazioni, in questo, che sono brave. Ci sono tante cose che si possono fare, per le cose che interessano il pensionato, che vanno dalla salute al tempo libero, dal ricostruire le relazioni all’accettare la vecchiaia. Le associazioni devono farsi aiutare dai giovani per progettare".

Aiuto alle associazioni, ma aiuto anche alle nuove generazioni, che, com si diceva, hanno bisogno di un progetto da dare alla loro volontà virtuale di associarsi, no?

"Sarebbero coinvolti in questo cammino di ricerca, e trovrebbero degli scopi, come l’aiutare i nostri padri e i nostri nonni. Ascoltare il racconto".

Il CGIE. Continuerà la sua attività? Lei si è profondamente impegnato per la Prima Conferenza Mondiale dei Giovani Italiani nel Mondo, che dovrebbe finalmente tenersi quest’anno, se il governo la conferma. Cosa ci dice?

"La partecipazione passerà a Don Michele Morando, il nuovo Direttore. E’ la nomina governativa. Vado per altre strade, ed è giusto ch a partecipare sia chi rapprsenta la Fondazione Migrantes, perchè è per questa fondazione che si è prsenti. Un collegamento mi interessa mantenerlo, dovunque io vada: parteciperò alla riflessione, perchè resta comunque un punto di riferimento importante. Per la Prima Conferenza Mondiale dei Giovani Italiani nel Mondo, sto seguendo con molto interesse, e a volte anche un po’ di apprensione: ho sempre paura che i giovani vengano, in qualche modo, ‘plagiati’ da noi grandi, per cui entrerebbero nei nostri meccanismi di autoreferenzialità e quindi di morte del CGIE, che non fanno uscire noi".

La politica dell’emigrazione si sta stancando? Sta perdendo forza? C’è il bisogno di un Ministero per gli Italiani nel mondo (Tremaglia vorrebbe ricostituirlo) oppure c’è piuttosto bisogno di nuove strutture di rappresentanza?

"Temo proprio di sì. Perché cresce la tensione dell’immigrazione, non si fa altro che parlare di questo. Non dico che vinca le elezioni chi parla male degli immigrati, ma siamo quasi arrivati a tanto. Non si è più capaci di coniugare la grande tradizione Italiana di popolazione che emigra ad un paese attuale, che ospita gli immigrati. E questa invece è un’operazione da farlo urgentemente. Parlare della politica dll’emigrazione vuol dire uscire dalla fase celebrativa. E arrivare alla memoria. Che ti faccia sapere chi sei e da dove vieni, oltre che dove vai. Il mio popolo italiano è emigrante. Oggi accoglie immigrati che cercano le stesse cose. Ma questa è la politica: parliamo di vita, non solo di problemi e di cose negative. Abbiamo sperimentato anche all’estero: la politica dei flussi, dl lavoro, della previdenza, di ricongiungimento familiare, della formazione linguistica. In Europa, in Germania, in Svizzera, in Belgio, in Inghilterra abbiamo visto cose belle… L’hanno fatto anche con noi… Portiamole anche in Italia! Questa forza dell’emigrazione deve essere portata anche in Italia, in senso costruittivo, e gli emigrati italiani e coloro che dall’emigrazione è nato possono essere testimoni dell’esperienza e dell’arricchimento, delle opportunità e delle risorse. Un occhio diverso, più positivo".

"Oggi ci sono termini che non possiamo lasciare fuori dal nostro vocabolario: intercultura. E vuol dire flussi migratori. Ci coinvolge, ci cambia, è rivoluzione. E poi prospettive di pace, convivenza, solidarietà, lavoro e possibilità di vita per tutti".

"Non so se possa esserci bisogno di Ministero, anche se un Ministro ha una forza di presenza altrimenti irraggiungibile. Forse abbiamo piuttosto bisogno di una maggiore coordinazione e collaborazione nelle istituzioni di rappresentanza nel mondo. Agli italiani manca la sinergia: non ci mettiamo in rete, e invece dovremmo, nel rispetto dei ruoli e delle competenze, per dare modo di costruire qualcosa insieme. A volte si usano gli italiani all’estero: o per ritorno elettoralee, o per attingere risorse. Ma anche questo, lo si fa con riferimenti e meccanismi burocratici vecchi, lenti, non rispondenti. Ci sono ancora discorsi di cittadinanza su parametri di 20 anni fa. Farraginosi, non rispettano le persone. Il dialogo, prima di tutto, tra le strutture di rappresentanza, che devono cambiare molto e che devono attingere alle molte buone risorse italiane che risiedono all’estero.

Ci sono 50-60 milioni di oriundi nel mondo, più il famoso milione di italiani che bussa alle porte dello Stato per la cittadinanza. Di fronte a questi nuovi scenari, ci può essere la necessità di un ripensamento del concetto stesso di rappresentanza? E in quale direzione?

"Le pluri-appartenenze la vinceranno, alla lunga. Oggi, a mio avviso, le faccende italiane, anche quelle italiane, ho paura che siano gestite da persone che, per lo più, hanno conosciuto bene l’Italia e da adulti sono emigrati.

Sono quelli ancora i protagonisti. Dureranno ancora 15 anni, fisiologicamente. E poi? Vale la pena scommettere sulle nuove generazioni, prendendole per come sono. Forse fanno anche un po’ paura, perchè non le conosciamo. E’ un percorso lento, per lo più sconosciuto, difficilmente le nuove generazioni Lo vedo con i preti, i preti giovani nlle missioni, che mi dicono ‘cosa ci faccio io qui’. Hanno strutture diverse. Le strutture associative, modalità consolari stanno morendo e non sono ancora capaci di rinnovarsi sulla scena italiana. Lo sapranno fare solo le nuove generazioni. Ma bisogna fare loro spazio".

Angela Gennaro/News ITALIA PRESS / Eminotizie

http://www.newsitaliapress.it/articolo.asp?id=8927

 

 

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EmiNews 2008

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